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    Predefinito Sovranismo senza Nazione

    SOVRANISMO SENZA NAZIONE
    di Nello De Bellis
    [ 28 dicembre 2019 ]



    Il tema del "REGIONALISMO DIFFERENZIATO, dunque della rottura de facto dell'unità nazionale, è ormai drammaticamente all'ordine del giorno.
    L'articolo che segue ne illustra chiaramente le disastrose conseguenze sulla società italiana. Nell'auspicare che la quasi secessione nordista venga fermata da un'ampia mobilitazione politica e culturale, vogliamo qui ricordare due cose.
    La prima è che il "regionalismo differenziato" è figlio della riforma del titolo V della Costituzione (2001) targata D'Alema e Amato.
    La seconda è che tale controriforma ha storpiato in più punti lo spirito e la lettera della Costituzione del 1948, ponendo le norme inserite in quell'occasione (in particolare all'art. 116) in netta contraddizione con il principio di uguaglianza sancito nell'articolo 3, ma anche con quanto previsto dagli art. 119 e 120 in materia di "solidarietà sociale", rimozione degli "squilibri economico e sociali", "tutela dell'unità giuridica e dell'unità economica", "tutela dei livelli essenziali delle prestazioni". Insomma, la controriforma del 2001 è stata un vero e proprio aborto. Sarebbe questo il momento, adesso che ne arrivano i frutti più velenosi, di mettere all'ordine del giorno la sua cancellazione.



    Uno dei problemi più seri per l'unità socio-economica ed amministrativa del Paese e, temiamo, a breve anche politica, è la fiera determinazione con la quale la Lega, mentre indossa le vesti di una destra nazional-populista vagamente ispirata alla Le Pen, sta portando avanti il suo processo di secessione "morbida" del Veneto e poi, a seguire, di Lombardia ed Emilia-Romagna.

    Uno degli effetti più deleteri della lunga crisi socioeconomica e delle direttive politiche europee è stato proprio, a dispetto dei vari sovranismi oggi alla ribalta, l'affievolimento del senso vero dell'unità nazionale. E' venuta meno l'idea che il Paese nella sua interezza possa uscire dalla crisi e ciò favorisce obiettivamente quei centri dei poteri forti che assecondano, approfondendole, le linee di frattura storicamente preesistenti, per favorire i loro disegni.

    Non credo sia un mistero per nessuno che il c.d. partito tedesco ambisce da vari... secoli all'Anschluss dell'Italia centro-settentrionale e del suo ricco apparato produttivo ed economico. In questo, lo ribadiamo, pur puntando i piedi su varie questioni con Bruxelles, e rivendicando la propria autonomia la Lega salviniana sta giocando in questi giorni un ruolo oggettivamente decisivo, promuovendo la "secessione" delle regioni ricche del Nord, trasferendo poteri, competenze e risorse economiche dal livello statuale a quello regionale.

    Si tratta di un processo complesso e potenzialmente "ancipite", cioè tanto vantaggioso quanto disastroso, ma che in ogni caso andrebbe accompagnato da un dibattito pubblico di grande spessore e di adeguata risonanza mediatica e non procedere, come è avvenuto fino al primo sblocco favorevole da parte del Governo del 21 dicembre scorso, in un assordante silenzio sia nel mondo politico che intellettuale.

    E' un progetto in fase ormai fortemente avanzata, che prevede il prossimo passaggio decisionale già il prossimo 15 febbraio, che si inscrive nel rapporto storicamente complessivo Nord-Sud nell' ottica della globalizzazione e dell' attuale ordoliberismo europeo.

    Questi i termini reali del problema. L'impianto del provvedimento prevede né più né meno che i cittadini delle regioni più ricche abbiano diritto a più risorse e servizi pubblici in ragione del gettito fiscale regionale, non più ripartito nella fiscalità generale dello Stato. Ciò si traduce in una brusca e sensibile riduzione di risorse per tutte le altre regioni che non fanno parte della rosa delle privilegiate, che non sono solo le già menzionate Veneto, Lombardia ed Emilia, perché seguiranno a stretto giro anche Liguria, Piemonte, Umbria e Toscana.

