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Discussione: Anglica catholica

  1. #291
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    Father Brown and the Liturgical Reform: Msgr. O’Connor’s “Novus Ordo”

    Luca Fumagalli

    Msgr. John O’Connor (1870–1952) is remembered today for being the model for Chesterton’s Father Brown. Yet the Irish priest was an outstanding figure in more ways than one. Although all his life he was a simple parish priest in Yorkshire, he was friends with the artist Eric Gill, the poet David Jones and many other Catholic and non-Catholic intellectuals of his time. He was also a bibliophile, art collector, musicologist, journalist and translator from French (his favourite authors were Claudel and Maritain). Hilaire Belloc, who like many was fascinated by his good humour, called him the most intelligent man he had ever met.

    However, the theological views of the monsignor, particularly with regard to the liturgy, could hardly have been defined as conservative. On the subject he wrote a pamphlet, Why Revive the Liturgy, and How?, which anticipated some of the innovations that would be introduced by the Second Vatican Council. His views found a concrete application in the new parish church of Our Lady and First Martyrs, in Bradford, which the priest had built in 1935: the church had a revolutionary octagonal, almost circular plan, with the altar placed in the centre of the assembly.

    Why Revive the Liturgy, and How? was printed privately and anonymously, without date and without even the indication of the publishing house or printer. Such discretion was motivated by the desire to limit the circulation of the pamphlet to a close group of friends and correspondents since O’Connor was fully aware that he was dealing with sensitive issues and wanted to avoid being confronted with the ire of his bishop. Only in 2021 did the Arouca Press take on the task of republishing the text with the title Father Brown Reforms the Liturgy, accompanied by a long and interesting introduction by the Benedictine Hugh Somerville Knapman.

    If the dating of the writing is not so obvious – Father Knapman puts forward the hypothesis of 1939 – there is no doubt about its paternity. A copy of Why Revive the Liturgy, and How? is in fact kept in the library of the University of Toronto among those papers of Msgr. O’Connor which form part of the Chesterton Collection. Other references to the document can be found in the article by the nun Felicitas Corrigan, The Prescience of Father Brown, published in the magazine “The Clergy Review” in February 1972, and in the biography of O’Connor signed by Julia Smith in 2010.

    Why Revive the Liturgy, and How? however, is a somewhat disorganized text, giving the impression of being the result of scattered notes merged a posteriori in an attempt to make the arguments at least coherent and linear. What O’Connor calls for is no mere revitalisation of the Tridentine Mass, but rather a thorough reform. The monsignor, who does nothing to mitigate the frankness of highly assertive language, expresses himself in favour of the translation into the vernacular of some parts of the Mass and of concelebration; he finds no serious objections to the idea of receiving communion in the hand or to the ordination of permanent deacons, and finally he calls for the softening of the discipline regarding the Eucharistic fast. In order to avoid certain choral horrors he witnessed, he even goes so far as to propose the abolition of music in public functions. Nonetheless, what O’Connor considers the most important reform is the return to a central altar without a tabernacle, with the faithful gathered all around (Eric Gill, author of a small volume on the issue entitled Mass for the Masses, thought likewise).

    Although Msgr. O’Connor occasionally demonstrates a lack of knowledge of the liturgical tradition and falls into some rather spectacular errors, Why Revive the Liturgy, and How? makes for interesting reading even for those who, like the present writer, do not share most of his opinions. It is in fact a valuable testimony of that desire for liturgical renewal which, in the years between the two world wars, was affecting European and British Catholicism, a phenomenon to which few scholars, at least until now, have given due consideration.

  2. #292
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    “I Luoghi Santi” di Evelyn Waugh: essere cattolici all’epoca del conflitto arabo-israeliano



    di Luca Fumagalli

    Pubblicato nel 1952 per la Queen Anne Press in edizione limitata e appena tradotto in italiano dalla casa editrice Adelphi, I Luoghi Santi (The Holy Places) è uno di quei lavori saggistici che fanno da contorno alla ben più nota produzione narrativa di Evelyn Waugh. Lo smilzo libretto, originariamente corredato dalle illustrazioni di Reynolds Stone, raccoglie infatti due articoli, “Sant’Elena imperatrice (“St. Helena: Empress”) e “La difesa dei Luoghi Santi” (“In Defence of Holy Places”), che, oltre a trattare argomenti di sicuro fascino, testimoniano la grande versatilità dello scrittore inglese, capace di passare senza soluzione di continuità dai toni satirici e irriverenti dei romanzi a una prosa più asciutta e composta, senza per questo risultare meno accattivante (con buona pace di chi, sulla scia di un Humphrey Carpenter, ha invocato proprio simili mutamenti di stile per giudicare severamente i suoi saggi).

    Nella breve introduzione, intitolata “Lavori non più in corso” (“Work Abandoned”), è lo stesso autore a spiegare l’origine dei due pezzi: il primo, già riproposto sulle colonne del «Month», è un commento per lo sceneggiato radiofonico ispirato al suo romanzo Elena che la BBC aveva mandato in onda nel 1951; il secondo, invece, è l’esito giornalistico di un viaggio in Palestina che, sempre nel 1951, Waugh aveva intrapreso con l’amico Christopher Sykes su commissione della rivista «Life».

