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Discussione: La Cosa Nuova

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    ‘Ndrangheta, “così la massoneria voleva creare Cosa nuova: il superclan mafioso di siciliani e calabresi”


    Dai racconti di tre collaboratori di giustizia siciliani emerge l'esistenza di una super associazione criminale "che doveva fungere da testa di ponte verso le istituzioni". L'intercettazione: "Bisogna modernizzarsi! Non stare con le vecchie regole! Il mondo cambia e bisogna cambiare tutte cose"
    di F. Q. | 18 luglio 2016




    La ‘ndrangheta? “Non esiste più“. Gli ‘ndranghetisti? “Quattro storti che ci credono ancora”. Il futuro? “Bisogna cambiare tutte cose“. Parola di Pantaleone Mancuso, uomo di vertice dell’omonima cosca calabrese. C’è anche un’intercettazione di Mancuso nell’ordinanza con cui il gip di Reggio Calabriadispone l’arresto – tra gli altri – del senatore di Gal Antonio Caridi e dell’ex sottosegretario regionale Alberto Sarra. È l’inchiesta sui cosiddetti “invisibili” che secondo l’accusa tirano le fila di affari e potere a Reggio Calabria. Dove secondo Mancuso, “la ’ndrangheta non esiste più: una volta a Limbadi, aNicotera, a Rosarno, c’era la ’ndrangheta! Ora cosa c’è più? È rimasta la massoneria e quei quattro storti che ancora credono alla ’ndrangheta! È finita! Bisogna fare come per dire: c’era lademocrazia, è caduta la “democrazia” e hanno fatto un altro partito. Forza Italia, forza cose… Bisogna modernizzarsi! Non stare con le vecchie regole! Il mondo cambia e bisogna cambiare tutte cose! Oggi la chiamiamo massoneria domani la chiamiamoP4, P6, P9“.



    Uno “sfogo” che fa il paio con quanto messo a verbale da alcuni collaboratori di giustizia siciliani. Una costola dell’ultimainchiesta anti ‘ndrangheta della procura di Reggio Calabria delinea infatti un quadro inquietante: mafiosi siciliani e criminali calabresi uniti in un’unica grande associazione criminale. Saldata dai compassi e dai grembiulini della massoneria. “Come ho già riferito in altri interrogatori i legami fra Cosa Nostra e ‘ndrangheta erano strettissimi. Non so in concreto per quanto tempo, né con quali risultati operativi, ma, sicuramente, si arrivò, anche, a progettare e, poi, a dare forma (parliamo del periodo immediatamente successivo alle stragi di Falcone e Borsellino) ad una super-struttura che comprendeva le due organizzazioni: la cosiddetta Cosa Nuova“, mette a verbale il pentito messineseGaetano Costa. “Si trattava – continua il collaboratore – di una sorta di organizzazione mafiosa di vertice che ricomprendeva sia gli elementi di spessore e di peso di Cosa Nostra che quelli della ‘ndrangheta. Ciò avrebbe consentito uno scambio di favoriancora più intenso e continuo fra siciliani e calabresi. Cosa Nuova serviva anche ad inserire in modo più organico nel tessuto delcrimine organizzato siciliano e calabrese, personeinsospettabili, collegamenti con entità politiche, istituzionali e massoniche”.
    Dichiarazioni che fanno il paio con quelle di Gioacchino Pennino, ex esponente della Dc in Sicilia e collaboratore con la magistratura. “Confermo che mio zio – dice – Gioacchino Pennino, uomo d’onore della famiglia di Brancaccio, mi confidò di essere stato da latitante, negli anni 60, ospite dei Nuvoletta nel napoletano. Ciò non deve sorprendere in quanto Cosa nostra, ’ndrangheta e Sacra corona unita sono da sempre unite fra loro. Sarebbe meglio dire sono una Cosa sola. Da lì mio zio si recava in Calabria dove mi disse che aveva messo insieme massoni, ’ndrangheta, servizi segreti e politici per fare affari e gestire il potere. Una sorta di comitato d’affari perenne e stabile“.
    Ma non sono solo due collaboratori storici a parlare di un legame strettissimo di Cosa nostra e ‘ndrangheta all’ombra dei compassi. Anche Gaspare Spatuzza, ex killer di Brancaccio, il pentito che ha riscritto la fase operativa della strage di via d’Amelio, racconta ai pm di un fil rouge tra siciliani e calabresi capace d’influenzare gli ambienti più alti del potere. “In particolare si trattava di aggiustare questo processo in Cassazione e Giuseppe Graviano mi spiegò che gli amici calabresi, in particolare il riferimento era alla cosca Molé-Piromalli si sarebbero mossi su richiesta di Mariano Agate. Mariano Agate esponente di vertice di Cosa Nostra è certamente da considerarsi, così come mi spiegarono i fratelli Graviano e così come ho compreso stando in Cosa nostra, l’anello di congiunzione fra Cosa nostra e la ‘ndrangheta“. Tutti racconti che spingono il gip Domenico Santoro a scrivere che “si profila con maggiore nettezza il collegamento fra ‘ndrangheta, nella sua componente riservata, e mafia siciliana, in una commistione che dà notizia della cosiddetta Cosa Nuova, super struttura mafiosa che unisce Cosa Nostra e ‘ndrangheta e che doveva fungere da testa di ponte verso le istituzioni e la massoneria, che, specie in questa terra, già era in stretta correlazione con le organizzazioni mafiose”.




    'Ndrangheta, "così la massoneria voleva creare Cosa nuova: il superclan mafioso di siciliani e calabresi" - Il Fatto Quotidiano


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  2. #2
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    Predefinito Re: La Cosa Nuova

    Massoneria, mafia, politica e servizi: ecco la “nuova” ‘ndrangheta. “In Calabria 28 logge su 32 controllate da clan”, è scontro




    "Vorrei che fosse chiaro che questa è la nuova ‘ndrangheta, che nasce dalla commistione tra la vecchia struttura criminale di tipo mafioso e la massoneria", spiega il pentito Lo Giudice ai pm che indagano sulla cupola degli "invisibili". Il Gran Maestro Bisi attacca sui verbali del suo predecessore Di Bernardo: "Avrebbe avuto gli strumenti per intervenire"
    di Lucio Musolino | 18 luglio 2016





    “Vorrei che fosse chiaro che questa è la nuova ‘ndrangheta, che nasce dalla commistione tra la vecchia struttura criminale di tipo mafioso e la massoneria“. È il collaboratore di giustiziaAntonino Lo Giudice detto il ‘Nano’, assieme al pentito Cosimo Virgilio, a dare al sostituto procuratore della Dda Giuseppe Lombardo i riscontri sui cosiddetti “invisibili” che tirano le fila aReggio Calabria. Le carte dell’inchiesta “Mamma Santissima”, nell’ambito della quale è stato chiesto al Parlamento l’arresto per associazione mafiosa anche del senatore Caridi, rischiano così di riscrivere la storia, non solo politica, di una città dove sono ancora troppe le domande che non hanno avuto una risposta. Punti interrogativi che possono essere svelati solo dopo aver letto tra le pieghe del rapporto massoneria-‘ndrangheta- politica-servizi segreti deviati.


    Il tritolo del 2004 per Scopelliti
    A partire dai tre panetti di tritolo piazzati nell’ottobre del 2004 in un bagno di Palazzo San Giorgio e trovati grazie a tre informative firmate dal numero due del Sisde Marco Mancini. Una bomba, collegata a un telefonino, che non poteva esplodere perché non aveva l’innesco. Le barbe finte del Sismiavvertirono la squadra mobile di allora che era stata la ‘ndrangheta a piazzare l’ordigno e che questo era indirizzato al sindacoGiuseppe Scopelliti, messo sotto scorta ancora prima del rinvenimento dei panetti da parte degli uomini del questoreVincenzo Speranza. A distanza di 12 anni, nessuno era riuscito a scoprire quale famiglia mafiosa aveva gestito l’operazione ma solo che il tritolo era quello della “Laura C”, la nave affondata a largo della costa jonica con tonnellate di esplosivo nella stiva diventata il supermarket della ‘ndrangheta. Solo pochi giorni fa, il procuratore De Raho ha spiegato che la collocazione di quell’esplosivo sarebbe stato un avvertimento del gruppo Romeo-De Stefano per ottenere un duplice effetto: da una parte condizionare Scopelliti e dall’altro dare di lui l’immagine di unamministratore bersaglio della ‘ndrangheta, favorendone l’ascesa politica. Una messa in scena, quindi, organizzata nei minimi particolari dalle stesse persone in grado di lasciare fuori l’ala militare delle cosche, fare arrivare il messaggio al vice diPollari e, allo stesso tempo, creare le condizioni affinché di queltritolo non si sapesse più nulla.

    I pentiti e la “Breccia di Porta Pia”. Dove la massoneria cerca la ‘ndrangheta
    Alla luce anche di questo, è più comprensibile quanto il pentito Lo Giudice spiega al pm Lombardo il 21 giugno scorso: “In questa nuova organizzazione, la parte identificabile con la vecchia ‘ndrangheta è incaricata di gestire i rituali e di svolgere una funzione di parafulmine rispetto alla componente più importante e riservata, che attraverso i rapporti con ulteriori apparati massonici gestisce un enorme potere anche in campo politico ed economico”. Nino il “Nano” riferisce ai magistrati quello che in cella gli ha raccontato il collaboratore Cosimo Virgilio, profondo conoscitore dei grembiulini calabresi che aveva svelato alla Dda come le cosche della Piana di Gioia Tauro avevano imposto la mazzetta del 3% alle imprese che hanno ammodernato la Salerno-Reggio Calabria. “(Virgilio, ndr) mi confidò – dice Lo Giudice – che faceva parte di una società segreta chiamata massoneria e che era costituita da tre tronconi: una legalizzata (di cui facevano parte professionisti di alto livello come giudici, servizi segreti deviati e uomini dello Stato), la seconda da politici, avvocati ecommercialisti, e la terza da criminali con poteri decisionali e uomini invisibili che rappresentavano il tribunale supremo che giudicavano la vita e la morte di ogni affiliato, tutti uniti in unicapotenza incontrastata”. È ancora più chiaro lo stesso Virgilio che al pm Lombardo illustra come “materialmente è avvenuta l’interrelazione tra la componente massonica e quella tipicamente criminale”. Nel gergo massonico lo chiamano la “breccia di Porta Pia”. In realtà è una sorta di camera di compensazione a una sola entrata, un “varco” tra il mondo della ‘ndrangheta e quello dei grembiulini costituito da una “nuova figura criminale che è identificata con la Santa”.