    Altro aspetto caratterizzante e decisivo è che il progetto non si limita ad ambiti specifici, ma riguarda ben 23 materie su cui ora è vigente la competenza, o meglio la sovranità (è il caso di dirlo) dello Stato dalla Scuola al Servizio sanitario (già oggi fortemente squilibrato). Col potere di nominare, assumere e retribuire i docenti su base regionale, nonché intervenire anche sulla stesura dei contenuti dei programmi didattici, sarà la fine definitiva del sistema nazionale della Pubblica Istruzione, già peraltro minato dalle riforme scriteriate degli ultimi 20 anni (a cominciare da quella Berlinguer per finire a Renzi).

    Tutto questo, se andrà avanti senza intoppi di sorta, comporterà una ristrutturazione irreversibile del funzionamento del nostro Paese e dei diritti dei suoi cittadini, che prescinderà del tutto dai livelli essenziali delle prestazioni previsti per legge dalla Costituzione, anteponendo i diritti e i servizi dei cittadini delle regioni in questione al (misero e mesto) resto d'Italia.

    Una volta sancita l'approvazione in Consiglio dei Ministri, il voto alle Camere potrebbe essere di pura ratifica senza alcuna possibilità di analisi, di discussione,di integrazione o opposizione pura e semplice. Delle conseguenze, delle ricadute, dei danni sociali che questa programmata e voluta asimmetria tra regioni forti e regioni deboli, e sempre più in prospettiva, indebolite non si riflette per nulla con la dovuta obiettività e ponderatezza.

    L'unico Leitmotiv è che bisogna anzi accelerare il processo, conferendo sempre più fondi e poteri alle regioni trainanti, affinché possano lasciarsi il più rapidamente possibile alle spalle la crisi, mentre gli altri se la sbrighino da soli, dimostrando finalmente di essere capaci di procedere senza corruzione e senza sprechi. Musica già sentita.

    A riequilibrare le sorti di un'Italia sempre più sbilenca dovrebbe poi bastare, senza alcun intervento strutturale e politica economica degna di questo nome al Sud, il reddito di cittadinanza, proprio mentre si tagliano i diritti primari dell'istruzione e della sanità che soli la rendono effettiva. Fin qui la cronaca. A parte la considerazione politica che su una simile scottante e controversa materia, di pretto interesse leghista, l'assenso del M5S nella persona del suo leader Di Maio è sconcertante, come se non si rendesse conto della portata strategica delle questione; è surreale anche il silenzio delle altre forze politiche, sempre alla ricerca del casus belli, che qui potrebbero ben rimarcare, da destra e da sinistra, le loro posizioni e non lo fanno.

    Eppure qui appare in gioco davvero l'assetto e il destino stesso del Paese,profilandosi di fatto la dissoluzione dell'unità politica dello Stato italiano (nato dal Risorgimento e dalla Resistenza). Quali spazi politici vi siano in questo teatro, dati i tempi ristrettissimi della decisione, per una Sinistra patriottica, ma anche di altre forze democratiche sinceramente pensose dell'unità e del bene collettivo, è arduo ipotizzare, vista la loro effettiva consistenza e capacità di mobilitazione.

    Un'ultima riflessione è che le crisi, al di là dei loro aspetti nuovi e inediti, si sviluppano su linee di frattura precedenti, regressive e in qualche modo ataviche. L'Italia che esce o uscirà dall'autonomismo leghista e che graviterà fatalmente in modo subalterno nell'orbita euro-germanica, somiglierà all'Italia delle signorie del XV secolo, di cui sarà la fedele riedizione post-moderna nell'Europa delle regioni sognata dalle élites finanziarie di Berlino e di Bruxelles.

    https://sollevazione.blogspot.com/20...-nello-de.html
    "L'odio per la propria Nazione è l'internazionalismo degli imbecilli"- Lenin
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  2. #2
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    Predefinito Re: Sovranismo senza Nazione

    LA PROSSIMA GRANDE BATTAGLIA
    di Piemme
    [ 30 dicembre 2018 ]

    CHE FARE PER DIFENDERE L'UNITÀ E LA SOVRANITÀ NAZIONALI?


    Sovranismo senza nazione ha scritto l'altro ieri Nello De Bellis, lanciando l'allarme per l'eventualità che il Parlamento sancisca definitivamente l'autonomia "differenziata" per Veneto, Lombardia e Emilia-Romagna. De Bellis ha detto l'essenziale: verrebbe portato un colpo esiziale all'unità, quindi alla sovranità nazionale.

