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  1. #21
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    Predefinito re: Sovranità, inter-nazionalismo, Socialismo, sinistra

    LO STATO, LA NAZIONE, LA SINISTRA
    di Carlo Formenti



    [ 9 gennaio 2019 ]

    L'ideologia antistatalista e l'autodistruzione delle sinistre
    Non pochi hanno osservato che, intestandosi la “rivolta dei sindaci” contro il rilancio securitario di Salvini, le sinistre spostano ulteriormente il baricentro dell’iniziativa politica sul tema dei diritti civili (con priorità assoluta al problema dei migranti) sperando così di dimostrare la propria superiorità morale nei confronti della controparte, tuttavia, in questo modo, non solo non indeboliscono l’avversario, ma rischiano – come dimostrato dall’esperienza storica passata e recente – al contrario di rafforzarlo.

    Avendo più volte scritto che la débâcle che le sinistre hanno subito negli ultimi decenni è, in larga misura, dovuta proprio a questa dislocazione dal terreno della lotta per i diritti
    sociali in difesa degli interessi delle classi popolari a quello, tipico della tradizione liberal democratica, della tutela dei diritti individuali e civili, non posso che condividere tale riflessione.



    Ciò detto, credo che dietro questo scontro fra potere centrale e poteri locali si celi una ragione ancora più profonda delle nuove, inevitabili sconfitte cui è destinata ad andare incontro la sinistra — una ragione che prescinde dal contenuto della battaglia ideologica in corso (paranoia xenofoba versus utopia no border. Mi riferisco alla vocazione antistatalista di tutte le sinistre, ancorché declinata in forme e con motivazioni differenti: si va dall’anarchismo libertario di centri sociali e movimenti neo-autonomi, i quali concepiscono lo stato nazionale come un nemico in quanto tale, perché sinonimo di gerarchia, autoritarismo, se non di totalitarismo; alle rivendicazioni di autonomia e autogoverno di una “società civile” identificata, di volta in volta, con questa o quella istituzione locale (comuni, province, regioni o altro), per definizione “più vicina ai cittadini”, fino alle cyber utopie anarco-capitaliste che hanno visto i social network (governati da imprese giganti!) scalzare progressivamente le prime comunità virtuali come candidate alla costruzione di forme di democrazia diretta alternative a partiti e corpi intermedi.



    Avendo sposato tali ideologie, non stupisce che le sinistre coltivino l’utopia di una Unione europea riformata, in cui si creerebbero le condizioni per una governance realmente democratica, e in cui potrebbero sbocciare i cento fiori delle più svariate esperienze di autogestione comunitaria locale. È su tale terreno che le sinistre radicali finiscono inconsapevolmente per convergere con socialdemocratici e liberali i quali, mentre costruiscono le istituzioni sovranazionali e totalitarie delle grandi lobby finanziarie e industriali, distruggendo le tradizionali istituzioni della democrazia nazionale e del welfare, strizzano l’occhio a volontariato, Ong, no profit e persino alle forme più radicali di autonomia di una società civile chiamata a tappare i buchi di un mondo lacerato dalla colonizzazione del libero mercato.

    La guerra allo stato nazione in nome del mito della democrazia diretta e del localismo non apre la strada alla costruzione di più ampi spazi di democrazia, nella cornice di istituzioni sovranazionali “flessibili”, ma accelera il lavoro di distruzione delle garanzie costituzionali che decenni di lotta di classe avevano consentito di conquistare alle classi subalterne.

    So che è difficile contrastare la corrente che trascina le sinistre verso la l’autodistruzione ma, a chi nel recente passato ha eletto a modello l’esperienza zapatista, consiglio di leggere queste parole del subcomandante Marcos:

    «Noi stiamo dicendo che nella nuova fase del capitalismo si verifica una distruzione dello Stato Nazionale... Si sta distruggendo il concetto di nazione, di patria, e non soltanto nella borghesia, ma anche nelle classi governanti… Il progetto neoliberista esige questa internazionalizzazione della storia; pretende di cancellare la storia nazionale e farla diventare internazionale; pretende di cancellare le frontiere culturali… Il capitale finanziario possiede solo dei numeri di conti bancari. E in tutto questo gioco viene cancellato il concetto di nazione. Un processo rivoluzionario deve cominciare a recuperare i concetti di nazione e di patria».

    (citato da Thomas Fazi https://www.facebook.com/thomasfazi/post...).

    https://sollevazione.blogspot.com/20...nistra-di.html
    "L'odio per la propria Nazione è l'internazionalismo degli imbecilli"- Lenin
    "Solo i ricchi possono permettersi il lusso di non avere Patria."- Ledesma Ramos
    "O siamo un Popolo rivoluzionario o cesseremo di essere un popolo libero" - Niekisch

  2. #22
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    Predefinito re: Sovranità, inter-nazionalismo, Socialismo, sinistra

    Avendo più volte scritto che la débâcle che le sinistre hanno subito negli ultimi decenni è, in larga misura, dovuta proprio a questa dislocazione dal terreno della lotta per i diritti
    sociali in difesa degli interessi delle classi popolari a quello, tipico della tradizione liberal democratica, della tutela dei diritti individuali e civili, non posso che condividere tale riflessione.
    Sarò noioso, ma questi sono dati di fatto. La "sinistra" sta facendo regali su regali a Salvini e Meloni.
    Potere a chi lavora. No Nato. No Ue. No immigrazione di massa. No politically correct.

  3. #23
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    Predefinito re: Sovranità, inter-nazionalismo, Socialismo, sinistra

    Citazione Originariamente Scritto da LupoSciolto° Visualizza Messaggio
    Sarò noioso, ma questi sono dati di fatto. La "sinistra" sta facendo regali su regali a Salvini e Meloni.
    Questa "sinistra" liberal ibrida è stata la morte della vera sinistra socialista, e perchè questa seconda possa rinascere la prima deve scomparire, autoannientarsi fino all'oblio totale.
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  4. #24
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    FABRIZIO MARCHI, "CONTROMANO"
    di Alessandro Visalli
    [ 16 gennaio 2018 ]



    “L’interferenza” è una coraggiosa rivista on line di cui è direttore responsabile Fabrizio Marchi e che fa parte di una crescente e vivacissima area critica con lo stato delle cose presenti, in particolare con l’indirizzo del progetto europeo in quanto parte promotrice della destrutturazione che ci circonda.

    In questo libro sono raccolti numerosi articoli usciti sulla rivista che si sviluppano intorno ad alcuni centri tematici ed una tesi-chiave che provo a rendere in questo modo: le varie versioni del ‘politicamente corretto’ sono l’ideologia funzionale allo stato della tecnica e di un modo di produzione che da lungo tempo ha dismesso i ferri vecchi della triade Dio-Stato-Famiglia.

    Il punto di partenza dell’argomentazione del testo è che man mano che la società si è fatta “liquida”[1], almeno nel nostro occidente ‘sviluppato’, la centralità della “forma merce”[2] è diventata universale. Ciò che dunque serve all’autoriproduzione di questa società, ed in particolare del suo motore, la valorizzazione del capitale[3], è un umano ‘non sociale’[4], che viene in qualche modo messo a disposizione dalla ideologia del ‘politicamente corretto’[5] che in questo senso è ‘falsa coscienza’[6].
    All’autoritarismo delle forme tradizionali si sovrappone e sostituisce, certo gradualmente, una forma sottile, ma più ferrea, di autoritarismo del mercato. In altre parole, la questione non è tanto del “plusvalore non pagato” o di appropriarsi del potere giuridico di disporre della proprietà privata, ma di ridefinire la “forma sociale del valore stesso”, ed il suo feticismo che mette in concorrenza tra di loro tutte le classi e gli individui entro esse, siano essi maschi o femmine. La “forma sociale del valore” si costituisce, infatti, senza che nessuno la progetti, come struttura senza soggetto (anonima e desessuata) con l’immenso potere di agire “dietro le spalle” di tutti gli uomini e le donne, sottomettendoli ad un processo di trasformazione dell’energia umana in denaro. Ovvero in una oggettivazione dei rapporti di dominazione che si nutrono delle vite che incapsulano. Che di fatto le identificano. Il capitale, così letto, non è appropriabile. Non è questione di possedere i mezzi di produzione, perché la vera produzione è di rapporti sociali e quindi forme dell’umano, oggettivati nel rapporto con il denaro come dominus totale. O meglio del denaro come traduttore e condensazione in uno della dominazione, che coinvolge insieme “possessore” e “posseduto”, creditore e debitore, accumuli e decumuli. Rispetto a tutto questo il “patriarcato” non è che un residuo fossile, ancora qui e lì presente, ma superato sistematicamente e di ostacolo al ‘movimento automatico’.

    Per fare un esempio, in “Vite che non possiamo permetterci”, del 2011, una lunga conversazione con Citlali Rovirosa-Madrazo, al cap III Zygmunt Bauman risponde in modo molto interessante alla domanda della giornalista e femminista sudamericana che dice: “negli ultimi decenni la ‘rottura epistemologica’ con la modernità e la diffusione del cosiddetto pensiero post-moderno e post-strutturalista hanno prodotto idee ricche di stimoli e suggestioni. … è stato forse per questo che nel 1995 mi sono spinta a scrivere che lo Stato-nazione (o meglio lo Stato tout court) e altre istituzioni peculiari alle nostre civiltà non erano altro che costrutti etnocentrici, o meglio illusioni patriarcali dell’Occidente (un’idea che non ho ritrattato). Perdutamente innamorato del post-modernismo, ci siamo tutti ribellati ai nostri ‘progenitori’ europei e mediterranei (dalla tradizione giudaico-cristiana, ai greci, a Marx e oltre; dalla modernità alla post modernità e ritorno) e abbiamo tutti bevuto nel Graal (gradevole o piuttosto indigesto?)”.
    Ed a questo punto, dopo questa sintetica ed interessante ammissione, del tutto comprensibilmente chiede: “Che cosa ci salverà da quello che spesso ci appare come un ‘crollo’ che ha travolto ‘più o meno tutto’? Quali sono le prospettive dell’utopia, … ‘dove andiamo da qui’?”

    Bauman risponde in modo aperto, come suo solito, ma identifica il problema con precisione diagnostica. Quella che la sua interlocutrice ha evocato è in effetti anche essa una ‘utopia’ (perché non si può certo vivere nel vuoto della decostruzione, o della pura merce), ma si tratta di una “utopia iconoclasta”, che descrive con qualche malizia in questo modo: “utopie che arrivano in ‘confezione unica’ insieme alla modernità liquida, a una Dip (deregolamentazione, individualizzazione e privatizzazione) ossessivo-compulsiva e al consumismo. Più queste utopie decantano, più chiara appare la meta finale/prevista/imminente cui tendono. Ogni tipo di utopia è gravido delle proprie distopie, che come qualsiasi discendenza sono determinate a livello genetico”[7].

    Potrebbe, dunque, essere inquadrata la critica, ripetuta e serrata, dell’autore al femminismo contemporaneo, nel momento in cui questo si pensa come individuazione di una differenza essenziale, radicale (nel senso della radice e del fondamento), che attraversa e supera tutte le altre, come denuncia dello smarrimento al quale faceva riferimento anche Citlali Rovirosa-Madrazo: da qui non si va più verso l’emancipazione dell’umano. La posizione scaturisce in evidenza dalla chiave della militante sudamericana, che ha decostruito e superato anche Marx, anzi, direi, principalmente Marx.
    Fabrizio Marchi a questo non si dispone, lui in tutto il testo dice una cosa sola: è la differenza di classe la radice ed il fondamento della costruzione dell’uomo e della società che va sottoposta alla critica.

    L’obiezione ha una chiarissima logica: ci può essere solo una partizione fondamentale.

