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    Predefinito Gramsci e il PCI: due concezioni dell’egemonia (1976)



    di Massimo L. Salvadori – “Mondoperaio”, novembre 1976, pp. 59-68.


    È una vera distorsione immaginare che il tentativo gramsciano di sviluppare il leninismo, in rapporto alle diversità fra Occidente e Oriente, implichi la messa in soffitta della teoria leniniana dello Stato e dell’obiettivo della dittatura proletaria. In Gramsci, viceversa, il sistema dell’egemonia è riconducibile al sistema della dittatura, essendo l’egemonia intesa come una dittatura capace di risolvere insieme il momento del dominio sulle classi avverse e quello della direzione sulle classi alleate e sui gruppi affini. La teoria gramsciana, dunque, non è che l’espressione più alta e complessa del leninismo, e della sua concezione della dittatura e dello Stato.

    Nel tracciare la sua strategia attuale, il PCI si è trovato di fronte a problemi pratici nuovi rispetto a quelli di Gramsci e alle sue ipotesi. Nei suoi aspetti essenziali, la politica attuale dei comunisti si ricollega alla concezione dello Stato, dei rapporti tra le classi, nella “via al potere”, della funzione stessa dei “governi di coalizione”, propria del marxismo socialdemocratico assai più che alla concezione leniniana e anche gramsciana. È venuto il momento che il PCI esca dai tatticismi teorici e faccia i conti con la sua tradizione in modo più limpido, mettendo da parte quella “sapienza cattolica” per cui tutto è adattamento e niente è mutamento.



    Nel suo significato originario il termine “egemonia” comprende due elementi: il comando da parte di chi l’esercita e il fatto che questo comando viene esercitato da chi lo detiene in vista dei seguenti scopi: 1) “guidare” degli alleati; 2) condurre insieme con essi un’azione di forza contro una parte o più parti avverse. Appare quindi che il concetto di egemonia, nella sua duplice articolazione, implica ricerca da un lato di consenso all’interno di un blocco di alleanza e dall’altro di dominio sugli avversari da ottenersi con la forza. Ci troviamo di fronte ad una combinazione di nessi che non sono scindibili.
    È a tutti noto che nella cultura politica italiana (e non solo italiana) contemporanea la discussione sulla egemonia e sulle sue implicazioni è legata all’opera di Antonio Gramsci, e particolarmente al significato dei suoi Quaderni del carcere. Tanto che si potrebbe sinteticamente affermare che oggi Gramsci appare soprattutto come il “teorico dell’egemonia”. L’attenzione centrale dedicata alla teoria gramsciana della egemonia ha le proprie radici nella ricerca condotta dal PCI intorno alle forme di una via al socialismo adeguata alla complessità dello sviluppo della società civile e dello Stato nei paesi a sviluppo industriale avanzato, nella consapevolezza che il “modello” di socialismo rappresentato dai paesi socialisti di matrice bolscevico-staliniana non è più né praticabile né auspicabile. L’opera di Gramsci e in specie i Quaderni sono considerati dai teorici e dagli ideologi comunisti come una tappa centrale, come un trait d’union fra il leninismo e il post-leninismo. Le interpretazioni che potremmo dire correnti e con un segno più direttamente politico (quella di Luciano Gruppi è sotto questo profilo esemplare) tendono a suggerire una lettura secondo la quale Gramsci avrebbe compiuto una sorta di “rotazione” teorica, all’inizio della quale sarebbe stato all’interno del leninismo e della sua prospettiva e alla fine della stessa avrebbe aperto, proprio attraverso l’elaborazione compiuta della “teoria dell’egemonia”, la strada alla strategia attuale del PCI, fondata sull’accettazione del “pluralismo”, sulla democrazia politica, sul dialogo tra forze politiche diverse, sulla strategia delle riforme.
    I punti della teorizzazione gramsciana contenuta nei Quaderni che vengono a questo scopo maggiormente utilizzati e “sensibilizzati” sono quelli che riguardano: 1) la necessità per una forza che intenda fondare uno Stato nuovo di essere “egemone” già prima di avere assunto il potere; 2) la necessità per il proletariato di legare a sé un “blocco” di forze storiche in grado di esprimere la complessità della società civile; 3) la necessità di assegnare un ruolo centrale al legame con gli intellettuali; 4) la necessità di condurre in “Occidente” una lotta che tenga conto adeguato delle differenze fra le forme della rivoluzione sociale in Russia e le forme di un processo rivoluzionario nei paesi borghesi sviluppati, insomma di tener conto delle “lezioni” derivanti dal fallimento della rivoluzione nell’Europa centro-occidentale nel primo dopoguerra.


    (...)
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  2. #2
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    Predefinito Re: Gramsci e il PCI: due concezioni dell’egemonia (1976)

    Bello questo articolo, nelle premesse sembra ricondurre Gramsci alla sua giusta dimensione marxista-leninista e non a quella socialdemocratica e piccolo-borghese di Togliatti, sarebbe interessante leggere il resto...

