Le illusioni digitali e gli inganni populisti

di Dario Inglese

Nel 2013, dopo il trionfale ingresso del MoVimento5 Stelle in Parlamento [1], il sociologo Alessandro Dal Lago pubblicava un agile pamphlet dal titolo Clic. Grillo, Casaleggio e la demagogia elettronica (ed. Cronopio). Il testo, introdotto da un metalogo dal sapore batesoniano, esaminava le aporie e le ambiguità della creatura di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio e la relazione instauratasi tra i due leader e i deputati appena eletti. Se da una parte, scriveva Dal Lago, il MoVimento perseguiva il raggiungimento di una perfetta democrazia diretta (sul mitico modello dell’Atene di Pericle del V secolo) e vedeva nel web il mezzo per liberare i cittadini dal giogo dei partiti, dall’altra i militanti e i parlamentari pentastellati dipendevano in tutto e per tutto dalle decisioni sovrane della coppia Grillo-Casaleggio.

Partendo da tale prospettiva, dunque, lo studioso analizzava alcuni equilibrismi linguistici coniati dai grillini (ad esempio, l’espressione “non leader” per indicare l’avanguardia rappresentata dai fondatori e la formula “non statuto” per designare il codice di condotta cui ogni militante doveva attenersi) per cogliere il nucleo del loro linguaggio. Coniati per celebrare l’eguaglianza di tutti gli aderenti al MoVimento (secondo il motto “uno vale uno”), essi erano simboli dell’ambiguità strutturale del nuovo soggetto politico. Dal Lago si serviva così della categoria di doppio vincolo (double bind), elaborata da Gregory Bateson e sviluppata dalla teoria sistemica della comunicazione, per leggere la natura contraddittoria e paradossale dei messaggi quotidianamente inviati dai due guru all’elettorato e, in primis, ai loro deputati in Parlamento.

Com’è noto, il doppio vincolo è quel legame che può manifestarsi all’interno di una relazione emotivamente intensa (in una famiglia, ad esempio) quando il soggetto forte – la madre, di solito – invia al soggetto debole – il figlio – segnali, verbali e non verbali, ambivalenti. Il soggetto debole, preso nel doppio vincolo, alla lunga diventa incapace di discernere la veridicità dei messaggi ricevuti perché contemporaneamente veri e falsi: qualunque lettura egli ne faccia, dunque, sarà insieme giusta e sbagliata. Protratta nel tempo, tale dinamica può produrre in lui uno stallo psicologico (costantemente stigmatizzato dal soggetto forte) in grado di far sorgere manifestazioni schizofreniche. Non a caso, infatti, data la natura relazionale del fenomeno, Bateson non parla mai di soggetto schizofrenico ma di “famiglia schizofrenica”.

In che modo Dal Lago usava la teoria del double bind per studiare il M5S? Ecco cosa scriveva nel 2013:

«[…] la catena di commando con cui i “non leader” assoggettano i due gruppi parlamentari veicola messaggi contraddittori, paradossali: “voi rispondete ai cittadini perché siete loro dipendenti, ma non osate contraddirci”; “non siamo leader ma se uno non è d’accordo con noi lo espelliamo”; “il nostro è un non statuto ma se lo violate siete fuori”. Di conseguenza il modo in cui si manifesta (e viene represso) il dissenso nel M5S ricorda straordinariamente – a proposito di double bind – le dinamiche di una famiglia schizofrenica: sommersi da messaggi contraddittori i membri più deboli sono paralizzati e possono sottrarsi alla soggezione solo con la fuga, se ci riescono. Quando tentano un’opposizione pubblica sono colpiti dall’interdetto del padre padrone del M5S».

Negli anni il sociologo ha continuato a monitorare attentamente il fenomeno Grillo (soprattutto attraverso post pubblicati sulla sua pagina Facebook) e recentemente è tornato sul tema con una nuova pubblicazione dal titolo Populismo Digitale. La crisi, la rete e la nuova destra (Raffaello Cortina Editore, 2017). In questo lavoro, sebbene il M5S occupi ancora uno spazio molto ampio, l’obiettivo si allarga: Dal Lago, infatti, intende analizzare le contemporanee spinte populiste nei loro tratti essenziali e riflettere sul brodo di coltura in cui esse proliferano, la rete digitale. Il M5S, da questo punto di vista, pur mostrando delle caratteristiche uniche nel panorama mondiale, è paragonabile ad altri esperimenti che, dall’America alla Russia, dalla Francia al Regno Unito, stanno operando una spregiudicata e sapiente fusione tra strategie di marketing digitale e disegno politico.