    Un articolo della femminista romana e militante antagonista Elisabetta Teghil, mostra il dilemma in modo molto chiaro. Parte denunciando l’essere ‘di moda’ del femminismo, una idea che “va per la maggiore, svuotato di ogni valenza antagonista e liberatoria, diventato merce e strumento delle logiche di dominio, sta portando ai resti il femminismo tutto”. Nel mio linguaggio denuncia, cioè, l’incorporazione dell’istanza femminista e del suo linguaggio nel campo del “politicamente corretto”[8]. Una ‘deriva’ che riconosce nella cosiddetta ‘seconda ondata’ (la prima essendo il femminismo storico che accompagna e precede lo stesso socialismo) in Italia dalla fine degli anni sessanta (in America da un decennio prima). Vediamo come lo descrive:

    “Tra la fine degli anni ’60 e gli anni ’70 le donne hanno scoperto di essere tutte sorelle nella consapevolezza della comune oppressione. Non più un problema femminile, dunque, di cui tutti quelli che avevano a cuore una società migliore avrebbero dovuto e voluto occuparsi, non più una carenza di attenzione e di diritti a cui la società avrebbe dovuto porre rimedio, bensì una questione strettamente legata ad un modello socio-economico, il patriarcato, assunto e affinato dalla società del capitale, che prevedeva ruoli sessuati precisi, gerarchicamente impostati, in cui il maschile veniva costruito come dominante e il femminile dominato per una resa ottimale degli individui messi al lavoro in una divisione precisa dei compiti e con uno sfruttamento differenziato e gerarchico”.

    Si tratta di un discorso, almeno messo in questi termini, storicamente singolare, lo ‘spirito del capitalismo’, sin dal suo esordio, è riconosciuto come de-gerarchizzante almeno tanto quanto sia ri-gerarchizzante. Il meccanismo provvede a trasformare l’umano in forza-lavoro astratta, incorporata nella magia della merce, ovvero nel riconoscimento dell’unico valore nello scambio, e dunque è refrattario a qualsiasi ordine a-priori di provenienza sociale, che tende a sostituire con un ordine stabilito nella metrica del valore di scambio. Come abbiamo già detto, rispetto a questa metrica è del tutto accidentale se si sia maschi o femmine, la Christine Lagarde, come Hillary Clinton o Angela Merkel, possono servire l’accumulazione del capitale e lo scontro di potenza altrettanto bene di Mario Draghi, Donald Trump o Emmanuel Macron. Chiamarle “sorelle” non muta la realtà.
    Anzi, si potrebbe sostenere, con qualche solidità che il capitalismo, in particolare nella forma determinata nel post-fordismo, nella cui transizione nasce la ‘seconda ondata’, dissolva le forme patriarcali perché non più utili alla messa a valore delle donne e uomini (ma anche dei bambini) che passa principalmente per il loro valore come consumatori [9]. È in connessione a questa mutazione che Antony Giddens, ad esempio, definisce la modernità come ordine sociale de-tradizionale nella quale acquista centralità, per chi se lo può permettere, il ‘progetto riflessivo del sé’ e la libertà di scegliersi il proprio stile di vita [10].
    Oppure Ronald Inglehart[11], sulla base di una vasta analisi di campo, individua nel passaggio tra gli anni sessanta ed ottanta una mutazione profonda che vede: la “fine dell’età protestante”, e dei valori materialisti ad essa connessi, il cedimento della razionalità strumentale in favore di una nuova enfasi sulla qualità della vita, dunque l’insorgere di nuove tabelle dei valori (tolleranza, accettazione delle minoranze, della sessualità, dell’aborto e divorzio, …) rispetto a quelli tradizionali (lavorare sodo, denaro, Stato, autorità, famiglia). L’insorgere di valori “post-materialisti” fanno retrocedere in tutto il mondo il voto di classe e il doppio slittamento del ceto medio verso sinistra (sulla base della tabella dei valori progressisti) e dei ceti popolari verso destra (in chiave difensiva, sulla base di valori ancora ‘materialisti’, nel crescere della ineguaglianza).

    Apro un’altra divagazione. Pier Paolo Pasolini, che come noto muore tragicamente nel 1975, soprattutto a partire dal 1968 riflette profondamente sulla ‘mutazione antropologica’ che vede essere in corso nella società a lui contemporanea. Nell’ambito di questa riflessione-denuncia, particolarmente orientata ai giovani che da una parte acquistano nuove libertà sessuali, dall’altra sono strumento di un potere passivo (in quanto dominate dal potere economico).
    Nelle “Lettere luterane” e negli “Scritti corsari”[12], Pasolini a più riprese denuncia il consumismo come il nuovo fascismo del suo tempo e l’ambivalenza della liberazione. Si può dire che la dinamica dei consumi, che incorpora tutto dell’umano, vede anche le ragazze, i loro corpi e il coito “che è politico”, come strumento di potere che favorisce la conservazione dell’ordine sociale preordinato ad una adesione a modelli che è “totale e incondizionata”. Negli “Scritti corsari” afferma che “si può affermare che la ‘tolleranza’ della ideologia edonistica voluta dal nuovo potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana. … il Centro ha assimilato [tramite i media] a sé l’intero paese, che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè -come dicevo- i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un ‘uomo che consuma’, ma pretende che non siano concepibili altre ideologia che quella del consumo, un edonismo neolaico, ciecamente dimentico di ogni valore umanistico e ciecamente estraneo alle scienze umane” [13]. Dunque la religione, la forma di vita tradizionale, è soppiantata dal Giovane Uomo e dalla Giovane Donna che “avvalorano la vita solo attraverso i suoi Beni di consumo”. Ancora, “i ‘ceti medi’ sono radicalmente -direi antropologicamente- cambiati: i loro valori positivi non sono più i valori sanfedisti e clericali ma sono i valori (ancora vissuti solo esistenzialmente e non ‘nominati’) dell’ideologia edonistica del consumo e della conseguente tolleranza modernistica di tipo americano”[14].
    Questa mutazione “ha cambiato i caratteri necessari del Potere. La cultura di massa, per esempio, non può essere una cultura ecclesiastica, moralistica e patriottica: essa è infatti direttamente legata al consumo, che ha le sue leggi interne e una sua autosufficienza ideologica, tali da creare automaticamente un potere che non sa più che farsene di Chiesa, Patria, Famiglia e altre ubbìe affini”[15]. Lo scopo, dice poco dopo, è “l’omologazione brutalmente totalitaria del mondo”.

    Torniamo un attimo all’articolo della Teghil, aveva chiuso dicendo che il capitalismo ha “assunto e perfezionato” (non creato, ovviamente) una struttura di ruoli sessuali precisi, la donna a riprodurre e curare, l’uomo a lavorare, impostati gerarchicamente, e ne conclude, che negli anni settanta:

    “Tutte le donne, quindi, avevano un nemico comune, gli uomini, perché erano quelli a cui era stato affidato il compito di pretendere e far assolvere alle donne il compito sociale per loro costruito.L’asservimento del genere femminile era ed è trasversale alle classi sociali, seppure declinato in maniera diversa per ogni classe o frazione di classe.
    La consapevolezza politica di cosa fosse il patriarcato e la presa di coscienza della sua natura strutturale aveva portato anche al separatismo”.

    Prendendo questa linea, di ricostruzione storico-politica che propone di essere accettata come discorso di verità, disvelante, la Teghil propone dunque in senso proprio di considerare una frattura essenziale, determinatrice del conflitto e quindi anche della vicinanza, nella questione di genere e non nella questione di classe.
    L’oppressione delle donne sarebbe strutturale alla società capitalista, necessaria a farla funzionare in quanto capitalista (non in quanto residuo privo della funzione di un passato che in parte tarda a passare [16]), e quindi da questo lato pone la questione del suo superamento.

    “E qui dobbiamo aprire una piccola parentesi su cosa si intenda per strutturale, una parola di cui il femminismo riformista continua a riempirsi la bocca dicendo che l’oppressione sulle donne è strutturale perché si riconosce e si ritrova in ogni ambito della società. Invece è proprio il contrario. L’oppressione sulle donne si ritrova in ogni ambito della società perché è strutturale. E, quindi, la risposta a cosa significhi strutturale viene mistificata e non viene data. Dovrebbero svelare che il patriarcato è un modello economico che il capitalismo ha assunto e di cui l’aspetto culturale è solo la conseguenza, che il patriarcato è un modello organizzato per un ottimale sfruttamento e che per questo i ruoli sessuati maschili e femminili sono estremamente specializzati, che è un modello impostato sulla gerarchia, sul possesso, sul dominio e che quindi è impensabile destrutturare il concetto di proprietà fisica, affettiva, economica nello specifico del nostro sfruttamento senza porsi il problema di destrutturarlo nella società tutta. E questo vale, naturalmente, anche per la gerarchia e per il dominio che si basano sulla filiera meritocratica tanto cara al neoliberismo”.

    Ma qui, in questo passaggio per certi versi anche condivisibile si deposita la contraddizione sulla quale insiste sempre Marchi: se l’oppressione deriva dai rapporti sociali di base, come la proprietà “fisica, affettiva, economica” e la “gerarchia e dominio” basati sulla “filiera meritocratica”, allora la questione di genere la attraversa trasversalmente, perché la vera questione dirimente è di classe.

    A meno di voler sostenere, davvero, che Lagarde, Clinton e Merkel non dispongano di proprietà, non ne controllino i poteri, non determinino gerarchie e domini in quanto donne. O che lo facciano solo perché non sono aderenti ad un modello del femminile che in sé è estraneo a ciò.
    Assumere la ‘sorellanza’ insieme alla questione di classe, a ben vedere, dissolve la prima. Semplicemente.

    Il punto mi sembra che sia chiaro all’autrice, ma fatica a nominarlo. Il “taglio netto” che chiede dovrebbe forse tagliare troppo.

    Il libro di Fabrizio Marchi ha il merito di porre con grande forza e coraggio queste questioni. Di individuarle quali temi dirimenti per comprendere quanto in profondità sia andata la rivoluzione neoliberale entro le nostre società. Quindi la questione del femminismo [17], delle lotte gender [18], di utero in affitto e adozioni [19], dell’immigrazione [20] diventano oggetti da sottoporre a critica politica per ripensare la fase trionfale del capitalismo maturo nella quale siamo vissuti.

    La tesi forte è, come detto, che si tratta di versioni della stessa ideologia, funzionale allo stato della tecnica e sostitutiva (come vedeva Pasolini) del vecchio Dio-Stato-Famiglia, ormai obsoleto e disfunzionale. Si tratta, dunque, di una ‘falsa coscienza’ e del nuovo orizzonte del capitalismo, che trova la sua forza nel ‘senso di colpa’ [21] e produce una società liquida, composta di monadi ‘non sociali’ la cui debolezza non offre resistenza alla totale mercificazione del mondo.
    Non si tratta di un progetto, anche se qualche passaggio del libro potrebbe dare l’impressione di una antropomorfizzazione del capitalismo, ma di un adattamento alle forze spontanee, in particolare da quando la controforza del socialismo è venuta meno.

    Oggi, dice giustamente Marchi, il potere passa per il controllo delle menti e delle informazioni, non per la vecchia forza bruta, passa per la capacità di valorizzarsi dei corpi (come anche Pasolini vedeva), e in questo spesso non è scontato chi sia in quale posizione [22].