    In “Sant’Elena imperatrice”, dopo una rapida considerazione su come la santità sia un fatto assolutamente personale, nel senso che ogni santo fu tale in un modo unico e irripetibile – «da Elena possiamo imparare […] [che] Dio vuole da ciascuno una cosa diversa, […] ma sempre una cosa che solo noi possiamo fare» –, lo scrittore prosegue collocando la grande regina in quella categoria di santi «ricordati per una sola azione»: «In età estremamente avanzata fece, come imperatrice madre, un viaggio attraverso una parte degli immensi domini di suo figlio, fino a Gerusalemme: da quel viaggio provengono le reliquie della Vera Croce venerata in tutta la Cristianità». Su di lei, del resto, le notizie sono scarse, poco attendibili, e se «non fosse per il suo ultimo, trionfale viaggio, non godrebbe di alcuna fama» (anche Sant’Elena, al pari della meno fortunata Maria Stuart, potrebbe quindi proclamare: «Nella mia fine è il mio principio»). Tuttavia, a parere di Waugh, quell’unica impresa basta alla celebre imperatrice per meritare un posto tra i Dottori della Chiesa: «Non si trattò semplicemente dell’aggiunta di un altro mirabile trofeo al cumulo di reliquie che dappertutto venivano dissotterrate ed esposte a venerazione: Elena stava riaffermando in modo sensazionale un dogma che correva il rischio di cadere nell’oblio. […] Tutto, in quella nuova religione, era suscettibile di interpretazione, tutto si poteva ingentilire o sminuire; tutto, tranne l’irragionevole affermazione che Dio si era fatto uomo ed era morto sulla Croce; niente miti o allegorie».

    Altro brillante passaggio dell’articolo, ottima esemplificazione del piglio caustico e reazionario dell’autore, è quello dedicato all’impietoso confronto tra l’epoca di Costantino e il mondo moderno: «Ci sono, sì, somiglianze superficiali. La poesia era morta e la prosa morente. L’architettura era scivolata fra le mani callose dei geometri. La scultura era caduta così in basso che Costantino non era riuscito a trovare, in tutto l’impero, uno scalpellino capace di decorare il suo arco trionfale, e aveva preferito, invece, saccheggiare l’arco di Traiano, vecchio di duecento anni. Una immane burocrazia esercitava in pratica un potere supremo, regolando la tassazione sulle fonti di ricchezza in funzione dei piaceri della plebaglia urbana e della difesa delle frontiere, sottoposte sempre più alla pressione dei barbari provenienti dall’Est. Il mondo civilizzato fu costretto a trovarsi una nuova capitale. Tutto questo suona familiare; ma l’evento supremo di quel periodo, la vittoria del Cristianesimo, non trova corrispondenza nella storia umana».



    “La difesa dei Luoghi Santi”, come scrive Michael G. Brennan, palesa la visione pessimistica di Waugh per quanto riguarda il futuro della Palestina: «L’indipendenza di Israele e la fine del mandato britannico nel 1948 avevano scatenato nuovi conflitti tra gli ebrei e quegli arabi senza più una terra. Mentre i Santi Siti di Gerusalemme stavano crollando, Papa Pio XII emanava encicliche inefficaci che invocavano la loro protezione. Evelyn era convinto che le misure di pace delle Nazioni Unite si sarebbero rivelate inutili e, già sospettoso nei confronti del sionismo, la sua simpatia per gli arabi palestinesi si era rapidamente ridotta; credeva che il risentimento, le ambizioni e le atrocità di entrambe le parti fossero un affronto nei confronti di quella che reputava la città più sacra del mondo».

    Al di là delle considerazioni squisitamente politiche, nel secondo articolo vi sono anche diversi passaggi che testimoniano l’idea spirituale di Waugh. Interessante, ad esempio, l’opportuno distinguo storico-teologico tra i tre grandi monoteismi in relazione alle rispettive pretese su Gerusalemme, ma pure la riflessione sull’istinto del pellegrino – inizialmente spaesato dalla «topografia sconcertante» della Palestina, con chiese fatiscenti e la Via della Croce che «attraversa una bazar orientale» – mostra una prospettiva non così scontata: «È infatti una cosa del cuore più che della testa. La ragione ci dice che Cristo è pienamente presente in una chiesa come in un’altra, ma noi sappiamo per esperienza che alcune chiese hanno quella certa “atmosfera”, come diciamo in modo assai inadeguato, che rende facile pregare, e altre no. E questo è tanto più vero per quei luoghi segnati da grandi eventi e dalla devozione dei santi». Dopo una nota elogiativa dedicata ai Francescani della Custodia e un’amara constatazione delle grandi differenze che separano il cattolicesimo dalle Chiese orientali, Waugh si dilunga nella descrizione della Basilica del Santo Sepolcro, un agglomerato eterogeneo di pietre ed esperienze che, per molti versi, vale come incarnazione delle mille e più contraddizioni che caratterizzano la Terra Santa.