    “È importante – continua Virgilio – precisare che, attraverso quel “varco” costituito dai santisti (soggetti insospettabili), il mondo massonico entra nella ‘ndrangheta e non viceversa, per quello che io ho vissuto e percepito. Devo precisare ancora che il ruolo di santista all’interno della ‘ndrangheta non consente in automatico ilcontatto con la massoneria: è necessario, invece, perché questo contatto avvenga, che si individuino ulteriori soggetti “cerniera”, che noi definivamo soggetti in giacca, cravatta e laurea, che fossero in grado di curare queste relazioni senza che fossero direttamenteindividuabili”. Mafiosi e massoni insieme quindi. In numerose inchieste ci sono tracce del fascino per la squadra e il compasso nutrito dai boss. Con l’operazione “Mamma Santissima”, però, scopriamo che è avvenuto soprattutto il contrario: sono i massoni che aprono quel “varco” dove i loro interessi si mescolano con quelli della ‘ndrangheta. “Il sistema allargato, composto tanto dagli elementi massonici che da quelli tipicamente di ‘ndrangheta, – è sempre il pentito Virgilio a parlarne con il pm Lombardo – aveva come obiettivo finale quello di garantire alla componente massonica, fortemente politicizzata, la gestione dei flussi elettorali. La componente di ‘ndrangheta mirava al consolidamento degli ingenti capitali sporchi, già formati, che andavano ricollocati sul mercato, anche estero, mediante strumenti finanziari evoluti, gestiti attraverso gli appartenenti alla massoneria”.

    Il Gran Maestro Di Bernardo: “Logge controllate dalle cosche”
    Nelle carte dell’inchiesta “Mamma Santissima”, il racconto deipentiti si incastra alla perfezione con quello dei massoni. A parlare ai magistrati è il professore Giuliano Di Bernardo, Gran maestro del Grande Oriente d’Italia, “non un quisque del populo” chiarisce il gip nell’ordinanza di custodia cautelare. Interrogato nel marzo del 2014, infatti, Di Bernardo “ha illustrato quella che lui stesso aveva percepito essere una sorta di compenetrazione fra una certa massoneria e la criminalità organizzata, specie calabrese”. “Entrato in massoneria nel 1961, – sono le sue parole – nel 1993, dopo essere fuoriuscito dal Goi (in cui ero stato nominato Gran Maestro), fondai La Gran Loggia Regolare d’Italia, nel 2002 … in quanto rimasi deluso anche di questa nuova esperienza. La Gran Loggia Regolare d’Italia è stata riconosciuta dalla massoneria inglese. Il Goi disconosciuto. In relazione a queste vicende ho avuto diretti contatti con il Duca di Kent che è al vertice della massoneria inglese che è la vera massoneria. Ettore Loizzo, ingegnere di Cosenza, mio vice nel Goi, nel corso di una riunione della Giunta (una sorta di cda del Goi in cui era presente anche il mio successore Gustavo Raffi, attuale Gran maestro) che io indissi con urgenza nel 1993 dopo l’inizio dell’indagine deldottor Cordova sulla massoneria, a mia precisa richiesta, disse che poteva affermare con certezza che in Calabria, su 32 logge, 28 erano controllate dalla ‘ndrangheta. Io feci un salto sulla sedia. Gli dissi subito: e cosa vuoi fare di fronte a questo disastro. Lui mi rispose: nulla. Io ancora più sbigottito chiesi perché. Lui mi rispose che non poteva fare nulla perché altrimenti lui e la sua famiglia rischiavano gravi rappresaglie. Fu questo che mi indusse prendere contatti con il Duca di Kent a cui esposi la suddetta situazione. Lui mi disse che già sapeva questa situazione tramite notizie da lui avuti dall’Ambasciata in Italia e dai servizi di sicurezza inglesi”.

    La rievocazione dei verbali di Di Bernardo provoca la dura reazione di Stefano Bisi, Gran maestro dl Grande Oriente d’Italia. “Il Grande Oriente d’Italia, pur non avendo nulla a che fare in termini di ruolo, di logge e dei suoi iscritti” con l’inchiesta, sostiene Bisi, “è stato poi strumentalmente e forzatamente evocato in tale contesto dagli organi d’informazione”. Secondo il Gran Maestro, “tirare in ballo un morto, che non può minimamente contraddire o puntualizzare la versione dei fatti attribuitagli, è sin troppo facile e da furbi”. Poi l’attacco a Di Bernardo, che “avrebbe avuto tutti gli strumenti massonici a sua disposizione e sarebbe dovuto prontamente intervenire per sciogliere le Logge in presunto odore d’illegalità di cui ha parlato nel 2014, o denunciarne i fatti alle autorità competenti. Il non averlo fatto allora sarebbe ancora oggi un atto estremamente grave e incomprensibile”.
    “Reggio Calabria centro propulsore dei movimenti separatisti”
    Dal racconto di Di Bernardo emerge come massoneria, ‘ndrangheta, Cosa Nostra e destra eversiva erano impegnate a sostenere i movimenti separatisti siciliani e meridionali. In sostanza l’oggetto dell’inchiesta “Sistemi criminali” che l’ex procuratore aggiunto di Palermo Roberto Scarpinato non riuscì a portare avanti. Un’indagine in cui era stato coinvolto Paolo Romeo, uno dei presunti componenti della cupola degli “invisibili” assieme al senatore di Gal Antonio Caridi e all’ex sottosegretario regionale Alberto Sarra. “Seppi dai miei referenti calabresi e non solo – mette a verbale il Gran maestro Di Bernardo – che all’interno del Goiall’inizio degli anni 90, vi erano soggetti che sostenevano i movimenti separatisti siciliani e meridionali in generale. Reggio Calabria era il centro propulsore, l’origine di tali movimenti autonomisti che trovavano sostegno in numerosi esponenti dellamassoneria e più esattamente del Goi. Ero molto preoccupato da questa situazione. Nel nord vi era la Lega Nord, a sud si stavano creando questi movimenti separatisti. Vedevo il nostro paese a rischio. In tutto questo, avevo accertato che assai probabilmente la precedente gestione del Gran Maestro del Goi era al centro di untraffico di armi con paesi extra-europei”.

    Perquisizione alla Regione
    Intanto oggi a Palazzo Campanella, sede del Consiglio regionale della Calabria, c’è stata una nuova perquisizione dei carabinieri del Ros e del Reparto Operativo. L’obiettivo degli investigatoriè trovare altri riscontri sulla posizione dell’ex sottosegretario della Regione Alberto Sarra, fino al 2005 assessore al Personale e nei cinque anni successivi consigliere di minoranza. Uomo di Paolo Romeo (considerato la mente della ‘ndrangheta reggina), Alberto Sarra è uno dei due politici regionali coinvolti nell’inchiesta “Mamma Santissima”. L’altro è il senatore Caridi che, prima di essere eletto al Parlamento, è stato assessore regionale alle Attività produttive. Entrambi, così come Paolo Romeo, erano di casa a Palazzo Campanella dove, anche adesso, hanno i loro referenti. Non è escluso che la Dda stia cercando di ricostruire come i due politici, che gestivano importanti budget, possano aver contribuito con emendamenti e proposte di legge a rafforzare gli amici dei clan.



    Massoneria, mafia, politica e servizi: ecco la "nuova" 'ndrangheta. "In Calabria 28 logge su 32 controllate da clan", è scontro - Il Fatto Quotidiano



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  3. #3
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    Predefinito Re: La Cosa Nuova

    ‘Ndrangheta, le carte: alle Europee la “cupola segreta” tifava Alemanno e Gasparri


    I nomi dei due ex ministri di Berlusconi nell'ordine di custodia che ha raggiunto, fra gli altri, il senatore di Gal Antonio Caridi. L'ex sindaco di Roma, scrive il gip, sostenuto "dagli Alvaro, dai Di Stefano" e da altri clan. I legami con l'ex governatore Scopelliti, a cui oggi sono stati perquisiti casa e ufficio
    di Lucio Musolino | 15 luglio 2016



    Reggio è stata sempre una città di destra e negli otto anni di amministrazione Scopelliti in riva allo Stretto si sono catapultati tutti i big della politica nazionale. Inevitabile, un riscontro di questo tipo anche nelle carte dell’inchiesta sulla “cupola segreta” della ‘ndrangheta, dove spuntano i nomi anche di Maurizio Gasparri eGianni Alemanno, entrambi candidati alle europee nel 2004 perAlleanza nazionale ed entrambi sostenuti da quella che può essere definita “la testa pensante della ‘ndrangheta che necessariamente si compone di soggetti riservati”. Il direttorio guidato dagli avvocati Paolo Romeo e Giorgio De Stefano, raggiunti oggi da un ordine di custodia cautelare, infatti, aveva puntato su Umberto Pirilli, liberando così un posto al Consiglio Regionale che sarebbe andato ad Alberto Sarra (anche lui arrestato) e scongiurando la possibilità di far candidare Scopelliti, eletto appena due anni prima al Comune di Reggio. Assieme a Pirilli, negli ambienti della ‘ndrangheta reggina sono stati chiesti i voti per i due esponenti di centrodestra.


    Dalle intercettazioni inserite nell’ordinanza di custodia cautelare, infatti, emerge che Gasparri, allora esponente di punta della maggioranza di centrodestra guidata da Silvio Belrusconi, è stato appoggiato dal senatore Antonio Caridi, sul quale ora pende una richiesta di arresto che dovrà essere esaminata da Palazzo Madama. Ne parla Francesco Chirico (il cognato del boss Orazio De Stefano) finito ai domiciliari. Quest’ultimo, nel giugno 2004 è stato intercettato in un momento in cui si lamentava di alcune promesse non mantenute dal senatore Caridi, allora assessore comunale, che non aveva ancora nominato un dirigente indicato da Chirico e non aveva assunto quattro persone nelle società miste. “Perché le Europee sono state ad aprile, – dice Chirico – alle Europee lui ha visto quello che ha visto, perché ha mandato a chiamare a mio compare il presidente, prima delle Europee, e gli ha detto ‘allora che dobbiamo fare, me la dai una mano, per Gasparri, no… che hai fatto tu per Archi, e per me che hai fatto, che mi hai dato, che mano ti devo dare, e là ha capito, no; perché loro ancora pensavano che noi eravamo sulle posizioni di voto Udc‘”.
    Se Caridi appoggiava Gasparri, Alberto Sarra era più vicino ad Alemanno e per lui aveva chiesto sostegno elettorale a molte famiglie di ‘ndrangheta: “I nostri due candidati sono Alemanno e Pirilli”, era il leitmotiv di Sarra per quelle elezioni. “Nel 2004 – scrivono i giudici – Sarra chiedeva e otteneva che i Logiudice, intesi ‘i marmisti’ di Condera, gli Alvaro, intesi “i merli” di Sinopoli, i De Stefano per il tramite di Chirico Francesco, i Libri-Caridi di Reggio Calabria e i Vadalà di Bova Marina appoggiassero i candidati Pirilli Umberto ed Alemanno Gianni”.
    Le Europee furono vinte da Gasparri e Alemanno che rinunciarono al seggio conquistato in Calabria a favore di Pirilli, il politico su cui la componente “riservata” della ‘ndrangheta aveva deciso di puntare. La sua elezione “era condicio sine qua non affinché Sarra, per come rappresentatogli da Romeo Paolo, potesse ricoprire un incarico assessoriale in Regione”.