    Certo, come ho risposto sulla pagina di “Sinistrainrete” in calce al post di Elisabetta Teghil, sicuramente tutti i movimenti riconducibili alla sinistra [23], da quelli francamente liberali [24], a quelli della sinistra liberale [25], a quelli della sinistra radicale post-comunista [26], a quelli della sinistra libertaria [27] e antagonista [28], sono compromessi con le vaste infiltrazioni di un pensiero di provenienza liberale che parte dall'accettazione, almeno di fatto, del capitalismo. Un fenomeno generale e davvero profondo.
    Ma se si finisce per sostenere, in sostanza, che dell'umanità interessa solo il genere femminile e che solo questo necessita di emancipazione, si perde la grandissima parte del movimento dei lavoratori, chiamandosi completamente fuori di tutte le sue tradizioni ed eredità. Se si finisce per considerare 'avvelenata' un'opinione solo perché proveniente da un essere umano al quale è capitato di nascere dal lato sbagliato, si inseriscono separazioni non necessarie, che, si sarebbe detto una volta, ‘dividono la classe’ e dunque compiono opera per l’avversario.
    Certo nessuno può condannare un vasto movimento solo perché partecipa dello spirito del tempo, ma dal tempo che ha visto nascere, secondo quel che scriveva Bauman, il ‘secondo’ femminismo liberaleggiante stiamo uscendo [29], dunque oggi possiamo finalmente rivedere i nostri passi (di tutti) riconoscendo con il senno del poi il sentiero percorso.

    Oggi dobbiamo riconoscere, anche se può far male, che uno degli spiriti incorporati nei movimenti di autoespressione, di liberazione, di self-help, di rivendicazione dei diritti, che sono usciti dalla crisi terminale del socialismo (dunque negli anni 60 e 70), e ciò non in riferimento solo al femminismo tutto, ma a tutti i movimenti, lo possiamo riconoscere come liberale. Possiamo vedere meglio come essi partecipino dello spirito del tempo, ovvero dell'individualismo, dell'emergere di una società edonista e dedita al consumo, che valorizza il desiderio più che il dovere e il legame sociale. Possiamo prestare occhio alla sincronia con la quale, in particolare per chi lo ha vissuto, mentre il più largo movimento dei lavoratori subiva sconfitte decisive, e scontava riallineamenti e veri e propri tradimenti, le energie di tante e tanti generose/i compagne e compagni si sono rivolte a battaglie di modernizzazione rivolte contro strutture oppressive che lo stesso capitalismo post-fordista, fondato sull'informazione, rendeva obsolete.

    Il libro di Marchi ha questo grande merito, anche con qualche asprezza qua e lì: mette sotto lo sguardo simmetrie evidenti (ripeto, non specifiche del movimento femminista), in particolare nel susseguirsi del tempo e degli eventi, tra il sorgere ed affermarsi di alcuni discorsi e movimenti e la progressiva cattura nell'alveo di un discorso del 'politicamente corretto' che è riconoscibile fondamentalmente come discorso liberale [30].

    Piano piano, in altre parole, abbiamo perso di vista, in favore di linee di frattura identitarie, le più varie, quello che è l'ordinatore essenziale della nostra società: il capitalismo.

    E abbiamo continuato a guardarlo con occhi vecchi, senza capire che questo, cambiando, aveva ora bisogno proprio dei discorsi che andavamo a fare.

    Se si guarda in questo modo, con questo sguardo, fratellanza e sorellanza sono parenti. Siamo proprio tutti dalla stessa parte nella lotta che conta: quella contro la disumanizzazione che il capitale, nella sua essenza astratto ed indifferente, porta nelle nostre vite.

    Tutte.



    NOTE

    [1] - La formula, di grande successo, è usata da Marchi con espresso riferimento, una delle poche citazioni dirette di un libro con taglio giustamente giornalistico a Zygmunt Bauman.
    [2] - Uso questo termine, come l’autore, entro la tradizione marxista, per una lettura entro la tradizione francofortese, ma rivitalizzante alcuni temi originari si può leggere il bel libro di Rahel Jaeggi, “Forme di vita e capitalismo”, che costruisce un interessante e pertinente concetto di “critica immanente” secondo una riformulazione pragmatista del modello hegeliano della ‘negazione determinata’. Secondo il suo punto bisogna riconoscere che il tipo di vita che la forma capitalista (nel quale il “lavoro astratto” è separato e scambiato nel libero mercato, determinando un tipico rapporto con il mondo e con se stessi, insomma una specifica “persona” funzionale) determina una vita “in senso lato brutta o alienata; impoverita, senza senso o vuota” (p.111). Forme di questa critica sono la “reificazione” (Versachlichung), l’impoverimento qualitativo delle relazioni vitali, già diagnosticato da Sombart in “Il capitalismo moderno” e da George Simmel in “Filosofia del denaro”. Mercificazione, mercatizzazione, strumentalità, avidità istituzionalizzata, e dinamismo sono facce della medaglia. Si può leggere Benjamin nel frammento “Il capitalismo come religione”, o Mauss in “L’economia del dono”, o “La nozione di persona”, o Sahlins in “Un grosso sbaglio”. Come dice la Jaeggi: “il fatto di concepire le cose come alienabili, intercambiabili e sostituibili con altri beni (e rispetto al medium comune del denaro) genera una concezione assai peculiare degli oggetti, delle relazioni e delle capacità” (p.113).
    [3] - Il capitale, forma astratta del valore per eccellenza, è una contraddizione in se stesso. Da una parte è agente potentissimo di modernizzazione e dissoluzione delle forme tradizionali non più idonee alla sua costante autovalorizzazione, al suo “movimento automatico”. Nel farlo determina il predominio delle ‘cose morte’ (del ‘lavoro morto’) sulla vita (sul ‘lavoro vivo’), e ottiene l’affrancamento dai vincoli e dalle strettezze dell’uomo tradizionale, dalla gerarchia e anche quindi dal patriarcato, dagli ordini tradizionali, al prezzo di rendere l’uomo oggetto/soggetto astratto ed in lotta permanente, fondato interamente su quella socializzazione non socievole propria del liberalesimo e del suo “potenziale di barbarie”. Senza ricadere in una assurda (e questa sì accusabile dal punto di vista femminista) trasfigurazione romantica di società precapitaliste, fondate su ordine e gerarchia, bisogna riconoscere che nel capitalismo, e nella società contemporanea, la barbarie si fa strutturale ed è riprodotta non tanto da antiche strutture fossili, residualmente presenti, quanto dalla concorrenza cieca dei mercati e dalla razionalità della gestione di impresa resa da questi necessaria. È in effetti solo la conseguenza ultima della concorrenza universale e permanente e della ubiquità dei rischi e dei legami che creano. Qualunque “libertà” è vuota e produttrice di “falsa coscienza” se manca dei mezzi per esprimersi. Era, in sostanza, anche la critica alla ‘mutazione antropologica’ connessa con l’espansione del consumismo nei ceti popolari durante gli anni settanta di Pasolini.
    [4] - Il termine rinvia a Pietro Barcellona.
    [5] - Anche se concentrato sul tema del multiculturalismo, per una trattazione del “politicamente corretto”, si può leggere Johnathan Friedman, “Politicamente corretto”, mentre per una lettura storico-politica, Mark Lilla, “L’identità non è di sinistra”.
    [6] - Per la tradizione marxista la ‘falsa coscienza’ è una rappresentazione falsa di cui chi la produce non ha consapevolezza. Non comprende le forze motrici che spingono il suo pensiero.
    [7] - Zygmunt Bauman, “Vite che non possiamo permetterci”, p.49.
    [8] - Non è certamente l’unica, si veda ad esempio Nancy Fraser, “Modaiolo e neoliberista: il femminismo ci ha tradite”, o la stessa in “Come il femminismo divenne ancella del capitalismo”, nel quale individua tre specifiche dimensioni nelle quali il femminismo ha funzionato nella direzione di sostenere la trasformazione neoliberale. Si può anche vedere l’articolo di Carlo Formenti “Contro il femminismo di regime”, nel quale vengono criticate sia la posizione di “cattivo universalismo” del femminismo liberale, sia quella di “cattivo relativismo” dei gender studies. Il primo ha semplicemente slittato la posizione della classe operaia come ‘soggetto rivoluzionario’, del marxismo ingenuo, nel genere femminile, chiamato a salvare l’umanità tutta. La seconda posizione estremizza l’individualismo, secondo la linea indicata da Giddens. Formenti predilige posizioni come quella della Fraser, o di “Non una di meno” che, a suo parere, riattivano la vocazione anticapitalista del femminismo prima maniera. A questa posizione Fabrizio Marchi risponde in “Il femminismo è solo uno”.
    [9] - Sotto questo profilo il nuovo movimento femminista (in realtà un insieme eterogeneo di movimenti di varia ispirazione) negli USA degli anni sessanta, è sincrono con il boom economico e la crescita della società dei consumi con il suo spirito libertario e la liberazione del desiderio. Quindi in Italia arriva negli anni settanta finali, quando il movimento dei lavoratori subisce sconfitte decisive, ma molteplici battaglie di modernizzazione dalle oppressive strutture tradizionali prendono il largo.
    [10] - Dunque “in un universo sociale post-tradizionale, organizzato riflessivamente, permeato da sistemi astratti, e nel quale la riorganizzazione di tempo e spazio ricollega il locale con il globale, il sé subisce una grande trasformazione”, si determina sul terreno esistenziale della vita una linea di sviluppo auto-referenziale, soggetta alla possibilità e necessità della scelta (dunque del rischio). Cfr, Anthony Giddens, “Identità e società moderna”, p.105.
    [11] - Si veda, Ronald Inglehart, “La società postmoderna”, in particolare tabella p.117 e implicazioni politiche p.309 e seg.
    [12] - Per una lettura complessiva si veda “Pier Paolo Pasolini”.
    [13] - Pier Paolo Pasolini, “Scritti corsari”, p. 23
    [14] - Ivi, p. 40
    [15] - Ivi, p.41
    [16] - E, ovviamente, va fatto passare. Ma questa sarebbe una “questione femminile”, come nel caso del primo femminismo, quello della figlia di Marx, che non metteva in questione la separazione di classe che la divideva da una grande signora londinese, non pensava di avere gli stessi interessi fondamentali. Al massimo dalla signora poteva andare a servizio, dentro una struttura gerarchica indicata dal capitale e non dal sesso.
    [17] - Cfr. sessismo e interclassismo, pag. 33; femminismo e capitalismo p. 232; femminismo e diritti civili, p. 236; femminismo della differenza, p. 315; genderismo, p.332.
    [18] - A pag. 160.
    [19] - A pag. 184.
    [20] - A pag. migrazioni e depistaggi p. 87-9; come affrontarla, p. 94.
    [21] - A pag. 129 e 261, su questo meccanismo di base vedi anche Friedman, op.cit.
    [22] - Vedi: struttura e sovrastruttura, p.222; identificazione nel lavoro p. 289; forza bruta, p. 336, 350; psichico come fattore produttivo, p.45.
    [23] - Anche se con grandi differenze che vanno comprese e rispettate.
    [24] - Come quelli che raccolgono l'eredità, già problematica, del Pci-Pds-Ds, del Psi e della Dc, fondendoli malamente in un progetto nato tardi ed esplicitamente interclassista e centrista.
    [25] - Come i Verdi.
    [26] - Rifondazione Comunista.
    [27] - Sinistra Ecologia e Libertà.
    [28] - La galassia dei centri sociali.
    [29] - Il liberalesimo sta mostrando con evidenza che la liberazione promessa è veicolo di oppressione a causa del potere astratto, asessuato, e dissolvente del capitale che libera esattamente da ogni particolarismo e da ogni socializzazione.
    [30] - Per questa distinzione si può utilmente vedere anche le opere di Jean-Claude Michéa, in particolare “I misteri della sinistra”, “Il nostro comune nemico”, “Il vicolo cieco dell’economia”.

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  5. #25
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    LIBERARSI DAL NEOLIBERISMO
    di Enrico Gatto
    [ 22 gennaio 2019 ]



    «Tenerli sotto controllo non era difficile. Perfino quando in mezzo a loro serpeggiava il malcontento (il che, talvolta, pure accadeva), questo scontento non aveva sbocchi perché privi com’erano di una visione generale dei fatti, finivano per convogliarlo su rivendicazioni assolutamente secondarie. Non riuscivano mai ad avere consapevolezza dei problemi più grandi». [George Orwell, 1984]».