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  3. #3
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    Predefinito Re: Gramsci e il PCI: due concezioni dell’egemonia (1976)

    Citazione Originariamente Scritto da Lord Attilio Visualizza Messaggio
    Bello questo articolo, nelle premesse sembra ricondurre Gramsci alla sua giusta dimensione marxista-leninista e non a quella socialdemocratica e piccolo-borghese di Togliatti, sarebbe interessante leggere il resto...

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    Il saggio in questione è abbastanza lungo... verrà comunque postato nella sua interezza... un paragrafo alla volta...
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  4. #4
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    Predefinito Re: Gramsci e il PCI: due concezioni dell’egemonia (1976)

    Un problema politico

    Che una forza politica con il peso del PCI tenda ad utilizzare la propria “tradizione” teorica e prima di tutto quanto di essa è legata alla figura del suo massimo pensatore, è fatto non soltanto naturale, ma doveroso. Senonché, constatato questo, a me sembra che si debba portare il discorso sul piano più proficuo, cioè sul come viene condotta siffatta utilizzazione.
    Una simile verifica sul come può partire da due esigenze che possono rimanere distinte, ma che è invece bene collegare strettamente. La prima esigenza è in sé di carattere storico, vale a dire di esatta determinazione del significato della teoria gramsciana, dei “segni” suoi propri, della natura e degli scopi ad essi inerenti. La seconda esigenza è di natura più propriamente politica e riguarda il chiarimento del rapporto fra teoria e pratica; questa esigenza di chiarimento può essere espressa nel seguente interrogativo: il tentativo, dal PCI tenacemente costruito, di presentare la sua strategia attuale (“compromesso storico”) come fondata sulle implicazioni della teoria dell’egemonia di Gramsci è legittimo o meno? Vorrei spiegarmi meglio. Nel porre a questo punto una questione di “legittimità” non intendo affatto avanzare un problema di determinazione storiografica dei concetti, bensì un problema politico, poiché, a seconda del fatto che il richiamo a Gramsci sia “autentico” o no, ne deriva un giudizio diverso sul PCI di oggi. È infatti evidente che una cosa è un partito il quale, nel fare politica in atto, sia contraddistinto da una unità di teoria e di prassi, e un’altra è un partito che viva utilizzando in modo almeno in parte strumentale il pensiero del suo massimo teorico, con una conseguente scissione, assai poco gramsciana, fra una certa dimensione della teoria (appunto il richiamarsi a Gramsci) e la sua prassi. Se si potesse affermare che, nella storia e nella prassi del PCI, esiste una fondamentale continuità con la teoria gramsciana, ciò vorrebbe dire che i comunisti si muovono pur sempre all’interno di una ispirazione che potrebbe dirsi, sinteticamente, leninista-rivoluzionaria nel senso aperto storicamente dal 1917; altrimenti si renderebbe necessario chiedere al PCI di chiarire in termini più definiti da un lato quale sia la natura reale del suo rapporto con la tradizione del bolscevismo e dall’altro quale sia la sua “natura” di forza socialista. Quello che ritengo si possa senza dubbi affermare è che una mancanza di chiarimento adeguato nel rapporto fra la teoria e la prassi porta all’ “empirismo” sia teorico sia pratico.
    Cerco di essere più esplicito. Il PCI è il maggiore partito della sinistra italiana; ha un grande seguito popolare; assai più del PSI ha portato avanti una politica ad ampio raggio sul fronte ideologico; ed è, in conclusione, la forza centrale e decisiva della sinistra italiana, con un peso crescente su scala internazionale. Esso ha perciò le maggiore responsabilità, cosicché i suoi problemi sono inevitabilmente i problemi di tutta la sinistra nel nostro paese, in modo diretto o indiretto.
    I dirigenti di vario grado del PCI fanno valere questa forza continuamente, come dimostrazione nei fatti di una capacità teorica e pratica che di per sé dovrebbe rendere assai prudenti i suoi critici. Credo che si possano fare in proposito due osservazioni. La prima è che la storia mostra precedenti di partiti operai e socialisti i quali, proprio allorché pervennero ad un grado di massima forza in termini sia di consensi elettorali sia di larghezza e intensità di rapporti con le masse popolari, giunsero ciò nondimeno ad una “impasse” strategica caratterizzata anche da una scissione fra la teoria e la pratica (si pensi solo alla socialdemocrazia tedesca alla vigilia della prima guerra mondiale e al Partito socialista italiano nel primo dopoguerra). La seconda osservazione è che il PCI in ogni caso dovrebbe valutare attentamente (se mai non lo faccia) il fatto che la sua forza attuale proviene, per dirla un po’ brutalmente, in misura consistente anche da una specie di rendita che la DC, con il suo malgoverno, e le tare storiche dell’assetto borghese in Italia hanno quasi regalato al maggior partito di opposizione, facendo convogliare verso di esso forze interclassiste variamente composite, giustamente disgustate dalla DC e deluse dell’incapacità o impossibilità del PSI di condizionare incisivamente l’azione riformatrice dei governi nel periodo del “centro-sinistra”. Il che comporta la natura in parte eterogenea, poco chiara, e persino passivamente protestataria di una certa base di “consenso” recentemente ottenuta dal PCI stesso. Di fronte ad un simile fenomeno, è della massima importanza per tutta la sinistra “fare i conti” con estrema spregiudicatezza nei confronti delle questioni teoriche, così da giungere a chiarire i presupposti teorici della pratica con piena consapevolezza. Senza questa, le scelte strategiche acquistano carattere quanto mai precario; senza questa consapevolezza, la base dell’ampio consenso di cui le sinistre (e in primo luogo il PCI) oggi godono potrebbe diventare, a più lunga scadenza, un elemento di sbandamento. Solo, infatti, una chiara prospettiva teorica o per lo meno l’individuazione di una chiara problematica può impedire che una componente significativa del consenso sia soggetta a brusche oscillazioni.
    Detto tutto ciò, ritengo che uno dei modi per individuare una problematica teorica nei suoi termini corretti sia anche la risposta all’interrogativo: la strategia attuale del PCI è “compatibile” con quella indicata da Gramsci? E, più specificatamente, la linea dell’ “egemonia” perseguita dal PCI è riconducibile alla “teoria dell’egemonia propria di Gramsci? È chiaro che, nel caso in cui si rispondesse (come dico subito che io faccio) che fra i due termini di confronto non vi è continuità politica ed intrinseca omogeneità di concezione, ciò non vorrebbe di per sé dire che ci si trovi di fronte a un peccato di lesa maestà; ma ci si sbarazzerebbe di un equivoco, così ponendosi le premesse per l’identificazione della natura reale della concezione attuale dell’ “egemonia” propria del PCI e per una realistica discussione sulle ragioni che hanno spinto il PCI a un’evoluzione diversa, sulla validità o meno dell’una e dell’altra concezione dell’egemonia rispetto ai compiti presenti.

