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    Guido De Ruggiero (Napoli, 1888 - Roma, 1948)


    di Corrado Ocone – “Mondoperaio”, luglio-agosto 2018, pp. 85-91.


    Nel 1924 sulla Critica Benedetto Croce recensisce un volume apparentemente minore di Guido De Ruggiero uscito quello stesso anno per le edizioni Principato: Problemi della conoscenza e della moralità ad uso delle scuole. Minore in modo apparente, il libretto di De Ruggiero: fosse anche solo per il fatto che esso è uno dei non molti esempi in cui colui che resta uno dei maggiori storici italiani della filosofia affronta in maniera diretta i più classici problemi teoretici e speculativi. Fu proprio questo aspetto ad interessare Croce: la curiosità di vedere come su “problemi particolari” e determinati della filosofia se la cavasse “uno dei migliori seguaci dell’ ‘idealismo attuale’, e forse anche il migliore”. Una filosofia, l’ “attualismo”, che Croce giudicava astratta, retorica, vuota. Pur condita di qualche apprezzamento di stima personale, la recensione crociana era una vera e propria stroncatura, una decostruzione delle idee o tesi fatte proprie dall’autore: “Dualismo di conoscenza scientifica e conoscenza storica; dualismo di soggetto e cose, di pensiero e di essere; verbalistico superamento del dualismo mercé l’escogitazione di un x, che sarebbe la radice comune del pensiero e dell’essere; psicologismo ed evoluzionismo, che annacqua senza sciogliere tutti i problemi, e anche quello così aspro dell’errore e del male; posizione, oltre la scienza e la storia, di una filosofia che adempirebbe l’ufficio di unificare non solo le scienze, ma tutte le attività dello spirito umano: chi non riconosce, in tutti questi tratti, sostanzialmente le soluzioni che si solevano esibire nelle dissertazioni e nei sistemi di filosofia del secolo decimonono, derivate da alcune parti del kantismo, e non senza l’influsso dello spencerismo? A questa che direi philosophia vulgaris o filosofia della media opinione, mi pare che si riduca, nel De Ruggiero, l’idealismo attuale, quando esce dal suo lungo prologo mistico, dal suo sacro ‘mistero’ dell’Atto e del Fatto”[1].
    Non passa nemmeno un anno e sempre sulle pagine della Critica Croce usa ben altri toni, e dà ben diversi e positivi giudizi, su un nuovo e ben più importante libro che intanto De Ruggiero aveva pubblicato: Storia del liberalismo europeo. È una recensione, quella crociana, che è “un semplice annunzio” di un’opera appena uscita a cui però il filosofo napoletano non risparmia lodi. Croce intuisce tutto il valore del volume, che fra l’altro sarebbe stato tradotto nelle principali lingue europee e che ancora oggi conserva, a quasi un secolo di distanza, un posto nelle bibliografie. Ciò che ora Croce apprezza è il “tuffarsi nella storia” di De Ruggiero: il quale, aggiunge, ha trattato il tema del liberalismo “nella sua oggettività, coi fatti e la dialettica dei fatti; e si è guardato dal semplificare e schematizzare la storia che egli tratta, anzi si è studiato di esporla nelle sue future, nei suoi ondeggiamenti, nei suoi contrasti”. Ha osservato “accuratamente la distinzione fra quelle che sono posizioni categoriche o speculative, e quelle che sono concrete e cangevoli e viventi tendenze e istituti”.
    De Ruggiero ha evitato, in altre parole, “la grossolana introduzione di astratti concetti filosofici nella storia”: “Con il che il lavoro del De Ruggiero è diventato più e non meno filosofico: filosofico nel senso buono che è (mi si condoni il bisticcio) quello del buon senso, e in guisa assai conforme all’ingegno dell’autore, il quale è più spiccatamente storico, e verso le discettazioni filosofiche concettuali ha mostrato sempre una certa impazienza, spacciandosene e giovandosene come di una generica orientazione (discutibile, come altra volta ho mostrato, in certe proposizioni), per correre verso la considerazione politica e storica, che fortemente lo attirava”[2].