    In Calabria è la ‘ndrangheta che fa politica mentre i partiti supinamente accettano i desiderata di Paolo Romeo e Giorgio De Stefano. Per i magistrati non ci sono dubbi: “Risulta evidente che tanto Alberto Sarra quanto Antonio Stefano Caridi erano gli ‘interlocutori’ privilegiati delle cosche operanti nei mandamenti di centro e jonico svolgendo di fatto un ruolo di estremo rilievo, che andava ben oltre quello di collettori di voti mafiosi che venivano dirottati (secondo identici ed immutati meccanismi nel tempo) verso i candidati di volta in volta di interesse, per trasformarli nei soggetti a cui era affidata la materiale attuazione delle linee di azione strategica in ambito politico del più ampio programma criminale dell’associazione mafiosa”.
    Ritornando a Gasparri, il suo nome compare anche nel verbale del collaboratore di giustizia Salvatore Aiello, ex responsabile tecnico della società “Fata Morgana” che si occupava della raccolta differenziata a Reggio Calabria. Al pm Lombardo, il pentito racconta che “Scopelliti per le assunzioni… solo una volta ha parlato con me per… per le… di un suo protetto… era il cameriere del Cordon Bleu (noto locale reggino, ndr), che era amico intimo di Gasparri… Solo che a me non piaceva il soggetto in quanto … in quanto un soggetto proprio come persona, è stata l’unica volta che entrando a Palazzo San Giorgio che il Sindaco mi chiese di assumere direttamente questo qua. Perché tutti gli altri… le assunzioni passavano da Scopelliti a Logoteta (presidente della ‘Fata Morgana’, ndr), perché fra loro si incontravano spesso».
    Il Ros ha perquisito anche la casa dell’ex governatore della Calabria Giuseppe Scopelliti – anche lui in passato di An – che, in attesa ancora di essere processato in appello per il processo sul caso Fallara, esce a pezzi dall’inchiesta “Mamma Santissima”. Dopo le sue dimissioni da governatore, in seguito alla condanna di primo grado a 6 anni di carcere, si era candidato alle elezioni europee non riuscendo però a essere eletto. Stando a quanto sostengono i pm, però, l’ex sindaco di Reggio avrebbe chiesto l’aiuto della ‘ndrangheta.
    “In buona sostanza, – è scritto nell’ordinanza di custodia cautelare – in prossimità delle consultazioni per il rinnovo del Parlamento Europeo, cui Scopelliti era candidato, quest’ultimo, tramite Sarra Alberto, aveva nuovamente chiesto sostegno a Romeo Paolo che, però, non risulta averglielo fornito, consapevole che, in quel momento storico, puntare su Scopelliti, oltre che poco conveniente, avrebbe comportato rischi, in grado di far emergere uno scenario criminale da mantenere riservato”.
    In serata è arrivata la replica di Gianni Alemanno: “Ribadisco nella maniera più categorica”, ha detto, “che non c’è nessun mio coinvolgimento nell’inchiesta ‘mammasantissima’ sull’ndrangheta. Nella fattispecie non ho mai conosciuto né politicamente né personalmente il senatore Antonio Caridi, mentre con l’ex sottosegretario regionale Alberto Sarra non intrattengo più alcun rapporto da almeno dieci anni. In ogni caso la mia azione nella regione Calabria è sempre stata di natura politica ed elettorale, senza nessun coinvolgimento con ambienti o logiche di tipo affaristico”.



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    Predefinito Re: La Cosa Nuova

    L’INCHIESTA DI REGGIO CALABRIA


    Da Cosa nostra a Cosa nuova
    «Ecco il piano per riunire i clan»


    Mafia e ‘ndrangheta erano pronti alla grande alleanza. I rapporti tra criminalità organizzata e logge massoniche nei racconti dei pentiti e nel verbale del Gran Maestro Di Bernardo: «Mi dissero che in Calabria 28 logge su 32 erano controllate dalle ‘ndrine»


    di Giovanni Bianconi

    Tra le decine di migliaia di pagine che compongono l’inchiesta della Procura antimafia di Reggio Calabria sui cosiddetti «Invisibili» che orienterebbero dall’ombra le scelte della ’ndrangheta, c’è pure il verbale sottoscritto nel 2014 da Giuliano Di Bernardo, il Gran Maestro della massoneria che guidò il Grande Oriente d’Italia fra il 1990 e il ‘93, quando ne uscì per fondare la Gran Loggia Regolare d’Italia. Interrogato dal pubblico ministero Giuseppe Lombardo, ha raccontato le confidenze che gli fece il suo vice al Grande Oriente, il calabrese Ettore Loizzo: «Nel corso di una riunione della Giunta del Grande Oriente, che io indissi con urgenza nel ’93 dopo l’inizio dell’indagine del dottor Cordova (all’epoca procuratore di Palmi, ndr) sulla massoneria, a mia precisa richiesta disse che poteva affermare con certezza che in Calabria, su 32 logge, 28 erano controllate dalla ’ndrangheta. Gli dissi subito: “E cosa vuoi fare di fronte a questo disastro?”. Lui mi rispose: “Nulla”. Io, ancora più sbigottito, chiesi perché. Lui mi rispose che non poteva fare nulla perché altrimenti lui e la sua famiglia rischiavano gravi rappresaglie... Faccio presente che la questione calabrese era molto più preoccupante in quanto la massoneria calabrese era ben più ramificata di quella siciliana».


    I racconti del «Buscetta della politica»

    Sempre nel 2014, il pentito di mafia Gioacchino Pennino, ribattezzato il «Buscetta della politica» per i suoi trascorsi nella Dc, ha disegnato agli inquirenti reggini un contesto dove, al riparo delle Logge, si sarebbe realizzato una sorta di mutuo soccorso tra le diverse organizzazioni criminali: «Confermo che mio zio Gioacchino Pennino, uomo d’onore della famiglia di Brancaccio, mi confidò di essere stato da latitante, negli anni 60, ospite dei Nuvoletta nel napoletano. Ciò non deve sorprendere in quanto Cosa nostra, ’ndrangheta e Sacra corona unita sono da sempre unite fra loro. Sarebbe meglio dire sono una “Cosa sola”. Da lì mio zio si recava in Calabria dove mi disse che aveva messo insieme massoni, ’ndrangheta, servizi segreti e politici per fare affari e gestire il potere. Una sorta di comitato d’affari perenne e stabile». Il collaboratore di giustizia messinese Gaetano Costa ha aggiunto: «I legami tra Cosa nostra e ’ndrangheta erano strettissimi. Non so in concreto per quanto tempo, né con quali risultati operativi, ma si arrivò a progettare e a dare forma (nel periodo immediatamente successivo alle stragi di Falcone e Borsellino) a una super-struttura che comprendeva le due organizzazioni; la cosiddetta Cosa nuova. Era una sorta di organizzazione mafiosa di vertice che ricomprendeva sia gli elementi di spessore e di peso di Cosa nostra che quelli della ’ndrangheta. Cosa nostra serviva a inserire in modo più organico, nel tessuto del crimine siciliano e calabrese, persone insospettabili, collegamenti con entità politiche, istituzionali e massoniche». Pure l’ultimo pentito di Cosa nostra, quel Gaspare Spatuzza che ha riscritto la storia della strage di via D’Amelio, è entrato nell’inchiesta reggina per dire che Mariano Agate — capomafia di Mazara del Vallo, noto per le sue frequentazioni di circoli massonici più o meno segreti — «è da considerarsi l’anello di congiunzione tra Cosa nostra e ’ndrangheta». E facendo proprie le considerazioni della Procura guidata da Federico Cafiero de Raho, il gip conclude che «il legame ’ndrangheta-massoneria può, anzi deve, ritenersi dimostrato».


    La cupola segreta

    È lì dentro che è nata e cresciuta, secondo l’ipotesi dell’accusa, la presunta «componente apicale segreta e riservata» di cui farebbero parte le cinque persone raggiunte dai provvedimenti d’arresto della scorsa settimana, compreso il parlamentare Antonio Caridi per il quale si attende l’autorizzazione richiesta al Senato. Giunti a condizionare non solo la gestione di appalti e affari, ma anche elezioni comunali, provinciali, regionali e nazionali, con l’obiettivo di controllare ulteriori appalti e affari. Una «centrale di potere» che s’è avvalsa della manovalanza criminale fino a integrarsi e convergere nella stessa organizzazione. Questa sarebbe la «’ndrangheta invisibile» svelata, oltre che da nuove dichiarazioni, dalla rilettura di vecchie deposizioni e intercettazioni. Scrive ancora il gip: «È la componente criminale che ai metodi tipici della lobby o della Loggia segreta, aggiunge la possibilità di avvalersi di metodi ben più penetranti, quelli mafiosi». Ma per «operare in contesti istituzionali o economici» ci vogliono «punti di riferimento segreti, occulti, riservati, unica strada per cui poteva passare il progetto di mimetizzazione della ’ndrangheta». Di qui il ricorso a personaggi «insospettabili», sebbene due degli arrestati (l’avvocato Giorgio De Stefano e l’ex parlamentare Paolo Romeo) siano pregiudicati per concorso in associazione mafiosa.

    La «lezione» del boss Mancuso

    A conferma di questa ricostruzione, gli inquirenti citano un’intercettazione carpita nel 2012 dai carabinieri del Ros al vecchio boss della provincia vibonese Pantaleone Mancuso, che diceva: «La ’ndrangheta non esiste più!... Una volta a Limbadi, a Nicotera, a Rosarno, a... c’era la ’ndrangheta! (...) Ora cosa c’è più?... è rimasta la massoneria e quei quattro storti che ancora credono alla ’ndrangheta!... È finita!... bisogna fare come... per dire... c’era la “democrazia”... è caduta la “democrazia” e hanno fatto un altro partito... Forza Italia, “forza cose”... bisogna modernizzarsi!... non stare con le vecchie regole! (...) Il mondo cambia e bisogna cambiare tutte cose!... oggi la chiamiamo “massoneria”... domani la chiamiamo P4, P6, P9...».