    (...)
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    Predefinito Re: Gramsci e il PCI: due concezioni dell’egemonia (1976)

    L’interpretazione canonica di Gramsci

    Credo che qualsiasi discussione sulla “teoria dell’egemonia” elaborata da Gramsci debba tenere presenti le seguenti esigenze: 1) verificare quali siano le sue origini e mettere queste ultime in relazione ai suoi sviluppi, per arrivare a delle conclusioni circa la questione centrale se gli sviluppi abbiano introdotto rispetto alle origini delle variazioni qualitative, tali cioè da aprire una prospettiva differente; 2) verificare se gli sviluppi della teoria abbiano in Gramsci delle implicazioni che modifichino in modo sostanziale la teoria leniniana della dittatura del proletariato; 3) verificare insomma se il punto di approdo del pensiero di Gramsci, quale contenuto nei Quaderni, consenta o non consenta, sia pure solo in nuce, di considerare l’egemonia come qualcos’altro rispetto alla dittatura del proletariato, oppure se per Gramsci l’egemonia rimase sempre un modo per arricchire nelle sue articolazioni la teoria stessa della dittatura.
    Il problema non è affatto accademico, poiché è noto a tutti che il PCI oggi porta avanti una teoria del potere socialista che non è più riconducibile a una teoria della dittatura proletaria, mentre i suoi ideologi affermano che la sua strategia è, per così dire, una “filiazione” del pensiero gramsciano.
    Chi si è spinto avanti in siffatta direzione con la maggiore chiarezza è stato Luciano Gruppi. La sua interpretazione della “teoria dell’egemonia” di Gramsci è schematicamente la seguente: Gramsci è partito figlio del leninismo; nella fase immediatamente leninista l’egemonia era per Gramsci un aspetto diretto della dittatura del proletariato; messo di fronte alla sconfitta del movimento operaio all’inizio degli anni ’20, Gramsci ha aperto una fase di elaborazione fondata sulle differenze fra Oriente e Occidente, di cui i Quaderni sono la compiuta espressione concettuale; l’approdo di Gramsci è una meditazione sul leninismo culminata in una concezione dell’egemonia che porta non esplicitamente, ma potenzialmente o meglio metodologicamente, a quello che Gruppi chiama “un arricchimento della concezione leniniana dello Stato, in quanto lo Stato può venire concepito non più soltanto come macchina oppressiva e quindi da spezzare” (è davvero difficile immaginare un uso più ambiguo del termine “arricchimento” di quello qui fatto). Alla considerazione di cui sopra Gruppi aggiunge significativamente una frase che esprime, sia pure con un certo ermetismo, tutto il “succo” della sua interpretazione: “Appaiono le conseguenze che ciò può comportare nella teoria e nella pratica”[1]; e continua: “Tutta la concezione della via italiana al socialismo sarebbe inspiegabile ove non si partisse dal principio dell’egemonia… Cadrebbe insomma tutta una strategia e una tattica delle alleanze. Cadrebbe anche il rapporto fra riforme e rivoluzione… Cadrebbe anche la concezione del partito nuovo, di un partito cioè che non si limiti alla opposizione, negativa, alla indicazione propagandistica della soluzione socialista, ma che intervenga attivamente ad individuare e risolvere i problemi che concretamente si pongono”[2]. Più chiaramente di così non si sarebbero potuti indicare i termini di una interpretazione della continuità fra la linea di Gramsci e la linea del PCI attuale (il fatto che il saggio di Gruppi cui mi riferisco sia del 1967 non cambia il discorso e non diminuisce il riferimento all’attualità).
    I nodi sono dunque questi: Gramsci ha aperto realmente la strada ad una concezione dello Stato (con tutte le conseguenze) che non sia più da spezzare? Gramsci, in sostanza, ha posto le premesse per il passaggio da una concezione dello Stato come espressione della dittatura del proletariato, della “democrazia proletaria” come opposto della democrazia parlamentare-borghese, della ideologia marxista come ideologia dell’ “antitesi totale” a una concezione dello Stato borghese come Stato da “non spezzare”, della democrazia “pluralistica” quale espressa dalla istituzioni democratico-parlamentari di matrice liberale, della “egemonia ideologica” come “pacifico” confronto fra le ideologie prodotte dalle varie forze sociali e politiche? Gramsci è il padre di una concezione della “egemonia” come “arricchimento” della dittatura del proletariato che in effetti pone le premesse per l’abbandono di questa?