    * * *


    Il neoliberismo, che è la base economica del moderno capitalismo assoluto (speculativo- finanziario), va necessariamente compreso per inquadrare le attuali dinamiche socio- politico-economiche e poiché costituisce quello che viene definito Pensiero Unico (che sostiene il primato dell’economia sulla politica).

    In parole povere si tratta della dottrina economica (cui corrisponde, ovviamente, un’inscindibile ideologia politica) all’origine di tutti i nostri problemi e, semplificando, altro non è che la coronazione di un progetto di restaurazione del potere di classe da parte della “classe dominante” (risalente già agli anni venti del novecento ma iniziato ad attuarsi negli anni settanta); è la reazione delle élite che tanto avevano perso in termini di potere e di ricchezza nell’età contemporanea e soprattutto nei “trenta gloriosi” successivi al secondo dopoguerra (quando le costituzioni “socialiste” associate alle politiche economiche keynesiane avevano portato benessere ai popoli e forza alle democrazie, tanto che nello studio Crisi della Democrazia del 1975 commissionato dalla Trilaterale si parlava della necessità di apatia e spoliticizzazione delle masse e di indebolimento del sindacato a causa di un pericoloso “eccesso di democrazia” da risolvere anche con l’introduzione di tecnocrazie).


    Friedrich A. Vov Hayek

    Quindi, partendo dalle teorie di Von Hayek e con la Scuola di Chicago di Friedman, andò imponendosi in campo accademico questo nuovo pensiero (grazie, tra le tante, alla influente Mount Pelerin Society fondata già nel 1947 da Hayek con l’intento di aggregare varie personalità del mondo intellettuale al fine di ridiscutere il liberalismo classico della mano invisibile di Adam Smith). Essi contestarono il compromesso keynesiano del liberismo espansivo con intervento statale (l’embedded liberalism della piena occupazione e della redistribuzione della ricchezza) e suggerirono di passare alla deregulation, a politiche di tagli alla spesa sociale, alle privatizzazioni (degli utili e socializzazione delle perdite), alla finanziarizzazione dell’economia, al monetarismo, all’austerità, alla deificazione del Mercato e quindi alla definitiva sottomissione dello Stato e della Politica agli interessi economici dei potentati privati. Il tutto andò in porto grazie alla diffusione a reti unificate del nuovo credo tramite le “categorie previane” del circo mediatico, del clero giornalistico ed accademico e del ceto intellettuale (che, con la sintassi di Bourdieu, è da sempre il gruppo dominato della classe dominante). Si iniziò dal “test pilota” dopo il golpe di Pinochet in Cile del ’73 e, poi, nei primi ’80, dai governi occidentali di Thatcher, Regan, Mitterrand e Kohl per arrivare al capolavoro degli arbitrari parametri di Maastricht (fulcro dell’ordoliberismo) e della moneta unica europea a cambio fisso con banca centrale indipendente (e, sostanzialmente, privata). Fin da allora la distribuzione di ricchezza avrà un’inversione di tendenza ed andrà concentrandosi sempre più nelle mani di quella che è di fatto un’oligarchia finanziaria che non fa che portare avanti programmi a proprio vantaggio e a detrimento dei popoli (vedasi dati oggettivi sulla sperequazione crescente).

    Ciò che si è riassunto in poche righe va contestualizzato all’epoca ed è “solo” la lotta di classe dopo la lotta di classe (Gallino) ovvero la ribellione delle élite (Lash); è l’operato di un gruppo, dell’1%, che fa i propri interessi a spese di un altro, quello del 99% (come è lecito, anche se non etico). Il problema è stata la mancata risposta delle “classi subalterne” e dei loro rappresentanti (politici e sindacali) che non hanno saputo interpretare e comprendere i fatti e tendono a non vederli o capirli tuttora (alcuni “stupidamente”, altri in malafede, sia a sinistra che a destra con l’esaurimento della storica dicotomia).

    Bisogna liberarsi dei mantra che abbiamo introiettato: quelli del There Is No Alternative (Thatcher), dell’ineluttabile fine della storia (Fukuyama) e del “siamo vissuti al di sopra delle nostre possibilità”; in realtà tutto è frutto di scelte politiche ed economiche deliberate e pianificate, il sistema socio-economico nel quale viviamo non è un fatto naturale ed irriformabile e, in quanto tale, non è necessario subirlo, basta pensare ed agire altrimenti (poiché, parafrasando Einstein, non si può risolvere un problema con la stessa mentalità che l’ha generato). Purtroppo però le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti (Marx).



    Per giungere ad un cambiamento è necessario arrivare ad una “massa critica” di persone consapevoli che comprendano che è in atto una “guerra” (la mai estinta contrapposizione hegeliana servo-signore) e che si compattino riconoscendo il “nemico” comune da combattere (che personalmente, credo a ragione, ho identificato appunto nel neoliberismo e nelle sue ricadute politiche e sociali).

    Dal sistema economico vigente scaturisce l’onnipervasivo e catechizzante Pensiero Unico nel quale si innervano tutte le esiziali logiche sociali hobbesiane della competizione, dell’homo homini lupus, del mors tua vita mea, del do ut des, del narcisismo individualista, dell’egoismo, dell’edonismo, del materialismo, del consumismo e della spietatezza di cui è malata la nostra società nichilistica egocentrata le quali ci rendono “schiavi perfetti” poiché il velo di Maya (Schopenhauer) ci rende incapaci di vedere le nostre “pastoie” e, quindi, impossibilitati a liberarcene.

    All’interno di quel coagulo di interessi economici e di valori culturali e morali (il blocco storico di gramsciana memoria) appare chiaro come il pensiero economico egemone abbia influito cambiando la società che, come propugnava la Thatcher, davvero non esiste più, esistono solo gli individui: non più una comunità di animali sociali (Aristotele) ma una massa di homines oeconomici, di imprenditori di sè, di monadi, la cosiddetta modernità liquida di Bauman (prodromici furono i movimenti sessantottini e successivamente, grazie al neoliberismo ed alla sua sovrastruttura, il “politicamente corretto”, l’attenzione è stata sempre più focalizzata sui sacrosanti diritti individuali e civili a spese però di quelli collettivi e sociali).

    Perciò, dunque, occorre una rivoluzione culturale che può partire solo da chi ha una propria coscienza infelice (Hegel) rifuggendo dalla crematistica e ritornando all’equilibrio e quindi ai concetti di misura e limite come ci insegnano gli antichi greci (oltre che tornare all’applicazione della Costituzione del 1948).

    Rimane un unico ostacolo che Platone conosceva fin da 2400 anni fa: l’eventuale “liberatore” verrà dapprima deriso e finanche ammazzato da quelli in “catene”: è davvero eloquente ed attuale il mito della caverna in cui Platone descrive come una realtà mediata e manipolata viene invece percepita come “verità” dagli sventurati protagonisti che, poiché nati in cattività, non possono immaginare un’esteriorità rispetto alla caverna nella quale sono imprigionati e quindi, non sapendosi schiavi ingannati, tantomeno ambire alla libertà.

    * Fonte: ALETHEIA

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  6. #26
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    LA RIVOLUZIONE NAZIONALPOPOLARE
    di Carlo Formenti
    [ 22 marzo 2019 ]



    Da un mese in libreria, per i tipi di Meltemi, l'ultima grande fatica di Carlo Formenti, Il socialismo è morto, viva il socialismo.
    Un libro importante e imperdibile, per numerose ragioni. Al centro dell'indagine, oltre alla crisi del socialismo, la questione del populismo, sviscerata in lungo ed in largo. Speriamo presto di tornare su questo libro con una recensione critica che metta in evidenza i punti forti (molti) e deboli (pochi) del discorso di Formenti. Qui sotto quella che consideriamo una parte saliente del libro: le 22 TESI SU POPOLO, NAZIONE, STATO E SOCIALISMO.
    Vale segnalare, oltre al seminario teorico sul populismo che svolgemmo come P101 nel luglio 2016, alcuni contributi sulla questione del populismo apparsi negli anni recenti su SOLLEVAZIONE:

    IERI LA CLASSE OGGI IL POPOLO LAVORATORE di Mario Tronti
    POPULISMO O MUERTE di Moreno Pasquinelli
    PER UN POPULISMO DI SINISTRA di Carlo Formenti
    MANIFESTO PER UN POPULISMO DEMOCRATICO (Senso Comune)
    POPULISMO: IN RISPOSTA AI POST-OPERAISTI di Carlo Formenti
    LA VARIANTE FORMENTI di Mimmo Porcaro
    ELEMENTI DI STRATEGIA POLITICA POPULISTA di Moreno Pasquinelli
    LACLAU, IL PERONISMO ED IL POPULISMO di Damiano Palano


    * * *
    22 TESI SU POPOLO, NAZIONE, STATO E SOCIALISMO
    1
    Il populismo non è un’ideologia: in primo luogo perché non esistono testi “fondativi” (paragonabili a quelli di Marx per la sinistra) in grado di attribuire forma coerente e unitaria al discorso populista, poi perché quest’ultimo non è associato a contenuti programmatici univoci. Di più: il fenomeno ha assunto nel tempo forme diversissime, dai populismi russo e americano di fine Ottocento-primo Novecento (entrambi caratterizzati da radici di classe contadine, ma diversi sul piano ideologico) ai populismi latinoamericani di ieri (Peron, Vargas e altri) e oggi (le rivoluzioni bolivariane in Bolivia, Ecuador e Venezuela) con prevalenti connotati nazionalisti i primi, orientati al socialismo i secondi, per finire con i populismi contemporanei di destra e sinistra negli Stati Uniti (Trump vs Sanders) e in Europa (Le Pen vs Mélenchon in Francia, Podemos vs Ciudadanos in Spagna). Esistono tuttavia elementi comuni, a partire dallo stile comunicativo[1]. Mi riferisco, in particolare, all’uso di un linguaggio semplificato e diretto, marcato da un elevato contenuto emotivo (ciò che si dice parlare alla “pancia” delle persone) e teso a istituire opposizioni bipolari (noi/loro, popolo/élite, alto/basso ecc.). Per i populisti è inoltre fondamentale raccontarsi come una forza politica del tutto nuova, evitando di ricorrere a parole, idee e categorie proprie dei partiti tradizionali (di destra come di sinistra) e tentando invece di promuovere nuovi significanti in grado di creare un inedito senso comune (di qui il frequente riferimento alla categoria gramsciana di egemonia da parte di intellettuali e leader populisti di sinistra).

    2
    Il popolo che i populisti aspirano a rappresentare non è un’entità “naturale”, preesistente all’insorgenza del loro discorso politico (a differenza del popolo evocato dal nazifascismo, che rinvia a radici comuni di tipo etnico, razziale, antropologico, storico-culturale ecc.). Si tratta al contrario d’una costruzione politica resa possibile dalla crisi catastrofica di un sistema di potere consolidato. Il “momento populista” sorge quando una determinata formazione egemonica (come il sistema liberaldemocratico) non è più in grado di far fronte alla proliferazione di domande sociali che restano insoddisfatte.
    L’accumularsi di istanze cui il sistema non riesce più a rispondere in modo differenziale fa sì che, fra tutte queste richieste inascoltate, si stabilisca una relazione di equivalenza trasversale che tende ad accomunarle. È appunto questa relazione a generare le condizioni per l’emergenza di un popolo, che altro non è se non l’insieme dei soggetti associati da una relazione antagonista nei confronti dell’oligarchia che concentra nelle proprie mani il potere economico, politico e mediatico. In altre parole, si potrebbe dire che è solo attraverso la relazione con un sistema di potere vissuto come nemico che si costituisce l’identità di un popolo. L’unità politica del popolo, in quanto insieme eterogeneo di settori che vivono una contraddizione antagonistica con il potere, non è a sua volta un dato: è essa stessa il prodotto di un progetto di costruzione politica. Il “colore” di tale progetto dipende da quale delle domande insoddisfatte riesce a imporsi come egemone, cioè ad assumere il ruolo di incarnare/rappresentare la totalità delle altre. Muta, per esempio, in relazione al prevalere della domanda di sicurezza (per esempio protezione dai flussi migratori) o della domanda di uguaglianza e giustizia sociali ed economiche (protezione dagli effetti del processo di globalizzazione). Il peso relativo che il programma di una formazione populista attribuisce a tali domande è uno dei fattori che consente di distinguere fra populismi di destra e di sinistra.

