Intervista con Gaetano Arfè a cura di Giampiero Mughini – “Mondoperaio”, febbraio 1977, pp. 41-44.



È il momento di una riflessione complessiva sulla nostra storia repubblicana: trent’anni densi di avvenimenti. È cresciuta la presenza della sinistra, ma si è venuta modificando profondamente la sua funzione e la sua collocazione rispetto allo Stato e al sistema sociale ed economico del nostro paese. Con il convegno di Parma di fine gennaio si è avviato un esame critico del ruolo del PSI; mentre è in corso un ripensamento della funzione del PCI nel trentennio da parte degli stessi comunisti, con l’intervento diretto di dirigenti del partito come Amendola e Ingrao. Abbiamo posto a Gaetano Arfè, che è stato uno degli animatori dell’Istituto socialista di studi storici, alcune questioni su questa nuova attenzione, in sede politica e storiografica, al nostro trentennio repubblicano.

Con quale patrimonio politico e teorico il PSI si presenta alla ripresa della vita democratica in Italia?

Un patrimonio non trascurabile, se si pensa al risultato delle primissime elezioni, nel ’46. È un patrimonio in un certo senso ereditato, una sopravvivenza del passato che andrebbe rinvigorita e radicata nella realtà nuova, che non è più quella del prefascismo. Di fronte a questo problema il gruppo dirigente del PSI si presenta con caratteri di eterogeneità, che si riflettono sulla sua azione politica.

Quali sono le componenti di questo gruppo dirigente?

Il gruppo più originale è quello che si è formato attorno al “Centro interno” di Rodolfo Morandi. È un gruppo che ha sviluppato anche una sua specifica elaborazione dottrinale, caratterizzata da un rifiuto delle esperienze socialdemocratiche europee e, contemporaneamente, da una critica vivacissima delle involuzioni burocratiche del sistema sovietico. Un altro gruppo è quello guidato da Lelio Basso, il MUP. Confluirà nel PSI, da posizioni di sinistra antistalinista il cui riferimento più caratteristico era il luxemburghismo. Più giovani sono i militanti riuniti attorno a una rivista come “Iniziativa socialista”, che hanno un loro nucleo organizzato nella Federazione giovanile. Anch’essi si collocano a sinistra della tradizione riformista, con una netta inclinazione anticomunista cui non sono estranee suggestioni trockiste. Un gruppo su cui si riflettevano gli echi dell’europeismo di Eugenio Colorni. Infine gli eredi della tradizione classica, riformista e massimalista.
Su questa situazione composita calano i due leaders dell’emigrazione, Pietro Nenni e Giuseppe Saragat, due uomini che hanno fatto tutt’altre esperienze, i più sensibili al quadro internazionale. Un elemento di differenziazione fra di loro era emerso al momento del patto di non aggressione russo-tedesco. Saragat aveva visto nel totalitarismo l’elemento che accomunava i due regimi; Nenni aveva considerato il patto una mossa politica sbagliata ma non tale da sovvertire il giudizio sullo Stato sovietico.

Il primo elemento di differenziazione fra i gruppi da te elencati non può dunque non essere il giudizio da dare sulla forza comunista, la grande novità del panorama politico italiano del dopoguerra.

Tutti prendono atto dell’entità della partecipazione comunista alla Resistenza e dei caratteri nuovi che il partito guidato da Togliatti ha assunto rispetto all’epoca di Livorno. Questo giudizio in molti non elimina riserve e diffidenze. Mentre in altri sfocia addirittura in una proposta “fusionista” tra i due partiti. I sostenitori di questa posizione non pensavano di far sparire il PSI nel PCI: pensavano che erano venuti meno gli elementi di differenziazione fra i due partiti, ormai accomunati da una politica convergente nei metodi e nei fini. Era, cioè, una proposta di sintesi di esperienze passate che superasse i momenti di contrapposizione che erano stati all’origine della scissione di Livorno. Questa proposta cade per far posto all’unità d’azione: due partiti per una sola politica.

Un’unità d’azione che viene respinta da una parte del partito, da cui la scissione di Palazzo Barberini.

Il rifiuto dell’unità d’azione con i comunisti nasce da una diversa valutazione della situazione internazionale. Da una parte c’era chi sottolineava la fine della III Internazionale, già nel 1943, e la vittoria laburista in Inghilterra, traendone elementi a favore di una alleanza stretta, d’assalto, fra i due partiti della sinistra. Da parte di Giuseppe Saragat c’era una intuizione diversa, che lo scontro fra i due blocchi sarebbe stato inevitabile e che il compito dei socialisti, in Italia e in Europa, era quello di fare da mediatori fra il blocco comunista e quello occidentale.