    Dopo i due referendum in Veneto e Lombardia (22 ottobre 2017) e la richiesta dell'Emilia-Romagna, il Governo Gentiloni firmava (28 febbraio 2018) con le suddette regioni un protocollo d'intesa per devolvere loro competenze per una ventina di materie tra cui istruzione, sanità, rapporti con l'Unione europea, ambiente, beni culturali, tutela del lavoro. Su tutte spicca la facoltà di trattenere la maggior parte degli introiti fiscali.
    Il 21 dicembre scorso il governo giallo-verde, in fretta e furia, ha raccolto il testimone delineando " il percorso per il completamento dell'acquisizione delle intese", stabilendo che entro il 15 febbraio prossimo sarà definito l'accordo definitivo. Poi la parola passerà al Parlamento.


    Licenziata la Legge di bilancio, questa della "autonomia differenziata" è senza dubbio la questione più scottante, sulla quale, secondo alcuni, si gioca la stessa sopravvivenza del governo. Ci si chiede come il Movimento 5 Stelle, i cui consensi vengono soprattutto dal Mezzogiorno, possa effettivamente acconsentire a quella che è già stata battezzata come "secessione dei ricchi", che lascerebbe il Sud del Paese alla definitiva deriva.

    Ma questa vicenda metterà alla prova anche il "salvinismo", ovvero il nuovo corso nazional-populista della sua Lega. Si vedrà se la rimozione del lemma "Nord" dal nome del partito, nonché il riferimento all'indipendenza della "Padania" siano stati soli dei trucchi o se dietro ci sia quello che è stato spacciato come un effettiva svolta strategica.

    Di più: La "secessione dei ricchi", a bene vedere come si van posizionando i diversi poteri ed i loro fantocci politici, potrebbe scompaginare i due grandi campi contrapposti che si sono dati battaglia su Legge di bilancio e rapporti con l'Unione europea.


    Giorgetti, che sembra essere il grande burattinaio della Lega, ha minacciato a chiare lettere che "L'autonomia di Lombardia e Veneto è una questione di esistenza del governo stesso". Gli ha fatto eco Lorenzo Fontana: "L'autonomia vale più di un governo, più di qualsiasi governo". Tutti e due facendo eco a Zaia: "L'autonomia viene prima di qualsiasi nostro ruolo governativo". Vedremo presto se Salvini è davvero il grande capo della Lega o se egli è solo un fantoccio.

    Non c'è alcun dubbio che le "autonomie differenziate" ubbidiscono al disegno strategico di potenziare l'Unione europea, ciò che chiede l'indebolimento della sovranità nazionale. Non più stati sovrani, ma macroregioni — a destra il Progetto sponsorizzato dalla Ue di "Euro regione alpina" e più sotto le eventuali macroregioni nella futura Unione europea— come mere entità amministrative sottomesse a Bruxelles.



    Potrà sembrare eccessivo ma ancora una volta l'Italia si trova ad essere il più avanzato laboratorio politico d'Europa, il luogo ove i super-poteri eurocratici vogliono sperimentare la loro strategia. Il paradosso è che la testa d'ariete di questa offensiva eurocratica sembra essere proprio la Lega di Matteo Salvini. Che ciò possa accadere senza fratturazioni interne al leghismo sembra alquanto improbabile. Vedremo, e vedremo anche se i Cinque stelle staranno al gioco. Sotto ogni punto di vista questa vicenda sarà la cartina al tornasole per verificare sostanza e tenuta di tutti e due i populismi italici.



    Lo sarà anche per il campo eurocratico, rappresentato da Pd e Forza Italia. Toti, che stupido non è dice che "E' ora di un blocco ampio anche con chi votava Pd. L'asse sul federalismo diventi una bandiera". Non va infatti dimenticato che il "regionalismo differenziato" è figlio della riforma del titolo V della Costituzione (2001) targata D'Alema e Amato; che dunque il PD, primo paladino del disegno strategico europeista, non farà certo barricate quando in Parlamento arriverà l'eventuale dispositivo legislativo per l'autonomia "differenziata".

    Guardando a come si mettono le cose la battaglia per l'unità e la sovranità nazionale sembra pregiudicata. Non è detto. E ad ogni modo essa dovrà essere combattuta. Una piccola palla di neve, in circostante come queste, può diventare una valanga.