    Ora, il fatto che fra le due recensioni ci fosse stata la battaglia, a colpi di opposti “Manifesti”, fra gli intellettuali fascisti capeggiati da Gentile e quelli antifascisti guidati da Croce, e che De Ruggiero si fosse trovato nella lotta nettamente contro le idee di colui che aveva giudicato qualche anno prima il suo “unico maestro”, e cioè Gentile, è senza dubbio da considerare di importanza fondamentale (da questo momento fra i due ogni rapporto umano si interruppe)[3]. Che esso spieghi da solo una così vistosa palinodia da parte crociana, però, non corrisponde a verità: né farebbe onore, se così fosse, alla statura dei pensatori coinvolti in questa vicenda. Il fatto è che un accordo teoretico fra Croce e De Ruggiero, pur nella comune cornice idealistica in cui si muovevano (e in cui si muoveva Gentile), mai ci fu prima e mai ci sarà dopo il 1925. E che se un avvicinamento ci fu esso avvenne per motivi politici e fu sempre e solo un avvicinamento parziale.
    Certo, opere di indiscutibile valore storiografico come la Storia di De Ruggiero non potevano che favorirla: Croce, di fronte ad un’opera eccelsa, mai sarebbe stato in silenzio. Tanto più che Robin George Collingwood, che aveva traslato in inglese il suo Vico e che egli considerava il suo “amico” in terra britannica, si era subito impegnato nella traduzione e fatto patrocinatore della pubblicazione dell’opera per i prestigiosi tipi della Cambridge University Press. Non si tratta solo del fatto che De Ruggiero riesce di più quando si “tuffa nella storia”. La questione è che De Ruggiero non ha mai aderito fino in fondo allo storicismo crociano, a suo modo di vedere troppo appiattito sull’immanenza e giustificatorio della realtà, senza tensione utopica e afflato etico. Vicino dapprima all’attualismo, se ne sarebbe via via allontanato proprio per l’incapacità che in esso riscontrava, per altra via rispetto a quella dello storicismo crociano, di pensare fino in fondo il momento etico. Gli anni a cavallo del ’25, quelli in cui Mussolini prende definitivamente il potere, si collocano in questa fase di passaggio.
    Ma andiamo con ordine. De Ruggiero era entrato in contatto con Croce molto presto e aveva cominciato a collaborare alla sua rivista nel 1911[4]. Era il periodo in cui il rapporto di Croce con Gentile ancora reggeva, ed entrambi erano i principali redattori della Critica. I dissidi teoretici però cominciavano già, poco alla volta, a venire alla luce, concernendo in primo luogo il tema della distinzione e/o unità delle “forme allo spirito”[5]. De Ruggiero fece sostanzialmente sue le posizioni di Gentile, ritenendo che i “distinti” crociani non fossero giustificabili speculativamente: un residuo di “naturalismo” non tollerabile in un sistema idealistico. Ovviamente per Gentile l’unità dello spirito, garantita dalla filosofia che ne è la “forma” suprema, non era statica, ma dinamicamente realizzantesi attraverso la “dialettica degli opposti” che è la logica del reale. Di qui De Ruggiero, in maniera molto più spiccata rispetto a Gentile, ricava un interesse per il particolare e il concreto, per la storia, che sempre lo accompagnerà[6].
    Intanto, nel 1916, in una lettera a Armando Carlini, egli sintetizza il suo rapporto con i due “maestri” del neoidealismo italiano. “Scolaro” si riconosceva solo di Gentile, ma, aggiunge, “nel senso che da lui ho avuto l’intuizione della via da seguire: Spaventa e la sintesi apriori kantiana, lo sviluppo delle idee è invece avvenuto in me in modo del tutto laterale”, avendo di mira una “filosofia come finalità che trascende infinitamente in valore i mezzi e i momenti in cui si attua (e che pur la riconoscono a sé immanente). Sistema aperto, sempre in via di organizzarsi, il cui valore è dato appunto dalla forza formatrice che il pensiero acquista grado a grado nel suo lavoro, e non già nei momenti preferiti e preferibili di esso”[7]. Il richiamo a Spaventa serve qui a De Ruggiero per ribadire quelli che saranno sempre due punti fermi della sua impostazione: il richiamo all’unità dello spirito e il primato della filosofia. Si tratta di due elementi che lo hanno sempre differenziato da Croce, anche nei momenti di amicizia e stretta collaborazione. Il viaggio in Inghilterra del 1920 e 1921 e l’amicizia lì stretta con Collingwood, con il quale era già in contatto, al di là delle reciproche influenze doveva rinforzare questa visione unitaria dello spirito “adeguata” dalla filosofia: che nel filosofo inglese trova compiuta espressione nell’opera che proprio in quegli anni va elaborando e che è la sua più importante da un punto di vista speculativo (Speculum Mentis. A Map of Knowledge, Clarendon Press, Oxford 1924).