    (...)


    [1] L. Gruppi, Il concetto di egemonia, in AA. VV., Prassi rivoluzionaria e storicismo in Gramsci, “Critica marxista”, Quaderni n. 3, 1967, p. 88.

    [2] Ibid. pp. 94-95.
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    Predefinito Re: Gramsci e il PCI: due concezioni dell’egemonia (1976)

    L’esperienza consiliare

    Quando Gramsci scrisse nel 1926 che, già nel periodo “ordinovista”, “i comunisti torinesi si erano posti concretamente la quistione dell’ ‘egemonia del proletariato’, cioè della base sociale della dittatura proletaria e dello Stato operaio”[1], egli era un corretto storico di se stesso, perché individuava esattamente nella strategia dei consigli di fabbrica l’origine della sua concezione della egemonia quale strumento per consentire al proletariato di “mobilitare contro il capitalismo e lo Stato borghese la maggioranza della popolazione lavoratrice”[2].
    In che cosa si esprimeva la preoccupazione principale di Gramsci nel periodo consiliare? Egli era lucidamente consapevole che la mera forza, se pure poteva in circostanze eccezionali consegnare il potere, non poteva però in nessun modo costituire la base di una società avviata verso il socialismo. Sono troppo note le sue parole circa la necessità che il partito rivoluzionario sia circondato da un “prestigio” derivante dalla sua capacità di direzione e non ceda alle tentazioni autoritario-burocratiche, perché sia qui il caso di soffermarvisi. Non si valuterà mai adeguatamente il significato del consiliarismo gramsciano se non lo si considererà, prima e più ancora che come tentativo di individuare una soluzione “tecnica” del potere proletario in relazione ai problemi della produzione, quale ricerca di un terreno per dare al progetto di dittatura politica una base di egemonia sociale. La sua lapidaria affermazione che “il consiglio di fabbrica è il modello dello Stato proletario”[3] altro non è che un modo brillante e icastico per affermare che non vi può essere vero dominio politico senza direzione sociale, e per denunciare i limiti di qualsiasi dittatura di partito resa equivalente alla dittatura del proletariato. Al tempo stesso, è chiaro, la strategia dell’egemonia nel periodo consiliare è lo strumento per eccellenza non per un “allargamento” della democrazia, ma per il capovolgimento dell’ordine costituito: il consiglio è l’antitesi del potere padronale nella fabbrica; la ricerca da parte del proletariato delle alleanze con contadini e intellettuali è il mezzo per spezzare il blocco sociale borghese; la “riforma morale e intellettuale” delle masse è l’obiettivo da raggiungersi per annientare l’egemonia capitalistico-borghese sulla società civile e quindi rendere impossibile il dominio dello Stato che ne è manifestazione.
    Questa serie di antitesi rimase a fondamento del pensiero politico gramsciano fino alla sua conclusione. Ma, se ciò è esatto, ne segue che una teoria dello Stato, delle alleanze sociali, della funzione degli intellettuali, che culmini nella rinuncia alla “mobilitazione contro il capitalismo e lo Stato borghese” in termini di creazione di una “base sociale della dittatura proletaria e dello Stato operaio”, non può essere ricondotta a Gramsci.
    Il ragionamento che dunque Gramsci conduceva negli anni 1919-1920 può essere abbastanza rapidamente delineato. Partendo dall’ipotesi, comune in generale al movimento rivoluzionario che si richiamava al bolscevismo, che la guerra mondiale avesse segnato in termini storici generali il destino del capitalismo, pronunciandone la condanna, egli era occupato dal problema del come giungere in Italia a un sistema di dittatura del proletariato il quale desse alla dittatura stessa un carattere espansivo, in grado di assolvere positivamente due compiti: la gestione della macchina produttiva e la costruzione di un blocco di forza sociale che, nel suo insieme, potesse contrapporsi con maturità e quindi con successo al blocco dominante. Il germe della teoria dell’egemonia era appunto nella coscienza che la pura forza contro le classi avverse non porta al successo della rivoluzione se questa non raggiunge una sua maturità sociale, se cioè non si costruisce una riserva adeguata di consenso politico e di capacità tecnico-gestionale. Il consiglio degli operai e dei contadini era per lui la fucina prima, la “cellula” primaria e fondamentale insieme della direzione del partito rivoluzionario sulle masse dei produttori e della dittatura verso le classi da abbattere. Dando per scontata in certo senso la maturità “oggettiva” della rivoluzione, il problema di Gramsci era la costruzione della maturità “soggettiva”.