    Solo nell’epilogo, «a miracol mostrare», vi è spazio per una cauta fiducia: «Siamo stati nel cuore della nostra religione. È tutta qui, con tutti i suoi difetti umani e i suoi trionfi sovraumani, e comprendiamo appieno, forse per la prima volta, che il cristianesimo non è germogliato a Roma o a Canterbury, a Ginevra o a Maynooth, ma qui, nel Levante, dove tutto è inestricabilmente mescolato e nulla è assimilato. Nel Levante opera un’alchimia esattamente opposta a quella del melting pot americano. Razze e confessioni differenti si urtano per secoli, e la loro diversità non fa che accentuarsi. Nostro Signore nacque in una civiltà dalle violente divisioni, che tale è rimasta. Ma dobbiamo sempre sperare nell’unità, e finché la chiesa del Sepolcro resterà un edificio unico, per quanto suddiviso, essa costituirà un monumento a questa indispensabile speranza».

  3. #293
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    [La Scozia e la Fede: i migliori racconti di George Mackay Brown] “The Story of Jorkel Hayforks”



    di Luca Fumagalli

    «Per la Scozia io canto,

    la nazione rovinata da Knox,

    che il poeta e il santo

    devono ricostruire con la loro passione»

    (George Mackay Brown, Prologue)

    Inizia con questo articolo una nuova rubrica infrasettimanale dedicata alla presentazione e al commento dei migliori racconti di George Mackay Brown, tra gli scrittori più significativi del cattolicesimo scozzese del XX secolo. Originario delle isole Orcadi, Brown fu poeta, romanziere, saggista e drammaturgo, capace di coniugare nei suoi lavori l’amore per le piccole patrie con l’universalità del messaggio cristiano.

    Per una nota introduttiva sulla figura di George Mackay Brown e sulla sua opera si segnalano i seguenti articoli:

    Il bardo delle Orcadi: le opere e i giorni di George Mackay Brown

    «Una bellezza e una verità senza prezzo»: la conversione di George Mackay Brown

    Un canto per le Orcadi: sfogliando l’autobiografia di George Mackay Brown

    Due articoli dedicati ad altrettanti racconti di Brown sono già apparsi fuori rubrica:

    “The Tarn and the Rosary”

    “Winter Tale”

    A Calendar of Love (1967) è la prima raccolta di racconti pubblicata da George Mackay Brown, fino ad allora conosciuto esclusivamente per la sua produzione poetica. Le Orcadi fanno da collante e da sfondo alle varie storie del volume, un microcosmo in cui si condensano tutte le esperienze umane, tra narrazioni ambientate nel presente e affreschi di un passato remoto.

    Proprio a quest’ultimo gruppo appartiene la breve “The Story of Jorkel Hayforks”, scritta in uno stile asciutto e coinciso a imitazione di quello della Orkneyinga Saga e delle altre epopee nordiche tanto care all’autore. I protagonisti del racconto sono sette vichinghi, capitanati da Jorkel, che si imbarcano a Bergen, in Norvegia, con l’obiettivo di raggiungere le Orcadi.

    Nella prima delle sette parti che compongono il racconto – il sette, conformemente alla tradizione cristiana, è un numero altamente evocativo per Brown – la spedizione perde uno dei suoi membri, un poeta di nome Finn. Invaghitosi di una donna che produce dell’ottima birra, ha deciso di rimanere con lei nelle Shetland: «Si dice che da quel giorno Finn non abbia più scritto poesie. […] Fu un peccato che un poeta così promettente dovesse fare una simile fine» (una vicenda analoga ritorna pure nel romanzo Vinland, datato 1992).

    Nella seconda parte la nave di Jorkel raggiunge Fair Isle dove Flan, nel tentativo di catturare una pecora, perde la vita cadendo da una rupe. Frasi come «La discesa di Flan è stata più rapida della sua salita» ricalcano il costume vichingo di esorcizzare sarcasticamente la morte.

    Nella terza parte il contadino Mund soccombe al mal di mare, mentre nella quarta, quando la nave raggiunge l’isola di Papa Westray, Thord rinuncia a tutto, donne e ruberie comprese, per farsi monaco. Nella parte successiva, invece, Sweyn viene ucciso da uno sciame d’api dopo averne distrutto l’alveare con un colpo d’ascia: «”È uno strano viaggio”, disse Jorkel. “Sembra che siamo destinati a perdere un uomo ad ogni tappa del percorso”».