    Da Cosa nostra a Cosa nuova «Ecco il piano per riunire i clan» - Corriere.it

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    Predefinito Re: La Cosa Nuova

    LA SANTA | Il patto di ferro tra 'ndrangheta e massoneria deviata

    I verbali di Nino Lo Giudice e Cosimo Virgiglio raccontano l'accordo tra poteri occulti: «Le logge vogliono gestire i flussi elettorali, i clan consolidare i propri capitali sporchi»
    Sabato, 16 Luglio 2016 15:14


    REGGIO CALABRIA Dopo anni di silenzio, seguiti a un mai chiarito allontanamento dal sito protetto e una breve latitanza, è tornato a parlare con i magistrati il pentito Nino Lo Giudice. E lo farà ancora. Agli atti dell'inchiesta "Mammasantissima" c'è infatti anche un interrogatorio del 21 giugno scorso, che "il Nano" conclude annunciando un nuovo memoriale. Non una novità per il controverso collaboratore, prima pentito, poi pentito di essersi pentito, quindi tornato a riferire diligentemente dentro e fuori dalle aule di giustizia. Già in passato, Lo Giudice – sia all'inizio del suo percorso, come durante la latitanza – aveva affidato a uno scritto rivelazioni importanti. La differenza – adesso – è che un altro collaboratore, di diversa estrazione e caratura, è in grado di fornire riscontri importanti alle sue parole. Si tratta di Cosimo Virgiglio, faccendiere e massone al servizio dei clan della Piana, che con le sue dichiarazioni, in passato ha permesso di scoprire l'esistenza dell'ormai nota "tassa di sicurezza" del 3% sugli appalti dell'A3. Per anni messo da parte, Virgiglio oggi affronta argomenti che in passato aveva solo accennato nelle sue lunghe dichiarazioni. Perché? Semplicemente perché non erano stati esplorati. Ed è un peccato. Perché tanto dalle parole di Virgiglio, come da quelle di Lo Giudice, viene fuori il volto della 'ndrangheta nuova.
    IL NUOVO LO GIUDICE Per la prima volta nella storia della sua collaborazione, il Nano sembra essere in grado di parlare con cognizione di argomenti che vanno ben oltre la 'ndrangheta militare. Ne è venuto a conoscenza – sostiene – nel periodo in cui ha gestito la latitanza di Pasquale Condello ed è stato in contatto con il Superboss. È stato soprattutto Condello – riferisce - ad aprirgli le porte di un'organizzazione che in precedenza non era abilitato a conoscere. «Questa – spiega al pm Lombardo - è la nuova 'ndrangheta, che nasce dalla commistione tra la vecchia struttura criminale di tipo mafioso e la massoneria. In questa nuova organizzazione, la parte identificabile con la vecchia 'ndrangheta è incaricata di gestire i rituali e di svolgere una funzione di parafulmine rispetto alla componente più importante e riservata, che attraverso i rapporti con ulteriori apparati massonici gestisce un enorme potere anche in campo politico ed economico». Una rivoluzione rispetto ai tempi in cui professava che la 'ndrangheta si limitasse a cariche rituali e santini, trincerandosi dietro un testardo "non so" quando pm o avvocati gli chiedevano se ci fosse altro.

    LA STRUTTURA DECISIONALE "Altro" di cui oggi sembra invece disposto a parlare. E in dettaglio. Fa i nomi di notissimi avvocati, politici, imprenditori, boss e colletti bianchi al servizio della Cupola, ma annuncia un nuovo memoriale per essere più preciso e dare ad ognuno la corretta collocazione. «Una parte di tale struttura massonica è particolarmente riservata: ovviamente è questa la parte che gestisce il potere reale. Gli appartenenti alla parte meno importante in realtà sono solo figure di facciata che si occupano di rituali senza avere grande peso decisionale». Temi su cui – rivela – si era confrontato anche con Virgiglio, il quale gli avrebbe spiegato qualche dettaglio in più sulla struttura riservata della 'ndrangheta.


    I TRE LIVELLI E LE DOMANDE MAI FATTE «Mi confidò – mette a verbale il Nano - che faceva parte di una società segreta chiamata massoneria e che era costituita da tre tronconi: una legalizzata - di cui facevano parte professionisti di alto livello come giudici - servizi segreti deviati - uomini dello stato; La seconda da politici - avvocati – commercialisti; La terza da criminali con poteri decisionali e uomini invisibili che rappresentavano il tribunale supremo che giudicavano la vita e la morte di ogni affiliato, tutti uniti in unica potenza incontrastata». E' sulla base di queste dichiarazioni, che il pm Giuseppe Lombardo torna ad interrogare Cosimo Virgiglio, cui chiede dettagli non solo sulle attività dei clan per cui "lavorava", ma soprattutto sulle logge che nel tempo ha frequentato.

    LE LOGGE COPERTE DI REGGIO E MESSINA Virgiglio racconta della sua iniziazione a Messina, mediata da un previo passaggio per le stanze ovattate del Rotary, definito «trampolino di lancio per entrare nei Goi». Ma soprattutto precisa quali fossero le attività di quelle logge, dal mercato degli esami all'università al "traffico" di informazioni sulle indagini in corso. «Nel 92/93 arrivò a Messina, da Reggio Calabria, la soffiata su di una indagine sulla massoneria», racconta il pentito, aggiungendo che «la presenza di avvocati serviva principalmente per svolgere una funzione di tramite con gli apparati giudiziari, in particolare al fine di aggiustare i processi che riguardavano i principali esponenti della 'ndrangheta reggina».
    RAPPORTI CON I CLAN I Piromalli erano ben visti nell'ambiente e conosciuti, come i De Stefano, anzi – spiega – c'era anche un soggetto – il cui nome rimane allo stato omissato – che «svolgeva anche il fondamentale compito di gestire le relazioni tra Pino Piromalli e la famiglia De Stefano di Reggio Calabria», le medesime famiglie chiamate a gestire «le assunzioni delle maestranze quando il porto di Gioia Tauro diventò operativo». In più, Virgiglio si dice certo «dell'ingresso diretto di appartenenti a famiglie di 'ndrangheta in altre logge coperte», come dell'esistenza di una «componente riservata» con «un ruolo indispensabile nelle logiche criminali della 'ndrangheta, le quali in un sistema criminale integrato si avvale dei soggetti riservati, quale il ...OMISSIS..., per gestire gli affari di maggior rilievo». Parole cui fanno eco quelle dette, quasi vent'anni fa, da collaboratori come Lauro, Barreca, Albanese e Costa e oggi come allora testimoniano l'esistenza di rapporti e cointeressenze fra 'ndrine e ambienti massonici, necessari a garantire potere. «E per la 'ndrangheta – chiosa il gip - il potere è essenzialmente potere economico, capacità di infiltrazione delle realtà economiche e di guidarle, di piegarle ai propri interessi».
    LA SANTA Un contesto che Virgiglio può descrivere bene perché ne è stato parte, tanto da conoscere in dettaglio il "riservato" dei Piromalli e gli uomini – incluso un parlamentare, il cui nome rimane per adesso top secret – che per il clan si occupavano dei contatti occulti con la politica, l'economia e le altre mafie. « È importante sottolineare, per farle capire come materialmente è avvenuta l'interrelazione tra la componente massonica e quella tipicamente criminale – spiega con calma al pm Lombardo - che il "varco", che nel gergo massonico è riferito alla "breccia di Porta Pia", è costituito da quella nuova figura criminale che è identificata con la Santa». Ed è – aggiunge - «attraverso quel "varco" costituito dai santisti (che sono rappresentati da soggetti insospettabili), il mondo massonico entra nella 'ndrangheta e non viceversa, per quello che io ho vissuto e percepito».

    I SANTISTI E QUELLI CON «GIACCA, CRAVATTA E LAUREA» Attenzione, spiega il pentito. Sono le logge a cercare i clan e non tutti i santisti dei clan sono autorizzati a parlare con gli uomini delle logge. Anche qui c'è una stratificazione. «Il ruolo di santista all'interno della 'ndrangheta – chiarisce - non consente in automatico il contatto con la massoneria: è necessario invece, perché questo contatto avvenga, che si individuino ulteriori soggetti "cerniera", che noi definivamo soggetti in giacca, cravatta e laurea, che fossero in grado di curare queste relazioni senza che fossero direttamente individuabili».

    MUTUO SOCCORSO Questa terra di mezzo, impastata di 'ndrangheta e massoneria ha sempre avuto uno scopo preciso ed è stata la risposta a esigenze diverse e complementari. «Il sistema allargato, composto tanto dagli elementi massonici che da quelli tipicamente di 'ndrangheta – racconta il collaboratore - aveva come obiettivo finale quello di garantire alla componente massonica, fortemente politicizzata, la gestione dei flussi elettorali. La componente di 'ndrangheta mirava al consolidamento degli ingenti capitali sporchi, già formati, che andavano ricollocati sul mercato, anche estero, mediante strumenti finanziari evoluti, gestiti attraverso gli appartenenti alla massoneria». Tutti ci guadagnano, nessuno si lamenta, tutti sono interessati a proteggersi mutuamente.

    SPECIALIZZAZIONE FUNZIONALE Funzioni e obiettivi che hanno avuto un riflesso – a detta di Virgilio – anche nella strutturazione della massoneria a Reggio Calabria, dove esistevano due logge. Una aveva il «maglietto pulito» ed era la Loggia dei Due mondi, la seconda, denominata «La Fenice» deteneva invece il «maglietto sporco o occulto». Per il pentito, «costituisce quell'ambito riservato o invisibile della stessa componente massonica» e ne facevano parte «numerosi soggetti collegati all'ambiente criminale di tipo mafioso, che per evidenti ragioni non potevano essere inseriti nelle logge regolari, ovvero nella parte visibile. Tra questi soggetti, inseriti nella componente occulta, ricordo tale avvocato Romeo che, se non sbaglio, si chiama Paolo, ...omissis..., l'On. Pietro Araniti, tale ..omissis.... Confermo che la componente occulta era retta direttamente dalla Gran Loggia del Principe Alliata». Molti nomi, inclusi quelli di due dei capi della loggia La Fenice rimangono coperti da segreto in attesa dei risultati delle indagini in corso. Ma alcuni, iniziano a filtrare. E tanto Virgiglio come Lo Giudice li indicano come parte della componente più occulta e pericolosa della 'ndrangheta reggina.