    (...)


    [1] A. Gramsci, Alcuni temi della questione meridionale, in La costruzione de Partito comunista 1923-1926, Torino 1971, pp. 139-140.

    [2] Ibid., p. 140.

    [3] A. Gramsci, L’Ordine Nuovo, 1919-1920, Torino 1955, p. 37.
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    Predefinito Re: Gramsci e il PCI: due concezioni dell’egemonia (1976)

    La rivoluzione in Occidente

    Allorché, dopo il periodo che possiamo chiamare “bordighiano”, Gramsci nel 1923-24 contrappose la sua direzione a quella di Bordiga, egli esplicitò con nuova chiarezza la sua teoria dell’egemonia. Ma questa esplicitazione non era una ripresa meccanica delle teorizzazioni del periodo consiliare, poiché vi era una situazione nuova, assai complessa. Bisogna soffermarsi brevemente sul significato della coscienza che Gramsci ebbe di questa complessità e porla in relazione ai suoi scopi. In una lettera del febbraio 1924, Gramsci afferma che in Occidente la presenza di sovrastrutture “create dal più grande sviluppo del capitalismo rende più lenta e più prudente l’azione della masse e domanda quindi al partito rivoluzionario tutta una strategia e una tattica ben più complesse e di lunga lena di quelle che furono necessarie ai bolscevichi nel periodo fra il marzo ed il novembre 1917”[1]. Gramsci anticipa qui, con una perfezione compiuta, il discorso dei Quaderni sul tema delle differenze fra Occidente e Oriente. Ma con quali altri elementi egli correla questo aspetto del suo discorso? In poche parole, a che cosa gli serve sottolineare la “complessità” occidentale? Forse per aprire un discorso “nuovo” sullo Stato, sulle componenti sociali del blocco storico, per elaborare un concetto dell’egemonia che si esprima in una proposta che modifichi il progetto della costruzione della dittatura e avvii la costruzione di una politica delle alleanze di tipo “democratico”? All’opposto. Il suo discorso è tutto fondato da un lato sulla presa di coscienza delle difficoltà “supplementari” create dal maggiore sviluppo della società capitalistica in Occidente, dall’altro sulla ricerca di una strategia che consenta di arrivare allo stesso risultato dei bolscevichi russi. La differenza che egli intende stabilire col bolscevismo poggia interamente su un concetto più complesso e, per così dire, “maturo” della dittatura del proletariato. Per questo Gramsci può affermare, contemporaneamente al discorso sulle “differenze” fra Oriente e Occidente, che lo scopo da conseguire è quello di arrivare alle “condizioni in cui i bolscevichi russi si erano trovati già fin dalla formazione del loro partito”[2].
    Insomma, il problema di Gramsci è: superare tutti gli ostacoli che la complessità della società borghese in Occidente pone, con la creazione di una “aristocrazia operaia con i suoi annessi di burocrazia sindacale e di gruppi socialdemocratici”[3], alla bolscevizzazione del proletariato e, con il persistere di forze “democratiche”, ad una politica delle alleanze che consenta la creazione di un “blocco storico” rivoluzionario. Quindi la direzione di marcia che Gramsci intende imprimere al movimento operaio e la sua concezione dell’ “egemonia” sono interamente ispirate all’obiettivo di battere: 1) la socialdemocrazia, 2) le forze della “democrazia” borghese. Quel che Gramsci avverte è che, rispetto alla situazione russa, in Occidente la rivoluzione e il bolscevismo non possono avere successo se, già prima della rivoluzione, non si determina uno spostamento di forze in senso rivoluzionario, in grado di assicurare, su basi di “autonomia”, un fondamento adeguato per una futura gestione dell’apparato produttivo moderno dello Stato.

    (...)


    [1] A Palmi, Urbani e C., lettera in data 9 febbraio 1924, in P. Togliatti, La formazione del gruppo dirigente del Partito comunista italiano, Roma, 1962, pp. 196-97.