Un’intuizione non disprezzabile, diranno i fatti successivi.

L’intuizione era giusta nel senso che il conflitto ci sarà e avrà forme persino più aspre di quelle previste da Saragat. Ciò non toglie che il partito da lui diretto non è riuscito, in Italia, ad avere quella funzione di mediazione che Saragat gli aveva assegnato. Un ruolo che non riuscirà ad assolvere neppure l’intero socialismo europeo. Lo stesso Kreisky ha riconosciuto recentemente che il socialismo europeo, ai tempi della guerra fredda, si è rifugiato in una sorta di “sovraideologia democratica” perdendo il senso dei propri connotati e della propria funzione. D’altra parte la scissione saragattiana aveva indebolito il PSI, rendendogli più difficile la scelta e la pratica di una via autonoma dal PCI.

E veniamo al 18 aprile. Risultato elettorale deludente per il Fronte Popolare ma risultato elettorale specificatamente deludente per il PSI, i cui candidati hanno poco posto fra gli eletti nelle liste del Fronte. Cosa succede nel PSI di fronte a questo scacco?

In tutto il partito ci fu il senso di una grossa sconfitta. C’è da dire che in alcuni settori del Fronte Popolare una tale sconfitta era, se non auspicata, largamente prevista. La mia ipotesi è da documentare, ma ho l’impressione che nello stesso PCI ci fossero notevoli preoccupazioni per il caso di una vittoria del Fronte e per le conseguenze interne e internazionali che avrebbe implicato. Certe loro accentuazioni estremistiche sul finire della campagna elettorale potrebbero essere state ispirate addirittura dalla volontà di evitare una vittoria elettorale in quelle condizioni, blocco contro blocco.

Una volta Riccardo Lombardi ha detto: “La sconfitta del 18 aprile ci ha salvato da noi stessi”.

Sono d’accordo, ed è vero che Lombardi fu tra i più tenaci nel rifiutare un’identificazione troppo stretta tra PSI e PCI e soprattutto una subordinazione della politica interna del movimento operaio alla politica dello “Stato guida”.

E cosa accadde al vertice del partito, dopo la sconfitta?

Al vertice del partito c’è sconcerto di fronte ad una linea politica che aveva portato alla sconfitta. Assieme alla questione della linea politica emerge, dopo il 18 aprile, la questione della debolezza organizzativa del PSI. Il calo socialista difatti era stato superiore a quello generale della sinistra perché, mentre i comunisti avevano guidato il gioco delle preferenze, i socialisti non erano riusciti a farlo. Sicché erano stati i candidati socialisti a soccombere.

Quando si parla di organizzazione viene immediatamente fuori il nome di Morandi. Qual è stato il suo ruolo nel costruire la macchina-partito del PSI?

Morandi è una figura molto complessa. Se si raffronta il Morandi del “Centro interno”, della Resistenza, dei consigli di gestione, e lo si raffronta con il Morandi dell’era frontista, si ha l’impressione di una involuzione. Un’involuzione, se così possiamo chiamarla, dovuta alla situazione nuova, di cui Morandi prende atto, sia in fatto di politica interna che in fatto di politica internazionale. Sul piano organizzativo Morandi mutua strumenti e criteri dal movimento comunista: un partito-apparato, l’adozione di fatto del centralismo democratico, un’ideologia ufficializzata che scende dall’alto verso il basso. Con risultati di conformismo anche pesanti. Il prestigio di Morandi, specie presso i giovani, è frutto del suo rigore morale, della sua dedizione assoluta alla vita e alla costruzione del partito. Ma era un prestigio che derivava anche dalla intelligenza e dalla preparazione di Morandi, un uomo che cercava sempre di dare una giustificazione teorica e un contenuto culturale alle scelte politiche.
Superata la fase più dura della contrapposizione frontale, è del resto lo stesso Morandi a porsi il problema di una ripresa dell’iniziativa autonoma del PSI e di una revisione dottrinale.

Non fosse morto prematuramente, avrebbe avuto un suo posto nell’elaborazione socialista “revisionista” di alcuni anni dopo?

