Norberto Bobbio e Giovanni Spadolini





di Norberto Bobbio – In “Nuova Antologia”, a. CXXIX, fasc. 2192, “Per Giovanni Spadolini”, ottobre-dicembre 1994, Le Monnier, Firenze, pp. 100-103.



Ricordo benissimo il nostro primo incontro nella sua casa fiorentina. Ci aveva fatti incontrare il comune amico Giovanni Sartori. Non ricordo la data, ma doveva essere alla fine degli anni Cinquanta. Io non avevo fatto parte del gruppo del “Mondo”. Né scrivevo sui giornali quotidiani. Fu un incontro tra professori che si conoscevano attraverso i loro libri. E di libri parlammo soprattutto quella sera. Per la prima volta seppi della sua ardente ammirazione per Gobetti, e delle preziose raccolte, che andò integrando negli anni, delle riviste gobettiane e dei libri pubblicati all’insegna del motto “Che cosa ho io a che fare con gli schiavi?”. L’amicizia venne più tardi quando anch’io entrai più direttamente nel dibattito politico. Ma Gobetti diventò un punto di riferimento comune che ci unì molte volte in seguito.
Rispetto agli studi, avevamo percorso strade diverse. Tuttavia ci incontrammo spesso in quella zona di riflessioni sulla storia d’Italia, di ricordi, di rievocazioni, che io stesso attraversai, se pure saltuariamente. Gli era piaciuto il titolo del primo libro in cui avevo raccolto ritratti e testimonianze, Italia civile, dove c’erano le mie prime pagine su Gobetti. Alcuni anni più tardi intitolò simmetricamente un suo libro di scritti vari, Italia della ragione. Da allora ci accadeva di dire, quasi fossero sinonimi, Italia civile o della ragione. Aggiungeva, con una punta di amarezza, ma senza rassegnazione, “di minoranza”.
Gobetti fu, sin dai suoi primi anni, l’esempio ideale inimitabile dell’intrepido combattente per un’Italia diversa. Quando le nostre due raccolte di scritti gobettiani, Gobetti un’eredità, la sua, e Italia fedele, la mia, apparvero insieme dall’editore e comune amico Stefano Passigli (1987), volle che fossero racchiuse in un unico cofanetto. Le presentammo, uno accanto all’altro, sia a Roma, sia a Lugano, in occasione del “Premio Nuova Antologia”, assegnato quell’anno a Gianfranco Contini. Aveva voluto partecipare qualche anno prima alla presentazione del mio precedente libro di testimonianze Maestri e compagni, a Firenze, nel salone dei Duecento di Palazzo Vecchio. Espresse il desiderio che io partecipassi alla presentazione dell’ultima sua raccolta di scritti gobettiani, che si svolse in una sala del Museo del Risorgimento al Palazzo Carignano di Torino, nell’ottobre 1992. Si fece dare subito il testo, e lo pubblicò, come tante altre cose mie, nella “Nuova Antologia”. Per sollecitare la mia collaborazione alla rivista soleva telefonarmi di domenica da Pian dei Giullari. Quella volta mi disse: “Il tuo ‘gobettino’ apparirà del prossimo numero”.
Quando io abbia cominciato a collaborare alla rivista, non saprei dire. Per anni, non so quanti, non c’è stato numero in cui non sia stata pubblicata qualche mia pagina. Non gli sfuggivano conferenze, discorsi, commemorazioni, relazioni a convegni, che andavo tenendo nelle più diverse città. Mi telefonava: “Hai il testo? Mandamelo subito”. La sua voce era imperiosa. La sua rivista doveva avere la precedenza su tutte le altre. Diceva scherzando che aveva ricevuto da me, ma ritengo lo dicesse anche ad altri, una autorizzazione in bianco a pubblicare scritti miei, sebbene minori, tratti da giornali, in particolare da “La Stampa”, che era anche il suo giornale.
Cominciai a scrivere regolarmente sui quotidiani molto tardi. Il mio primo articolo sul giornale torinese apparve nel 1976. Rispetto a lui, giornalista principe, ero un novellino, nonostante fossi di quindici anni più vecchio. Non ho mai pensato di essere un buon giornalista. Spadolini scriveva per il piacere di scrivere e, naturalmente, per il piacere dei suoi lettori. Io ho sempre scritto più per dovere che per piacere. Ho sempre dubitato, mentre scrivevo i miei articoli, che meritassero di oltrepassare l’occasione che li aveva provocati. Fui stupito, e lì per lì anche non del tutto convinto, quando mi scrisse che voleva raccoglierne una scelta in un volume della collana che dirigeva presso Le Monnier. Cedetti, quando mi scrisse una lunga lettera il 18 aprile 1980, in cui, dopo avermi detto che approfittava delle vacanze di Pasqua per occuparsi del volume “che con tanta cortesia e amicizia” avevo riservato alla sua collana, mi informava del lavoro compiuto per ordinare gli articoli scelti, delle diverse sezioni in cui li aveva divisi, insomma del suo puntiglioso lavoro di editore. Propose il titolo, il sottotitolo e persino il disegno della sovraccoperta. Gli risposi accogliendo tutte le sue proposte, sorpreso ancora una volta della “instancabile sua attività”. Dicevo anche: “Mi auguro che la gente non dica ‘la solita raccolta di articoli di giornale’. Mi fido di te più che di me”.