    Corriere della Calabria - LA SANTA | Il patto di ferro tra 'ndrangheta e massoneria deviata

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    LA SANTA | Così la massoneria ha venduto l’anima al diavolo

    Il racconto di un ex Gran Maestro del Goi ai magistrati: «Il mio vice cosentino Ettore Loizzo mi disse che 28 logge su 32 erano in mano alla 'ndrangheta. E lui non poteva farci nulla»
    Domenica, 17 Luglio 2016 088


    COSENZA Le chiamano sliding doors. Qualcuno ci ha girato dei film, altri hanno vissuto sulla propria pelle momenti in cui sarebbe bastato poco – una svolta inattesa, un impegno più deciso – per cambiare il corso degli eventi. Giuliano Di Bernardo, già Gran Maestro del Goi (Grande Oriente d'Italia, ndr), racconta ai magistrati la sliding door (almeno una delle sliding doors) della massoneria rispetto ai rapporti con la 'ndrangheta. Lo fa il 6 marzo 2014. E la sua è una storia destinata a riaffacciarsi nel corso degli anni, ispirando altre uscite rumorose dalle logge calabresi, altri strappi dolorosi e profondi. Motivati da una diversa percezione (e, forse, anche una differente sensibilità) delle infiltrazioni mafiose.
    Di Bernardo inizia il suo impegno nella massoneria nel 1961. Trentadue anni dopo – nel frattempo l'ha scalata fino a diventare Gran Maestro – lascia il Grande Oriente d'Italia per fondare la Gran Loggia Regolare d'Italia. La massoneria inglese abbraccia la nuova loggia, mentre disconosce la prima. Cosa è successo? L'ex Gran Maestro, racconta ai magistrati un vecchio colloquio con Ettore Loizzo, «ingegnere di Cosenza, mio vice nel Goi, persona che per me era il più alto rappresentante del Goi». Loizzo – sono le parole di Di Bernardo – «nel corso di una riunione della Giunta del Grande Oriente d'Italia (una sorta di CdA del Goi in cui era presente anche il mio successore Gustavo Raffi, attuale Gran maestro del Goi [lo era ancora ai tempi dell'interrogatorio, ndr]) che io indissi con urgenza nel 1993 dopo l'inizio dell'indagine del dott. Cordova (Agostino, procuratore di Palmi, ndr) sulla massoneria, a mia precisa richiesta, disse che poteva affermare con certezza che in Calabria, su 32 logge, 28 erano controllate dalla 'ndrangheta».
    Di Bernardo fa «un salto sulla sedia. Gli dissi subito: e cosa vuoi fare di fronte a questo disastro? Lui mi rispose: nulla. Io ancora più sbigottito chiesi perché. Lui mi rispose che non poteva fare nulla perché altrimenti lui e la sua famiglia rischiavano gravi rappresaglie».
    La situazione, in Calabria, è devastante. Di Bernardo lo capisce e prende contatto con il Duca di Kent, che è la figura di riferimento della massoneria inglese, a cui si ispira in qualche modo quella italiana. «Lui mi disse – spiega – che già sapeva di questa situazione tramite notizie da lui avute dall'Ambasciata in Italia e dai servizi di sicurezza inglesi. Io feci espresso riferimento alla commistione fra criminalità organizzata e Goi».
    Quello calabrese non è un unicum. Intorno al 1990, nel corso di una visita in Sicilia, il presidente del più alto organo della giustizia massonica aveva raccontato a Di Bernardo che il più alto esponente della circoscrizione del Goi di Mazzara del Vallo era mafioso, come numerosissimi esponenti del Goi siciliano. «Capii che davvero – continua – , come diceva Cordova, il Goi era una "palude". Fu il duca di Kent che mi suggerì di uscire dal Goi e creare un nuovo Ordine. Faccio presente che la questione calabrese era molto più preoccupante in quanto la massoneria calabrese era ben più ramificata e potente di quella siciliana».
    La Calabria è l'epicentro di un'infiltrazione fuori dal controllo. Il legame tra mafie e massoneria si inquadra nel contesto di frequentazione politica tra la criminalità organizzata e i movimenti separatisti siciliani e meridionali in generale. E «Reggio Calabria era il centro propulsore, l'origine di tali movimenti autonomisti che trovavano sostegno in numerosi esponenti della massoneria e più esattamente del Goi. Ero molto preoccupato da questa situazione. Nel nord vi era la Lega Nord, a sud si stavano creando questi movimenti separatisti. Vedevo il nostro paese a rischio».Ce n'è quanto basta per giungere a conclusioni inquietanti. Sono quelle contenute nell'ordinanza di custodia cautelare che ha colpiti i presunti esponenti (o, almeno, parte di essi) della loggia coperta che "governava" su Reggio Calabria: «La massoneria calabrese era, di fatto, in mano alla 'ndrangheta, nessuno poteva obiettare alcunché, salvo rischiare personalmente».
    Ettore Loizzo, figura storica della massoneria cosentina e calabrese, è scomparso nel dicembre 2011. Non potrà smentire né confermare le parole che gli vengono attribuite. Tuttavia, nel corso degli ultimi anni, le denunce e le prese di distanza dalla massoneria per il suo rapporto spericolato con i clan non sono mancate. Altre sliding doors, ammesso che non sia troppo tardi.



    http://www.corrieredellacalabria.it/index.php/cronaca/item/48084-la-santa-cos%C3%AC-la-massoneria-ha-venduto-l%E2%80%99anima-al-diavolo
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    Predefinito Re: La Cosa Nuova

    LA SANTA | «Ecco chi sono i "riservati" di Reggio Calabria»

    Avvocati, professionisti, politici, insospettabili: tutti inseriti tra i massoni "invisibili" dai collaboratori di giustizia. C'è un mare di nomi nei verbali dei pentiti Lo Giudice e Virgliglio. E la Dda va a caccia di riscontri e approfondimenti
    Sabato, 16 Luglio 2016 18:41