    3
    Le sinistre tradizionali (socialdemocratiche e radicali) negano a priori che possano esistere populismi di sinistra, al punto che fanno un uso spregiativo dell’aggettivo populista come sinonimo di reazionario (o addirittura fascista). C’è chi ha giustamente commentato che populista è l’aggettivo cui la sinistra ricorre per designare il popolo quando quest’ultimo smette di accordarle fiducia. Dopodiché esistono molti criteri per distinguere fra populismi di destra e sinistra: i primi rappresentano il popolo come insieme della “gente comune”, i secondi come insieme degli strati inferiori della popolazione; i primi si propongono di “sanare” l’ordine politico strappandone il controllo alla “casta”, senza metterne in discussione le strutture sociali e istituzionali, i secondi rivendicano obiettivi anticapitalisti più o meno espliciti e radicali e si propongono di democratizzare lo Stato. Non si può tuttavia negare che esistano zone grigie in cui le visioni si sovrappongono: dall’opposizione fra localismo e cosmopolitismo a quella fra valori comunitari e individualismo borghese, all’atteggiamento critico nei confronti dell’esaltazione del nuovo e della modernità.

    4
    Anche se e quando riconoscono l’esistenza di populismi di sinistra, le sinistre tradizionali ne contestano la rappresentazione del popolo come totalità che prescinde dalle divisioni di classe (vedi la critica all’ingenuo slogan del movimento Occupy Wall Street, che contrappone l’1% dei super ricchi al 99% di tutti gli altri). Qui entra in gioco un nodo cruciale, che occorre sciogliere se si vuole cogliere l’essenza del fenomeno populista come forma della lotta di classe nell’era del capitalismo globalizzato e finanziarizzato. Le ambiguità ideologiche del populismo sono inevitabili nella misura in cui esprimono ampie alleanze fra classi sociali, a loro volta incerte sulla propria identità, nonché prive di autonomia politica e autocoscienza. La grande narrazione marxista si è sempre fondata sulla ricerca di un soggetto rivoluzionario privilegiato. Tale ricerca suona anacronistica in un’epoca in cui ristrutturazione capitalistica, delocalizzazioni produttive, globalizzazione e finanziarizzazione dell’economia, annientamento delle rappresentanze tradizionali degli interessi proletari hanno causato una stratificazione delle classi subalterne, fino a ridurle ad amorfo insieme di individui. In tale contesto la classica contraddizione fra capitale e lavoro sembra lasciare il campo alla contraddizione capitale contro tutti. In effetti, è questa la filosofia che ispira la categoria postoperaista di “moltitudine”, fondata sulla tesi che il capitalismo contemporaneo mette al lavoro la vita stessa. Ma tale visione ha il difetto di riproporre la logica della definizione di un Soggetto salvifico della rivoluzione: la si potrebbe descrivere come il tentativo di estendere l’identità operaia all’umanità intera. La logica gramsciana della costruzione di un blocco sociale articolato su differenti classi, gruppi e identità collettive appare assai più realistica. Nella versione del populismo di sinistra tale logica assume una coloritura “plebea”, nella misura in cui l’analisi della composizione di classe viene di fatto ricondotta alla distinzione fra tre grandi “stati” postmoderni: oligarchi, classe media e un gigantesco terzo Stato composto da tutti i perdenti della globalizzazione. Di conseguenza, l’obiettivo diventa costruire il blocco sociale fra terzo Stato e classi medie impoverite e/o minacciate dalla globalizzazione (per esempio, piccoli-medi imprenditori). Per concludere: costruire l’unità popolare significa organizzare il potere della plebe nel momento storico in cui i vecchi strumenti del movimento operaio non funzionano più.

    5
    Un altro aspetto del populismo che irrita le sinistre è l’impossibilità di fare a meno della figura di un leader carismatico. Queste forze presentano un contraddittorio miscuglio di democraticismo (contingentamento dei tempi di intervento nelle assemblee, reversibilità delle cariche, vincolo di mandato per gli eletti a cariche istituzionali, esaltazione della Rete come canale di partecipazione democratica ecc.) e centralizzazione del ruolo di direzione politica che, quasi sempre, si concentra nelle mani di un leader e del “cerchio magico” dei suoi più stretti collaboratori e consiglieri. Premesso che l’esaltazione del leader è un elemento ricorrente anche nella storia del movimento operaio, alcuni suggeriscono che sia possibile distinguere fra populismo di destra e di sinistra proprio a partire dalla rappresentazione del leader, il quale è, per il primo, un uomo dotato di virtù eccezionali che si eleva al di sopra della massa, per il secondo un uomo dotato di qualità non comuni ma non diverso dall’uomo comune, un primus inter pares. Non credo però che il vero problema sia questo. Il punto è che tanto l’esaltazione del leader quanto quella della democrazia diretta e partecipativa rispecchiano la natura di forze politiche che sono partiti-movimenti scarsamente istituzionalizzati. È possibile che questa struttura rifletta una fase sperimentale e transitoria nel percorso di ricerca di soluzioni organizzative e istituzionali alla crisi della democrazia rappresentativa. Che le istituzioni liberali si siano trasformate in regimi postdemocratici, svuotando di senso qualsiasi reale possibilità dei cittadini di condizionare le scelte del potere, è un dato di fatto. Tale evoluzione può essere descritta come una sorta di divorzio fra tradizione liberale e tradizione democratica (a sua volta riflesso del divorzio fra democrazia e mercato). L’articolazione fra la prima (fondata sul governo delle leggi, sulla libertà individuale e sui diritti umani) e la seconda (fondata sulla sovranità popolare e sui principi di uguaglianza e di parità fra governanti e governati) si sta rivelando come il prodotto contingente di una fase storica in via di esaurimento. Se le cose stanno così, è evidente che il populismo, con tutti i suoi limiti e contraddizioni, rappresenta l’unico concreto tentativo di reintrodurre l’elemento democratico negli attuali sistemi rappresentativi.

    6
    Che la globalizzazione sia l’esito di una tendenza di sviluppo “oggettiva” del modo di produzione capitalistico (oltre che portatrice di benefici per tutti) è una mistificazione alimentata dalla narrazione liberal-liberista, nonché fatta propria da una sinistra intrisa di progressismo, la quale pensa che ogni balzo evolutivo del capitale, pur comportando spiacevoli “effetti collaterali”, avvicini l’avvento di un mondo migliore. Accettare questa narrazione significa non saper distinguere fra internazionalizzazione della produzione e degli scambi commerciali – processo da sempre associato al capitale – e globalizzazione come strategia di quella “guerra di classe dall’alto”[2] che il capitalismo ha avviato a partire dalla crisi degli anni Settanta del secolo scorso. Il centro di irradiazione del cosiddetto processo di globalizzazione è stato, non a caso, la potenza egemone degli Stati Uniti che, attraverso la deregulation dei flussi di capitale e di merci, ha messo in atto un progetto di “mercatizzazione del mondo”, in base al principio secondo cui chi domina i mercati domina il mondo. Il braccio armato di tale progetto sono le grandi imprese transnazionali (in larga maggioranza americane), in ragione della loro capacità di muovere capitali, merci e persone inseguendo le condizioni più favorevoli offerte da mercati del lavoro, politiche fiscali e sistemi giuridici locali. Ma pensare che ciò comporti la fine dello Stato-nazione è un’idiozia. In primo luogo, le multinazionali non avrebbero potuto espandersi senza il sostegno e l’aiuto dei rispettivi Stati di origine; inoltre, se è vero che sono abbastanza potenti per condizionare le scelte della politica (in misura inversamente proporzionale alla forza degli Stati in cui operano), è altrettanto vero che gli Stati al centro del sistema mondo le utilizzano a loro volta per pompare valore dai Paesi periferici. In conclusione: la globalizzazione è un processo politico non meno che economico, sostenuto e accompagnato dagli Stati più potenti (Stati Uniti su tutti) che se ne servono per ristrutturare l’ordine mondiale con la complicità delle élite nazionali subordinate.

    7
    Quanto asserito nella tesi 6 può essere formulato anche così: l’obiettivo della globalizzazione come progetto politico non è liberare il capitale dal giogo degli Stati, bensì da quello della democrazia. Il neoliberismo non vuole distruggere lo Stato, al contrario vuole costruire uno Stato forte ma non democratico. La battaglia ideologica contro il nazionalismo va di pari passo con quella contro il socialismo e ha l’obiettivo strategico di spezzare il legame fra Stato e democrazia. L’unica forma di democrazia accettabile dal capitalismo globale è quella rispettosa del mercato, vale a dire la democrazia puramente formale garantita dallo Stato liberale. Il nazionalismo di destra cede il passo al cosmopolitismo liberale e allo pseudo internazionalismo di sinistra quali ideologie ufficiali del sistema.

    8
    Eventi come l’elezione di Donald Trump negli Stati Uniti, la Brexit inglese, i successi elettorali dei populismi di destra e sinistra in vari Paesi del mondo e il ritorno di politiche protezioniste non sono tanto l’esito della controffensiva di settori capitalistici arretrati che tentano di rianimare l’ideologia nazionalista, quanto sintomi del fatto che la macelleria sociale innescata dai processi di globalizzazione ha delegittimato la narrazione globalista che ha a lungo alimentato le speranze di milioni di esseri umani in un futuro migliore. “Trump non è il boia del globalismo ma il medico legale che ne certifica il decesso”[3]. La crisi della globalizzazione era già in atto prima degli eventi in questione, come certifica il calo degli scambi commerciali che ha anticipato la, più che fatto seguito alla, reintroduzione dei dazi, oltre al riaccendersi del conflitto imperialista fra grandi potenze per la spartizione del mercato mondiale. Tuttavia le cause principali sono sociali e politiche, a partire dalla resistenza crescente delle larghe masse dei perdenti nel gioco della globalizzazione nei confronti delle politiche liberiste.

