di Massimo L. Salvadori – “Mondoperaio”, novembre 1976, pp. 59-68.
È una vera distorsione immaginare che il tentativo gramsciano di sviluppare il leninismo, in rapporto alle diversità fra Occidente e Oriente, implichi la messa in soffitta della teoria leniniana dello Stato e dell’obiettivo della dittatura proletaria. In Gramsci, viceversa, il sistema dell’egemonia è riconducibile al sistema della dittatura, essendo l’egemonia intesa come una dittatura capace di risolvere insieme il momento del dominio sulle classi avverse e quello della direzione sulle classi alleate e sui gruppi affini. La teoria gramsciana, dunque, non è che l’espressione più alta e complessa del leninismo, e della sua concezione della dittatura e dello Stato.
Nel tracciare la sua strategia attuale, il PCI si è trovato di fronte a problemi pratici nuovi rispetto a quelli di Gramsci e alle sue ipotesi. Nei suoi aspetti essenziali, la politica attuale dei comunisti si ricollega alla concezione dello Stato, dei rapporti tra le classi, nella “via al potere”, della funzione stessa dei “governi di coalizione”, propria del marxismo socialdemocratico assai più che alla concezione leniniana e anche gramsciana. È venuto il momento che il PCI esca dai tatticismi teorici e faccia i conti con la sua tradizione in modo più limpido, mettendo da parte quella “sapienza cattolica” per cui tutto è adattamento e niente è mutamento.
Nel suo significato originario il termine “egemonia” comprende due elementi: il comando da parte di chi l’esercita e il fatto che questo comando viene esercitato da chi lo detiene in vista dei seguenti scopi: 1) “guidare” degli alleati; 2) condurre insieme con essi un’azione di forza contro una parte o più parti avverse. Appare quindi che il concetto di egemonia, nella sua duplice articolazione, implica ricerca da un lato di consenso all’interno di un blocco di alleanza e dall’altro di dominio sugli avversari da ottenersi con la forza. Ci troviamo di fronte ad una combinazione di nessi che non sono scindibili.
È a tutti noto che nella cultura politica italiana (e non solo italiana) contemporanea la discussione sulla egemonia e sulle sue implicazioni è legata all’opera di Antonio Gramsci, e particolarmente al significato dei suoi Quaderni del carcere. Tanto che si potrebbe sinteticamente affermare che oggi Gramsci appare soprattutto come il “teorico dell’egemonia”. L’attenzione centrale dedicata alla teoria gramsciana della egemonia ha le proprie radici nella ricerca condotta dal PCI intorno alle forme di una via al socialismo adeguata alla complessità dello sviluppo della società civile e dello Stato nei paesi a sviluppo industriale avanzato, nella consapevolezza che il “modello” di socialismo rappresentato dai paesi socialisti di matrice bolscevico-staliniana non è più né praticabile né auspicabile. L’opera di Gramsci e in specie i Quaderni sono considerati dai teorici e dagli ideologi comunisti come una tappa centrale, come un trait d’union fra il leninismo e il post-leninismo. Le interpretazioni che potremmo dire correnti e con un segno più direttamente politico (quella di Luciano Gruppi è sotto questo profilo esemplare) tendono a suggerire una lettura secondo la quale Gramsci avrebbe compiuto una sorta di “rotazione” teorica, all’inizio della quale sarebbe stato all’interno del leninismo e della sua prospettiva e alla fine della stessa avrebbe aperto, proprio attraverso l’elaborazione compiuta della “teoria dell’egemonia”, la strada alla strategia attuale del PCI, fondata sull’accettazione del “pluralismo”, sulla democrazia politica, sul dialogo tra forze politiche diverse, sulla strategia delle riforme.
I punti della teorizzazione gramsciana contenuta nei Quaderni che vengono a questo scopo maggiormente utilizzati e “sensibilizzati” sono quelli che riguardano: 1) la necessità per una forza che intenda fondare uno Stato nuovo di essere “egemone” già prima di avere assunto il potere; 2) la necessità per il proletariato di legare a sé un “blocco” di forze storiche in grado di esprimere la complessità della società civile; 3) la necessità di assegnare un ruolo centrale al legame con gli intellettuali; 4) la necessità di condurre in “Occidente” una lotta che tenga conto adeguato delle differenze fra le forme della rivoluzione sociale in Russia e le forme di un processo rivoluzionario nei paesi borghesi sviluppati, insomma di tener conto delle “lezioni” derivanti dal fallimento della rivoluzione nell’Europa centro-occidentale nel primo dopoguerra.
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