Ma Israele non aspetta nessuna luce verde da Obama
di Claudio Moffa

Preoccupa e inquieta un articolo di Chossudowsky che sta circolando in rete, su una
possibile aggressione all’Iran con connesso rischio – come da titolo – di una “terza
guerra mondiale”: preoccupa perché, risalente al 13 agosto scorso, potrebbe essere
stato scritto e proposto sulla base di informazioni di un ormai “certo” attacco di
Israele, a pochi giorni dall’avvio il 21 agosto della centrale nucleare di Busher, avvio
sponsorizzato dalla Russia e a sua volta preliminare al vero e proprio funzionamento
dell’impianto per la produzione di elettricità, fra due o tre mesi.
Inquieta, l’articolo, perché anche in questo caso Chossudowsky torna su un leitmotiv
a lui caro, una lettura dei fatti che marginalizza Israele in un ruolo secondario e
assolutamente subalterno rispetto a Washington. Per proporre questa tesi, lo
studioso finisce per non citare alcune dichiarazioni fondamentali utili a individuare
responsabilità e ruoli dei molteplici tentativi di aggressione. Il passaggio chiave – in
un testo molto lungo – è questo:
"Israele è parte di un'alleanza militare. Tel Aviv non è un promotore. Non ha
un'agenda militare distinta e separata.
Israele è integrato nel "piano di guerra per le principali operazioni di combattimento"
contro l'Iran formulato nel 2006 dal Comando Strategico USA (USSTRATCOM). Nel
contesto delle operazioni militari su larga scala, un'azione militare unilaterale non
coordinata da parte di un solo partner della coalizione, cioè Israele, è da un punto di
vista strategico e militare, quasi impossibile. Israele è un membro de facto della
NATO. Qualsiasi azione da parte di Israele richiederebbe una "luce verde" da
Washington.
Un attacco da parte di Israele potrebbe, tuttavia, essere utilizzato come "il
meccanismo d'innesco", che scatenerebbe una guerra totale contro l'Iran, come pure
la ritorsione da parte dell'Iran nei confronti di Israele".
A parte il “quasi” quel che sostiene Chossudowsky è che, se anche Israele attaccasse
l’Iran, tale aggressione non sarebbe un’iniziativa autonoma, ma ricadrebbe sempre e
comunque dentro una strategia degli USA, perché occorrerebbe la “luce verde” di
Washington. E’ falso.
E’ falso che Israele non abbia una agenda militare distinta e separata: l’ha sempre
avuta, nei confronti di chicchessia, sfruttando di volta in volta le contraddizioni fra i
suoi alleati – come accadde con l’accordo di Sevres del 56 con Francia e Inghilterra,
alle spalle di Eisenhower – e continua ad averla e a pretenderla. Chossudowsky, che
in questo somiglia a Chomsky e ad altri intellettuali ebrei o militanti
“antiamericanisti” che sanno solo attaccare la Casa Bianca, riducendo Israele a una
pedina di volontà altrui, non tiene conto che gli Stati Uniti non sono una realtà
monolitica e impermeabile a pressioni esterne, ma sono quanto meno
interdipendenti rispetto allo Stato ebraico, grazie ad una serie di condizionamenti e a
una fitta rete di poteri capaci di ridurre a uno strumento nelle sue mani anche il capo
della massima potenza mondiale. Così è stato con Bush, che contrariamente a quanto
sostenuto da alcuni commentatori, anche dopo l'11 settembre,non aveva nessuna
intenzione di attaccare Bagdad e aveva anzi affidato il Ministero degli esteri a un
fautore della riduzione delle sanzioni all’Iraq di Saddam Hussein, Colin Powell: colui
che proprio l’11 settembre – il giorno dell’attentato “islamico” – avrebbe dovuto
recarsi al Palazzo di Vetro ad annunciare il sì di Washington allo Stato palestinese,
opzione certo minimale rispetto all’immane ingiustizia storica subita dagli arabi
palestinesi a partire dal 1948, ma comunque vista come il fumo agli occhi da un
gruppo dirigente israeliano che si credeva e si crede tuttora il talmudico padrone del
pianeta. Ovviamente Powell – di fronte alla strage criminale delle Torri Gemelle –
dovette rinunciare al suo discorso e da lì iniziò la deriva della guerra infinita contro
l’Islam: fu Bush a cedere di volta in volta alle pressioni di Tel Aviv, e non il contrario;
fu il presidente USA a non ottenere la luce verde di Israele ogni volta che proponeva
un tentativo di dialogo con i palestinesi e con il mondo arabo: come nell’ultima
decade del settembre 2001, quando Bush e Powell chiesero a Shimon Peres di
incontrare Arafat, ma Sharon, citando la solita “Monaco” il 3 ottobre successivo,
rispose al suo apparentemente convinto ministro degli esteri che Arafat era un
terrorista e che, quanto all’invito di Bush, “we control America, and Americans know
it”.