    Questa differenza di fondo verrà ben sintetizzata, qualche anno dopo, sempre sulle pagine della Critica, da De Ruggiero stesso: “Diversamente dal Croce, egli ritiene che il nesso delle attività spirituali risulti da una dialettica di opposti e non di distinti; su questo punto egli aderisce alla veduta del Gentile, o meglio, rendendo a Cesare quel ch’è di Cesare, dello Hegel, senza per altro accettare la triade hegeliana – arte, religione, filosofia – che costringe le attività spirituali in un letto di Procuste, annullando alcuni caratteri peculiari e differenziali di esse: p. es. l’autonomia della scienza naturale. E dell’opposizione dialettica il Collingwood ha, come pochi altri, il sentimento profondo, aderente alla ricchezza e varietà delle forme dell’esperienza umana. Leggendo il suo libro, noi non c’imbattiamo mai in quel mero formalismo in cui ha finito con l’adeguarsi beatamente il Gentile che, condito di retorica, serve spesso a dissimulare l’aridità e il vuoto mentale”[8].
    D’altronde Croce stesso aveva attestato, recensendo Speculum Mentis, che “il problema dal quale il Collingwood prende le mosse” è “il problema dell’unità, dell’ordine, della gerarchia, della stabilità nel mondo moderno”. È un problema che egli non giudica vano, tanto che lui stesso ha “più volte scritto che il problema del mondo moderno è tutto nella elaborazione di una nuova fede”. Ma è un problema che però, a suo avviso, lo fa persuaso che “la nuova fede non potrà mai essere un’imitazione di quella medievale”. Infatti “come fede, darà unità e pace interiore; ma sarà l’unità e la pace di chi unifica le differenze facendole valere nella loro discorde concordia, di chi pacifica la lotta accettandola e combattendola. Nell’età moderna la vita non scorre più idilliaca e sulla terra ferma; ma sul mare, e drammatica. E non è detto che chi naviga fendendo le onde, non possa godere anch’esso, a suo modo, la pace interiore e sentirsi congiunto con Dio”[9].
    Passo, questo crociano, altamente significativo, che permette forse di entrare nel nucleo più profondo della logica crociana. Esso infatti introduce nell’unità e compattezza dell’Essere classicamente inteso, e del pensiero (filosofico) che gli corrisponde, una spaccatura strutturale che fa pensare l’uno nei molti in un modo a cui forse solo Isaiah Berlin si è approssimato con altrettanta radicalità (anche se nel pensatore oxoniense, che non era propriamente un filosofo speculativo, il livello si mantiene ad un livello quasi esclusivamente empirico)[10].
    Dalla parte (teoreticamente parlando) non di Croce, ma di Collingwood e Gentile, ma con una più spiccata sensibilità per il concreto rispetto al primo (che pur l’aveva) e soprattutto rispetto al secondo, De Ruggiero si allontanò in un primo momento dal “maestro” per motivi politici. Contestualmente si riavvicinò, sempre per gli stessi motivi, a Croce: con il quale, pur nell’ottica del comune antifascismo, non c’era però una completa corrispondenza dal punto di vista della concezione politica. Dopo la firma del Manifesto e la positiva recensione crociana alla Storia, De Ruggiero ricominciò a collaborare alla Critica nel novembre 1927[11]. Egli però inizia, suppergiù in quello stesso periodo, una “revisione”, come lui stesso la chiama, dell’attualismo, che però non lo porta né ad abbandonare l’esigenza di unità e unitarietà dello spirito che esso affermava, né d’altra parte a far proprie fino in fondo le ragioni dello “storicismo assoluto” crociano.