    9
    La crisi della globalizzazione ha colto di sorpresa e gettato nel panico le sinistre convertite al cosmopolitismo le quali, non disponendo – al contrario dei liberali – di soluzioni politiche di ricambio, reagiscono, se va bene, etichettando come reazionarie, se non fasciste, le idee “sovraniste” (aggettivo che, al pari di populista, viene usato con significato spregiativo, senza distinguere fra le differenti modalità di impostare la questione della sovranità nazionale); se va male, confluendo, con il plauso dei media mainstream, assieme a liberali e socialdemocratici, in un fronte antipopulista e antinazionalista. Parole come patria e nazione suscitano rabbia e incutono terrore negli eredi di quella cultura politica che, fino agli anni Settanta del secolo scorso, era ancora consapevole del fatto che tutte le rivoluzioni socialiste sono state anche, talvolta soprattutto, rivoluzioni nazional-popolari, che ancora masticava gli insegnamenti di Marx e Lenin sulla questione nazionale, e che leggeva con passione le opere di autori come Frantz Fanon e Samir Amin sul tema. Nei decenni successivi, le sinistre hanno viceversa adottato un internazionalismo astratto che ha finito per somigliare sempre più all’ideale cosmopolita di un mondo pacificato e unificato dagli scambi economici. Questa ideologia da cittadini d’un mondo senza frontiere rispecchia valori e interessi del ceto medio riflessivo e delle sue aspirazioni di mobilità fisica e sociale, un ceto che ignora interessi e bisogni della stragrande maggioranza della popolazione mondiale che vive inchiodata al luogo di nascita. Per “salvarsi l’anima”, e dimostrare che conservano attenzione nei confronti degli ultimi, costoro sbandierano la propria solidarietà nei confronti dei migranti e difendono una politica no border di accoglienza illimitata. Tale atteggiamento rimuove: 1) il fatto che il principio di libera circolazione delle persone serve a nascondere che tale circolazione non è affatto libera, ma il prodotto di coazione economica e politica; 2) il fatto – ampiamente riconosciuto e analizzato da Marx – che l’immigrazione fa comodo in primo luogo al grande capitale, che può così attingere a un ampio bacino di mano d’opera a basso costo e priva di ogni potere contrattuale; 3) il fatto che il fenomeno accelera e favorisce il processo di smantellamento del welfare, fondato sull’esistenza di una comunità nazionale socialmente e culturalmente sufficientemente omogenea. Se poi i proletari autoctoni reagiscono all’impatto del fenomeno sui quartieri popolari, e ai suoi effetti di dumping sociale, votando per i movimenti populisti, vengono derisi (si nega l’esistenza stessa del problema, declassato a effetto di propaganda e manipolazione ideologica) e accusati di razzismo.

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    La difesa della sovranità nazionale è necessariamente di destra? La risposta negativa è implicita nelle tesi precedenti, ma vale la pena di aggiungere ulteriori considerazioni. In primo luogo, è evidente che esistono due idee di nazione: la prima “naturalistica”, la quale presume che la nazione esistesse ben prima della nascita degli Stati moderni e delle rivoluzioni borghesi, perché affonda le radici in fattori fisici, climatici, di sangue e suolo ecc.; la seconda è invece consapevole che la nazione (al pari del popolo) è un prodotto storico della vita politica. Per questa seconda visione la patria non è comunità immaginata bensì res publica, una società concreta di uomini e donne che lottano per l’autogoverno dei cittadini, l’indipendenza nazionale e la sovranità popolare. È il punto di vista che oggi sostengono i movimenti populisti/socialisti (da Sanders a Podemos, a Mélenchon) e che in passato sostennero autorevoli esponenti della Terza Internazionale come Karl Radek (assassinato da Stalin nel 1937), il quale invitava il Partito comunista tedesco ad assumere la guida della resistenza del popolo tedesco alle condizioni neocoloniali che gli erano state imposte dalle potenze vincitrici della Prima guerra mondiale, argomentando che, in caso contrario, sarebbero stati i nazisti ad assumersi il compito e a conquistare il potere (com’è puntualmente avvenuto). È, infine, il punto di vista che afferma che l’internazionalismo può esistere solo come rapporto di solidarietà fra nazioni indipendenti e sovrane, come cooperazione fra uguali.

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    Il rapporto fra nazioni del centro e nazioni semiperiferiche e periferiche incorpora una relazione di dominio e sfruttamento fra classi straniere e locali. Sia Marx che Lenin avevano ben presente il fatto che il saccheggio perpetrato dai Paesi occidentali ai danni del resto del mondo era la causa fondamentale dell’imborghesimento del proletariato delle nazioni industrialmente avanzate. Autori come Fanon, Amin, Wallerstein e altri hanno arricchito la teoria marxista dimostrando come le nazioni periferiche non ospitino economie precapitaliste, ma siano pienamente integrate in un sistema capitalistico mondiale nel quale la loro arretratezza è condizione necessaria per la crescita e lo sviluppo delle nazioni del centro. Questa verità non vale oggi solo per quei Paesi ex coloniali che stanno rapidamente ricadendo sotto il dominio delle potenze imperialiste occidentali (e di altre potenze emergenti), vale anche per la relazione fra Paesi del Nord e del Sud Europa e in alcuni casi – come quello italiano – vale per il rapporto fra Nord e Sud all’interno di un singolo Paese. Ecco perché la riconquista della sovranità nazionale è l’unica strada percorribile per riottenere il controllo collettivo sulle proprie risorse, sulle politiche economiche e sociali e sui flussi di capitali, merci e persone.

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    L’obiezione più ricorrente al sovranismo di sinistra consiste nell’affermare che, nel contesto dell’attuale sistema capitalistico globalizzato, ogni velleità di sganciamento dal mercato mondiale è illusoria. Tuttavia autori come Hosea Jaffe e Samir Amin [4] hanno contestato questa affermazione, dimostrando che il delinking dal mercato globale è una via percorribile; di più: è l’unica via percorribile per compiere qualsiasi passo verso il socialismo. Solo gli Stati sovrani possono negare agli strozzini della finanza globale il pagamento dei debiti imposti da Fmi, Banca mondiale, Bce e consimili istituzioni sovranazionali, prive di legittimazione democratica. Delinking non significa autarchia: vuol dire ridurre al minimo indispensabile le importazioni, massimizzare e ottimizzare l’uso delle risorse locali, conquistare la sovranità alimentare; vuol dire accentrare il surplus economico nelle mani dello Stato e ridistribuirlo in funzione dei bisogni settoriali di crescita, promuovendo la piena occupazione e la difesa degli interessi delle classi subalterne; vuol dire sfruttare i confini nazionali e la sovranità monetaria per regolare i flussi commerciali e di capitale. Chi sostiene che tutto ciò è impossibile concepisce la storia come un processo lineare e irreversibile, sovradeterminato da ferree leggi economiche rispetto alle quali la politica non può fare altro che adattarsi.

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    L’economicismo e l’idea di necessità storica che regnano a sinistra si manifestano chiaramente non appena si affronta il problema dell’Unione Europea: ignorando le prove inconfutabili della sua irriformabilità, la palese impossibilità di democratizzarne le istituzioni, gli europeisti “critici” ripetono ottusamente la tesi che la globalizzazione ha prodotto trasformazioni politiche e socioeconomiche tali da non poter essere più gestite dagli Stati-nazione. Dal presupposto secondo cui il campo di azione e organizzazione politica deve necessariamente coincidere con il livello di strutturazione più elevato del capitale, deducono che il piano sovranazionale è oggi l’unico sul quale si possono rappresentare gli interessi delle classi lavoratrici. Si argomenta che la sovranità nazionale, nell’attuale contesto economico e geopolitico, possono permettersela solo gli Stati-continente come Stati Uniti, Cina e Russia, mentre i Paesi europei devono integrarsi se non vogliono finire schiacciati dalla concorrenza di quei colossi. Per inciso, questa tesi coincide – non a caso! – con quella delle élite industriali e finanziarie del Vecchio Continente, così come, analogamente, sinistre e settori capitalistici più avanzati convergono nel bollare come conservatrice e reazionaria ogni rivendicazione di indipendenza nazionale. Anche i filosofi portano il loro contributo, tentando di evocare un improbabile “patriottismo europeo” le cui radici risalirebbero millenni addietro, a partire dallo scontro fra democrazie greche e imperi asiatici e dalla successiva cristianizzazione dell’Impero romano, eventi nei quali sarebbe già stata presente in nuce l’idea di uno spazio geopolitico unitario, congiuntamente a una rappresentazione ideale di tale spazio. Ma la verità è un’altra, ed è contenuta nel celebre detto che definisce l’Europa come una mera espressione geografica. L’Europa non è mai esistita come entità politica e culturale unitaria, e l’utopia di farne un unico Stato (utopia che tanto Marx quanto Lenin denunciarono come il sogno reazionario del capitalismo occidentale, il quale aspirava così a rafforzare il proprio dominio sul resto del mondo) si scontra con barriere sociali, linguistiche e culturali che nemmeno l’istituzione di un sistema fiscale, di un esercito e di una polizia comuni sarebbe in grado di superare.

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    Ma se la Ue non è, né mai potrà diventare, uno Stato unitario o una federazione di Stati, come possiamo definirla? La risposta è che si tratta di un mostruoso esperimento istituzionale che tenta di mettere in pratica l’utopia del fondatore del liberalismo moderno, von Hayek. Muovendo dalla constatazione che il capitalismo non conosce frontiere né radicamento territoriale – mentre la gabbia dello Statonazione lo costringe a tener conto degli interessi delle classi subordinate, nella misura in cui queste si organizzano nei corpi intermedi fra Stato e mercato – l’utopia di von Hayek si propone di spezzare il rapporto biunivoco fra politica e territorio neutralizzando, assieme alla sovranità nazionale, i conflitti sociali e la possibilità di offrire loro rappresentanza democratica. Indebolendo l’autonomia decisionale degli Stati membri e integrandoli in un nuovo ordine di mercato, la Ue crea una superstruttura che opera come una sorta di polizia economica, sfruttando l’euro e il principio di concorrenza per sterilizzare i conflitti e condizionare i comportamenti individuali e collettivi. Il sistema dei trattati assume valore costituzionale, agisce di fatto come una costituzione senza Stato e senza popolo e rimpiazza la democrazia con la governance, vale a dire con un processo decisionale di tipo negoziale (nel quale però non tutti i negoziatori hanno lo stesso peso!) che produce regole con il consenso dei destinatari, i quali le accettano “volontariamente” conservando – ma solo sul piano formale! – le loro sfere di facoltà e poteri. L’impianto filosofico che ispira questo esperimento è l’ordoliberalismo che, contrariamente al liberismo classico basato sul laissez faire, non dà per scontata la capacità dei mercati di autoregolarsi, ma affida a un potere politico forte il compito di garantire la stabilità dei prezzi – a partire da quello della forza lavoro – e di vegliare sul fatto che il principio di concorrenza non venga messo in questione da oligopoli, corpi intermedi e interventi statali diretti in campo economico.

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    Si insiste spesso sul fatto che le regole della Ue vengono decise e imposte dalla nazione egemone: è l’interesse nazionale della Germania a prevalere su quelli di tutti gli altri partner europei. La linea dell’austerità, all’interno della Germania, ha infatti favorito il contenimento dei livelli salariali e, assieme all’alto tasso di produttività del sistema industriale tedesco, ha sostenuto il modello mercantilista dell’economia di quel Paese; viceversa per i Paesi del Sud Europa ha voluto dire milioni di posti di lavoro e migliaia di imprese in meno, deindustrializzazione e declassamento al ruolo di subfornitori delle imprese tedesche. Tutto vero, ma è altrettanto vero che questa relazione asimmetrica è stata, non solo accettata, ma addirittura promossa dagli Stati periferici. Per quanto riguarda l’Italia, in particolare, vanno ricordate le scelte dei vari Andreatta, Ciampi, Padoa Schioppa e Prodi, a partire dalla promozione dell’indipendenza della banca centrale dal potere politico, decisione che ha messo il nostro debito pubblico nelle mani della finanza privata internazionale, favorendone la levitazione e ponendoci in condizioni di subordinazione nei confronti dei Paesi che controllano le linee di credito. Già Guido Carli auspicava un mutamento costituzionale (neanche a lui, come alla JPMorgan, piaceva “l’eccesso di socialismo” della Costituzione postfascista) che avrebbe dovuto ridefinire la composizione della spesa pubblica (penalizzando la spesa sociale) e promuovere la ridistribuzione del potere politico a favore dell’esecutivo e a danno del legislativo. I suoi eredi “di sinistra”, preoccupati per gli alti livelli di conflittualità sociale e per l’uso “spregiudicato” del bilancio pubblico, hanno pensato bene di importare dall’esterno nuove regole. L’ingresso nello Sme, prima, e nella Ue, poi, hanno avuto proprio questa funzione. A partire da quel momento, il richiamo al vincolo esterno (“non lo vogliamo noi ma l’Europa”) è servito sistematicamente a legittimare le riforme neoliberali: tagli alla spesa sociale, privatizzazione di tutto il privatizzabile, precarizzazione del lavoro e, last but not least, l’implementazione nella nostra Costituzione (attraverso il famigerato articolo 81) del Fiscal Compact, cioè del divieto costituzionale di adottare politiche economiche keynesiane.