Proprio nel cyberspazio, infatti, si sviluppa il neo-populismo e, soprattutto, sembra assumere consistenza oggettiva una finzione da sempre cara alla destra (e a certa sinistra). Sul web si assiste, cioè, al prepotente ritorno del popolo:

«l’ambiente del populismo contemporaneo non è altro che la realtà immanente e al tempo stesso evanescente di Internet. Se non si comprende la natura di questa dimensione, qualsiasi analisi del populismo sarà fantasmatica quanto il suo oggetto».

Andiamo con ordine. La ricerca di Dal Lago prende le mosse dalla grande instabilità politica del nostro Paese. Gli italiani, scrive, non sono morti democristiani e nemmeno berlusconiani; probabilmente, visti gli ultimi risultati, non moriranno renziani. Periranno forse grillini? Non è dato saperlo, anche perché il movimento di Grillo, continuando a perseguire pervicacemente la politica delle non alleanze, difficilmente potrà arrivare al governo. Ad ogni modo, secondo il sociologo, l’odierna imprevedibilità elettorale dipende dal prevalere della politica digitale su quella reale. L’opinione pubblica – quell’oggetto sfuggente avidamente inseguito da scienziati sociali, sondaggisti e politici di professione – si è ormai trasformata in opinione digitale e, grazie alla velocità del web, si coagula momentaneamente e instabilmente saltando a grande velocità da un tema all’altro.

Lo sviluppo della rete, infatti, ha radicalmente mutato il rapporto tra cittadini, organi d’informazione e classe politica. Prima di internet, erano giornali e media generalisti a offrire «la definizione della situazione politica» lasciando un ruolo passivo, ancorché interessato, ai cittadini. Dopo internet, invece, essi, da semplici fruitori di notizie calate dall’alto, sembrano essere diventati soggetti attivi in grado di agire direttamente sul sistema mediatico-politico e di dialogare con esso senza filtri. Tuttavia, prosegue Dal Lago, a dispetto delle potenzialità pressoché illimitate, il web si basa su un’illusione d’indipendenza che rende gli utenti esposti alle strumentalizzazioni esattamente come in passato. Il cyberspazio, infatti, è ontologicamente fondato su un doppio vincolo strutturale che, ingiungendo ai suoi utilizzatori istanze di libertà (“la rete sei tu!”, “sei libero solo in rete!”), finisce in realtà con l’illuderli: come pesci in un acquario, gli internauti pensano di essere liberi ma non vedono l’ambiente in cui nuotano, ovvero i vincoli e gli algoritmi che governano la rete. Credono di esprimersi senza limiti ma le loro parole sono sempre mediate dallo spazio in cui sono espresse e riprese da soggetti interessati a usarle a proprio vantaggio. Se il MoVimento5 Stelle è, finora, l’esperimento che meglio è riuscito a «trasformare il double bind comunicativo (o illusione di essere liberi in rete) in double bind politico (ovvero illusione di decidere in rete) », la tendenza di certi leader carismatici a sfruttare le potenzialità del web per parlare al popolo senza alcuna mediazione è in realtà un fenomeno molto più vasto. Vasto come la rete. L’Italia, afferma Dal Lago, apre la fila ma è in buona compagnia. Il popolo, appunto.

Parlare del popolo è sempre stato molto difficile, gli scienziati sociali ne sanno qualcosa. Parlare di qualcuno, infatti, porta spesso a parlare per qualcuno, i politici (e gli intellettuali) ne sanno qualcosa. Nei due capitoli iniziali, Gli equivoci del populismo e La realtà come costruzione virale, Dal Lago offre un’interessante panoramica della riflessione occidentale sul concetto di popolo e delle analisi sul populismo. Rilegge Weber e Renan, contrappone il generico uomo della folla teorizzato da Riesman e Blazer a proposito degli USA al soggetto conflittuale tratteggiato pochi anni dopo, sempre negli Stati Uniti, da Wright Mills e critica il pensiero di Ernesto Laclau che, da sinistra, ha recentemente cercato di salvare le rivendicazioni populiste. Lo scopo di questa genealogia è affermare risolutamente il carattere funzionale della categoria “popolo”. Similmente a quanto evidenziato da diversi autori (Ernest Gellner, Benedict Anderson, Hobsbawm e Ranger, tra gli altri) a proposito della relazione tra nazione e nazionalismo (in cui è il secondo ad avere priorità cronologica sulla prima), è l’ideologia populista a produrre discorsivamente il popolo. Esso, dunque, è

«un’idea che rimanda non solo a un passato leggendario, ma anche alla nostalgia o desiderio di un fondo umano-sociale comune, a quella voglia di uniformità, somiglianza, omogeneità che ha nutrito variamente, nella modernità, le ideologie politiche di destra e di sinistra».