    (...)



    [1] La Critica, a. 22 (1924), pp. 229-232.

    [2] La Critica, a. 23 (1925), pp. 305-306.

    [3] Giovanni Gentile si fece promotore di un Manifesto degli intellettuali fascisti che uscì su molti quotidiani italiani il 21 aprile 1925. Fra i firmatari: Gabriele D’Annunzio, Salvatore Di Giacomo, Curzio Malaparte, Filippo Tommaso Marinetti, Luigi Pirandello, Ardengo Soffici, Ugo Spirito, Giuseppe Ungaretti e Gioacchino Volpe. Benedetto Croce rispose con un controappello, il Manifesto degli intellettuali antifascisti, che fu pubblicato il primo maggio dello stesso anni su Il Mondo. Lo firmarono, fra gli altri: Luigi Albertini, Corrado Alvaro, Giovanni Amendola, Antonio Banfi, Piero Calamandrei, Guido De Ruggiero, Luigi Einaudi, Guglielmo Ferrero, Giustino Fortunato, Rodolfo Mondolfo, Eugenio Montale, Gaetano Mosca, Gaetano Salvemini. I testi dei due appelli si leggono in: B. CROCE – G. GENTILE, 1925. I due Manifesti. Il Manifesto degli intellettuali fascisti e il Manifesto degli intellettuali antifascisti, a cura di A.M. Carena, Aragno, 2016.

    [4] Il primo saggio che De Ruggiero pubblicò sulla Critica fu una recensione a Substanzbegriff und Funktionbegtrifff. Untersuchungen Uber die Grundfragen der Erkinntnsskritik di Ernst Cassirer. Sempre nel 1911 uscirà, sulla rivista di Croce, in due parti, un altro saggio di De Ruggiero: La filosofia dei valori in Germania (pp. 369-384 e pp. 441-448).

    [5] Tali dissidi presero forma pubblica sulle pagine de La Voce di Prezzolini nel 1913, attraverso una serie di articoli che i due filosofi scrissero in ideale dialogo. La “polemica fra filosofi amici”, come Croce ebbe allora a chiamarla, costituisce, probabilmente, uno dei punti più alti raggiunti dalla filosofia italiana nel Novecento. Tutti i materiali si trovano in : M. LANCILLOTTI, Unità e distinzione dello spirito, Studium, 1988.

    [6] In verità anche Gentile fu storico eccellente, soprattutto delle idee e della filosofia, ma non ebbe mai quella spontaneità di immergersi completamente nella storia senza più tenere conto delle movenze speculative del suo pensiero. Quando Croce, nella citata recensione alla Storia di De Ruggiero (1925) dirà che la sensibilità dell’autore era più storica che teoretica coglierà nel segno. Meno quando però esalterà la Storia per non aver introdotto concetti speculativi nella narrazione: un vizio, quest’ultimo, che non fu mai proprio, almeno non in modo evidente, di De Ruggiero.

    [7] I passi citati della lettera di De Ruggiero a Carlini, datata 24 gennaio 1916, sono riportati nella voce a De Ruggiero dedicata da Renzo De Felice nel Dizionario biografico degli italiani, volume 39, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1991.

    [8] La Critica, vol. 26 (1928), pp. 407-417.

    [9] La Critica, pp. 55-59.

    [10] Cfr. M. MAGGI, La logica di Croce. E, per quel che concerne Berlin, C. OCONE, Isaiah Berlin, il liberalismo come pluralismo in Il liberalismo nel Novecento. Da Croce a Berlin, Rubbettino, 2016, pp. 121-154.

    [11] La collaborazione, iniziata nel 1911, si era interrotta nel luglio 1915. Durò ora altri 10 anni. Fino a quando, nel 1938, non intervennero dissidi intellettuali ormai non più componibili.
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    Predefinito Re: Guido De Ruggiero, un azionista fuori dal coro