    Le forze del campo sovranista e democratico sono chiamate alla loro prova più seria. Debbono e possono non solo far sentire la loro voce, mettere in moto un movimento popolare per inceppare l'infernale macchina.

    La SINISTRA PATRIOTTICA deve provare a fungere da lievito di un ampio fronte popolare in difesa della sovranità e dell'unità nazionali.

    https://sollevazione.blogspot.com/20...di-piemme.html
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    Predefinito Re: Sovranismo senza Nazione

    L'ITALIA, IL NORD E L'ANNESSIONE EURO-TEDESCA
    di Guido Ortona*
    [ 10 gennaio 2019 ]



    Giorni addietro, preceduto da altri articoli [QUI, QUI e QUI], abbiamo pubblicato il comunicato di Programma 101
    NO AL "REGIONALISMO DIFFERENZIATO" dove si metteva in guardia dai rischi insiti nelle "autonomie di Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna per l'unità e la sovranità nazionale italiana. Si sosteneva che dietro a queste "autonomie" agisce sul Nord del nostro Paese la forza centripeta del magnete tedesco con contestuale azione centrifuga verso il resto dell'Italia, destinata a diventare una colonia derelitta, ovvero una riserva di manodopera a basso prezzo. Il breve saggio di Ortona insiste su questo pericolo esiziale.