    I due vichinghi rimasti, Jorkel e Valt, sbarcano quindi sull’isola di Hoy e raggiungono una fattoria. Lì si incontrano con il capo dei braccianti, un tale Arkol, ed è finalmente rivelato il motivo del loro viaggio: Ingrid, la sorella di Jorkel, ha appena avuto un figlio da lui. Tuttavia, quando Arkol si rifiuta di sborsare del denaro per il mantenimento del piccolo, Jorkel gli conficca un coltello nella gola. Segue un feroce scontro con i lavoratori della fattoria in cui Valt trova la morte. Jorkel, gravemente ferito dai loro forconi – da qui il soprannome “Hayforks” –, viene risparmiato e col tempo la salute migliora. Traendo di che vivere da un piccolo appezzamento di terra, trascorre il resto dei suoi giorni ad Hoy, mettendo da parte il denaro per il viaggio di ritorno in Norvegia.

    Nella settima parte del racconto un anziano Jorkel si reca a Papa Westray dove incontra il suo vecchio amico Thord: «Jorkel prese un borsello dalla sua cintura e pose cinque pezzi d’argento nella mano di Thord. “Ho risparmiato soldi per quarant’anni”, disse, “così da poter, un giorno, tornarmene in Norvegia. Ma è troppo tardi. Chi mi riconoscerebbe oggi a Bergen? Dovrei prepararmi, invece, per l’ultimo viaggio, quello più lungo. Farai in modo che siano celebrate delle messe nella tua chiesa per Finn, Flan, Mund, Sweyn e Valt?” Thord disse che le messe sarebbero state certamente celebrate per quegli uomini morti ma anche per lo stesso Jorkel». Prima di andarsene Jorkel dona all’amico un’altra moneta d’argento: «“Celebra una messa anche per Arkol Dagson”».

    Nonostante lo stile da saga adottato da Brown in “The Story of Jorkel Hayforks” lasci ben poco margine per una caratterizzazione efficace di personaggi, preferendo concentrarsi sulle azioni piuttosto che sui loro sentimenti, Jorkel e Thord riescono a rappresentare efficacemente quel cammino di redenzione spirituale che, dalla presa di coscienza dei propri errori, giunge al pentimento e al perdono (del resto se a Jorkel è stato concesso di vivere lo si deve esclusivamente alla magnanimità del padrone della fattoria). I due, ora uomini maturi, non hanno più nulla a che vedere con gli sciocchi avventurieri che erano un tempo – comunque sempre descritti dall’autore con tocchi d’umorismo e d’affetto – e sono in grado guardare in faccia la morte senza timore, con un cuore gonfio di speranza. La grande livellatrice, colei che senza troppi complimenti aveva fatto piazza pulita dei loro sodali, non ha più alcun reale potere.

  4. #294
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    The Recusant Aristocracy in British Catholic Novels



    Luca Fumagalli

    Many British Catholic authors of the twentieth century address the issue of social classes in their works.

    Over time it was the noble recusants who won their sympathies. After all, the recusant families represented the best of English Catholicism: their members were the heirs of those who had bravely resisted the privations and persecutions of the Protestants, and their very existence represented a strong link with the Faith of medieval England.

    In addition to the many historical novels dedicated to the Tudor era in which Catholics occupy a leading role, there is the very interesting essay by Benedictine Bede Camm entitled Forgotten Shrines (1910), an introduction to the famous “papist” houses, and a story of the great events that took place in those fascinating homes.

    The Catholic aristocracy was also admired for the distance that separated it from the frivolity of the period.

    Mrs Wilfrid Ward, a descendant from her mother’s side of the Dukes of Norfolk, offers excellent proof of this attitude in her best-selling One Poor Scruple (1899). The novel tells the sad story of the Riversdale family, struck by the persecutions of the 16th and 17th centuries. The Riversdales also represent a rural and traditional Catholicism that is far removed from fashionable London society; the head of the family, George Riversdale, embodies the perfect type of country gentleman, an active and intelligent man (he is a character similar to Father Gerard, the clandestine priest of aristocratic origin who appears in Tudor Sunset, one of the most beautiful novels by Ward, published in 1932). Similar characters are found in the books of Robert Hugh Benson. For example, in By What Authority? (1904), set in Elizabethan times, Sir Nicholas Maxwell, a lover of horses and spiritual literature, is described in terms not too different from those employed by Mrs Wilfrid Ward for her protagonists.

    More generally, the squire faithful to Rome – often a proud Jacobite – appears in numerous Catholic texts of the first half of the twentieth century. The protagonist of the stories in Roger Pater’s Mystic Voices (1923) is a priest of ancient and noble lineage who has a famous martyr among his ancestors, while in A Triangle (1923), by Maurice Baring, the Aston family is described by one of the characters, a Protestant, as a clique of “papists” who have always lived in an ancient mansion. Mr Rolls, in Benson’s The Sentimentalists (1906), is the descent of a valet in the service of Mary Stuart; Rolls has opened his large house to all people in need of help. Also, the father of the Reverend Dick Yolland, although recently converted, has always lived in a splendid Georgian villa.

    At the same time, not all English Catholics showed a particular enthusiasm for the aristocracy: William George Ward criticized their lack of acumen while Baron Corvo in Hadrian VII (1904) accused the nobles of being totally devoid of that education resulting from contact with the wider world. Baring, on the contrary, was more elegant and in C (1924) makes fun of the haughty superiority that certain members of the upper-class showed towards those who, like him, had recently entered the Church of Rome. Nevertheless, he too was able to describe with rare effectiveness that particular devotion that was breathed in the private chapels of the recusant houses, as is evident, for example, in Daphne Adeane (1926).