    Un punto di approdo momentaneo, ma già ben preciso e netto, è rappresentato dal saggio Revisioni idealistiche, del 1933. Ove, anche se si parla genericamente di “idealismo”, il riferimento critico è chiaramente a Gentile e la sua scuola (che non sono però citati). Anzi, in qualche modo, Croce (che è invece citato) è preservato dalla critica per la sua capacità di ripensare il suo idealismo e di costruirsi una via di uscita dalle secche in cui, a dire di De Ruggiero, anche il suo idealismo si era arenato. La strada seguita da Croce era la riflessione sul rapporto fra pensiero e azione su cui il filosofo meditava in quegli anni. Osservazione acuta, tanto che, secondo me, se De Ruggiero non si fosse limitato ad un generico, seppur significativo, apprezzamento, avrebbe potuto, riflettendo sulla questione, trovare anch’egli in questa direzione molte risposte alle domande che andava ponendosi[1].
    Dopo aver osservato che l’idealismo “è inconcepibile senza una scissura e un’opposizione profonda” nel suo seno, De Ruggiero nota che nei suoi sviluppi esso ha finito per togliere questo contrasto e tutto appiattire e giustificare in una sorta di relativismo teoretico e indifferentismo morale: “Certamente, c’è un motivo profondo di verità anche in questo bisogno unitario dell’idealismo […] Ma il rischio per l’idealismo è che questo motivo unitario prevalga al punto di togliere all’opposizione stessa ogni consistenza e di conferirle una parvenza allucinatoria”. E ancora: “C’è chi, in questa opera di riduzione dell’hegelismo, ha potuto salvare le vie di accesso verso la vita e i suoi problemi: il Croce, per esempio, che distinguendo il pensiero dall’azione ha affidato a quest’ultima il compito di dare alla riflessione mentale sempre nuovo materiale e nuovo alimento. Ma non so se, appunto per questo, egli possa più chiamarsi hegeliano ed idealista: due nomi dei quali io credo che egli sarebbe disposto a disfarsi o a modificare il senso, prendendo dell’hegelismo, piuttosto che lo schema, la ricchezza e varietà degli interessi mentali che vi si rivela malgrado lo schema; e dell’idealismo il tema spiritualistico liberato dal pantalogismo che l’aggrava e l’isterilisce”[2].
    L’articolo di De Ruggiero, fra l’altro discutibile da un punto di vista teoretico, più che risolvere le posizioni che pone segnala un disagio. Certo, egli ora critica la sterilità, pratica e concreta, del panfilosofismo hegeliano, rivendica il valore non meramente illusorio delle posizioni antagonistiche su cui poi si erge l’unità dello spirito, loda la vitalità del pensiero crociano che rimedita il rapporto fra pensiero e azione. Tuttavia, più che ritornare ad interrogarsi sulle questioni che gli sollevano dubbi, è come se d’improvviso desse un’altra e diversa curvatura al suo pensiero. Prima di tutto intensificando ancor di più la produzione più prettamente storica e politica; dall’altro ponendosi in una prospettiva di recupero dell’illuminismo. La stessa attenzione alla dimensione morale assume ora un carattere non troppo lontano da quella “astrattezza moralistica” che gli idealisti e gli storicisti avevano sempre criticato[3].
    Un importante momento di questo itinerario è rappresentato dal testo, datato 17 aprile 1940, della conferenza che doveva tenere all’università di Oxford in occasione del conferimento della laurea honoris causa, dal titolo The revival of the Philosophy of Eingletement[4] nel 1942. De Ruggiero colloca la sua rivalutazione dell’illuminismo in una realistica “filosofia della storia” dei due secoli a lui precedenti. Egli vede infatti all’opera in essi un’antitesi fra il momento razionalistico, di cui i Lumi si sono fatti portatori, e di quello irrazionalistico, che corrisponde alla valorizzazione del mito, degli istinti, della storia, della tradizione, da parte del romanticismo. Giustamente egli vede all’opera una dialettica, piuttosto che una secca antitesi fra i due momenti. E altrettanto giustamente individua nell’Ottocento il momento della loro più proficua integrazione in seno alla politica, alle istituzioni, alla società e alla stessa cultura.