    * * *

    Cosa sta succedendo
    I sostenitori di politiche sbagliate non sono quasi mai in mala fede. Prima di proporle riescono quasi sempre a convincere sé stessi che sono giuste (U.D.)
    1. In breve. Che la terra sia sferica è ovvio per chiunque la guardi dallo spazio, ma non lo è per chi si trova al livello del suolo. Analogamente, quello che sta capitando oggi in Italia sembra molto confuso se si segue la cronaca politica mentre diventa più chiaro se si usa una prospettiva storica. Se adottiamo questa ottica scopriamo che ciò che sta capitando è un fenomeno non nuovo, e non nuove sono alcune caratteristiche che ne conseguono.
    In breve: l’Italia è al centro di un processo di annessione a uno stato più forte, la nascente Europa a egemonia tedesca, come area debole destinata a essere colonizzata. E’ possibile che la nascente Europa dei padroni esploda nella culla per eccesso di ingordigia, come la rana della favola. Ma è meglio non farci troppo affidamento. Se ciò non avviene, il destino dell’Italia sarà analogo a quello dell’Italia meridionale nei confronti di quella settentrionale o degli Stati Confederati americani a seguito della guerra civile, vale a dire la condanna al sottosviluppo (rispetto alle aree forti), a seguito della subordinazione a leggi e istituzioni proprie degli stati vincitori e non solo inadatte a quelli subordinati, ma tali in molti casi da propiziare il loro sfruttamento. Con tutto ciò che ne è conseguito; in particolare la cooptazione delle classi dominanti delle aree subordinate nel sistema di potere di quelle vincitrici, e la subornazione culturale delle aree subordinate. Forse siamo ancora in grado di impedire tutto ciò. Vediamo più in dettaglio.
    2. Leggi e istituzioni inapplicabili. Le norme europee prevedono che l’Italia sottragga ogni anno circa 50-70 miliardi alla sua economia per pagare interessi sul debito, somme che vengono investite quasi interamente in altri paesi, data la libera circolazione dei capitali. La libera circolazione di capitali è presentata come una norma sensata, progressiva e tale da massimizzare l’efficienza dell’economia mondiale. Ora, se i capitali vengono investiti là dove rendono di più vuol dire che non vengono investiti dove rendono di meno; e “massimizzazione dell’efficienza a livello mondiale” vuol dire spostamento di risorse da dove rendono meno a dove rendono di più, nella speranza messianica che alla lunga la migliore efficienza vada a beneficio di tutti: una speranza che nel migliore dei casi, come la storia ci insegna, si realizzerà in tempi molto lunghi, se mai lo farà. E questo vale anche per i capitali italiani, che -spesso ce ne dimentichiamo- sono il frutto del lavoro degli italiani (e degli immigrati in Italia). Non occorre essere vecchi (come chi scrive): è sufficiente essere di mezza età per ricordarsi di quando si parlava con scandalo della “fuga dei capitali” e dell’opportunità di ostacolarla; oggi si parla di “libera circolazione”. I capitali sono appunto liberi di andarsene; e naturalmente sono particolarmente propensi ad andarsene dai paesi in cui l’economia va male – il che contribuisce a farle andare male. E’ il caso dell’Italia.
    Con un eccesso di benevolenza, si potrebbe dire che l’Italia ha cercato “giustamente” di attrarre capitali operando sull’unica arma di cui disponeva, la riduzione del costo del lavoro. Ce ne erano anche altre, ma al di là di considerazioni etiche questa politica non ha funzionato. In effetti l’Italia è l’unico grande paese europeo in cui il PIL non ha recuperato i valori anticrisi. Questa anomalia è in gran parte dovuta, oltre che alla fuga dei capitali, all’eccesso di debito, che ha fatto sì che nel decennio di crisi si siano complessivamente sottratti all’economia più di 300 miliardi (ai prezzi attuali). Come si è visto anche recentemente, la ribellione sarebbe molto costosa: le “potenze occupanti” sono in grado di fare esplodere i tassi di interesse e di svalutare i titoli di stato italiani, dopo averli spostati sulle banche del nostro paese, che quindi si troverebbero a violare le norme (europee) sulla capitalizzazione e rischierebbero una fuga dalle medesime e il loro fallimento. Se l’Italia fosse una regione di una nazione unica e solidale, l’impossibilità di pagare un servizio del debito insostenibile avrebbe dato origine a opportune politiche: monetizzazione del medesimo (almeno in parte), prolungamento delle scadenze, e calmieramento dell’interesse. E’ molto difficile valutare i controfattuali; ma è chiaro che senza l’Euro l’Italia avrebbe potuto appunto monetizzare parte del suo debito e calmierare i tassi di interesse; e senza l’Europa come si è venuta a creare (che è molto diversa da quella sognata dai federalisti del dopoguerra) avrebbe potuto attuare una politica fiscale di sostegno ai poveri anziché di redistribuzione dai poveri ai ricchi, così come avrebbe potuto avere le risorse per creare un’amministrazione più moderna ed efficace, e anche sviluppare le sue industrie di stato: tutte cose rese impossibili dal dumping fiscale. Avrebbe potuto, appunto: forse non ci sarebbe riuscita, ma l’egemonia europea -di questa Europa- ha distrutto ogni possibilità.