Stando così le cose, il popolo non esiste se non come finzione retorica costruita strumentalmente da élite o avanguardie. È, cioè, un s(oggetto) muto che «storicamente viene sempre fatto parlare da altri». È qui, in questo vuoto, che la rete digitale entra prepotentemente. Abolendo, o comunque depotenziando, la classica distinzione tra sfera pubblica e privata, il web produce una socialità nuova che tende a presentarsi come la condizione primaria per l’accesso (pieno e reale) al mondo e alle relazioni.

La rete, per il suo stesso funzionamento, trasforma soggetti in carne e ossa in utenti virtuali attraverso un processo che, con Francesco Remotti, si potrebbe definire antropo-poietico. Tali utenti, quando agiscono il cyberspazio, sono appiattiti in avatar o nickname disincarnati e privati del contatto faccia a faccia con l’altro. Esecrare questi sviluppi, scrive Dal Lago, non ha molto senso. Tuttavia, continua, è necessario comprenderli nei loro effetti politici. Ciò che i movimenti populisti hanno compreso benissimo, infatti, è che il popolo, inteso come idea di medietà, può esistere ormai solo nella finzione disincarnata della rete. Le mutevoli e camaleontiche identità virtuali convergono ciclicamente intorno a centri d’interesse o temi all’ordine del giorno e, nella tautologia della rete (nel suo continuo e virale auto-alimentarsi attraverso condivisioni, link, like e post), assumono una dimensione oggettiva perfettamente fotografata da un’espressione entrata ormai nel gergo giornalistico: il popolo del web. Poiché esso parla in rete – lo spazio della libertà per eccellenza – non può che esistere. È facilmente individuabile (nelle sue parole d’ordine, nelle sue invettive e nelle sue paure, per quanto volatili esse siano) e pronto a essere solleticato. Insomma, il popolo – introvabile fuori – si ricostituisce in rete perché «le differenze degli attori sociali reali sono integrate nell’uniformità delle loro versioni o estensioni digitali».

La relazione, però, non è unidirezionale. La comunicazione consentita dalla rete, infatti, alimenta tanto il linguaggio di una certa tipologia di utenti quanto il discorso dei populisti di professione e favorisce così un punto d’incontro stilistico. In un passaggio molto interessante del testo, Dal Lago, attingendo ad ampi stralci di dialoghi online, si sofferma sulle caratteristiche dei dibattiti virtuali. Si tratta, sovente, di discussioni tangenziali che reiterano ritornelli identitari e che spesso degenerano in flame war [2]. In altre parole, più che informare o dialogare costruttivamente, si «commenta tangenzialmente una notizia, per riaffermare chi si è, in opposizione a qualcun altro o a un punto di vista o ideologia rappresentata da un interlocutore virtuale». Quest’analisi permette a Dal Lago di avanzare l’idea che «lo stile prevalente dei dibattiti online sta creando una cultura linguistica del tutto coerente con le iperboli del populismo digitale (evidente in personaggi come Trump e Grillo), la diffusione di pseudo-notizie e così via».

La realtà come costruzione virale prodotta dal web, dunque, rappresenta una perfetta sintesi tra le frustrazioni e le paure dei soggetti reali impoveriti dalla crisi e gli interessi dei populisti che, pur non condividendone l’origine, si dichiarano loro paladini. Dando consistenza a un popolo che fuori è difficilmente individuabile perché soggetto a un globale rimescolamento di categorie, oggi internet rappresenta così « il vero ambiente sociale in cui si elabora un’alternativa alla democrazia rappresentativa o meglio si lavora al suo svuotamento».