    Non c’è tuttavia dubbio che egli consideri ora uno dei due elementi, quello razionalistico-illuministico, superiore all’altro, indice di umanità e civiltà. Esso non deve porsi di faccia all’altro, ma deve comunque provare a “razionalizzarlo”. Quando ciò più non avviene, e semplicemente predomina il momento irrazionalistico, siamo di fronte a una “malattia”. Ed è così che De Ruggiero può parlare esplicitamente di una “malattia romantica”, e ricondurre al romanticismo tutti gli irrazionalismi che hanno dominato il Novecento politico e intellettuale. Operazione che, oltre a porsi in antitesi con l’interpretazione dell’illuminismo come razionalismo astratto, che era proprio anche di Croce[5], si contrappone anche con la consapevolezza che, proprio in quel torno di tempo, maturava nella più accorta critica liberale al totalitarismo novecentesco. Autori cime Oakeshott, Hayek, lo stesso Croce, persino Popper, più tardi Arendt e Talmon, riconducevano allora infatti a un eccesso di razionalismo la causa della “crisi occidentale”, individuando fra l’altro proprio nel giacobinismo, sbocco quasi naturale di certo predominante illuminismo settecentesco e francese, la struttura mentale e l’esperienza reale da cui erano poi derivati in concreto, per li rami, gli autoritarismi e totalitarismi contemporanei.
    Era questa – fra gli sviluppi del liberalismo occidentale e quelli del “nuovo liberalismo” italiano di cui De Ruggiero era forse il massimo rappresentante[6] - un’asimmetria che si collocava perfettamente nel processo che investiva allora la cultura italiana per creare una nuova koiné o “egemonia culturale” (e che avrebbe poi caratterizzato tutto il periodo del secondo dopoguerra, dando un’impronta significativa alla cultura di sfondo della Costituzione e dell’Italia repubblicana). Non è un caso che Croce, restato fedele a certi principi, si trovasse spiazzato e isolato di fronte all’avanzata della cultura azionistica anche fra gli studiosi a lui più vicini. Anche De Ruggiero aderì, seppur su posizioni più moderate e liberali rispetto a quelle di altri esponenti del movimento[7], a quel Partito d’Azione che fu e rimase sempre inviso al filosofo napoletano. Il quale, scorgendovi non solo tratti di astrattezza ma anche di vassallaggio ai comunisti, mostrava di vedere molto più lontano, negli anni a partire dal 1942, di tanti suoi discepoli: un partito che pretendeva di dirsi liberale ma che per lui in generale non lo era affatto. Anche De Ruggiero, come gli altri azionisti, immaginava nuove e “più avanzate” frontiere per il liberalismo in una chiave sociale.
    Se quello di De Ruggiero è stato sempre, da un punto di vista speculativo, un pensiero inquieto o irrequieto, da un punto di vista pratico esso si è mosso, sia nelle diverse fasi idealistiche sia un quest’ultima illuministica, in un orizzonte che potremmo definire democratico-liberale. Il che lo ha portato sia a dare un’interpretazione progressiva del liberalismo, sia ad evitare ogni commistione di esso con le forze del socialismo in tutte le loro declinazioni.
    Questo suo modo di intendere il liberalismo si tenne pressoché costante, tanto che può dirsi che i passi che egli andò compiendo alla crisi e caduta del fascismo erano già inscritti nell’impostazione politico-culturale che aveva maturato negli anni immediatamente a ridosso della prima guerra mondiale, e in qualche modo anche prima. Essa era il frutto, da una parte, di una critica che egli muoveva in blocco alla classe dirigente liberale, giudicata incapace di affrontare le nuove sfide poste dall’avvento delle masse sulla scena del potere, chiusa in una visione prosaica e conservatrice della politica; dall’altro, dalla sua apertura mentale e dalla conoscenza diretta dei nuovi orizzonti del liberalismo che, sotto l’influenza del pensiero di John Stuart Mill, erano maturati in Inghilterra nei primi decenni del secolo.
    Dal primo punto di vista, al contrario di Croce, De Ruggiero si collocò nel vasto fronte intellettuale dell’antigiolittismo e fu interventista; dal secondo punto di vista, invece, fece conoscenza del pensiero di autori come Thomas Hill Green e soprattutto Leonard Trelawny Hobhouse, che rinnovavano in quegli anni il liberalismo inglese in un’ottica che oggi definiremmo di “liberalismo di sinistra”. Sicuramente il periodo trascorso in Inghilterra fra il 1920 a il ’21 favorì ancora più da parte di De Ruggiero la conoscenza di questi autori, e fece sì che egli cominciasse a familiarizzare con costrutti mentali come la “uguaglianza delle opportunità” o la distinzione fra “libertà negativa” e “libertà positiva”, molto lontani dalla tradizione liberale classica italiana, e anche dal pensiero di Croce.