    In sostanza: la concorrenza fiscale ha reso “necessario” aumentare i profitti dei ricchi, la libera circolazione dei capitali e delle merci ha fatto sì che questi profitti venissero investiti dove conveniva di più e le fabbriche localizzate dove il lavoro costava meno, lo Stato italiano è stato obbligato a indebitarsi sempre di più per avere di che finanziare la sua spesa pubblica, spendendo però sempre di meno e quindi propiziando l’inefficienza delle istituzioni – il che a sua volta ha propiziato la fuga dei capitali. E’ la stessa spirale distruttiva che ha colpito la Grecia, anche se (per ora) gli effetti in quel paese sono stati più gravi.
    3. Cooptazione delle classi dominanti. Naturalmente in Italia c’è chi può e preferisce essere europeo anziché italiano. Imprenditori che traggono vantaggio dalla rilocalizzazione, banchieri, coloro che hanno capitali da investire che rendono di più altrove, e naturalmente i loro dipendenti operanti nel “primo cerchio”. Molti di costoro diranno che non c’è niente da fare, è il mercato che lo impone, eccetera. Ciò è vero solo in parte, probabilmente in piccola parte; ma comunque il fatto che sia (in parte) vero nulla toglie al meccanismo infernale in cui siamo coinvolti, semmai lo rafforza. Il notevole peso che questi strati hanno sulla politica e sulla cultura italiana contribuisce potentemente al rafforzamento del potere coloniale esercitato dall’Europa sull’Italia, dal salvataggio senza condizioni delle banche a spese dei contribuenti italiani alla legislazione restauratrice sul lavoro “come richiesta dall’Europa”. Anche questo non è un fenomeno nuovo, ovviamente.
    4. Creazione di una cultura coloniale. E’ questo forse l’aspetto più interessante, perché meno percepibile a causa della disinformazione quotidianamente esercitata dai professionisti del settore (giornalisti e accademici, in primis). Non sempre, anzi forse raramente, in mala fede: come è già capitato in casi analoghi, e come è logico, costoro hanno enormi difficoltà, essendosi formati organicamente all’interno della cultura propizia alle classi dominanti, a rendersi conto di come essa sia sostanzialmente una cultura d’élite, staccata dalla vita reale del popolo; e ciò porta a far sì che il processo che stiamo discutendo non venga percepito nella cultura che costoro diffondono. (E’ utile tuttavia sottolineare che il concetto di “buona fede” è ambiguo. Ben pochi sono coscientemente al servizio dei poteri forti che stanno colonizzando l’Italia; molti però si rifiutano di accettare le informazioni che li obbligherebbero a dover valutare criticamente la loro predicazione. Per uno studioso questo è forse moralmente ancora più disdicevole della vera mala fede). Si sta diffondendo una visione del mondo che ha molto a che fare con quelle che in altri tempi giustificavano le annessioni coloniali -in condizioni, grazie al cielo, molto diverse, almeno per ora. La “Europa” costituisce la “modernità”, come contrapposta alla “Italietta”, arretrata, corrotta, e che è giusto quindi che paghi fino il fondo i costi della “modernizzazione”, in modo che possa rinascere, redenta, alla vera civiltà. Naturalmente nessuno dice (al massimo lo si sussurra) che i poveri (soprattutto al sud) sono fannulloni e incapaci di lavorare in un’economia moderna; l’idea è che -poveretti- sono prigionieri di istituzioni e tradizioni arcaiche, malfunzionanti e corrotte, e che distruggere queste istituzioni servirà a loro perché questa è la condizione per crescere “davvero”. L’analogia con l’idea che il colonialismo porta la civiltà a me sembra evidente; e non è sminuita -piuttosto il contrario- dal fatto che nella società italiana ci sono davvero profondi elementi di arretratezza, e che la “Europa” è in molti campi più avanti: così come è vero che gli inglesi in India hanno anche costruito le ferrovie, che il sistema delle caste bloccava la crescita dell’India, e che molti rampolli di ricche famiglie indiane hanno ottenuto in Inghilterra un’istruzione molto migliore di quella che avrebbero avuto in patria.
    Quest’ultima analogia è importante: l’élite intellettuale italiana sempre più studia e lavora all’estero, e sempre più guarda la “Italietta” con distacco, se non disprezzo, e comunque con ben poca volontà di comprensione – non è affare loro. E naturalmente -e di nuovo nulla di nuovo, se non forse per l’assenza di una significativa opposizione di sinistra- la cultura delle élites esercita una possente egemonia. Per fare un esempio, l’idea che si possa tassare la ricchezza finanziaria dei ricchi è sostanzialmente un tabù, nonostante che un’aliquota dell’1% con una quota esente di 100.000E consentirebbe un gettito di parecchie decine di miliardi. Un altro esempio, più interessante per l’argomento di questo articolo, è il diffuso e furibondo disprezzo per i “populisti” in una larga parte di quella che una volta si sarebbe chiamata piccola borghesia: il disprezzo e l’ira sono ai loro occhi un motivo sufficiente per non preoccuparsi delle ragioni, profonde e gravi, che stanno alla base del successo elettorale dei partiti “populisti”. La cosa importante, per questa sottocultura (nel senso antropologico del termine) non è che quasi un terzo degli italiani è povero o a rischio di povertà, e questa percentuale è anormale per l’Europa sviluppata e in rapido aumento: bensì che bisogna fermare i populisti che “cinicamente” prosperano su ciò.