Questo ovviamente non si può dire. L’ultimo suo discorso lascia trasparire la volontà di riaprire il dibattito su certi temi, con il dire che non ci si doveva lasciare affascinare da modelli preesistenti, con una prima cauta rivalutazione della tradizione socialista. Mi pare significativo che un giovane a lui molto legato, Raniero Panzieri, all’indomani del XX Congresso scegliesse una via che può essere diversamente valutata, ma che comunque fuoriusciva nettamente tanto dallo stalinismo quanto dallo stesso comunismo post-staliniano.

Panzieri a parte, nel dibattito corrente si parla talvolta di “quadri morandiani” in senso limitativo, e cioè come di dirigenti cresciuti nell’apparato, fuori da un contatto con la società reale.

Va detto che il “morandismo” dura nel PSI non più di 4 o 5 anni, dal congresso di Bologna al 1955. Mi sembra un arco di tempo troppo breve per contrassegnare, nel bene o nel male, la formazione di una leva dirigente.

Come avviene in un leader come Nenni il passaggio dal frontismo alla ricerca di una via autonoma per il socialismo italiano?

Nenni è l’uomo dell’azione politica, dell’iniziativa. È un uomo che ha dei princìpi ma che non si chiude mai delle formule dottrinarie. La scelta frontista nasceva da una valutazione politica, senza che Nenni ne facesse mai un dato assoluto e permanente. Durante lo stesso periodo frontista Nenni avverte la necessità di dare al PSI una caratterizzazione autonoma. Basta rileggere i suoi discorsi e i suoi scritti di allora per accorgersi del suo tentativo di mantenere aperta qualche possibilità di diversificazione. La sua stessa campagna elettorale contro la legge-truffa presenta questa impostazione: battere la DC per poi sfruttare la situazione nel senso di cercare equilibri politici nuovi.

Quanto conta, nella ricerca di una via autonoma del socialismo italiano, il riconoscimento del dinamismo dell’economia italiana, del fatto che il centrismo degasperiano non aveva “ammazzato” la società?

Questo riconoscimento autocritico verrà dopo. In effetti il frontismo ha come suo dato caratterizzante, e lo stesso Morandi ne è partecipe, la convinzione che il capitalismo italiano fosse incapace di promuovere una fase di sviluppo.

Dopo l’Ungheria inizia una delle fasi più vitali nella storia del socialismo italiano. Giuseppe Tamburrano dice, a questo proposito, che i momenti migliori del PSI sono quelli in cui non è né troppo vicino né troppo lontano dal PCI.

È un giudizio in un certo senso condivisibile. In un paese come l’Italia, il PSI non può non porsi come problema permanente quello dei rapporti con un PCI tanto forte e capace di iniziativa. Se si pone in posizione subordinata, non riesce ad esprimersi compiutamente, se va allo scontro finisce col risentirne negativamente.

I comunisti rimproverano il PSI del periodo 1956-62 per aver voluto “sfondare” a sinistra, catturando una parte dell’elettorato comunista e isolando il PCI.

Rispondo come rispose Nenni a quell’epoca. Un partito come quello comunista, se si isola, si isola da sé. Noi facemmo una proposta politica. Stava al PCI scegliere se fiancheggiarla o se isolarsi. La sconfitta del centro-sinistra diede ragione ai comunisti, i quali evitarono così di essere isolati. Se il centro-sinistra fosse andato avanti positivamente, avrebbero dovuto scegliere tra l’isolarsi e il fiancheggiarlo. Ma qui viaggiamo nel regno delle ipotesi e con i “se” non si fa la storia.

I socialisti peccano spesso di masochismo sottolineando i difetti del centro-sinistra e dimenticando di dare al centro-sinistra quel che è del centro-sinistra e che oggi gli riconoscono anche certi dirigenti comunisti.

Ne sono convinto. Partecipando ad alcuni dibattiti, mi è capitato di sentire da parte comunista giudizi sul centro-sinistra più sereni di quelli che vengono comunemente dati da noi socialisti.

Quali sono gli elementi oggettivi su cui si inceppa la speranza riformatrice e pianificatoria del centro-sinistra?

In maniera schematica si può dire che le resistenze sono state superiori allo slancio che ispirava questa esperienza. Le resistenze sono state numerose e di vario tipo: i grandi gruppi economici, il mondo clericale, l’opposizione dei comunisti e dei sindacati, il sabotaggio dell’apparato statale. Aggiungi che il PSI, come già nel 1947, venne indebolito da una scissione, quella psiuppina.