Vera o non vera la frase, i fatti dimostrano – un po’ come nel caso delle
argomentazioni di Evola sui cosiddetti “Protocolli del Savi di Sion” – che essa
corrisponde alla realtà delle relazioni USA – Israele almeno dopo il 2001 e almeno
fino all’era Bush. Non solo per quel che riguarda l’ “aperitivo” dell’Afghanistan – da
sempre l’anello “debole” di un Islam che l’Occidente pretende sempre e comunque
conservatore e fermo nel tempo: appunto come nel caso (voluto) dell’Afghanistan –
ma anche per la guerra all’Iraq che il congressista USA Jim Moran da una parte, e lo
stesso Saddam Hussein dall’altra nel suo discorso del 20 marzo teletrasmesso in tutto
il mondo, imputarono alle trame di Israele ovvero (Saddam) del “maledetto
sionismo”. La guerra del Libano poi è stata fatta in prima persona da Israele, dopo
vari tentativi di coinvolgere in una azione contro la Siria e soprattutto l’Iran, gli Stati
Uniti ormai impantanati e dissanguati nell’Iraq. Infine appunto l’Iran.
Nel suo articolo Chossudovsky non solo azzera l’importanza dell’analisi del fenomeno
lobbistico nel sistema di potere americano, e della sua specifica variante ebraicosionista
studiata da Walt e Meirsheimer, non solo annulla una ampia casistica di
esempi di plateali interferenze della “lobby” nel dibattito politico americano (dal
Sudan-Darfur, al regime ruandese-tutsi; dall’odio per la Russia di Putin al no secco di
Nethanyau a Clinton nel 1998, col presidente USA che gli voleva imporre il mitico
ritiro dai Territori conquistati nel 1967, e che venne di poi travolto dal caso Lewinsky;
del resto sempre per bocca di Nethanyau, il piccolo Stato d’Israele aveva detto no al
ritiro persino alla Commissione Trilaterale, nel 1997, come raccontato da Arrigo
Levi), ma inoltre evita di citare fatti e dichiarazioni che, con riferimento al capitolo
Iran, rendono evidente che è I-sra-e-le che vuole la guerra contro Teheran, e che di
provocazione in provocazione, di campagna mediatica in campagna mediatica sta
cercando di trascinare Washington e l’Occidente nella guerra contro Ahamedinejad.
Chossudovsky cita, è vero, il documento del PNAC («Project for the New American
Century”) nel quale, già nel settembre 2000, si paventava e si stignatizzava che
“l’Iran o altri Stati simili indeboliscano la leadership americana, intimidiscano gli
alleati americani o minaccino lo stesso suolo americano», ma dimentica di specificare
che questo documento fu partorito dalla mente del think thank sionista dei neocons,
tutti o quasi ebrei, tutti assolutamente pro israeliani. In verità mentre i segnali da
Washington – il cui interscambio con Teheran è cresciuto proprio sotto la presidenza
Bush junior - sono sempre stati contraddittori, quelli da Israele sono stati sempre
univoci, nel senso del cercare a tutti i costi di scatenare il conflitto: Nel 2008, Alfonso
Desiderio scriveva su Limes che “il rapporto dell’intelligence USA rende meno
probabile un attacco americano all’Iran. Pentagono, Cia e Dipartimento di Stato
spingono per un accordo, che converrebbe ad entrambe le parti”. Al contrario, subito
dopo continuava: “Ma Israele teme che Teheran possa dotarsi dell’atomica e non
vuole correre rischi. Se Gerusalemme attacca Washington non può tirarsi indietro” .