    REGGIO CALABRIA Le fonti di conoscenza dei due collaboratori sono diverse, come diversa è la caratura, ma per il giudice entrambi sono assolutamente attendibili e le loro dichiarazioni sono da ritenersi credibili e genuine. I pentiti Nino Lo Giudice e Cosimo Virgiglio, nel corso di interrogatori recentissimi su cui gli approfondimenti sono già in corso, hanno svelato al pm Giuseppe Lombardo i nomi di alcuni degli appartenenti a quella terra di mezzo in cui 'ndrangheta e massoneria si mischiano per aiutarsi mutuamente.
    LE RIVELAZIONI DI CONDELLO Nel suo ultimo interrogatorio, il 21 giugno scorso, Lo Giudice afferma di aver appreso i nomi di alcuni dei componenti della struttura riservata della 'ndrangheta direttamente da Pasquale Condello, «che mi disse di far parte lui stesso di quel mondo». E il pentito fa i nomi dell'avvocato Antonio Marra, dell'ex sottosegretario Alberto Sarra, di Pasquale Rappoccio, dell'avvocato Giorgio De Stefano, dell'ex antenna dei servizi Giovanni Zumbo, del funzionario regionale Francesco Chirico, cognato di Paolo, Giorgio e Orazio De Stefano e zio del capocrimine Giuseppe, dell'avvocato Paolo Romeo , «di cui – sottolinea Lo Giudice – mi ha parlato anche Cosimo Moschera, che era legato ad Avanguardia Nazionale insieme a Romeo e al marchese Zerbi».
    IMPRENDITORI E POLITICI Insieme a questi ci sarebbero anche, secondo quanto il collaboratore ha appreso dal Superboss, nomi noti della 'ndrangheta reggina come Giuseppe De Stefano e Pasquale Libri, politici come Giuseppe Scopelliti e i suoi fratelli, Fortunato e Francesco, l'imprenditore Mandaglio, «titolare di un negozio di elettrodomestici in via Possidonea», e diversi legali, Bucca, Scalfari e Calabrese, che – spiega il pentito - «il Condello accostava anche ai servizi di sicurezza». «Anche il dott. Crocè e tale Dominque Suraci – puntualizza a fine interrogatorio il pentito - fanno parte del medesimo contesto massonico: sono soggetti anche questi vicini a Pasquale Condello». Il reggente Domenico Condello, chiamato spesso da Lo Giudice "Gingomma", gli avrebbe invece parlato di Giuseppe Libri, del sottosegretario Sarra e di un non meglio precisato « dott. Cellini», in passato nominato spesso anche da Paolo Schimizzi.
    LE PAROLE DI CHILA' Altri nomi- aggiunge Lo Giudice – glieli ha rivelati Giovanni Chilà, defunto uomo di vertice del suo stesso clan. Nell'elenco, tornano i nomi di Giuseppe De Stefano e Pasquale Libri, come di Paolo Romeo e del suo storico collaboratore, l'avvocato Antonio Marra. In più ci sono quelli dell'imprenditore Giovanni Zumbo, rappresentante della Parmalat, Antonino Latella, Carmelo Iamonte, Domenico Libri, Giovanni Alampi, il defunto notaio Marrapodi, Rocco Aquino e l'avvocato Corrado Politi, accostato al clan Tegano, e i fratelli Frascati.
    "LE CONFERME DI FRASCATI E LA CONFESSIONE DI FONTANA" Secondo quanto dichiarato dal collaboratore, sarebbero stati questi ultimi a raccontargli della loro appartenenza a quel mondo, insieme al generale Angiolo Pellegrini, al professore Caratozzolo di Messina e «a tale Sinicropi». «Mi dissero i Frascati – mette a verbale - che con tali soggetti si svolgevano incontri nella villa di Gambarie di Angelo Frascati. Mio padre mi disse anche che il Gen. Pellegrini si era impegnato ad aggiustare la procedura di sequestro degli immobili ai Frascati». Confidenze che gli sono state fatte anche in virtù dei legami di parentela, perché «mio zio Francesco Ficara è parente di Angelo Frascati, in quanto il fratello di questi ha sposato la figlia del Ficara». Il boss Giovanni Fontana gli avrebbe invece rivelato, solo per questione di fiducia, la sua appartenenza alla massoneria. «Ricordo – afferma - che sia lui che Pasquale Condello mi parlarono di tale De Caria, come soggetto a sua volta legato a quel mondo».
    AVVOCATI Secondo quanto si legge nelle carte, anche il legale Lorenzo Gatto, per lungo tempo suo difensore, avrebbe confessato al "Nano" la sua appartenenza a quel mondo riservato, dando a Lo Giudice conferma di quanto sostiene di aver appreso da Chilà e Condello, secondo cui il noto avvocato sarebbe un Santista, affiliato da Domenico Libri. Non a caso – ricorda Lo Giudice – «l'Avv. Gatto mi disse che su viale Aldo Moro, vicino ad una palestra, vi era una sala riunioni di questa superloggia massonica. Non sono in grado di indicare, però, il luogo esatto in quanto il Gatto non mi ha fornito indicazioni precise. Ricordo che nei pressi si trova un cinema». Dal legale, Lo Giudice avrebbe appreso dell'appartenenza alla Santa del maresciallo Francesco Spanò, di Logoteta e della sua omonima loggia, di boss come Giuseppe Pelle di San Luca, Giuseppe Libri e Giuseppe De Stefano, dello zio di questi, l'avvocato Giorgio De Stefano, come pure dell'avvocato Aurelio Chizzoniti. «Ricordo che mi fece anche ascoltare una registrazione tra Ugo Marino ed altro soggetto che Gatto diceva essere legati alla massoneria. Anche il reggente di Santa Caterina – ricorda – gli ha parlato di un legale. Si tratta dell'avvocato Tommasini, storico difensore di casa De Stefano, «di cui – dice Lo Giudice - mi aveva parlato anche mio padre». Ma Moschera, aggiunge, aveva parlato anche dei Mammoliti. Dell'avvocato Giglio e del fratello medico, Vincenzo, gliene aveva parlato invece Domenico Gangemi, affiliato ai Lo Giudice, che dei due sapeva anche che «abitano o hanno uno studio in via Melacrinò; gli stessi Giglio – riferisce il Nano - hanno una abitazione anche di fronte alla Regione Calabria.
    LA RETE DI LUCIANO Il pentito afferma di aver sempre saputo dell'appartenenza di Paolo Martino, cugino dei De Stefano e loro proconsole in Nord Italia, a tale contesto massonico, al pari di Mario Mesiani Mazzacuva «che aveva parlato con mio padre in mia presenza». In famiglia però, le rivelazioni più importanti gliele avrebbe fatte il fratello, Luciano Lo Giudice. Nomi così importanti da essere coperti da vistosi omissis, cui sopravvive solo un'indicazione. «Tali soggetti si riunivano spesso nel palazzo Upim di Reggio Calabria», meglio noto come palazzo Sarlo. Altre informazioni arriveranno invece a Lo Giudice dall'imprenditore Antonino Spanò. «Mi disse che conosceva appartenenti alla massoneria: mi parlò certamente di Siclari Pietro, che chiamava zio Pietro, che mi disse essere un uomo di ...OMISSIS...; questa circostanza mi è stata confermata anche da mio fratello Luciano e dal capitano Spadaro Tracuzzi.
    ME LO HA DETTO VIRGIGLIO Molti dei nomi che Lo Giudice ha inserito nel secondo memoriale, inviato durante la sua breve latitanza – chiarisce – gli erano stati riferiti da Cosimo Virgiglio. «Mi ha parlato di Bellocco Umberto, di Pesce Giuseppe e Marcello, dell'imprenditore Mucciola, dei Piromalli, di Morelli, di Quattrone, di Pietro Tripodi – collegato al Chirico ed al Mandaglio –, di Pietro Fuda, dei Cedro, dell'Avv. Politi Corrado, di tale Marrara, di tale Marrari, dei fratelli Labate, del dott. Pulitanò, del notaio Poggio, di Angelo Barillà dirigente della Sisa di Melicucco, nipote di Natale Iamonte. Fra loro c'è anche quello del capitano Spadaro Tracuzzi, condannato anche in appello come uomo al servizio di Luciano Lo Giudice, che – ricorda il Nano – insieme a un uomo dal nome ancora tenuto sotto silenzio «si recavano al porto di Gioia Tauro per collaborare con la CIA, che aveva un ufficio presso quella struttura».
    LE RIVELAZIONI DEL MASSONE DEI CLAN E sarà proprio lui a ripeterli, in maniera ordinata e anche molto più circostanziata di Lo Giudice, al pm Lombardo. Insieme a molti altri. Come quello dell'imprenditore Cedro di Gioia Tauro, dei boss Rocco Aquino, Giuseppe Pesce e Pietro Labate, dell'imprenditore Giovanni Zumbo e del «presidente della Camera di Commercio, coso, Dattola, che era nostro fratello».
    BARONI DELL'UNIVERSITA' E DEL CALCIO Del preside, Eugenio Caratozzolo, racconta di averlo incontrato al Rotary, ai tempi in cui era «trampolino di lancio per la massoneria». Un contesto all'epoca frequentato da personaggi del calibro dei professori «Antonio Miceli e Carluccio di Reggio Calabria, il professore di diritto commerciale era all'epoca lui, poi c'era il professore Falzea e il preside, Eugenio Caratozzolo e... e poi veniva... cominciava a venire anche Franco Sensi di Roma, il proprietario della Roma all'epoca». Quella per Virgiglio è stata solo una fase prodromica all'ingresso nel Goi e soprattutto nella sua area più riservata. «nel Goi mi ritrovo Eugenio Caratozzolo, il figlio Marcello e, e, e, lo stesso Franco omissis».
    AVVOCATI MESSAGGERI? Fra gli uomini della Santa, Virgiglio indica anche un legale che ha imparato a conoscere bene. Si tratta dell'avvocato Corrado Politi, approdato misteriosamente in carcere proprio quanto Virgiglio stava iniziando a valutare l'ipotesi di una collaborazione. Politi si sarebbe presentato da Virgiglio, affermando «mi ha nominato tua moglie». Una nomina strana, o quantomeno anomala. Non solo per le modalità, ma anche perché il misterioso legale non sarebbe stato infatti uno "specialista" di collaboratori. «Dice: io, vengo, sono amico di questo Pellicano, mi disse». Un nome speso con noncuranza – all'epoca il dottore Pellicano era ancora incensurato, ma già un nome di peso nella loggia reggina – ma che sembra introdurre una conversazione che poco sembra avere a che fare con un mandato difensivo.
    COLLABORI? RISOLVIAMO IN MODO DIVERSO «Dice: no, io vorrei capire, dice, cosa sta facendo lei, che non fa ... e ho detto: e che faccio, dico, sono qua a collaborare, lei l'ha letta la mia ordinanza? – dice Virgiglio, ricordando quel botta e risposta fra lui e il legale –. Sì, l'ho scaricata tutta sul pennino... ah, e mi fa piacere, e che cosa ne dice?.. Mah, la possiamo affrontare in modo diverso». Quale fosse, l'avvocato fa presto a spiegarlo. «Mi raccomando però – rammenta di essersi sentito dire Virgiglio – sua moglie ha paura, dice, non faccia i nomi di certe persone, non faccia i nomi di questo, di quell'altro, mi raccomando, salvi i "nini"».
    «SALVA I "NINI"» Un soprannome per il quale il pentito non ha bisogno di spiegazione e che anche al pm sembra cristallino: sono «i giovanotti» della cosca Molè, divenuti nel tempo plenipotenziari reggenti del clan. E sebbene – allo stato – i loro nomi nei verbali siano coperti dagli omissis, nelle ordinanze che negli anni successivi hanno interessato il clan Molè, l'espressione si ripete spesso. E altrettanto spesso indica Antonio Molè "U Iancu", figlio di Domenico, e il cugino Antonio Molè "U Niru", figlio di Gioacchino. Quando Virgiglio viene arrestato e inizia a collaborare i due hanno circa vent'anni, ma già mostrano di avere tutte le caratteristiche per rivendicare il ruolo dirigente che era stato dei rispettivi padri. Per questo, probabilmente, andavano salvati. E non da soli.
    ISTRUZIONI Questo – dice Virgiglio al pm Lombardo – era palese nelle parole del legale, sebbene da lui non fossero arrivate altre esplicite istruzioni. «Non mi disse i nomi che non ... attenzione ai nomi che...fa proprio così», spiega il collaboratore che in quell'occasione dal misterioso avvocato avrebbe ricevuto una missiva. «Dice: questa qui è la lettera di separazione che sua moglie le fa, me l'ha mandata, dice ... e in quel momento, dottore, ho dovuto giocare un po' d'astuzia».
    PROFESSIONISTI E POLITICI Virgiglio fa poi i nomi di Franco Labate, «per tanti anni medico al San Pietro di... al carcere, carissimo amico Ciccio Ceraudo, che era il famoso e importantissimo medico di Pisa, dove a tutti i costi dovevano mandare Molè per poi da lì farlo arrivare a Palmi e poi essere a casa»e dell'imprenditore Carlo Montesano, che presiedeva la loggia coperta di Reggio. Ma nel suo elenco ci sono anche i nomi di molti politici, come quello dell'ex governatore della Calabria, Giuseppe Chiaravalloti, associato dal pentito alla presunta loggia riservata gestita dagli avvocati Torchia, «la piccola loggettina di potere». Insieme a lui, compaiono anche Luigi Fedele e Pietro Fuda, protagonisti di un ribaltone politico, cucinato in ambito massonico. Tutti soggetti su cui – adesso – la Dda ha intenzione di approfondire. Anche perché – sottolinea il gip - «le recentissime dichiarazioni dei due collaboratori, pur non del tutto sovrapponibili, evidenziano, affermazioni convergenti sull'esistenza di questo sistema masso-mafioso che si sta procedendo ad esaminare».


    Alessia Candito


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    Predefinito Re: La Cosa Nuova

    LA SANTA | I posti di lavoro gestiti dagli "invisibili"

    L'interazione tra 'ndrangheta e politica e il controllo delle società miste di Reggio hanno trasformato i clan in agenzie di collocamento. Allargandone la base di consenso sociale
    Sabato, 16 Luglio 2016 17:24


    REGGIO CALABRIA La 'ndrangheta, grazie agli "invisibili" che tiravano le fila dal loro organismo segreto, non solo riusciva ad ingrassare i patrimoni dei boss e dei "clientes" dei politici, ma era riuscita a darsi l'immagine di "agenzia sociale, economica", in definitiva "il vero dominatore dell'area" di Reggio. E lo strumento per questa operazione erano le società miste di cui si era dotato il Comune di Reggio Calabria, grazie alle quali, in una realtà economicamente depressa, le cosche potevano "porsi esattamente nei termini di agenzia di collocamento di forza lavoro". E' quanto evidenzia il gip Domenico Santoro nell'ordinanza di custodia cautelare "Mammasantissima". Le società miste, evidenzia il gip, "erano uno degli obiettivi della 'ndrangheta" e le vicende della Multiservizi, al pari di quelle di Fata Morgana e di Leonia, finite al centro di altre inchieste, "dimostrato che essa se ne è impossessata".
    "Il meccanismo perverso che si è determinato - scrive il gip - ha visto i politici interagire con la 'ndrangheta, creare un sistema clientelare di assunzioni che ha servito entrambi i poli del patto sinallagmatico. Da un lato la 'ndrangheta si è ingrassata, dall'altro, ha giovato finanche di assunzioni, in ogni caso i clientes della politica si sono inseriti nelle società miste, le hanno sfiancate con le continue forme di drenaggio di risorse economiche e con le assunzioni richieste ed ottenute, con il risultato che si è creato un sistema di malaffare, in cui l'interesse pubblico sotteso alla ragione per cui il legislatore aveva previsto le società miste è passato veramente sullo sfondo. E, peraltro, esse sono divenute uno dei momenti dimostrativi della capacità della 'ndrangheta di essere agenzia sociale, economica, il vero dominatore di questa area". E questo meccanismo di "apprensione" delle società miste - utile anche a creare un bacino elettorale da riversare sui candidati scelti dal direttorio segreto della 'ndrangheta, è stato "diretto dalla componente riservata, che ha, con saggezza, prudenza, costanza, preparato il terreno che ha consentito, per primi ai De Stefano, di lucrarne enormi vantaggi in termini non solo economici ma anche di riconoscenza sociale. E ciò si è verificato per i De Stefano come per i Tegano, per i Fontana e per tutte le altre cosche poi intervenute nel settore dei rifiuti con riguardo alla Leonia". "Ovvio era - scrive il gip - che l'interlocuzione preliminare a tale progetto non potesse avvenire con la parte visibile della 'ndrangheta da parte di chi era disposto a questa cessione di sovranità democratica. Ecco perché è intervenuta, in quei frangenti, quella componente riservata che esisteva già da tempo e che faceva capo a Giorgio De Stefano ed al suo storico sodale Paolo Romeo".
    "Insomma - sottolinea il giudice - il grande tema, per la 'ndrangheta, era (ovviamente non solo quello ma, sul versante pubblico, precipuamente) quello del controllo delle società miste: tutte. E un uomo che, come Romeo, conosceva le dinamiche proprie di una competizione amministrativa in cui aveva finanche deciso quali liste dovessero essere presentate, e quali candidati, e che aveva eletto Antonio Stefano Caridi a prossimo uomo di governo, non poteva che conoscere tutte le dinamiche sottese alla distribuzione delle esternalizzazioni".