    [2] A. Gramsci, La costruzione ecc., cit., p. 64.

    [3] A Palmi, Urbani e C., lettera cit., p. 197.
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    Predefinito Re: Gramsci e il PCI: due concezioni dell’egemonia (1976)

    Le tesi di Lione

    Quando si leggano le Tesi di Lione del 1926 per cogliervi quel che esse in effetti dicono, si vedrà che sono animate dall’esigenza della “bolscevizzazione”, cioè della lotta contro “le correnti che costituivano un deviazione dai princìpi e dalla pratica della lotta di classe rivoluzionaria”[1], contro le “utopie democratiche” sullo Stato[2], contro quella “catena di forze reazionarie” che, partendo dal fascismo, attraverso i “gruppi antifascisti” come i liberali, i democratici, i combattenti, i popolari, i repubblicani, il partito socialista riformista, arriva al partito massimalista. Anche i vari partiti “democratici” regionali come il Partito sardo d’azione sono considerati un “ostacolo” alla realizzazione della alleanza tra operai e contadini sotto la direzione del PCI[3]. L’attenzione dedicata alle “lotte parziali” è funzionale all’obiettivo della dittatura del proletariato e alla “fondazione dello Stato operaio”[4]. Gli ultimi punti delle Tesi (dal 42 al 44) indicano come meglio non si potrebbe il rapporto fra una tattica che utilizza strumentalmente le parole d’ordine “democratiche” e una strategia che ha come scopo di escludere ogni soluzione che non porti allo Stato proletario fondato sulla dittatura. La tattica del fronte unico “come azione politica (manovra)” ha la funzione di creare le premesse per una efficace “direzione” delle masse ad opera del Partito comunista e la conquista della maggioranza in mezzo ad esse e fallirebbe qualora non portasse a “smascherare partiti e gruppi sedicenti proletari e rivoluzionari”. Proprio in relazione al problema dell’individuazione di una via efficace alla dittatura è introdotta l’osservazione che la tattica del fronte unico e l’adozione strumentale di parole d’ordine “democratiche” si rendono necessarie poiché persiste un’adesione delle masse ai partiti e gruppi da distruggere politicamente, la quale rende inopportuna in certe circostanze una “lotta frontale”[5].
    È dunque qui da vedersi la radice della affermazione fatta nei Quaderni secondo cui va respinta la “guerra manovrata” prima che la “guerra di posizione” abbia dato i suoi frutti. Non si tratta perciò di una contrapposizione tra i due concetti di “guerra” bensì di una loro correlazione funzionale. Non ci si può lanciare all’assalto nella direzione della conquista del potere (Stato operaio e dittatura del proletariato) fino a che la lotta di trincea non abbia creato le premesse del successo: l’assalto distruttivo dell’avversario rimane però lo scopo supremo. Tant’è che la conclusione delle Tesi (che esprimono un corso di pensieri in cui gli Appunti sulla questione meridionale sono una esplicitazione particolare) suona così: la formula del “governo operaio e contadino” (parola d’ordine che in certo senso potremmo definire “democratica”) “è una formula di agitazione, ma non corrisponde ad una fase reale di sviluppo storico se non allo stesso modo delle soluzioni intermedie (…). Una realizzazione di essa infatti non può essere concepita dal partito se non come inizio di una lotta rivoluzionaria diretta, cioè della guerra civile condotta dal proletariato, in alleanza con i contadini, per la conquista del potere. Il partito potrebbe essere portato a gravi deviazioni dal suo compito di guida della rivoluzione qualora interpretasse il governo operaio e contadino come rispondente ad una fase reale di sviluppo della lotta per il potere, cioè se considerasse che questa parola d’ordine indica la possibilità che il problema dello Stato venga risolto nell’interesse della classe operaia in una forma che non sia quella della dittatura del proletariato[6].
    Gramsci, dunque, proprio nello stesso periodo in cui ha già raggiunto una sua consapevolezza precisa (del tutto analoga a quella espressa nei Quaderni) circa le differenze fra Oriente e Occidente e ha espresso negli Appunti sulla questione meridionale una matura “teoria dell’egemonia” e del “blocco storico”, ha del pari chiarito, senza possibilità di equivoci, il senso stesso della sua strategia: la dittatura del proletariato e lo Stato operaio. Che cosa differenzia, allora, Gramsci dai fautori più “arretrati” della dittatura e dello Stato operaio? Ciò che lo differenzia è il fatto che egli intende dare alla dittatura e allo Stato una base che non sia quella della pura forza, poiché egli è convinto che la pura forza non può risolvere le questioni connesse alla costruzione di una nuova società, la quale abbisogna di un consenso attivo delle masse lavoratrici, da esprimersi naturalmente all’interno delle istituzioni sorte dalla rivoluzione e dalla rottura dell’apparato di governo borghese.
    Questo aspetto Gramsci lo fa valere per quanto tocca la strategia, non solo in Italia e più in generale in Occidente, ma anche nella stessa Unione sovietica. È in questa chiave, cioè alla luce della sua teoria dell’egemonia, che va letta l’affermazione, rivolta a Togliatti, secondo cui “oggi, dopo nove anni dall’ottobre 1917, non è più il fatto della presa del potere da parte dei bolscevichi che può rivoluzionare le masse occidentali, perché esso è già stato scontato ed ha prodotto i suoi effetti; oggi è attiva, ideologicamente e politicamente, la persuasione (se esiste) che il proletariato, una volta preso il potere, può costruire il socialismo[7]. Tutte le riserve di Gramsci nei confronti dei metodi di Stalin sono motivate dalla preoccupazione che nell’URSS possa venire a mancare una capacità di egemonia, e che il dominio abbia una sopravvento unilaterale sulla direzione.
    È mia convinzione che ciò che caratterizza Gramsci e la sua teoria dell’egemonia non sia affatto l’avere immesso elementi tali da aprire la strada a una concezione dello Stato di matrice liberal-parlamentare e alla via nazionale nel senso attuale del PCI, bensì il fatto di essere la più elaborata e complessa espressione del tentativo di dare alla dittatura del proletariato un fondamento adeguato. Sicché Gramsci è il figlio più “indipendente” e anche autonomo, ma pur sempre figlio a tutti gli effetti, della dottrina leniniana. Certo almeno questo egli era e intendeva essere ancora nel 1926. I Quaderni aprono una fase nuova? E in qual senso?