    Evelyn Waugh, product of the elite Oxford milieu, was the last great author to tell in a novel the enchanting but painful story of a family with a long Catholic tradition. Brideshead Revisited (1945), one of the masterpieces of English literature of the twentieth century, bears in the title the name of the luxurious residence around which the events of the Flyte family take place. The publication of the book, with its mixture of sarcasm and nostalgia, was the last literary tribute to the “papists” and to their large houses that have now disappeared, leaving nothing more than a distant memory in a radically – and dramatically – changed society.

  5. #295
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    [La Scozia e la Fede: i migliori racconti di George Mackay Brown] “Master Halcrow, Priest”



    di Luca Fumagalli

    «Per la Scozia io canto,

    la nazione rovinata da Knox,

    che il poeta e il santo

    devono ricostruire con la loro passione»

    (George Mackay Brown, Prologue)

    Prosegue la rubrica dedicata alla presentazione e al commento dei migliori racconti di George Mackay Brown, tra gli scrittori più significativi del cattolicesimo scozzese del XX secolo. Originario delle isole Orcadi, Brown fu poeta, romanziere, saggista e drammaturgo, capace di coniugare nei suoi lavori l’amore per le piccole patrie con l’universalità del messaggio cristiano.

    Per una nota introduttiva sulla figura di George Mackay Brown e sulla sua opera si segnalano i seguenti articoli:

    Il bardo delle Orcadi: le opere e i giorni di George Mackay Brown

    «Una bellezza e una verità senza prezzo»: la conversione di George Mackay Brown

    Un canto per le Orcadi: sfogliando l’autobiografia di George Mackay Brown

    Due articoli dedicati ad altrettanti racconti di Brown sono già apparsi fuori rubrica:

    “The Tarn and the Rosary”

    “Winter Tale”

    Per le precedenti puntate della rubrica:

    “The Story of Jorkel Hayforks”

    “Witch”

    Altro racconto di A Calendar of Love (1967) dal taglio schiettamente apologetico, “Master Halcrow, Priest” è ambientato nel 1561, quando la Scozia ruppe definitivamente con la Chiesa cattolica per diventare una nazione protestante.

    Master Halcrow, il protagonista e narratore della storia, è un anziano sacerdote della parrocchia di San Pietro a Stromness, nelle Orcadi, per sua stessa ammissione non così zelante quando si tratta di prendersi cura delle anime che gli sono state affidate: «Lo confesso, passo parecchio tempo a pescare sulle rocce, prego poco, e bevo troppo di quella birra scura che viene preparata sulla collina».

    Scorrendo il suo resoconto sulla situazione religiosa nell’arcipelago si scopre che è in atto una vera e propria rivoluzione. Un paio di sacerdoti suoi conoscenti hanno infranto i loro voti – Magnus Anderson vive con una donna mentre Jerome Clements, avido lettore di «libri tedeschi e svizzeri», non celebra più Messa da settimane – e di recente un nuovo predicatore «non autorizzato dal vescovo» ha tenuto un sermone a Kirikwall talmente convincente che «gli uomini hanno iniziato a singhiozzare e a dichiarare apertamente i loro peccati in strada».

    Del resto il giorno precedente il vescovo in persona è venuto a trovare Master Halcrow per annunciargli che «c’è una nuova Chiesa nel paese» e che il sacerdozio e la Messa sono stati aboliti per sempre. Il prete sulle prime stenta a crederci, ma quando si rende conto che è tutto vero e che l’apostasia diffusa ha coinvolto persino il presule – «Non sono abbastanza coraggioso per fare il martire» –, decide di rimanere fedele alla propria vocazione: «Mi è stato detto, quando sono stato ordinato, che sarei stato sacerdote per sempre secondo la successione apostolica, e può un qualsiasi mortale su questa terra togliermi tale titolo?»

    Più tardi, dopo aver celebrato Messa per il solito sparuto gruppo di parrocchiane, Halcrow è avvicinato da tre loschi figuri – in uno di questi riconosce Magnus Anderson – per informarlo che è stato destituito e che deve consegnare le chiavi della parrocchia al nuovo ministro protestante. Il prete se ne va, non prima, però, di aver scambiato qualche insulto con Anderson.

    Mentre cammina pensieroso sulla spiaggia, si ricorda improvvisamente di aver lasciato nella chiesa il Santissimo Sacramento e così si affretta a tornare sui suoi passi. Ad attenderlo vi è un triste esempio della follia iconoclasta del calvinismo: «Avevano abbattuto le state di Nostra Signora, di San Pietro e di San Magnus. Il Crocifisso giaceva distrutto alla base dell’acquasantiera (agonia su agonia). Le pietre erano impallidite dalle candele spezzate». Per fortuna Anderson ha salvato dalla profanazione il Santissimo Sacramento nascondendolo nel suo cappotto. Lo offre dunque a Master Halcrow e gli promette inoltre che sarà con lui per gli ultimi riti quando verrà il momento della sua morte.