    http://www.corrieredellacalabria.it/index.php/cronaca/item/48079-la-santa-i-posti-di-lavoro-gestiti-dagli-invisibili
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  9. #9
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    Predefinito Re: La Cosa Nuova

    L'anima nera di Reggio e l'inchiesta che deve arrivare

    di Alessia Candito
    Giovedì, 14 Luglio 2016 19:19


    Forse per spiegare limiti e lacune, forse per stimolare interessate e interessanti conversazioni. Fatto sta, che Federico Cafiero de Raho è stato chiaro: «questa è solo una porzione investigativa delle attività dell'associazione segreta che per lungo tempo ha governato Reggio Calabria». In sintesi, il bello deve ancora venire. E questo è un bene.
    Al pari di altre che l'hanno preceduta, coma Fata Morgana, Sistema Reggio e Il Principe, l'operazione Reghion che ha fatto finire dietro le sbarre il dirigente comunale Marcello Cammera e altre nove persone, accusate a vario titolo di aver aggiustato appalti per favorire la 'ndrangheta, è solo una parte di un'indagine più grande e completa.
    Un dato che non è sfuggito a ai più attenti osservatori, come alla pancia della città. Che parla, mormora, commenta. Che aspetta – pavida – una liberazione che non si sa conquistare. Ma che sa – perché lo vive sulla propria pelle – che da troppi anni la verità storica non si specchia in quella giudiziaria, fino ad oggi rimasta sempre un passo indietro.
    Reggio Calabria sa che menti criminali come Paolo Romeo e Giorgio De Stefano, protagonisti delle inchieste sulle trame più oscure della Repubblica dagli anni Settanta ad oggi, non possono essersi semplicemente occupate di bar e centri commerciali. Sa che le municipalizzate sono sempre state terreno off limits per qualsiasi amministrazione, relegata al rango di silente pagatore di affari decisi da altri. Sa che aziende dai nomi altisonanti come Accion Agua e Fiat Ingest Facility non sono arrivate a Reggio Calabria per caso, ma il loro provvidenziale intervento – sempre con tutte caratteristiche giuste per adempiere alle clausole previste in sostanziosi quanto blindati appalti – deve essere stato richiesto e mediato altrove.
    Un territorio di mezzo che puzza di massoneria e mafie – quelle vere – e che negli anni è divenuto il silenzioso protagonista di intrecci e trame maturate a Reggio Calabria. È in quell'altrove che la Lega Nord ha trovato "professionisti senza professione" come il neanche laureato Giovanni Mafrici, in grado di guidare il Carroccio lungo i canali di riciclaggio dei De Stefano. È nel medesimo territorio che si è strutturata la composita rete internazionale pronta ad attivarsi a Montecarlo come a Roma, a Beirut come a Imperia per salvare Amedeo Matacena, condannato definitivamente come referente istituzionale del clan Rosmini e indagato oggi come fondamentale elemento di congiunzione fra 'ndrangheta e politica.
    Due mondi che in quel territorio di mezzo sembrano essere non ospiti, ma residenti, perché legati da una mutua necessità e forse comodi grembiuli, utili a occultare le diverse provenienze e a spiegare casualità e circostanze. Quelle che fanno sì che nel 2004 Matacena sia il candidato preferito di Paolo Romeo per drenare fondi pubblici dal Parlamento Europeo , e nel 2014 il suo imprenditore preferito per i lavori di ristrutturazione del Lido comunale e non solo. Quelle che raccontano le manovre di Romeo per condizionare la politica all'epoca del Decreto Reggio e ripropongono – identiche – le stesse manovre e le stesse entrature negli anni della città metropolitana. Quelle che oggi puzzano di città Stato che subli gli interessi dei clan, come un tempo puzzavano di secessione per «dare alla mafia una nazione» quelle indagate dall'allora procuratore aggiunto di Palermo, Roberto Scarpinato.
    Dice una frase spesso attribuita ad Agata Christie che «una coincidenza è una coincidenza, due coincidenze fanno un indizio, tre coincidenze fanno una prova». E a Reggio Calabria troppe sono le casuali circostanze che hanno fatto emergere sempre gli stessi clan, gli stessi grembiuli, gli stessi nomi, gli stessi metodi, gli stessi pezzi imbastarditi di Stato.
    Ecco perché è un bene che la Dda di Reggio Calabria lavori a un'inchiesta che dia un quadro di senso ai tanti chirurgici e sempre puntuali interventi criminali. Di sistemi criminali. Ecco perchè Cafiero de Raho ha dato una buona notizia a Reggio Calabria e non solo.
    L'inchiesta annunciata dal procuratore capo significa mantenere una promessa antica fatta alla città dal pm Giuseppe Lombardo, che concludendo la sua requisitoria al processo Meta ha affermato «questa non è meta, ma è metà, perché la 'ndrangheta non finisce a Giuseppe De Stefano e Pasquale Condello», per procedere poi alla sua dichiarazione di guerra agli invisibili.
    «Volete che io mi stupisca – aveva detto a seguire - nel momento in cui riaffermo che la 'ndrangheta ha la forma dell'acqua? Non mi stupisco, ma mi stupisco invece del fatto che l'acqua prende la forma dei recipienti che la contengono e mi stupisco nel momento in cui non si fa uno sforzo per comprendere chi ha modellato quel recipiente, chi lo ha allargato, chi lo ha reso più capiente, chi spesso e volentieri lo ha trasformato in un vaso enorme». Mani di un demiurgo tanto osceno quanto efficiente cui Reggio Calabria aspetta di dare un volto per conoscere la propria storia, la propria anima, l'origine stessa della propria condanna.


    http://www.corrieredellacalabria.it/index.php/l-altro-corriere/il-blog-della-redazione/item/48025-l-anima-nera-di-reggio-e-l-inchiesta-che-deve-arrivare
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  10. #10
    Uomo tropicale
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    Predefinito Re: La Cosa Nuova

    Massoneria deviata e ‘ndrangheta: chi era Ettore Loizzo di Cosenza


    Da Iacchite -
    18 luglio 2016



    Ettore Loizzo di Cosenza, mio vice nel Goi, persona che per me era il più alto rappresentante del Goi, nel corso di una riunione della Giunta del Grande Oriente d’Italia che io indissi con urgenza nel 1993 dopo l’inizio dell’indagine del dottor Cordova sulla massoneria, a mia precisa richiesta, disse che poteva affermare con certezza che in Calabria, su 32 logge, 28 erano controllate dalla ‘ndrangheta. Io feci un salto sulla sedia”.
    A dirlo è stato l’ex Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia Giuliano Di Bernardo – in carica nei primi anni ’90 e fondatore poi della Gran Loggia Regolare d’Italia – sentito il 6 marzo 2014 dal pm della Dda di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo nell’ambito dell’inchiesta Mammasantissima sulla cupola segreta degli “invisibili” della‘ndrangheta.



    Ma chi è Ettore Loizzo di Cosenza?
    Prima Gran Maestro Aggiunto e poi reggente del Grande Oriente d’Italia, è il calabrese col “grembiulino” che ha raggiunto i più alti livelli della Massoneria di Palazzo Giustiniani, la più importante tra le “obbedienze” riconosciute nel nostro paese. E’ scomparso nel 2011.
    Per capire bene chi era bisogna andare parecchio indietro nel tempo. Ma possiamo partire da un dato: Loizzo è stato per anni un brillante esponente del Partito Comunista Italiano prima di essere costretto a lasciarlo proprio perché massone dopo il caso eclatante della loggia P2 di Licio Gelli degli anni Ottanta e la successiva legge Anselmi che vietava le società segrete. E quindi consigliava ai partiti di imporre una scelta ai massoni più o meno esposti.
    Loizzo era stato eletto consigliere comunale nel 1980, quando ancora il bubbone della P2 e della massoneria non era esploso ma gravitava da tempo nel PCI anche se in molti sapevano che faceva parte di quel mondo.


    A Cosenza, città massonica per storia e tradizione, il sistema politico è dominato dalle logge e dalle famiglie. Loizzo è comunista, Tanino De Rose, massone come Loizzo, sta nel Partito socialista ed è stato vicesindaco dal ’70 al ’75. I massoni non mancano anche nella Dc, ovviamente, ma a differenza di Loizzo e De Rose stanno più coperti.
    Lo scandalo della P2 e il dilagare degli interessi della massoneria deviata mettono fuori gioco Ettore Loizzo e la frangia più intransigente del PCI ne invoca e ne ottiene l’aut-aut: o il PCI o la massoneria. Ora, è passato molto tempo e gira anche qualche aneddoto sulla vicenda, che inevitabilmente fece rumore. Lo riferisce un Gran Maestro del Goi, Stefano Bisi, che è anche un valente giornalista.


    Pare che Ettore Loizzo, dopo essere stato messo alle corde, sia andato ad incontrare Pietro Ingrao. E sapete quale fu la riposta dell’illustre dirigente del PCI? “Spero che sia l’ultima cavolata del mio partito”. Non sappiamo se sia leggenda o meno. Fatto sta che all’alba degli anni Novanta, una decina di anni dopo, in concomitanza con la scalata di Loizzo ai gradini alti della massoneria italiana, succede ancora altro. Un magistrato “scova” la loggia P3 e naturalmente Loizzo c’è dentro fino al collo.
    DI BERNARDO CAPO DELLA MASSONERIA
    Nel 1990 Giuliano di Bernardo, 57 anni, pro rettore dell’università di Trento, docente di sociologia filosofica, è diventato il nuovo gran maestro della massoneria italiana. Il nuovo governo del Grande Oriente d’Italia è composto da Ettore Loizzo ed Eraldo Ghinoi quali grandi maestri aggiunti; Rosario Genovese e Sergio Rosso come grandi sorveglianti; Gustavo Raffi grand’oratore e Pietro Mascagni gran tesoriere.