Le minacce israeliane sono state negli ultimi anni continue, e i riferimenti a una
autonomia strategica da Washington anch’essi molteplici: novembre 2003, Shaul
Mofaz afferma che “in nessun caso Israele avrebbe tollerato armi nucleari in possesso
iraniano” e aggiunge che Israele “è preparato a prendere azioni unilaterali contro
l’Iran se la comunità internazionale non riuscisse a fermare lo sviluppo delle armi
nucleari” di Teheran. Dicembre 2005, il Sunday Times rivela che Sharon ha ordinato
all’esercito israeliano di preparare “piani di attacco contro i siti di uranio arricchito in
Iran” per il marzo dell’anno successivo: “Isrele (e non solo Israele) non può accettare
un Iran nucleare. Noi abbiamo la capacità di affrontare tale questione”.
Successivamente, citato da James Petras, il capo di stato maggiore Dan Halutz aveva
risposto a una domanda su fino a anche punto Israele era pronto a bloccare il
programma nucleare di Teheran, con la battuta “duemila chilometri”, cioè giusto il
tempo di arrivare con i bombardieri sui siti da colpire. L' 8 maggio 2006 Shimon
Peres afferma che Ahmadinejad “dovrebbe ricordare che anche l’Iran avrebbe potuto
essere spazzato via”. Il 24 giugno successivo Jonathan Ariel della Israel News Agency,
ammonisce che Israele è pronto a dare un “colpo nucleare preventivo all’Iran”, nel
caso in cui l’Occidente non fosse riuscito a bloccare la nascita di una industria
nucleare in Iran”. Gennaio 2007, il Times svela un piano “segreto” di Israele per
colpire unilateralmente il sito nucleare iraniano di Natanz. 11 giugno 2008, Daniel
Pipes “consiglia” in modo perentorio Bush, facendo riferimento alla candidatura
concorrente di Mac Cain … Ma Bush ha resistitito a una minaccia di una (sua) nuova
sconfitta ... E così giungiamo ai giorni nostri dove imputare a Obama il desiderio di
una guerra all’Iran è assolutamente mistificatorio. Certo il Presidente USA, assediato
da Wall Street, in calo di consensi, potrebbe decidere il passo ma è probabile che
sappia che pagherebbe un prezzo assai caro. Laddove Israele solo guadagnerebbe –
nella sua folle strategia di distruzione e di guerra permamente con chiunque si
opponga alla sua arroganza totalitaria – da un attacco all’Iran.
Per farla breve e concludere: c’è tutto un filone politologico e giornalistico che fa
sponda o su un odio suicida contro l’Islam (a destra) o su una antiamericanismo
dogmatico condito di formulette marxleniniste (a sinistra), che ha come effetto (se
non il fine calcolato) quello di coprire le pesantissime e determinanti responsabilità
di Israele nei mai cessati venti di guerra in Medio Oriente dal 1948 ad oggi. Sarebbe
ora di prendere coscienza della negatività di tale tendenza interpretativa: essa
confligge solo e semplicemente con la realtà dei fatti, e trasforma Israele da un
protagonista assoluto delle spinte belliciste della nostra epoca quale è, in un’entità
evanescente e poco importante: l’ “edificio nascosto” per mutuare un termine
utilizzato da Marx con riferimento al peso della “struttura economica” nel divenire
storico, della politologia e e dell’opinionismo contemporanei.


Ma Israele non aspetta nessuna luce verde da Obama, Claudio Moffa