Americani puppatecelo!
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Unbelievable. È la parola che i commentatori delle tv americane continuavano a ripetere durante la finale del Mondiale di Bowling terminato martedì pomeriggio a Hong Kong, man mano che si profilava il disastro dei professionisti yankee. Nel dream team Usa tre tra i migliori giocatori al mondo; nella squadra italiana, allenata dal ct Massimo Brandolini, bancario milanese, un panettiere, uno studente, il titolare di una paninoteca, un piccolo imprenditore edile e due impiegati. Basterebbe già questo per una storia che ricorda molto quella di un film di Caludio Amendola: La mossa del pinguino. Solo che, in quel caso, Edoardo Leo, Ricky Memphis, Antonello Fassari ed Ennio Fantastichini, scomparso qualche giorno fa, partecipavano alle Olimpiadi Invernali di Torino giocando a curling.
Film di genere, quello "imprese sportive improbabili", come Cool Runnings – quattro sottozero e Machan di Uberto Pasolini, solo che questa volta il sestetto della nazionale italiana non ha interpretato il ruolo di outsider che si accontenta di fare bella figura davanti a professionisti che guadagnano svariati milioni di dollari all’anno. È finita, invece, in un modo impensabile: con uno strike tutto tricolore. Le facce dei giocatori USA sgomente, impietrite. Quelle dei nostri concentrate, come se sotto sotto sapessero che, in fondo, poteva davvero finire così.
Il bowling, di cui possiamo vantarci di essere campioni del mondo, è uno sport che fino a qualche anno fa era conosciuto quasi solo per i suoi passaggi al cinema – le scene più belle de Il grande Lebowski, quelle delle chiacchiere senza scopo che servono a lubrificare vecchie amicizie, sono ambientate in una sala da bowling – ma che via via è diventato passatempo anche nei fine settimana italiani. Sembrano lontani i tempi, era il 1998, in cui Alessandro Baricco si recava a Lakewood per studiarne il fenomeno dal punto di vista sociale per poi dedicargli un articolo che finirà anche nella raccolta Il nuovo Barnum.
Il bowling è un duello con sé stessi. Il che può spiegare perché sia noiosissimo da vedere, ma bello da giocare. È sempre Baricco a raccontare come in America “sono tutti professionisti”: lucidano le bocce con ossessiva cura, alcuni si spingono anche a baciarle, prima del tiro. È uno sport yankee perché costa poco, lo puoi fare anche se non hai il fisico, lo pratichi per metà del tempo stando seduto. Senza dimenticare quel pacifico ritmo, seduto-in piedi-seduto-in piedi-di nuovo seduto-in piedi a mangiare-tirare-bere-a casa. Spiegazioni letterarie, sociali e pop, certamente romantiche seppur nella loro superficialità che – i nostri campioni ci perdoneranno – poco hanno a che fare con l’impresa sportiva.
La finale che ha consacrato gli azzurri è stata trasmessa dal canale olimpico del Cio ed è stata entusiasmante, così come lo era stata la semifinale con il Canada. Prima della medaglia d’oro di Hong Kong l’Italia vantava solo un bronzo al torneo iridato del 1971 a Milwaukee e nell’ultimo torneo Mondiale, a Las Vegas, gli azzurri si erano classificati al 22esimo posto.
Ma i campioni hanno nomi e cognomi, oltre che un mestiere: Pierpaolo De Filippi, Antonino Fiorentino, Marco Parapini (un figlio d’arte: suo papà è stato uno dei maggiori giocatori di bowling e lui lavora al Centro Bowling Martesana, a Milano), Nicola Pongoli, Marco Reviglio (il più grande con i suoi 53 anni), e Erik Davolio, il più giovane del gruppo, classe ’96. Magari un giorno qualcuno penserà di scrivere un bel racconto su questa storia. O un film. Un film con una bella musica come colonna sonora: quella delle bocce sul legno, del fruscio di applausi e chiacchiere. E poi lo strumento solista: birilli che cadono.
Mameli, inno nazionale. Campioni del Mondo.