Trovò anche il tempo (ma come? ma dove? Ce lo siamo sempre chiesti in molti, ma per me è rimasto un mistero) di recensire di tanto in tanto libri miei. Quando apparve su “La Stampa”, un commento, scritto di getto, dei miei studi hegeliani, che non era argomento a lui familiare, gli risposi che ero rimasto “folgorato” per la rapidità con cui leggeva e scriveva un articolo “così ben calibrato e stilisticamente perfetto”. All’uscita della bibliografia dei miei scritti, che mi dedicarono i colleghi quando andai a riposo, ne scrisse subito sul nostro giornale, cogliendo bene il rapporto tra i miei scritti di battaglia politica e alcuni brani autobiografici della prefazione. Nella risposta gli espressi il dubbio che si potesse parlare nei miei riguardi anche di “azione politica”. Gli confidai che, da pochi mesi nominato senatore a vita, mi muovevo in Parlamento da povero dilettante in mezzo a tanti professionisti.
Il primo nostro incontro pubblico, che amavamo ricordare come la espressione di una felice concordia su alcuni princìpi necessari al consolidamento della nostra democrazia, avvenne nell’Aula magna dell’Università di Genova, davanti a una folla di studenti attentissimi. Era stato promosso da Giovanni Tarello, morto prematuramente, che in quella stessa aula commemorai non molti anni dopo. Il tema era la Terza forza, da costruire e tenere in vita in mezzo a molte difficoltà e incomprensioni, per impedire lo scontro frontale fra i partiti maggiori. La Terza fora non era da confondere con la terza via, che i comunisti andavano scoprendo per cominciare ad allontanarsi dal comunismo ufficiale della Unione Sovietica senza cadere nelle braccia della vecchia, sempre detestata, socialdemocrazia. La Terza forza non voleva essere una terzia via, ma la via maestra per liberare una democrazia, come si diceva allora, bloccata. (Ora si è sbloccata e potrebbe proseguire più liberamente per la propria strada, ma non sembra abbia ancora trovato la bussola). Spadolini era più fiducioso di me. Ma non era una fiducia ingenua. Non si era fatta alcuna illusione sulla salute delle nostre istituzioni. La fiducia gli derivava dalla grande sicurezza che aveva di sé, dalle proprie eccezionali energie intellettuali, dal suo intuito, dalla capacità di non lasciarsi trascinare nelle piccole dispute quotidiane, nelle beghe di partito che hanno troppo speso immeschinito e continuano a immeschinire la nostra vita politica. Guardava più in alto.
La Terza forza avrebbe dovuto essere il centro del sistema, non in quanto medietà tra gli estremi o sintesi degli opposti, ma in quanto punto di partenza per la costruzione di una democrazia moderna, equilibrata nelle sue varie parti, laica, rispettosa dei princìpi dello stato di diritto, non sorda alle esigenze delle giustizia sociale, una democrazia che in un paese come l’Italia, sempre in balia di forze diametralmente contrapposte, non era mai esistita. Fu in lui costante l’idea su cui tornava spesso, che per dar vita a una sinistra democratica bisognasse partire dal Centro, da quel Centro in cui si sarebbero dovuti incontrare tutti coloro che, prima di essere socialisti o liberali, si consideravano democratici, perché ritenevano che il primo compito del buon democratico fosse quello di costruire la casa comune, sempre incompiuta e spesso pericolante. Era una visione politica da storico dell’Italia del Risorgimento e dell’Italia post-unitaria, quale egli era stato, prima di dedicarsi, senza lasciarsene assorbire, alla vita politica. Da storico, che era ben consapevole della fragilità delle nostre istituzioni e della non eccellenza delle nostre classi politiche. Gli storici cui si sentiva più vicino e si richiamava, spesso, erano Salvemini, Salvatorelli, Valiani.
Fui vicino a lui nei giorni della sua ultima sfida politica, l’elezione mancata per un voto, a presidente del Senato della XII legislatura, dopo essere stato presidente durante la decima e l’undicesima, dal 1987 all’inizio del 1994. Era il candidato dell’opposizione, e ne era fiero.
Era già malato, e lo si vedeva. Tornando dal viaggio in Cina e in India, dove aveva ricevuto due lauree ad honorem, mi telefonò dicendo che doveva rinunciare al nuovo viaggio in Cile, perché non stava bene. Fu operato dopo poco. Sapeva o non sapeva? Sembrava che non desse o non volesse dare troppa importanza al male. Durante i due giorni della tornata elettorale seguì, teso ma calmo, le diverse votazioni, che lo videro nel primo scrutinio, vincente, ma perdente nel secondo. Mentre esplodevano gli applausi al nuovo eletto, mi mormorò all’orecchio: “Meglio così”. Era stato il candidato dell’opposizione unita. Sarebbe stato più libero di continuare a parlare dai banchi dell’opposizione, come fece nel primo, che fu anche l’ultimo, discorso in Senato, durante la discussione sulla fiducia al nuovo governo. Ammonì gli uomini nuovi a non dimenticare quali erano state le radici della nostra Repubblica.
Gli telefonai in ospedale l’ultima volta alla fine di luglio. Mi ricordò la promessa di mandargli un articolo sul concetto di nazione, da pubblicare nel prossimo numero della “Nuova Antologia”. Ci saremmo risentiti quando, uscito dall’ospedale, avrebbe dovuto riprendere velocemente il tempo perduto, dopo la guarigione. Parlò brevemente, ma con la passione e la chiarezza di sempre, della situazione politica. Morì pochi giorni dopo il 4 agosto.


Norberto Bobbio


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