    (...)



    [1] “C’è chi, in questa opera di riduzione dell’hegelismo, ha potuto salvare – scrive De Ruggiero – le vie di accesso verso la vita e i suoi problemi: il Croce, per esempio, che distinguendo il pensiero dall’azione, ha affidato a quest’ultima il compito di dare alla riflessione mentale sempre nuovo materiale e nuovo alimento. Ma non so se, appunto per questo, egli possa più chiamarsi hegeliano ed idealista: due nomi dei quali io credo che egli sarebbe disposto a disfarsi o a modificare il senso, prendendo dell’hegelismo, piuttosto che lo schema, la ricchezza e varietà degli interessi mentali che vi si rivela malgrado lo schema; e dall’idealismo il tema spiritualistico liberato dal pantalogismo che l’aggravava e l’isterilisce” (G. DE RUGGIERO, Revisioni idealistiche. L’educazione nazionale, 1933. Anche nel caso della riflessione sul rapporto fra pensiero e azione, Croce si inseriva in un orizzonte europeo: basti pensare alla considerazione che, sullo stesso tema e nella stessa direzione, Oakeshott fa sui rapporti fra pensiero e azione: M. OAKESCHOTT, Experience and Its Modes (1933), Cambridge University Press, 2015.

    [2] DE RUGGIERO, Revisioni idealistiche, cit., pp. 138-145.

    [3] L’esigenza etica era stata sempre presente nel suo pensiero, prendendo ovviamente diverse curvature: e cozzando spesso con il senso ultimo, alquanto giustificativo del reale, che egli attribuiva, più a torto che a ragione, a quell’idealismo che pure mai abbandonò. Già della prima guerra mondiale aveva dato, come Gentile, un giudizio positivo come possibile momento di “rigenerazione morale” degli italiani. E del fascismo darà un giudizio marcatamente morale, apparentemente più vicino questa volta a Croce. La moralità che portava a esecrare il fascismo non sarà in De Ruggiero metapolitica, come quella a cui faceva riferimento Croce, ma anche concretamente politica, come abito di correttezza e di integerrima dignità umana.

    [4] L’autore non poté recarsi a Oxford a causa dello scoppio della guerra. Lo farà, a conflitto finito, nel 1947. Il testo fu pubblicato una prima volta nella rivista Mercurio, anno I, n. 2, 1 ottobre 1944, pp. 80-88. Ora si trova in G. DE RUGGIERO, Alle origini dell’Italia repubblicana (1944-1948), a cura di M.L. Cicalese, Le Monnier, 1994, pp. 41-52.

    [5] Un’interpretazione che giudica qui una “critica partigiana”.

    [6] Di “nuovo liberalismo” a proposito di De Ruggiero parla esplicitamente Richard Bellamy

    [7] Forse fu proprio questa moderazione che gli valse, da parte soprattutto di Eugenio Garin, l’accusa di ambiguità.
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    Predefinito Re: Guido De Ruggiero, un azionista fuori dal coro