Vogliamo fermarci sull’atteggiamento dei sindacati? La loro fu un’opposizione a oltranza?

Certo non ebbero l’atteggiamento che hanno oggi. Il movimento sindacale usciva da anni in cui la reazione padronale era stata durissima e vivissimi erano stati i suoi contrasti interni. Si rese conto che la nuova situazione politica era più aperta e da lì prese le mosse il processo che porterà all’unità sindacale. Senza per questo che il movimento sindacale si sentisse impegnato a collaborare con questo nuovo quadro politico, a sostenere i socialisti nel loro sforzo.

È stato detto che l’attuale programma comunista riscrive in bella copia il programma del centro-sinistra.

In un certo senso è vero. Il programma del centro-sinistra non era campato in aria, rispondeva a esigenze e problemi precisi della nostra società, e tali sono rimasti oggi.

Quali sono le ragioni del fallimento dell’unificazione con i socialdemocratici, che pure conteneva un programma ambizioso, la creazione di una grande forza socialdemocratica moderna?

Innanzitutto l’unificazione arriva con dieci anni di ritardo. E sono dieci anni di deterioramento del PSDI, che perde alcune delle sue forze intellettualmente più vivaci, come quelle riunite attorno a “Iniziativa socialista” e a “Critica sociale”. Aggiungi che l’unificazione avviene del 1966, alla vigilia del 1968, in un momento cioè in cui le ideologie ottimistiche sullo sviluppo e sul progresso della società italiana stanno per essere smentite dai fatti. Gli stessi elementi nuovi dell’unificazione, tipo la Costituente degli intellettuali, furono utilizzati in chiave esclusivamente propagandistica accentuando quel modo di fare politica oligarchico, ai vertici, che sarà battuto in breccia dalle nuove generazioni e dalla nuova situazione politica. Ultimo elemento di debolezza, l’aver costituito un partito bicefalo, con doppi dirigenti a tutti i livelli, una struttura che non avrebbe resistito né alle tensioni politiche né alle rivalità personali.

Approfondiamo un attimo il discorso sui moduli organizzativi. Come risolvere il dilemma consistente nel non essere un partito leninista e nel voler essere un partito di massa?

È un problema tuttora completamente da risolvere. In questo quadro va inserito il nostro tentativo, di cui il Comitato centrale del luglio scorso è un episodio, di superare la struttura in correnti.

Una struttura che è stata ripetutamente oggetto di critiche pesanti: correnti che nascevano da un’intuizione politica e che diventavano piccoli apparati di potere.

Le correnti hanno avuto ragion d’essere quando esprimevano orientamenti ideali e politici. Dopo di che sono diventati degli apparati di potere. In più occasioni considerazioni di ordine tattico interno hanno prevalso sulle considerazioni di ordine politico generale. Gli scontri tra i Nenni, i Basso, i Lombardi, erano sempre dominati da una ragione politica; successivamente la ragione politica è divenuta un pretesto per scontri tattici interni.

Il ’68 porta elementi di novità e di scombussolamento nella società italiana. La reazione del PSI è curiosa, come se dovesse farsi perdonare un peccato di gioventù, il centro-sinistra. In altre parole, il PSI dà spesso l’impressione di smettere il suo collaudato abito culturale e riformatore e cedere a tentazioni assembleari, alle mode culturali dell’estremismo.

Io credo che queste pericolose oscillazioni derivino dal fatto che ormai da molti anni il PSI, indipendentemente dal patrimonio personale dei singoli, non riesce ad avere una propria elaborazione culturale e dottrinale (il che non vuol dire un’ideologia ufficiale). Sotto questo punto di vista la fase del frontismo, una fase che è ancora tutta da scrivere, è stata devastante. Successivamente il partito accolse acriticamente le ideologie neocapitalistiche di tipo ottimistico, quelle che non avevano dubbi sulla certezza e sulla linearità dello sviluppo. Si parlò di “fine delle ideologie”, ma anche questa finiva per essere un’ideologia. Oggi il PSI si presenta con tradizioni diverse, eterogenee, non fuse. Questo lo rende esposto a colpi che vengono da tutte le parti, alle tentazioni estremistiche e radicaleggianti, alle suggestioni ora di una formula ora di un’altra.

A questo proposito non ti sembra che ci sia da parte del PSI una certa reticenza ad affrontare con forza il tema dell’assetto sociale dei paesi dell’Est, a dissociare apertamente e nettamente il socialismo cui noi pensiamo da quelle esperienze? Come se la devastante esperienza frontista di cui dicevi avesse lasciato un suo perfido seme.