    Nell’epilogo, dopo essersi comunicato, l’anziano parroco si allontana tra i contadini al lavoro nei campi: «San Pietro, prega per noi».

    L’eroismo imprevisto di un protagonista decisamente imperfetto è ciò che più avvicina “Master Halcrow, Priest” al romanzo Il potere e la gloria di Graham Greene, uno degli autori prediletti di Brown. Nonostante la vicenda tormentata, narrata con uno stile che fa dell’intreccio tra la parlata locale e il latino ecclesiastico uno dei suoi punti di forza, il parroco è simbolo di quella Fede che è destinata a trionfare sulla crudeltà e sulle debolezze umane, anche quando l’armonia sociale e naturale sembrano irrimediabilmente compromesse. Duro con se stesso ma gentile con il prossimo – «Facile scrivere sulla malvagità; la loro bontà è nascosta con Dio» –, Master Halcrow ricorda da vicino San Pietro a cui la storia, non a caso, allude in più punti. Al di là della pesca, i due hanno infatti in comune la fermezza e la lealtà della roccia.

    Il protagonista, che si definisce «un uomo ostinato e sradicato», destinato d’ora in avanti a una vita di privazioni, tornerà in un altro racconto di Brown, “A Trading of the Grapes”, parte della raccolta A Time to Keep.

  6. #296
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    [La Scozia e la Fede: i migliori racconti di George Mackay Brown] “Five Green Waves”



    «Per la Scozia io canto,

    la nazione rovinata da Knox,

    che il poeta e il santo

    devono ricostruire con la loro passione»

    (George Mackay Brown, Prologue)

    Prosegue dopo la pausa pasquale la rubrica dedicata alla presentazione e al commento dei migliori racconti di George Mackay Brown, tra gli scrittori più significativi del cattolicesimo scozzese del XX secolo. Originario delle isole Orcadi, Brown fu poeta, romanziere, saggista e drammaturgo, capace di coniugare nei suoi lavori l’amore per le piccole patrie con l’universalità del messaggio cristiano.

    Per una nota introduttiva sulla figura di George Mackay Brown e sulla sua opera si segnalano i seguenti articoli:

    Il bardo delle Orcadi: le opere e i giorni di George Mackay Brown

    «Una bellezza e una verità senza prezzo»: la conversione di George Mackay Brown

    Un canto per le Orcadi: sfogliando l’autobiografia di George Mackay Brown

    Due articoli dedicati ad altrettanti racconti di Brown sono già apparsi fuori rubrica:

    “The Tarn and the Rosary” e “Winter Tale”

    Per le precedenti puntate della rubrica:

    “The Story of Jorkel Hayforks” / “Witch” / “Master Halcrow, Priest”

    Altro racconto di A Calendar of Love (1967), “Five Green Waves” ha per protagonista il giovane John Sigurdson che sta vagando sulla spiaggia senza una meta precisa. Non avendo studiato per l’interrogazione di matematica, la maestra lo ha infatti cacciato dalla classe, e il ragazzo, figlio del proprietario dell’unico negozio dell’isola, non ha nessuna intenzione di affrontare l’ira paterna (dietro l’episodio, raccontato nella prima delle cinque parti che compongono la vicenda, vi è un rimando piuttosto scoperto alla difficile esperienza scolastica di Brown, un rimando ancora più evidente quando l’insegnante commenta che John «tende a essere disattento e sognante»).

    Più tardi, mentre si avvicina al piccolo podere dei Myers, l’ex marinaio Peter lo invita a entrare in casa. John racconta all’uomo quello che gli è capitato e rivela che da grande vorrebbe navigare per mare e vedere il Giappone; suo padre, invece, ha già in mente per lui un futuro all’università, per diventare magari medico, ministro o avvocato. Colpito dalle parole di John, Peter tira fuori un piccolo organetto e, con voce tremula, improvvisa una ballata piuttosto macabra dedicata a un marinaio delle Orcadi barbaramente ucciso dai suoi compagni. La giustizia, alla fine, trionfa, ma il ragazzo è talmente impressionato dalla canzone che finisce per vomitare sul pavimento. «Non preoccuparti», lo rincuora Peter, «non sei il primo marinaio che sta male durante il suo viaggio inaugurale».

    Nella terza parte del racconto, John decide di farsi un bel bagno. Tra le onde perde la cognizione del tempo: «Per una breve eternità mi abbandonai al rumore, al tumulto e al rituale salato e detergente del mare». Una volta uscito dall’acqua, riprende i suoi vestiti e incontra Sarah, la figlia di Abraham l’ambulante (quella del “tinker” è una figura che vive ai margini della società e che da sempre ha affascinato Brown). Frequentano la stessa classe, ma la giovane non si è vista per tutta la settimana. All’inizio Sarah si dimostra dolce e affettuosa, ma in seguito, quando John le rivela che se non potrà fare il marinaio farà anche lui l’ambulante, cambia atteggiamento e lo aggredisce. Poi se ne va, senza una parola.