    5. Siamo ancora in tempo a fermare questo processo di colonizzazione? E, prima ancora, cosa vuol dire fermarlo? A mio avviso, vuole dire riappropriarsi delle risorse economiche necessarie a implementare una politica di sviluppo, e interrompere la cosiddetta “macelleria sociale”. Qui è utile una parentesi: la mancata implementazione dei diritti fondamentali sanciti dalla nostra Costituzione (lavoro, salute, libertà da ricatti sul lavoro, reddito, sicurezza, dignità) non danneggia i cittadini solo come singoli: ha effetti deleteri sulla compagine sociale, in quanto propizia la corruzione, il qualunquismo, l’acquiescenza, il servilismo dei media, e altre patologie che vediamo quotidianamente all’opera. Come ha magistralmente osservato Ehrenreich (Una paga da fame, Feltrinelli, 2001), una persona che sul luogo di lavoro non gode di diritti e libertà civili difficilmente potrà essere un buon cittadino di una sana democrazia. Per questo se si vuole fare crescere il nostro paese bisogna non solo avere la disponibilità delle risorse necessarie, ma anche la possibilità di sfuggire al dumping sociale. In sostanza, sul piano economico si deve da una parte sfuggire all’emorragia del debito, intervenendo su di esso, e dall’altra sottrarsi al potere di ricatto dell’Europa sulle banche, eventualmente nazionalizzandole o comunque imponendo un controllo rigoroso sul loro comportamento, senza aspettare (o rispettare) la normativa europea; oltre che controllare il movimento di capitali (vi ricordate come ancora pochi anni fa l’adozione della cosiddetta Tobin Tax sembrava qualcosa di ovviamente giusto?). E sul piano sociale bisogna ricostituire i diritti fondamentali, come condizione per sottrarre i cittadini al ricatto dei poteri forti, e quindi consentire loro di essere i liberi protagonisti delle scelte politiche.
    Tutto ciò sarebbe possibile, grazie all’immenso potere di ricatto che l’Italia ha in Europa (e che sta però riducendosi, man mano che la nostra industria diventa sempre meno importante). Ma bisogna volerlo. “Volerlo” significa che su quanto sopra le forze politiche italiane devono essere concordi: è evidente che nulla può essere ottenuto in Europa se i tentativi di farlo scatenano immediatamente il terrorismo dei media italiani e l’opposizione dei partiti padronali (o servili) italiani. Credo che la marcia indietro del governo dal 2.4 al 2.04% di deficit e l’abbandono della retorica antieuropea siano state dovute in primo luogo alla scoperta che il popolo italiano, a torto o a ragione ma certamente influenzato da una propaganda quasi terroristica, non era disponibile a seguirlo su quella strada (una strada peraltro ambigua e poco coraggiosa; ma questo è un altro discorso).
    Siamo ancora in tempo? Forse. Quasi tutti i politici e i maîtres à penser italiani concordano sul fatto che siamo in una grave emergenza (per il governatore della Banca d’Italia il decennio appena trascorso è stato per l’economia italiana il più difficile a partire dal 1861). L’idea che ovviamente dovrebbe conseguirne, e cioè che un’emergenza deve essere affrontata con provvedimenti di emergenza e quindi con unità di intenti non sembra invece essere propria di nessuna forza politica, e di nessun commentatore politico. L’Italia si sta sempre più dividendo fra uno strato superiore che risiede in Europa e uno inferiore che è destinato a essere sempre più sfruttato ed emarginato; e il dialogo fra queste due Italie si fa sempre più difficile.
    Naturalmente è lecito pensare che è meglio non fare nulla: è la globalizzazione, non si può fermare il progresso, eccetera. Anche qui nulla di nuovo: che i diritti naturali non esistano era già stato autorevolmente affermato da J. Bentham nel 1843, e l’idea che i poveri fossero le inevitabili vittime del progresso ma che alla fine anche loro avrebbero tratto vantaggio dal medesimo è l’ossatura della cultura padronale fin dai tempi di Menenio Agrippa. Su questo punto c’è però un’importante differenza rispetto ad altri casi e ad altre epoche. Una volta giustificare la propria indifferenza, o peggio, verso il destino delle vittime della storia richiedeva di assumere un diritto al privilegio che è diventato difficile rivendicare dopo la rivoluzione francese. Oggi è più facile: siamo cittadini europei (se non del mondo), tutti eguali; il Progresso, la Democrazia e la Europa dei Popoli faranno sì che Tutti Staranno Bene, prima o poi; sbaglia chi cerca di ostacolare il progresso, è lui il vero colpevole del fatto che si sia ancora arretrati.
    Sono in molti a pensarla così, spesso aiutati dall’illusione che loro se la caveranno. La storia ci insegna che molto probabilmente la maggior parte di essi non se la caverà.

    * Guido Ortona, professore ordinario di Politica Economica, Università del Piemonte Orientale
    ** Fonte: Patria e Costituzione

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