    16
    La speculazione finanziaria colpisce soprattutto quei Paesi che non possono contare su una banca centrale come prestatore di ultima istanza, ecco perché la Ue espone sistematicamente i propri membri a tale rischio. Trattati e regole costringono i Paesi che hanno bisogno di denaro a rivolgersi al mercato, il quale assume così una funzione disciplinare nei confronti delle politiche economiche dei governi: l’assistenza finanziaria viene concessa in cambio di “riforme”, cioè dell’impegno a tagliare spesa sociale e salari, privatizzare i servizi pubblici e contenere drasticamente il costo del lavoro. La macelleria sociale imposta alla Grecia dopo la capitolazione del suo governo nei confronti dei diktat della Troika (Commissione Europea, Bce e Fmi) è un esempio del destino tragico che incombe sulle nazioni e sui popoli che aderiscono all’area dell’euro. È vero che le borghesie dei Paesi europei periferici si sono volontariamente assoggettate a vincoli esterni, pur di conservare il potere sulle proprie classi subalterne, ma è altresì vero che la moneta unica ha consentito alla Germania di costruire il proprio successo economico sulla miseria altrui: l’euro ha diviso l’Europa fra un centro esportatore e una periferia dipendente, ha “sudamericanizzato” le nazioni dell’Est e del Sud Europa. Ecco perché il principio di delinking teorizzato da Samir Amin a proposito della relazione fra potenze imperiali e Paesi ex coloniali può e deve essere fatto proprio anche dai Paesi euromediterranei. Solo uscendo dall’euro e riconquistando la sovranità monetaria sarà possibile ridare spazio al conflitto ridistributivo, invertire la tendenza alla privatizzazione, nazionalizzando banche ed imprese in crisi e rinazionalizzando i servizi pubblici, e infine adottare politiche fiscali progressive. Solo gli Stati sovrani dispongono degli strumenti per realizzare giustizia sociale e piena occupazione, e per gestire il debito sovrano e gli effetti delle crisi senza cadere nelle mani degli strozzini della finanza privata. Certamente i costi dell’uscita dall’euro non sarebbero trascurabili – benché non tragici, come ventilato dalla propaganda dei media di regime e come smentito dal caso della Brexit –, ma ben peggiori sono i costi della permanenza in termini di democrazia, sovranità popolare, povertà e disuguaglianza sociale.

    17
    Lo scetticismo nei confronti della nazione va di pari passo con lo scetticismo nei confronti dello Stato. Il ripudio delle esperienze storiche del socialismo reale e l’ideologia “orizzontalista” che, dopo la svolta libertaria dei nuovi movimenti, accomuna tutte le componenti della sinistra radicale, hanno fatto sì che il vecchio principio marxista, secondo cui la macchina statale borghese non può essere ereditata e usata così com’è da parte delle classi subalterne, si sia trasformato nel dogma secondo cui lo Stato in quanto tale non può più essere usato. Per questa ideologia neoanarchica lo Stato, qualsiasi classe o forza politica ne detenga il controllo, è sempre e comunque il nemico del popolo; di conseguenza, il concetto stesso di presa del potere è sparito dal suo orizzonte culturale. La logica del controllo subentra alla logica della conquista, la speranza di costruire un’alternativa globale al modo di produzione capitalistico e alle istituzioni dello Stato borghese lascia il posto a pratiche di contestazione permanente, alle manifestazioni sistematiche di sfiducia nei confronti del potere, a una sorta di democrazia dell’opinione che ha come protagonista un popolo che diffida ma non aspira a governare [5]. Tale atteggiamento rispecchia un punto di vista che non mira ad abolire il capitalismo bensì, nella migliore delle ipotesi, ad addomesticarne la ferocia. Ne è prova evidente il ruolo svolto da Terzo settore, Ong e volontariato, i quali collaborano attivamente allo smantellamento del welfare in sintonia con la logica ordoliberale del “capitalismo sociale”. Ne è inoltre prova quel patetico surrogato dell’utopia comunista che è l’ideologia “benecomunista”, che invita a voltare le spalle al comunismo statale, a immaginare nuove istituzioni estranee alla logica della sovranità e al principio di autorità, che dà per scontato infine che un partito rivoluzionario che pretenda di essere autonomo dai movimenti non solo non serve, ma è controproducente. Siamo dunque di fronte a discorsi che assumono come obiettivo una radicale spoliticizzazione della società civile. Come se non bastasse, a evidenziare la sostanziale convergenza fra liberalismo e “benecomunismo” è lo slogan, in sintonia con le tesi dell’economista liberale Elinor Ostrom, secondo cui la gestione dei beni comuni non dovrebbe essere ”né pubblica né privata”: si tratta d’una doppia negazione apparente, nel senso che la vera negazione è solo quella che ripudia il pubblico, mentre la negazione del privato è mistificatoria ove si consideri che, una volta sottratto al controllo pubblico, qualsiasi bene è inesorabilmente destinato a diventare privato.

    18
    Le ideologie criticate nelle tesi precedenti possono essere sintetizzate con la formula “cambiare il mondo senza prendere il potere”, che potremmo ironicamente accostare al detto di Cristo “il mio regno non è di questo mondo”, e la storia insegna che il detto cristiano che invita a tenersi alla larga dal potere non ha particolarmente contribuito a cambiare i rapporti di forza fra potenti e sudditi... Del resto, nella formulazione gramsciana, le classi subordinate non “prendono” il potere, si fanno Stato; il punto non è dunque abolire lo Stato in quanto ente distinto dalla società, bensì abolirne il carattere di classe. Questo è il programma massimo, ma anche in situazioni in cui conservava il proprio carattere di classe, lo Stato si è dimostrato capace di funzionare come strumento di emancipazione: dopo la crisi del 1929, ha interpretato la reazione di autodifesa della società civile nei confronti di un sistema capitalistico senza regole, tornando a governare terra, lavoro e capitale; dal 1930 al 1980 la logica del mercato ha dovuto piegarsi alle esigenze di ridistribuzione sociale del reddito e gli Stati-nazione non apparivano impotenti di fronte agli interessi del capitalismo globale. Il vero problema quindi – appurato che il potere politico può, a determinate condizioni, garantire reali miglioramenti delle condizioni di lavoro e di vita dei cittadini – non è Stato sì Stato no, bensì quale tipo di organizzazione del potere può favorire la transizione a una società postcapitalista. Prima di affrontare tale nodo, occorre prendere congedo dal mito dell’estinzione dello Stato – mito che si basa su una visione salvifico-religiosa di un futuro in cui la società sarà liberata da qualsiasi tipo di conflitto. Una società del genere non può esistere né mai esisterà, perché anche dopo l’eliminazione delle classi sociali continueranno a sussistere contraddizioni e quindi conflitti, e perché anche la “semplice amministrazione delle cose” (gestibile anche dalla cuoca, secondo la nota metafora non priva di sfumature maschiliste) non potrà fare a meno di specialismi e gerarchie burocratiche.

    19
    Le rivoluzioni bolivariane, assieme al concetto di “socialismo del XXI secolo” da esse introdotto, hanno indotto i marxisti latinoamericani a riprendere lo storico dibattito sull’alternativa riforme/rivoluzione. Engels e la Luxemburg avevano bypassato tale contrapposizione sostenendo che nulla impedisce alle classi subalterne di conquistare il potere attraverso riforme radicali, a condizione che tali riforme non siano fini a se stesse bensì un mezzo per arrivare alla rivoluzione socialista. Ora è evidente che nessuna delle rivoluzioni in questione può essere definita socialista: pur avendo introdotto costituzioni avanzate che prevedono la possibilità del superamento dell’economia capitalista e delle istituzioni politiche borghesi, i governi bolivariani di Venezuela, Bolivia ed Ecuador non hanno abolito la proprietà privata né hanno avviato un processo di trasformazione radicale della matrice produttiva. Tuttavia la dicotomia secca fra socialismo e capitalismo pecca di eurocentrismo. Si tratta piuttosto di capire in quale misura queste rivoluzioni hanno messo in moto un processo di democratizzazione dello Stato e creato i presupposti per l’indipendenza nazionale di questi Paesi dall’imperialismo occidentale. Questo perché non va dimenticato che la lotta di classe in certe circostanze assume forma geopolitica, e che il conflitto fra nazioni del centro e nazioni periferiche ha di per sé la natura di un conflitto di classe, per cui schierarsi dalla parte delle seconde è più importante che tracciare un confine astratto fra rivoluzione nazional-democratica e rivoluzione socialista. Che poi la rivoluzione nazional-democratica possa evolvere in rivoluzione socialista dipende da fattori economici, sociali, geopolitici in larga misura contingenti e imprevedibili.

    20
    La novità storica è che oggi, a causa degli effetti che la rivoluzione liberale degli ultimi decenni ha avuto sulla composizione di classe all’interno dei singoli Paesi e sulle relazioni di subordinazione fra centri e periferie, sorte anche nel campo capitalista occidentale, nemmeno eventuali rivoluzioni antiliberiste all’interno di tale campo potrebbero evitare di attraversare una fase nazional-democratica e riformista. In primo luogo, perché è da un secolo abbondante che il proletariato occidentale non vuole fare la rivoluzione, ma preferisce seguire le forze politiche che gli promettono miglioramenti graduali. Inoltre, dal momento che tutti i mercati del lavoro mantengono carattere locale, le solidarietà politico-sociali devono essere costruite su basi geografiche (ma non etniche!), il che significa: 1) che la resistenza dei luoghi nei confronti delle potenze sconvolgenti scatenate dai processi di globalizzazione assume il significato di una lotta anticapitalista; 2) che anche qui in Occidente i singoli Stati-nazione sono chiamati a rivendicare la propria autonomia per rendere possibili politiche di ridistribuzione e tutela dei diritti sociali; 3) che lo smarrimento delle identità e la forma populista del conflitto fanno sì che la lotta anticapitalista si presenti sotto le spoglie neogiacobine di lotta dei cittadini contro l’uso capitalistico dello Stato (il cittadino ribelle rimpiazza il proletario). Ecco perché tutti i programmi politici dei movimenti populisti di sinistra (da Sanders a Corbyn, da Mélenchon a Podemos) sono programmi “riformisti” che non presentano chiari caratteri anticapitalisti: ricondurre i settori strategici dell’economia (banche, trasporti, comunicazione, tecnologie avanzate ecc.) sotto mano pubblica, rinazionalizzare i servizi pubblici (sanità, trasporti, educazione ecc.), piena occupazione, sostegno alle piccole medie imprese ecc. Si tratta di programmi che cercano il sostegno di blocchi sociali maggioritari e trasversali e che, qualche decennio fa, sarebbero stati definiti socialdemocratici, ma oggi, nell’epoca del totalitarismo liberal-liberista, suonano sovversivi, nella misura in cui possono rappresentare un primo passo verso la trasformazione delle lotte del cittadino ribelle in lotta di classe.

    21
    Nelle attuali condizioni storiche, una rivoluzione nazional-popolare che si ponga l’obiettivo di conquistare il potere per avviare il processo costituente di un regime politico democratico non appare meno difficile da realizzare di quanto non lo siano state le rivoluzioni socialiste del passato. Oggi come ieri essa può avvenire solo in presenza di una profonda crisi dello Stato, della società e dell’economia; di più: può avvenire solo se a tali condizioni si aggiunge una diffusa sensazione di insicurezza, paura e minaccia, la sensazione che un cambiamento radicale sia necessario per difendere il proprio mondo vitale. Oggi come ieri il verificarsi di tali condizioni non è prevedibile né programmabile, si potrebbe dire che la rivoluzione è sempre matura e non lo è mai, o che la rivoluzione avviene dove e quando avviene [6].