Grillo, Trump, Putin, Le Pen, Salvini, Farage: il libro di Dal Lago presenta un’ampia galleria di figure che incarnano gli aspetti più evidenti e ambigui del neo-populismo odierno. Pur nella loro diversità, essi perseguono un dialogo diretto, non mediato, con il (loro) popolo e, a tal fine, si mostrano perfettamente a loro agio in rete (chi sui blog, chi su Twitter, chi su Facebook). La loro azione politica si basa su un evidente paradosso: sfruttando la dimensione globale e transnazionale della rete, essi promuovono la retorica del localismo e della difesa delle radici. In quest’apparente contraddizione (Dal Lago non li cita ma antropologi come Arjun Appadurai e Ulf Hannerz hanno chiaramente mostrato come il flusso della globalizzazione produca tanto appiattimento delle differenze quanto implosioni identitarie), gli attuali campioni del populismo sembrano avere – scrive il sociologo – un padre comune: Juan Domingo Perón, il dittatore argentino dal 1946 a 1955 e dal 1973 al 1974. I populisti contemporanei, infatti, hanno imparato da Perón alcune lezioni fondamentali: l’ostinata ricerca di una relazione emotivamente carica con i propri seguaci; il superamento dell’opposizione destra-sinistra; la retorica del fare e la tendenza a legare le proprie sorti a quelle della democrazia tout-court; la denuncia dei nemici del popolo in nome di una purezza che, di fatto, mira a creare una società senza partiti, cioè senza parti. Posizioni, queste, che si nutrono di retoriche xenofobe dissimulate dall’attenzione ai bisogni della gente comune.

Il caso del M5S, da questo punto di vista, è indicativo (anche se non eccezionale): la creatura di Grillo e dello scomparso Casaleggio, infatti, mischia con disinvoltura temi sociali (che, soprattutto all’inizio, hanno attratto parecchi delusi di sinistra) e discorsi apertamente razzisti (più spesso culturalisti) contro gli immigrati e i rom. Per questo motivo, Dal Lago non esita a definire il MoVimento5 Stelle come un caso di “para-fascismo digitale”. Non perché il M5S sia la riproposizione 2.0 dell’esperienza mussoliniana, ci mancherebbe, ma perché trattasi di un progetto retto da un capo carismatico e dispotico che, con i suoi discorsi incendiari e la fiducia cieca che, a dispetto delle contraddizioni, inspira nei suoi sostenitori, sfrutta le potenzialità della rete per avanzare posizioni neo-nazionaliste e predicare l’equivalenza tra il suo gruppo (“i cittadini”) e l’intero corpo della nazione. Come nel famoso discorso del 2013 quando, dopo l’exploit alle Politiche, Grillo sorprese tutti dichiarando che il fine del MoVimento è lo scioglimento. Ovviamente dopo che tutti i cittadini saranno diventati lo Stato. Una sorta di show down finale che, nella migliore tradizione millenaristica, mira ad arrestare la dialettica storica. Un grande auto da fé purificatore, come lo definisce Dal Lago.

E proprio a Beppe Grillo e ai suoi è interamente dedicata l’ultima parte del volume. Dal Lago torna sul doppio vincolo che nutre la comunicazione del MoVimento e, citando casi ben noti alle cronache politiche, sottolinea l’evidente «contraddizione tra la presunta democrazia di base – consultazioni e scelta dei candidati online, partecipazione all’elaborazione delle leggi – e la reale gestione autoritaria del M5S». Passa, quindi, ad analizzare la linea politica dettata da Grillo e Casaleggio (ieri il padre Gianroberto, oggi il figlio Davide) accennando, in considerazioni che avrebbero meritato, visto il loro interesse, ben altro approfondimento, alla natura intrinsecamente apolitica del grillismo e all’obiettivo peronista di superare l’opposizione destra-sinistra. Riflette sulla sua estraneità alla dialettica politica e sulla sua chiusura a riccio in nome di una purezza da esibire come garanzia di sovrapposizione totale alla voce del popolo. Biasima l’inevitabile trasformazione del dibattito politico promosso dal M5S in dibattito essenzialmente morale in cui in discussione non ci sono più gli affari collettivi (economia, giustizia, libertà e diritti civili) ma un’interminabile lotta contro il male che paradossalmente condanna il MoVimento all’inazione.