Sì, c’è ancora la paura che esprimere un giudizio critico sull’URSS sia un favore reso alla destra. È un’eredità del periodo frontista e della guerra fredda. Un’altra debolezza che risale alla mancanza di elaborazione collettiva del PSI, un partito che preferisce spesso le formule alle analisi e alla conoscenza storica specifica di quello che sta dietro le formule. E se non si conosce la realtà in cui si opera, non si fa politica.

Concludiamo questo bilancio di un trentennio. Una grande tradizione, una grande eredità e invece appena il 10 per cento dei voti. Ne deriva una sorta di nevrosi socialista?

Ne deriva certamente una perdita del senso delle proporzioni. Talvolta finiamo col porci compiti più grandi di noi, anziché valutare le energie di cui disponiamo e quelle da utilizzare realisticamente, senza aspettare miracoli.
L’attuale situazione politica offre notevoli possibilità d’azione a chi abbia la necessaria agilità. Ma quando parlo di agilità non mi riferisco alla sola agilità tattica: intendo invece le capacità di conoscere la realtà in cui ci si deve muovere, la costante elaborazione ideologica e culturale, la messa a punto dei princìpi che devono illuminare l’azione, il disporre di strumenti e di organi mediante i quali proiettare il partito all’esterno. Quest’ultimo è un punto particolarmente dolente, di cui Morandi ebbe piena coscienza. È inutile fare grandi discorsi sul fatto che devi avere un rapporto col paese, quando non hai gli strumenti per riuscirci concretamente…

Le 25.000 copie dell’ “Avanti!” contro le 300.000 dell’ “Unità”.

Appunto. In questo momento si fa un gran parlare del concetto di egemonia in Gramsci. Gramsci aveva tratto questo concetto dallo studio del Risorgimento e della funzione che vi ebbe il partito moderato, che seppe creare un quadro politico tale da costringere in posizione subordinata la stessa opposizione. Seppe cioè darsi gli strumenti e l’elaborazione culturale che gli consentirono di esercitare in concreto l’egemonia. Oggi si tratta di ritradurre questa lezione nei termini del presente. Il che significa la capacità di essere presenti nella realtà, intendendola, analizzandola, istituzionalizzando la propria presenza nel paese. Questo mi sembra oggi il compito del PSI, se vuole superare questo trentennio così tormentato della sua esistenza.

Quali sono stati i temi al centro del dibattito al convegno di Parma si questo trentennio socialista?

Anche se inespresso, il problema di fronte al quale ciascuno dei relatori si è trovato, era pregiudizialmente quello di capire perché il PSI, nel giro di trent’anni, da primo partito del movimento operaio ha viste dimezzate le proprie rappresentanze mentre il PCI le ha quasi raddoppiate. Siamo partiti da un’analisi, calata nella storia, delle ideologie via via emerse; abbiamo continuato con un esame documentato, condotto da uno dei maggiori studiosi della materia quale Ennio Di Nolfo, delle posizioni assunte in politica internazionale, in larga misura determinanti anche ai fini degli orientamenti politici generali; abbiamo avviato un bilancio critico della esperienza di centro-sinistra con una brillante e seria relazione di Franco Gaeta, che ne ha dimostrato al tempo stesso la inevitabilità e gli invalicabili limiti; abbiamo preso in esame la politica nei confronti del mondo cattolico nelle sue istituzioni religiose ricostruita in tutte le fasi da un maestro in questi studi quale Francesco Margiotta Broglio; abbiamo infine ricostruito la genesi della “ideologia” della programmazione, confrontandola con la realtà, e a farlo è stato uno studioso tra i più promettenti della giovane generazione quale Valdo Spini. Dal complesso delle relazioni, che contiamo di pubblicare al più presto, non dirò che sia venuta una risposta compiuta e definitiva al grande problema, ma certo molti elementi validi per una riflessione.
Voglio aggiungere che, da questo punto di vista, non è incoraggiante il formale e sostanziale disinteresse col quale il gruppo dirigente del partito ha accolto l’iniziativa. È anche vero, però, che questo atteggiamento non ci ha sorpresi. Dirò, anzi, che ci siamo mossi per sfondare il muro della indifferenza ma senza illusioni, e che quanto è accaduto serve soltanto a rafforzarci nella convinzione che il nostro lavoro sia, più che utile, necessario.


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