    22
    In quale misura è possibile prevenire i rischi di degenerazione autoritaria associati a ogni processo rivoluzionario che riesca a conquistare il potere? Questi rischi sono connaturati a qualsiasi regime e forma statale. L’unico modo per neutralizzarli è la creazione di contrappesi sociali autonomi. I contrappesi fra potere esecutivo, legislativo e giudiziario previsti dalle costituzioni liberaldemocratiche non sono sufficienti, nella misura in cui si limitano a regolare gli equilibri di potere interni alla “casta”. Le istituzioni popolari di democrazia diretta e partecipativa devono essere esterne a quelle della democrazia rappresentativa e agli organi statali, devono potersi contrapporre alle loro decisioni, devono cioè essere in grado di esercitare il conflitto nei confronti dello Stato e tale diritto dev’essere sancito costituzionalmente. Se l’assenza di conflitto è un mito irrealizzabile anche nel contesto del comunismo realizzato, ciò vale a maggior ragione per un regime che abbia realizzato una rivoluzione nazionalpopolare e compiuto solo alcuni primi, timidi passi verso il socialismo.

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    NOTE

    [1] Cfr. M. Tarchi, Italia populista, il Mulino, Bologna 2015.

    [2] Cfr. L. Gallino, op. cit.

    [3] Così il vicepresidente boliviano Linera in un’intervista di un paio d’anni fa.

    [4] Vedi il paragrafo dedicato a questi due autori nel capitolo seguente.

    [5] Cfr. P. Rosanvallon, op. cit.
    [6] Rubo queste battute a Mimmo Porcaro (vedi il penultimo paragrafo del prossimo capitolo).

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  7. #27
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    Predefinito Re: Sovranità, inter-nazionalismo, Socialismo, sinistra

    ALLE PORTE DEL DISASTRO NAZIONALE
    di Luciano Barra Caracciolo
    [ 7 aprile 2019 ]

    Luciano Barra Caracciolo a Firenze qualche giorno fa.
    Una lectio davvero magistrale su libero scambismo, globalizzazione, Unione europea, trattati, euro, bail-in, vincolo esterno...
    In attesa che l'Unione imploda cosa dovrebbe fare un governo patriottico?

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  8. #28
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    Predefinito Re: Sovranità, inter-nazionalismo, Socialismo, sinistra

    SINISTRE FIGHETTE E SPIE RUSSE
    di Carlo Formenti
    [ 18 aprile 2019 ]


    Da troppo tempo il capitale mondiale si è affidato ai servigi d’una sinistra che, ripudiato il classico ruolo di tutela degli interessi delle classi subalterne, si è schierata dalla parte dei potenti. Ora è il momento di sbarazzarsi di questi servi sciocchi che, per voler strafare, si sono sputtanati al punto da non poter più garantire legittimità al regime neoliberista. Allertate dal dilagare del populismo (“uno spettro che si aggira per l’Europa” lo ha definito il New York Times, parafrasando un detto di Marx) le élite dominanti sguinzagliano i migliori cervelli per escogitare alternative. Costoro suggeriscono due possibili soluzioni: da un lato, la cooptazione dei populismi di destra per investirli del ruolo di garanti della continuità del sistema, dall’altro, la ricostruzione di una sinistra social-liberale capace di riottenere il consenso popolare.
    L’ultimo libro di Federico Rampini, noto corrispondente di “Repubblica” da New York — La notte della sinistra —, inscrive l’autore fra i promotori della seconda soluzione.
    Il libro contiene una serie di feroci critiche nei confronti delle sinistre “fighette”, tali da far impallidire quelle che il sottoscritto ha rivolto contro lo stesso bersaglio (Vedi “Il socialismo è morto. Viva il socialismo”, Meltemi -): la sinistra che ha abbandonato al loro destino i deboli, si salva l’anima impegnandosi a proteggere gli ultimi solo se e quando sono immigrati stranieri (regalando alle destre la rappresentanza della rabbia degli autoctoni poveri); la sinistra “cosmopolita” esalta l’apertura dei mercati finanziari, rinunciando a proteggere l’economia nazionale dalla colonizzazione straniera (spalancando ponti d’oro alla propaganda “sovranista”); la sinistra “politicamente corretta”, relegati in soffitta Gramsci e Pasolini, elegge a propri eroi intellettuali star hollywoodiane e boss della canzone e dello spettacolo, gente che esibisce sgargianti divise femministe e antirazziste confezionate dai loro consulenti di marketing; la sinistra “ecologista”, che viaggia su auto elettriche da centomila euro, pretende che gli sfigati che circolano su sgangherate utilitarie finanzino le politiche ambientaliste pagando tasse sul carburante “sporco” (innescando la rabbia dei gilet gialli contro Parigi).

    Rampini è passato dalla parte del popolo
    e chiama alla rivoluzione?

    Non proprio, come vedremo. La sua indignazione nei confronti del “buonismo” dei militanti no border, per esempio, è compatibile con un atteggiamento apologetico nei confronti di vecchi e nuovi colonialismi. La sinistra recita il mea culpa per i crimini occidentali che provocano la miseria degli altri popoli, costringendoli a migrare? Così rimuove colpe e responsabilità delle presunte “vittime”, sentenzia Rampini, che poi aggiunge: bene e male sono equamente distribuiti e noi non siamo l’ombelico del mondo. Curiosa critica dell’eurocentrismo, visto che non contesta la missione “civilizzatrice” dell’Occidente, purché affidata al comando imperiale americano, orientato — beninteso — in senso progressista, “di sinistra”. La polemica di Rampini contro le sinistre radical chic, si accompagna infatti al sogno di rilanciare la vecchia, cara sinistra del trentennio glorioso, quella sinistra keynesiana/kennediana che gestiva il compromesso fra capitale e lavoro, assicurava welfare, occupazione e salari decenti e cooptava le classi subalterne nella lotta contro la minaccia sovietica.
    Nostalgia delle sinistre socialdemocratiche al tempo della guerra fredda, che mai si sarebbero sognate di mettere in discussione l’egemonia americana, né avrebbero imboccato la via dell’austerità, suscitando la reazione populista. Nostalgia di politiche che solo la guerra fredda, evocando lo spettro di un’alternativa globale al sistema capitalista, aveva reso possibili. Ecco perché Rampini fa di tutto per resuscitare quello spettro, coltivando un’ideologia che potremmo definire “anticomunismo senza comunisti”.

    Così la Russia di Putin e la Cina di Xi Jinping vengono arruolati per evocare l’immagine di un nuovo “Impero del male”, sorvolando sul fatto che a giocare il ruolo di aggressore e provocatore, in questa nuova sfida planetaria, sono gli Stati Uniti assai più di questi Paesi. Così il tentato golpe contro Maduro, ispirato da Washington e affidato a una figura priva di ogni legittimazione democratica, viene presentato come un intervento “umanitario” per restaurare la democrazia, e non come l’ennesima interferenza in un Paese latinoamericano per mantenere il controllo sul “cortile di casa” senza sottilizzare sui mezzi (do you remember Allende?). Così Snowden e Assange, da eroi della lotta per la trasparenza dell’informazione (come venivano descritti fino a qualche anno fa anche dalla maggior parte dei media occidentali), diventano infami spie russe.
    Concludo osservando che il libro di Rampini è stato fin troppo profetico in merito all’ultimo punto, tanto che — a costo di apparire “complottista” — mi sorge il dubbio che disponesse di informazioni riservate sull’imminenza del blitz nell’ambasciata ecuadoriana di Londra per catturare Assange. In ogni caso, il libro ha anticipato la campagna denigratoria che i media hanno scatenato contro i “traditori” dell’Occidente, con toni da propaganda prebellica. Vedi quanto scrive Beppe Severgnini sul Corriere della Sera:

    «E’ vero: gli Stati Uniti hanno abusato della propria supremazia tecnologica per infiltrarsi nella vita di troppe persone, negli Usa e all’estero. Ma è lecito istigare una fonte a commettere un reato, come ha fatto Assange con Chelsea Manning, che sottrasse migliaia di documenti segreti? È giusto che tutto sia sempre noto a tutti?».

    Traduco: è giusto che i cittadini sappiano cosa succede nel segreto dei comandi militari? Non è meglio tenerli all’oscuro sui crimini commessi dal proprio campo, in modo che continuino a credere che il male sta tutto dall’altra parte?

    * Fonte: RINASCITA!

    https://sollevazione.blogspot.com/20...-di-carlo.html
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  9. #29
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    Predefinito Re: Sovranità, inter-nazionalismo, Socialismo, sinistra

    Sarebbe interessante recuperare il testo originario di questo discorso e capire più in dettaglio come mai nel 1981 Georges Marchais , segretario del partito comunista francese, si disse contro l'immigrazione, sia regolare sia clandestina.
    Immagino per ragioni esclusivamente economiche e/o di ordine pubblico, non per ragioni etniche, identitarie, culturali; ma non lo so con certezza, bisognerebbe appunto approfondire le ragioni che lo spinsero a quel discorso. Qualcuno è più informato in merito?


  10. #30
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    Predefinito Re: Sovranità, inter-nazionalismo, Socialismo, sinistra

    Citazione Originariamente Scritto da Tular Visualizza Messaggio
    Sarebbe interessante recuperare il testo originario di questo discorso e capire più in dettaglio come mai nel 1981 Georges Marchais , segretario del partito comunista francese, si disse contro l'immigrazione, sia regolare sia clandestina.
    Immagino per ragioni esclusivamente economiche e/o di ordine pubblico, non per ragioni etniche, identitarie, culturali; ma non lo so con certezza, bisognerebbe appunto approfondire le ragioni che lo spinsero a quel discorso. Qualcuno è più informato in merito?

    "Georges Marchais, 1980, segretario del Partito Comunista francese:”E’ necessario fermare l’immigrazione ufficiale e clandestina, è inammissibile lasciar entrare nuovi lavoratori immigrati in Francia dal momento che il nostro paese conta circa 2 milioni di disoccupati francesi e immigrati”.

    Ovvio che non c'era alcun riferimento a motivazioni razziali, ma non c'è neppure bisogno di rivolgersi ad un comunista in merito alla questione, basta anche solo un socialdemocratico serio, come Bernie Sanders :

    "BERNIE SANDERS. Apertura delle frontiere? Questa è una proposta di destra.
    EZRA KLEIN. Ma arricchirebbe molti poveri nel mondo…
    BERNIE SANDERS. Sì, e renderebbe più poveri gli americani. Sarebbe la fine del concetto di Stato-nazione. Se credi nell’idea di Stato-nazione, ritengo che tu abbia anzitutto il dovere di fare tutto il possibile per aiutare le persone nel tuo Paese. I conservatori, i padroni in questo Paese non sognano altro che una politica di frontiere aperte, per portare dentro gente disposta a lavorare per 2-3 dollari l’ora. Per loro sarebbe una manna dal cielo. Io la penso in maniera completamente diversa. Io penso dovremmo aumentare i salari. Penso che dovremmo fare tutto il possibile per creare milioni di posti di lavoro per le persone attualmente disoccupate in America. Sai qual’è il tasso di disoccupazione giovanile negli USA oggi? Il 33% per i laureati bianchi, il 36% per gli ispanici, il 51% per gli afroamericani. Pensi veramente che dovremmo aprire i confini e portare dentro il Paese masse di lavoratori a basso costo? Non pensi che forse dovremmo cercare prima di tutto di creare posti di lavoro per quei ragazzi disoccupati?"

    continua:

    https://www.controinformazione.info/...a-la-sinistra/

    Quello che afferma Sanders per gli USA, vale anche per l'Europa, e per l'Italia in special modo.
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