    (...)


    [1] La situazione italiana e i compiti del PCI [Tesi di Lione], in A. Gramsci, La costruzione ecc., p. 488.

    [2] Ibid., p. 489.

    [3] Ibid., p. 499.

    [4] Ibid., p. 500.

    [5] Ibid., pp. 511-513.

    [6] Ibid., p. 513.

    [7] Gramsci a Togliatti, lettera del 26 ottobre 1926, in A. Gramsci, La costruzione ecc., pp. 136-137.
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    Predefinito Re: Gramsci e il PCI: due concezioni dell’egemonia (1976)

    L’egemonia come fondamento della dittatura

    Non bisogna cercare di attenuare il significato del modo in cui Gramsci caratterizza Lenin nei Quaderni, proprio in quella sede in cui viene portata a compiutezza “filosofica” la sua teoria dell’egemonia. Egli, a proposito di Lenin, fa due affermazioni fondamentali, da considerarsi nella loro unità concettuale: 1) che Lenin deve essere considerato colui che ha impostato le basi della teoria stessa (“il principio teorico-pratico dell’egemonia ha anch’esso una portata gnoseologica e pertanto in questo campo è da ricercarsi l’apporto teorico massimo di Ilici alla filosofia della praxis”[1]; 2) che Lenin però “non ebbe tempo di approfondire la sua formula”[2]. Ora, dove Gramsci rintraccia l’ “insufficienza” di Lenin? Proprio in ciò che riguarda le indicazioni relative al passaggio in Occidente dalla “guerra di posizione” alla “guerra manovrata”, per arrivare pur sempre alla dittatura del proletariato. È una vera distorsione immaginare che una delle implicazioni del tentativo gramsciano di sviluppare il leninismo, sulla base della consapevolezza della diversità fra Occidente e Oriente, sia nientemeno che la “messa in soffitta” della teoria leniniana dello Stato e dell’obiettivo della dittatura proletaria.
    Quando esprime la sua celebre formula, che ha per lui il valore di un principio generale di scienza della politica: “La supremazia di un gruppo sociale si manifesta in due modi, come ‘dominio’ e come ‘direzione intellettuale e morale’”, Gramsci è di una chiarezza esemplare. La sua preoccupazione non è affatto quella di attenuare il significato della necessità che una classe dominante annienti politicamente e socialmente gli avversari; egli per contro lo ribadisce a tutte lettere. Quel che intende chiarire, è che la forza da sola non è sufficiente, e anzi che la sola forza è un segno di una insufficiente maturità storica di chi pretenda di fondare uno Stato nuovo, che una classe dominante non può governare se, mentre esercita il suo dominio (dittatura) verso gli avversari, non è anche in grado di ottenere il consenso delle forze sociali alleate (che però devono avere una base sociale ed economica tendenzialmente omogenea), oggetto di direzione. L’egemonia è dunque la tessa cosa della dittatura, di una dittatura però che (ecco il punto decisivo) deve essere altra cosa dalla dittatura di una forza politica senza capacità di direzione sulle forze economico-sociali indispensabili a far funzionare in modo nuovo la produzione materiale e intellettuale.
    Se si tiene presente tutto ciò, risulta del tutto limpido quanto Gramsci fa seguire all’affermazione: “Un gruppo sociale è dominante dei gruppi avversari che tende a ‘liquidare’ o a sottomettere anche con la forza armata ed è dirigente dei gruppi affini e alleati”. Allorché aggiunge che “un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo”[3], egli continua un ragionamento perfettamente coerente con quello svolto nel 1926 circa il fatto che non si può conquistare il potere se, mentre si lotta contro gli avversari, non si conquista la direzione sui gruppi affini con manovre “tattiche” volte a distruggere l’influenza esercitata sulla masse dalla “catena delle forze reazionarie”. In Occidente ciò significa appunto distruggere le forme in cui si realizza l’egemonia borghese anche attraverso i “democratici” e gli pseudo-socialisti.
    Tutta la sua teoria del “centralismo democratico” è nei Quaderni volta ad assicurare una base di direzione dei vertici verso la base del partito rivoluzionario ed è una specificazione, interna al partito, dell’egemonia, che ha una sua specificazione ulteriore nel rapporto fra il partito nel suo complesso e gli alleati. Chi sono questi alleati? Sono sempre e solo per Gramsci forze economico-sociali, non altri partiti che rimangano su una prospettiva autonoma diversa da quella della dittatura del proletariato.