    A questo punto il ragazzo si ritrova a passeggiare per il cimitero dell’isola e tra le varie tombe scopre quella di un marinaio ignoto, morto durante un naufragio a metà Ottocento. Se lo immagina da giovane, costretto improvvisamente ad abbandonare un piccolo paesino basco per imbarcarsi. Nella mente di John si susseguono sequenze sfuocate che vanno da una festa in onore della Madonna del Mare a una curiosa associazione tra «il fiore arancio della Spagna e la primula blu delle Orcadi». Vi è pure spazio per la visione della «guardiana dei cancelli della nascita e della morte. […] I suoi occhi sono nella polvere, da cui tutta questa vanità ha avuto origine e a cui deve ritornare». Prima di abbandonare il cimitero, incontra il guardiano che ha appena finito di scavare una tomba. Dopo aver chiesto al giovane se vuole vedere cos’è veramente l’uomo, questi gli mostra un teschio: «Sei tu, io, il nobile e Frank l’idiota».

    Ormai sera, nell’epilogo John si confronta finalmente col padre, preoccupato per il futuro della sua attività dal momento che sempre più persone stanno abbandonando il villaggio compromettendo la stabilità della comunità: «Dimenticano che in una piccola isola come questa per vivere ognuno dipende dall’altro». Nonostante i timori del ragazzo, il genitore non lo punisce per il suo andamento scolastico, limitandosi semplicemente a fare finta di nulla quando il figlio gli confessa che non desidera andare all’università e che, invece, vorrebbe fare il marinaio. Prima di cena, davanti al negozio sfila il carro della famiglia di Sarah, in viaggio per accamparsi dalla parte opposta dell’isola.

    Per stessa ammissione di Brown, “Five Green Waves” fu un racconto difficile da portare a termine. In effetti la storia, per quanto breve, oltre a essere il frutto di una giustapposizione di episodi eterogenei che trovano la loro unità solamente nella figura del giovane protagonista, risulta in una miscela vorticosa, a tratti disorientante, di molti temi (su tutti il desiderio di essere liberi e l’inevitabilità della morte, ma potrebbero aggiungersi anche la paura, l’invidia, il rifiuto, il rito e l’umiliazione). Secondo Ron Ferguson, “Five Green Waves” nasconde dietro la sua apparente complessità un’accorata testimonianza della lotta spirituale dell’autore scozzese, ed è perciò significativo notare come alcuni suoi passaggi subiranno un’ulteriore rielaborazione nel romanzo per ragazzi In quella grotta, pubblicato nel 1977.

  7. #297
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    The Mass in the British Catholic Novel



    Luca Fumagalli

    British Catholic literature gives a lot of importance to the Mass that is unmatched in any other European literature (including even that of France, with the exception of Huysmans and Claudel). Beginning with Cardinal Newman’s novels, the Eucharistic celebration became the symbol of a people faithful to the religion of their fathers and the most evident sign of Catholic doctrine that Protestantism had tried in vain to annihilate.

    Consequently, in the works of various authors who were active at the time of the Great War, the liturgy plays an important role also from the point of view of the structure of the story, such as, for example, that of emphasizing the spiritual value of a particularly significant part of the plot. This happens in the novel One Poor Scruple by Mrs Wilfrid Ward – where the protagonist, tormented by remorse, finally makes her appearance at Mass – or in Great Possessions, in which the redemption of the heroine slightly precedes the scene of Eucharistic adoration, which is offered amid the affection and devotion of a group of nuns. And more dramatically, in the epilogue of The Coat Without Seam, Maurice Baring’s masterpiece, the main character, wounded and delusional, attends Mass in a small French village, finding some comfort before taking his last breath; something similar also happens in Daphne Adeane, where the echo of the litanies of Loreto that comes from a small church sets off a radical change of course in history.

    Some of Roger Pater’s short stories collected in Mystic Voices, a book of 1923, show how detailed descriptions of the Catholic liturgy can also be present in supernatural stories, similar to the kind found in historical novels, especially in those with an Elizabethan setting. Mgr. Benson, for example, wrote many pages on clandestine masses, when, in the Tudor era, the faithful and priests risked their lives every time they received communion. In his novels the Eucharistic celebration plays an important apologetic role, similar to what happens in Ward’s Tudor Sunset – in which three priests celebrate Mass just before being executed – or in C by Baring, where the realistic description of the liturgy reveals the great difference between Catholic and Protestant spirituality. Communion is likewise present in the epilogue of The Lord of the World; it is the only hope as the universe dies out.

    Finally, the Mass can operate as an occasion for conversion for the characters. Horace Blake, protagonist of Ward’s book of the same name, re-embraces the Catholic Faith while attending a service in a small Breton church; while in in The Heavenly Ladder, a novel by the Scottish Compton Mackenzie, the Eucharist not only brings Mark closer to the Church of Rome, but is also a valuable opportunity to find himself.

