https://www.lastampa.it/2011/12/17/c...GO/pagina.html

Hitchens, vita contro di un uomo libero, da La Stampa, 17 dicembre 2011

Essere d’accordo con Christopher Hitchens era bellissimo, vi sentivate illuminati dalla forza della sua passione. Essere in disaccordo con «Hitch» era, al contrario, una pessima sensazione, perché finivate abrasi dalla sua polemica, carta vetrata sulla coscienza. In mezzo non si riusciva a stare con lo scrittore, giornalista, attivista inglese naturalizzato americano, scomparso ieri a 62 anni per un cancro all’esofago. Il dibattito, spinto all’estremo, era la sua vita, dopo gli esordi «british», figlio di un ufficiale della Marina inglese che la mamma Yvonne Jean mantiene alle università di Cambridge e Oxford con tanti sacrifici: «In questo Paese comandano gli aristocratici, Christopher deve diventarlo».

Al college Hitchens conosce un giovane borsista americano, Bill Clinton, è presente la sera in cui girano gli spinelli e Clinton, come dichiarerà nella campagna per la Casa Bianca 1992, «fuma marijuana ma senza aspirare»: «Preferiva abboffarsi di biscotti al cacao» ricordava maligno Hitchens. Che denuncia poi un collaboratore di Clinton, Sidney Blumenthal, come fonte della campagna di calunnie contro la stagista Monica Lewinsky, amante del Presidente, rompendo i ranghi democratici e beccandosi il soprannome di «Hitch the Snitch», Hitch lo spione. Non se ne vergogna e titola la sua autobiografia «Hitch 22», strizzando l’occhio al romanzo dell’assurdo di Heller «Comma 22».

L’ex compagno di università diventato Presidente non è il solo obiettivo di Hitchens, che in una carriera cominciata nella sinistra trozkista, investe l’ex segretario di Stato Kissinger, «criminale di guerra», Madre Teresa di Calcutta, «fanatica amica del dittatore di Haiti Duvalier», Lady Diana, «fighetta», Ronald Reagan, «banalotto», la religione islamica e infine Dio stesso, nel pamphlet «Dio non è grande» che lo porta a scontrarsi nei talk show di mezzo mondo, perfino con suo fratello Peter. Quando si ammala di cancro, parecchi cattolici gli scrivono «pregheremo per te, ateo». Li ringrazia, ma senza commuoversi «Se mi converto sul letto di morte sarà un rottame spaventato a farlo. Io resto un Protestante-Ateo».

Nato a sinistra, Hitchens condivide con il suo idolo George Orwell l’idea che uno scrittore deve seguire la verità anche rompendo il luogo comune dei progressisti. Scrive bene della premier conservatrice inglese Lady Thatcher, definendola «sexy», poi la critica per la sua posizione sullo Zimbabwe, in Africa, e ne viene sculacciato in pubblico, «Sì, la Thatcher mi disse piegati, più in basso ancora, intimò e poi mi diede un gran colpo sul sedere con un fascicolo arrotolato».

Dal debutto con i giornali socialisti inglesi alla The New Statesman, fino alla collaborazione in America con il progressista The Nation, «Hitch» resta bastian contrario. Quando George W. Bush decide di invadere l’Iraq, Hitchens che da tempo denunciava il fondamentalismo islamico come «islamofascismo» appoggia l’operazione, disprezza il nichilismo dei leader europei alla Chirac e decide perfino, con lo stile un po’ da clown che non gli dispiaceva quando intuiva di avere ecceduto in polemica, di sottoporsi al «waterboarding», la tortura che simula l’annegamento, praticata dalla Cia e difesa dal vicepresidente Usa Cheney. «Fa più paura ma meno male della ceretta inguinale stile bikini cui mi sono sottoposto per un articolo su Vanity Fair» dichiarò sfrontato. Perché, come tutti i grandi giornalisti, sapeva che non esistono temi superficiali, esistono giornalisti superficiali.

Uomo libero, sia nel torto che nella ragione, Hitchens finì odiato dai suoi ex compagni. Alexander Cockburn, vecchia firma della sinistra dura, lo definì «bugiardo, ipocrita, culone, tabagista, ubriacone, opportunista e cinico». E neanche i migliori amici, per esempio lo scrittore Salman Rushdie, che aveva difeso per primo dalla fatwa, la maledizione degli ayatollah iraniani, avrebbero potuto negare almeno due delle accuse del plumbeo Cockburn.

Non ho mai visto Christopher senza sigaretta in bocca, né ho potuto chiacchierare con lui mezzora senza bere un bicchiere di vino o buttare giù un paio di «baby» whisky. In Arabia Saudita 1990, durante la prima guerra del Golfo, mentre provavamo a bordo di un autobus ad avvicinarci al fronte, tirò fuori una fiaschetta di metallo da tasca, come un cow boy dei film, e senza badare alla muttawa, la polizia islamica custode dell’ortodossia analcolica salafita, ne tracannò mezza. Poi la riempì da una bottiglia celata nel borsone portacomputer (scriveva allora ancora a macchina), mi obbligò a berne a mia volta, la colmò e svuotò in un fiato e, di getto scrisse un bellissimo elzeviro: «Alcol e tabacco mi danno lucidità».

Il successo, la popolarità mondiale, gli applausi che ora venivano anche dalla destra ex avversaria non lo cambiarono. L’ultima volta che abbiam parlato, in piena rivolta araba, sorrise «Possiamo vantarci in pochi, non è così?, di avere creduto che anche gli arabi possano vivere in democrazia». Pensava che avere visto l’esecuzione di Saddam avesse ispirato alla lunga i ribelli contro i regimi, malgrado l’astio contro la guerra a Baghdad «ma so che non convincerò al Manifesto la Luciana Castellina».

Nascondeva tra lavoro e party un dolore segreto. Sua mamma s’era suicidata ad Atene dopo una relazione extraconiugale, e l’aveva cercato invano al telefono fino all’ultimo: «Ho sempre pensato che se mi avesse parlato, anche solo avesse riascoltato la mia voce, non si sarebbe tolta vita», si rammaricava. Poco prima del funerale della mamma, apprende che lei era nata ebrea, al contrario del padre cristiano. Non gli aveva mai rivelato il segreto, fino alla fine.
Lo scrittore Christopher Buckley definisce Hitchens «il più grande polemista contemporaneo in lingua inglese». Al contrario dell’ascetico Orwell era un bon vivant, a tavola e nella vita, un anglosassone caldo come un mediterraneo e con un senso unico per la famiglia. Su quel bus nel deserto saudita mi raccontò del padre Eric «Lo chiamavamo "Comandante", era sulla nave da guerra Jamaica, che nel 1943, alla battaglia di Capo Nord, affondò l’incrociatore tedesco Scharnhorst, 38.100 tonnellate di acciaio nazista a picco. In una giornata, amico mio, fece più lavoro di quanto io non sia riuscito a farne in tutta la mia vita da inviato speciale». E si addormentò, poggiando senza pudori la testa bionda sulla mia spalla. Un paio di sedili indietro, due agenti della muttawa lo fissavano sospettosi.