    (...)


    [1] A. Gramsci, Quaderni del carcere, II, Torino 1975, pp. 1249-50.

    [2] Ibid., p. 866.

    [3] Ibid., III, Torino 1975, pp. 2010-11.
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    Predefinito Re: Gramsci e il PCI: due concezioni dell’egemonia (1976)

    Il marxismo come filosofia totale

    Si osservi come Gramsci ribadisca nei Quaderni il carattere “totale” del marxismo e insista sul fatto che il marxismo, nella sua unità di teoria e prassi, non sia materia di “dialogo” con le altre visioni del mondo, bensì solo mezzo di conquista delle altrui posizioni al fine di sostituire un’egemonia a un’altra; si osservi, insomma, come il carattere “totale” del marxismo sia una dimensione del progetto della dittatura proletaria o, in altri termini, di una democrazia di tipo nuovo, costruita cioè all’interno delle istituzioni dello Stato proletario come antitesi di quello borghese. A proposito di questo carattere “totale”, Gramsci scrive: l’ “ortodossia” del marxismo va ricercata “nel concetto fondamentale che la filosofia della praxis ‘basta a se stessa’, contiene in sé tutti gli elementi fondamentali per costruire una totale e integrale concezione del mondo, una totale filosofia e teoria delle scienze naturali, non solo, ma anche per vivificare una integrale organizzazione pratica della società, cioè per diventare una totale, integrale civiltà (…). Una teoria è appunto ‘rivoluzionaria’ nella misura in cui è elemento di separazione e distinzione consapevole in due campi, in quanto è un vertice inaccessibile al campo avversario. Ritenere che la filosofia della praxis non sia una struttura di pensiero completamente autonoma e indipendente, in antagonismo con tutte le filosofie e le religioni tradizionali, significa in realtà non aver tagliato i legami col vecchio mondo, se non addirittura aver capitolato”[1].
    Ed ecco che, proseguendo, Gramsci caratterizza in termini “del più abietto e vile opportunismo” una concezione del partito politico che scinda il carattere unitario teorico-pratico e consenta “ai soci di aggrupparsi in idealisti, materialisti, atei, cattolici, ecc.”[2]. Solo tenendo presente quanto precede si può intendere il senso della valorizzazione compiuta da Gramsci del fattore culturale, dell’aspetto etico-politico della egemonia; senso, che significa ricerca dell’espansione del marxismo in lotta contro tutte le altre concezioni e della vita e della politica. Nel momento in cui scrive che “la fase più recente” di sviluppo della filosofia della prassi “consiste appunto nel momento dell’egemonia come essenziale nella sua concezione statale e nella ‘valorizzazione’ del fatto culturale, dell’attività culturale, di un fronte culturale come necessario accanto a quelli meramente economici e meramente politici”[3], egli altro non fa che affermare che lo Stato-forza abbisogna di una base adeguata di consenso ottenuto grazie ad una lotta vittoriosa contro le altre concezioni e dello Stato e della politica e della vita in generale. È un modo di ribadire che, se il mero momento della forza è necessario ma insufficiente, i limiti della zona di consenso da acquisirsi, sono all’interno di una determinata concezione dello Stato. Non è un caso che sempre a Lenin Gramsci riconduca la genesi di quella elaborazione della teoria dell’egemonia, cui egli cerca di dare uno sviluppo: “Il più grande teorico moderno della filosofia della praxis, nel terreno della lotta e dell’organizzazione politica, con terminologia politica, ha in opposizione alle diverse tendenze ‘economicistiche’ rivalutato il fronte di lotta culturale e costruito la dottrina dell’egemonia come complemento della teoria dello Stato-forza e come forma attuale della dottrina quarantottesca della ‘rivoluzione permanente’”[4].

    (...)


    [1] Ibid., II, p. 1434.

    [2] Ibid., p. 1434.

    [3] Ibid., p. 1224.

    [4] Ibid., p. 1235.
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