    Fu proprio in quegli anni, a ridosso della pubblicazione de L’Impero britannico dopo la guerra (1921), che De Ruggiero cominciò a buttarsi a capofitto nello studio del pensiero liberale e nella stesura della sua Storia. Andò formando la sua sensibilità liberale in anticipo e in autonomia rispetto alle riflessioni che sul liberalismo avrebbe di lì a poco compiuto Croce. Ammirò Gobetti, e apprezzò parte della sua attività (come fu proprio in verità di tutto il mondo intellettuale italiano, anche conservatore), ma tenne ben ferma la barra liberale non facendosi sedurre dalle sirene del bolscevismo[1]. Anche se avrebbe aderito al partito d’Azione, divenendone uno dei massimi esponenti politici, non può perciò esserne considerato un padre ideale, muovendosi a margine della linea Gobetti-Rosselli-Calogero che quella cultura politica caratterizza in maniera più esplicita. Si mosse sempre lungo un crinale stretto, ma la sua identità liberale rimase, come si è detto, salda, al contrario di quella filosofica. Nell’ordine delle cose fu invece la simpatia per Francesco Saverio Nitti prima, e soprattutto la collaborazione con Giovanni Amendola nel partito da lui creato alla fine del 1924, l’Unione nazionale.
    Cerchiamo però di addentrarci di più in quel sistema di pensiero che abbiamo definito democratico-liberale, che De Ruggiero distingue con accuratezza da ogni liberalsocialismo e anche dal socialismo liberale. Il primo punto da considerare è che il pensatore napoletano non è un democratico, collocandosi rispetto alla democrazia in un atteggiamento non troppo dissimile da quello di un Tocqueville: la democrazia è un destino che è a sua volta sia un pericolo per il liberalismo sia un’opportunità. È un pericolo perché essa porta insita in sé la tendenza al conformismo; è un’opportunità, perché permette al liberalismo di rinnovarsi. Rinnovarsi senza rinnegarsi: il liberalismo, per De Ruggiero, va vivificato, ma non superato.
    Egli alla vecchia classe politica liberale non rimprovera nessuna delle idee di cui si è fatta portatrice, bensì il fatto di averle congelate e non rinnovate alla luce delle nuove condizioni e in sostanza dell’avanzata della democrazia. Lo spirito di libertà, che significa prima di tutto autodeterminazione e (kantianamente) autonomia morale individuale, doveva essere fatta propria dalle masse. L’obiettivo diveniva perciò una sorta di liberalismo di massa a cui l’élite liberale più consapevole avrebbe dovuto educare poco alla volta il popolo. Quanto poi questo pedagogismo e paternalismo liberale potesse dirsi tale, e non cozzasse prima di tutto proprio con il principio dell’autonomia morale dei singoli, è questione non inessenziale. È un aspetto riconducibile, in fin dei conti, proprio a quel tratto illuministico che, venuto fuori molto tardi, il pensiero politico di De Ruggiero aveva in realtà sempre covato.
    La polemica con Benedetto Croce, politica e intellettuale al tempo stesso, montò in maniera sempre più dura nel periodo in cui fu pubblicata La Nuova Europa, e poi, come raccolta degli articoli ivi pubblicati, Il ritorno della ragione. Croce, ad esempio, aveva facile gioco a mettere in evidenza come l’insoddisfazione di De Ruggiero per lo storicismo fosse più uno stato d’animo che non una ragionata argomentazione concettuale[2]. E aveva altresì ragione nel sostenere che le esigenze della prassi non possono intromettersi nella comprensione teorica. La quale, d’altro canto, non può prestabilire a priori i contenuti, seppur “progressisti”, dell’azione. Nonostante la critica del liberalsocialismo[3], che li accomunava, Croce, al contrario di De Ruggiero, non era né un progressista né un democratico: era, come aveva più volte ribadito soprattutto in quel torno di tempo, un uomo di centro che volta a volta si sarebbe peritato di trovare le soluzioni di libertà ai problemi che la realtà politica e sociale avrebbe posto.
    Gli ultimi anni della lunga operosità di De Ruggiero (diciamo quelli fra il 1942, quando prende contatto con i gruppi liberal-socialisti di opposizione, fino alla morte, avventa nel dicembre 1948) sono molto significativi. È come se nel suo pensiero, in quel preciso momento, teoria e prassi si riannodassero: era proprio il razionalismo illuministico, prima di tutto con la sua idea di progresso sociale, che giustificava una pratica liberale in senso più democratico e sociale. Non si tratta di fare il processo alla storia, e nemmeno a figure fuori dall’ordinario come Guido De Ruggiero. Si tratta piuttosto di capire come l’attualità di un’opera come quella del pensatore napoletano, soprattutto considerata alla luce dei suoi ultimi sviluppi, sia più nella capacità cha ha di farci comprendere certe dinamiche della storia di ieri che sono parte integrante della storia di oggi che non nella riproposizione di un modello interpretativo e storiografico che ha fatto sicuramente il proprio tempo.

    ​Corrado Ocone



    [1] De Felice, nella citata voce del Dizionario biografico degli italiani, scrive che: “da vero liberale, già dal 1921, per il D. tra fascismo e comunismo, tra ‘dittatura rossa e dittatura nera’, non vi era alcuna sostanziale differenza (‘in verità, io, tra il rosso e il nero non so riconoscere se non una distinzione ottica: tutto il resto è indiscernibile’)”.

    [2] Quaderni della Critica, numero 6 (settembre 1946), p. 79.

    [3] “Nel liberal-socialismo – scrive – l’accento batte sul secondo termine. E il socialismo non è un nome che possa prendersi in un significato vario e generico […] In realtà il liberal-socialista è un socialista che, per effetto delle esperienze degli ultimi tempi e della dura coazione esercitata a suo danno da un regime dittatoriale, vuol giungere alla realizzazione del suo programma salvando, per quanto possibile, la libertà individuale. Che questo proposito implichi un’attenuazione dei presupposti dittatoriali della sua dottrina è innegabile, ed è anche possibile che esso esiga una revisione dell’originario classismo; ma ciò non toglie che resti intatta la struttura fondamentale del suo pensiero e che l’esigenza della libertà sia in qualche modo secondaria”. In DE FELICE, cit.
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

 

 

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