    Il grande capo Licio Gelli, che vede come il fumo negli occhi i comunisti, non risparmia una stoccata al veleno ad Ettore Loizzo commentando il nuovo assetto della massoneria. “E’ un favore che avranno fatto ad Occhetto. Loizzo è ‘un comunista e non dovrebbe stare a quei vertici dell’organizzazione”.
    Infatti la massoneria ”dovrebbe essere al di sopra di ogni ideologia politica e di ogni confessione religiosa”. Ma non è (quasi) mai stato così. I tempi di Mazzini e del Risorgimento sono finiti da un bel po’ ed hanno lasciato spazio alla cosiddetta massoneria deviata.
    CORDOVA E LA MASSONERIA DEVIATA
    Agostino Cordova, figura controversa e testarda, da procuratore di Palmi firma, nel 1992, la prima grande inchiesta italiana sulla massoneria deviata. Partendo dagli affari del clan Pesce, attraverso la scoperta di relazioni pericolose tra mafiosi, politici e imprenditori calabresi, Cordova finì nelle trame degli affari miliardari di Licio Gelli e di una miriade di personaggi legati a logge massoniche coperte.


    “La massoneria deviata – sosteneva Cordova – è il tessuto connettivo della gestione del potere […]. È un partito trasversale, in cui si collocano personaggi appartenenti in varia misura a quasi tutti i partiti…”.
    Cordova pone sotto sequestro il computer del Grande Oriente d’Italia, contenente l’archivio elettronico di tutte le logge massoniche italiane. Fu come aprire un vaso di Pandora, da cui continuavano a uscire nomi e connessioni.
    LE INDAGINI SU ETTORE LOIZZO
    Ettore Loizzo finisce nel calderone. Ecco l’agenzia AGI del 5 novembre 1992.


    (AGI) Cosenza 5 Nov – Proseguono, anche a Cosenza, le indagini disposte dalla Magistratura di Palmi alla ricerca delle prove circa l’ esistenza di logge massoniche” coperte”. Sono stati perquisiti lo Studio e l’ abitazione dell’ esponente massonico Ettore Loizzo(anche se l’ interessato ha negato il fatto) e quella di Mario Lucchetta, Gran Maestro della Loggia” fratelli Bandiera”. In quest’ ultima abitazione, secondo indiscrezioni, sarebbero stati sequestrati documenti e carteggi ritenuti importantissimi. (AGI)
    Così scriveva invece La Repubblica
    Vengono fuori molte sorprese. A Cosenza, dove sono stati perquisiti lo studio e l’ abitazione dell’ ingegner Ettore Loizzo, uno dei massimi esponenti del Grande Oriente d’ Italia, i carabinieri hanno trovato carte e documenti relativi al processo su mafia, droga e politica da cui è scaturita questa maxi-inchiesta sulla massoneria deviata. In che maniera, con quale interesse e per farne quale uso Loizzo è entrato in possesso di quelle carte? Sono interrogativi che i magistrati cercheranno di chiarire. Ma nell’ inchiesta sulle cosche di Rosarno è coinvolto anche Licio Gelli. E in Calabria c’ era qualche massone che si era adoperato per far riammettere l’ ex capo della P2 nella massoneria.
    Una “trattativa” che si sarebbe conclusa nel 1991 con un accordo mai trovato dai magistrati di Palmi. Così come non furono mai chiarite le questioni che ruotavano intorno a Loizzo.
    Di sicuro, però, Di Bernardo si affretta ad uscire da questo grandissimo casino e lascia le responsabilità del suo incarico determinando la scissione. E così il cosentino Ettore Loizzo diventa Gran Maestro Onorario e reggente, con Eraldo Ghinoi, del Grande Oriente d’Italia nel 1993. Praticamente il nuovo capo della massoneria al posto di Di Bernardo.

    LOIZZO E DI BERNARDO


    A questo punto, come si fa nei grandi intrecci, ritorniamo al punto di partenza. Quando Loizzo dice a Di Bernardo che 28 logge su 32 in Calabria sono controllate dalla ‘ndrangheta, il capo dei massoni ha una reazione quasi disperata.
    “Gli dissi: e cosa vuoi fare di fronte a questo disastro. Lui – ha detto Di Bernardo al pm – mi rispose: nulla. Chiesi perché. Mi rispose che altrimenti lui e la sua famiglia rischiavano gravi rappresaglie. Fu questo che mi indusse a prendere contatti con il Duca di Kent, che è al vertice della Massoneria Inglese che è la vera Massoneria. Mi disse che già sapeva questa situazione tramite notizie avute dall’Ambasciata in Italia e dai servizi di sicurezza inglesi”.
    Ma Ettore Loizzo, già all’epoca, contestava con forza questa interpretazione dei fatti e definiva pesantemente Di Bernardo.
    “L’indagine di Cordova? Con questa rottura diplomatica tra noi e gli inglesi non c’entra – risponde Loizzo – anche se le menzogne di Di Bernardo hanno fatto da copertura a questo gioco. Non siamo stati neanche ascoltati dai fratelli inglesi – reclama più diplomatico Ghinoi – ma un imputato ha diritto ad un processo. Per quanto riguarda Cordova ci ha ricevuto ed ha specificato di non aver nessuno motivo di contestazione nei nostri riguardi, ma è interessato alla scoperta di eventuali logge deviate. Dal canto nostro abbiamo sospeso 75 fratelli sospetti, ma sono un esiguo numero di fronte agli altri 18mila iscritti oltre alle 1400 domande attualmente in attesa. Succede solo in in Italia – ha concluso Ghinoi – che l’iscrizione ad alcuni partiti politici sia vietata a membri della Massoneria. Ma la storia insegna che quando la Massoneria è attaccata, successivamente dopo viene attaccata la democrazia”.
    L’INCHIESTA SI SGONFIA


    Il 27 maggio del 1993 Cordova inviò un rapporto al Csm sull’ingerenza dei massoni nel potere pubblico: consegnò i nomi di 40 giudici e due liste di parlamentari. Comunicò che almeno 40 degli inquisiti della tangentopoli milanese erano massoni, così come lo erano 11 dei parlamentari per i quali è stata richiesta l’autorizzazione a procedere.
    Provvidenziale arrivò l’ordine di trasferire per competenza a Roma le indagini. E ancor più salvifico fu il ruolo del pm che venne delegato.
    Era Augusta Iannini, moglie di Bruno Vespa, che sarebbe diventata di li’ a poco personalita’ di spicco a via Arenula nei governi targati Berlusconi. Quell’inchiesta naufraga nel 2001 in una colossale archiviazione. «E da allora – racconto’ Cordova alla Voce in un’intervista di qualche anno fa, alla vigilia del suo trasferimento forzato dalla Procura di Napoli – quei faldoni sono rimasti a marcire dentro i sotterranei di Piazzale Clodio».
    26 febbraio 2001: LOIZZO ESULTA
    “Un epilogo atteso, che fa giustizia di una vicenda giudiziaria assurda, di cui gli stessi magistrati che ne hanno deciso l’archiviazione evidenziano l’anomala conduzione e la ricerca ad ogni costo, quasi maniacale, di responsabilità e di comportamenti da parte dei massoni non conformi alle leggi dello Stato italiano”
    È quanto affermava, in un comunicato, l’ex gran maestro aggiunto del Grande oriente d’Italia di palazzo Giustiniani, Ettore Loizzo, in riferimento alla decisione di archiviazione dell’inchiesta avviata nel 1993 dal procuratore della Repubblica di Palmi, Agostino Cordova.
    “Adesso, senza cullarci sugli allori, dobbiamo puntare – sostiene Loizzo – a recuperare alla militanza attiva i tanti fratelli che furono costretti, o ritennero opportuno, per sfuggire alla furia antimassonica della Procura di Palmi, a mettersi in sonno. Tutto il fango buttato addosso alla massoneria è stato lavato – conclude Loizzo – dalla verità di un esito giudiziario che entra di diritto nelle pagine più belle e edificanti della storia italiana degli ultimi decenni”.
    IL MAGISTRATO SALVATORE BOEMI E COSA NUOVA


    C’è un ultimo aspetto da scandagliare. A proposito della massoneria deviata, è uscito fuori negli anni il nome del magistrato Salvatore Boemi. Quello di Boemi, infatti, è uno dei nomi che costantemente ritornano in tutti i tentativi più rigorosi di diradare gli addensamenti di nubi (leggi: le coperture) sulla costellazione della `ndrangheta.
    Boemi (correva l’anno`95) è tra gli estensori dell’elenco degli affiliati a «Cosa Nuova» – impressionante radiografia della rete di cosche vecchie ed emergenti – e alla massoneria calabrese, comprendente nomi di politici influenti di varia provenienza: i socialisti Gabriele Piermartini e Totò Torchia, l’ex comunista Ettore Loizzo, il segretario particolare dell’allora presidente del consiglio Forlani, Mario Semprini, e il notaio Pietro Marrapodi, ex Dc e Grande Oratore delle logge reggine.
    Proprio Marrapodi è il protagonista tragico di una delle indagini più perturbanti condotte da Boemi. Scosso da una crisi di coscienza e uscito dalla Loggia Logoteta, Marrapodi comincia infatti a vuotare il sacco e a fare i nomi di quelli che «decidono segretamente i destini della gente», in Calabria e non solo.
    Boemi lo mette così a confronto con il pentito Giacomo Ubaldo Lauro e con il procacciatore d’armi D’Agostino, cavandone un quadro dettagliato dei rapporti tra’ndrangheta, P2, Sisde e istituzioni colluse.
    Preoccupato di aver detto troppo, Marrapodi si rivolge (vedi intercettazione telefonica del 15 febbraio `94) a Vincenzo Nardi, uno dei tre ispettori inviati dall’allora ministro di Grazia e Giustizia Alfredo Biondi a verificare l’attività di Mani pulite.
    Due anni dopo, stremato e serrato in casa, decide di incontrare il giornalista Mario Guarino per consegnargli copia dei documenti depositati a suo tempo a Nardi (è il giornalista stesso a raccontarlo nel suo libro sulla `ndrangheta); ma l’incontro non avverrà, perché Marrapodi verrà trovato morto nella sua abitazione il 28 maggio `96, con il caso archiviato come «suicidio per impiccagione» e i documenti e i floppy – probabilmente non tutti, come insinua opportunamente Guarino – sequestrati dalla procura reggina.
    Un’altra pagina inquietante e ovviamente mai chiarita.
    Ettore Loizzo è scomparso nel 2011. Molti massoni hanno rimproverato troppo accanimento nei suoi confronti (provocato soprattutto da Di Bernardo) e hanno bollato come lacrime di coccodrillo quelle versate da Raffi e soci.


    g. c.


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