Populismo digitale. La crisi, la rete e la nuova destra rappresenta una lucida analisi delle derive populiste e svela un punto di vista originale saldandole al peso che la sfera digitale ricopre oggigiorno. Leggerlo come un attacco al M5S sarebbe riduttivo, anche perché, al di là dello stile tagliente dell’autore, i problemi discussi nel testo sono stringenti e prendono di mira un nuovo modo di far politica. Non a caso, scrive sempre Dal Lago, il vento neo-populista non soffia solo a destra ma spira anche altrove. Matteo Renzi in Italia ed Emmanuel Macron in Francia (altri politici molto attivi sul web), ad esempio, sembrano adottare certe strategie dei gruppi populisti puntando risolutamente sull’immagine decisionista dell’uomo forte e sul superamento degli steccati ideologici. Anche la provocatoria definizione del M5S come “para-fascismo digitale”, ancorché molto forte, intende criticare lo stile grillino ed è suffragata da una puntuale analisi delle dinamiche interne al MoVimento (in particolare della chirurgica repressione del dissenso) e delle ciniche posizioni di Grillo su immigrazione e protezionismo. Il fatto, poi, che nel M5S, con le già ricordate istanze di destra, convivano spinte di sinistra (ecologismo, appoggio ai No-Tav, reddito minimo garantito), avvalora una volta di più la tesi dell’autore sul carattere peronista del grillismo; cioè sulla sua volontà di raggiungere la sintesi delle contraddizioni per rappresentare le rivendicazioni di tutto il corpo elettorale, di tutti i cittadini. Un tipico atteggiamento del populismo di destra.

Certo, si può discutere la posizione sostanzialmente scettica di Dal Lago rispetto alla socialità promossa dal web e l’immagine eterodiretta degli internauti che a tratti restituisce. E si può anche notare a margine che l’utente virtuale che emerge in alcune pagine del libro non sembra poi così lontano dal telespettatore strumentalizzato che ha fatto le fortune politiche di noti imprenditori televisivi (come internet oggi, anche l’arrivo delle televisioni private era stato presentato – sembra un secolo fa – come una conquista di libertà per il popolo…). Con ciò intendendo mitigare, dunque, il pessimismo dell’autore che in certi passaggi lascia trasparire il rimpianto per un passato fatto d’incontri/scontri politici faccia a faccia (una scivolata di “nostalgia strutturale”, per riprendere una nota categoria di Michael Herzfeld, che è forse l’unico punto debole del testo).

A tal proposito, potrebbero tornare utili le riflessioni del filosofo Pierre Lévy sul virtuale, inteso come dimensione di pura potenzialità non opposta al reale ma all’attuale. Da questo punto di vista, allora, sarebbero ancora più illuminanti le riflessioni di Dal Lago sul reciproco influenzarsi tra universo virtuale e sfera pubblica e, in particolare, il caso del M5S risulterebbe, ancora una volta, interessante nei suoi ambigui risvolti. Quelli di un movimento che, nonostante la vulgata grillina, come ben sottolinea il sociologo, non è nato nelle piazze ma nelle pagine di un blog e che ha, in seguito, prodotto tanta realtà materiale, prima attraverso i meet-up e dopo nelle sedi istituzionali locali e nazionali; per ritornare, in un circolo apparentemente senza fine, ancora al web e al controverso blog di Grillo.

Ecco, la ricerca di Dal Lago, con tutte le importanti questioni messe sul tavolo e il fecondo nesso tra digitalizzazione della politica e rigurgiti neo-populisti proposto, potrebbe rappresentare il punto di partenza di una futura (n)etnografia multi-situata su questo nuovo modo di partecipare alla cosa pubblica: un’indagine in grado di seguire gli utenti-militanti dalle maglie della rete alle occasioni di incontro faccia a faccia e viceversa.

Vale la pena in conclusione richiamare un classico brano di Mary Douglas che ben si attaglia ai temi fin qui discussi. I populismi studiati da Dal Lago, infatti, hanno un rapporto molto stretto col concetto di purezza e, in virtù dell’impostazione rigidamente manichea che li contraddistingue, interpretano qualunque concessione all’esterno come un pericolo per la propria integrità. «Il paradosso finale della ricerca di purezza” – scriveva l’antropologa britannica – è che essa è il tentativo di forzare l’esperienza entro categorie logiche di non-contraddizione: ma l’esperienza non è malleabile, e chi si lascia attrarre da questo tentativo cade in contraddizione». Ancora una volta, il doppio vincolo batesoniano.


Dialoghi Mediterranei, n.29, gennaio 2018


Note

[1] Si ricorderà che, grazie anche alla legge elettorale allora in vigore (il cosiddetto Porcellum), le consultazioni elettorali del febbraio 2013 furono vinte, a fatica, dalla coalizione di centro-sinistra. Ciononostante, il M5S fu il partito più votato alla Camera dei Deputati e il secondo, dopo il PD, al Senato.

[2] Nel gergo di internet, una flame war è una discussione che degenera in un massiccio scambio di insulti e provocazioni (flame) senza alcun rapporto con l’argomento iniziale.