    Many other examples could be given as further evidence of a theme that has occupied considerable space in the pages of English authors. This is why some of the most harsh criticisms of the Second Vatican Council and, in particular, of the liturgical reform promoted by Paul VI, would come precisely from the British Isles.

  8. #298
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    [La Scozia e la Fede: i migliori racconti di George Mackay Brown] “A Treading of Grapes”



    di Luca Fumagalli

    «Per la Scozia io canto,

    la nazione rovinata da Knox,

    che il poeta e il santo

    devono ricostruire con la loro passione»

    (George Mackay Brown, Prologue)

    Prosegue la rubrica dedicata alla presentazione e al commento dei migliori racconti di George Mackay Brown, tra gli scrittori più significativi del cattolicesimo scozzese del XX secolo. Originario delle isole Orcadi, Brown fu poeta, romanziere, saggista e drammaturgo, capace di coniugare nei suoi lavori l’amore per le piccole patrie con l’universalità del messaggio cristiano.

    Per una nota introduttiva sulla figura di George Mackay Brown e sulla sua opera si segnalano i seguenti articoli:

    Il bardo delle Orcadi: le opere e i giorni di George Mackay Brown

    «Una bellezza e una verità senza prezzo»: la conversione di George Mackay Brown

    Un canto per le Orcadi: sfogliando l’autobiografia di George Mackay Brown

    Due articoli dedicati ad altrettanti racconti di Brown sono già apparsi fuori rubrica:

    “The Tarn and the Rosary” e “Winter Tale”

    Per le precedenti puntate della rubrica:

    “The Story of Jorkel Hayforks” / “Witch” / “Master Halcrow, Priest” / “Five Green Waves”

    Altro racconto di taglio anti-protestante ambientato nelle isole Orcadi, “A Treading of Grapes”, parte della raccolta A Time to Keep (1969), mette a confronto tre sermoni dedicati al celebre episodio evangelico delle Nozze di Cana. Il primo è pronunciato dal reverendo Garry Watters, un pastore contemporaneo, il secondo, risalente al XVIII secolo, dal Dottor Thomas Fortheringhame, mentre il terzo da Padre Halcrow, già protagonista della storia “Master Halcrow, Priest”, un sacerdote che è stato testimone diretto dell’avvento della rivoluzione calvinista in Scozia.

    Nel suo sermone il reverendo Watters riduce il miracolo a simbolo delle straordinarie doti organizzative di Gesù, secondo lui «il miglior pianificatore che sia mai esistito». Dice infatti: «Cos’è un miracolo? Non è una sorta di trabocchetto illusorio; sono incline a pensare che sia piuttosto l’esercizio di un supremo buonsenso, la capacità di considerare ogni possibile eventualità con assoluta lucidità e intelligenza, di modo che il rimedio è chiaro anche se sopraggiungono delle difficoltà. Cambiare l’acqua in vino è solamente un’immagine per rappresentare la preveggenza di Gesù che ha più che compensato l’errore del maggiordomo. Si assicurò in anticipo che le provviste trascurate fossero a portata di mano». Prima di passare angli inni, il reverendo Watters coglie pure la palla al balzo per informare i fedeli che da quel momento, per le quattro volte in cui nel corso dell’anno viene celebrata la Cena del Signore, sarà usato solo vino non fermentato, ovvero privo di alcol.

    Da parte sua il Dottor Fortheringhame – che non si fa troppi scrupoli ad additare alcuni dei convenuti e ad accusarli pubblicamente dei loro peccati – considera la parabola esclusivamente nei termini di un severo monito contro l’eccessivo consumo di alcolici, invitando tutti alla moderazione: «La prudenza, cari confratelli […] è senza dubbio il senso di questo testo». Parla poi dell’Ultima Cena e, dopo aver negato la dottrina cattolica della transustanziazione, ammette candidamente che l’Assemblea Generale non ha ancora espresso un parere definitivo su come interpretare simili brani.

    Adattando il linguaggio a imitazione di quello del XVI secolo, nel sermone di Padre Halcrow (il più lungo dei tre) Brown eleva il tono del discorso fino a sfiorare il poetico, e il sacerdote offre un’interpretazione allegorica della parabola che ha il respiro dell’eternità. Le citazioni in latino servono a dare ulteriore spessore a una vicenda che è perennemente in bilico tra terra e cielo, dove si consuma il matrimonio mistico tra Gesù e la Sua Chiesa. L’insistenza di Padre Halcrow sul mistero eucaristico è testimonianza di un Cristo che si fa presenza reale, di un Dio davvero in grado di risollevare gli uomini dalla miseria del peccato.

    Nella contrapposizione tra la tragicomica orizzontalità dei primi due sermoni – con tanto di avvisi finali rivolti ai fedeli – e la gloriosa verticalità del terzo, Brown sintetizza con rapidi tratti l’abisso che separa il protestantesimo dalla Chiesa di Roma. Non servono discorsi troppo complessi, basta la giustapposizione di tre brevi testi per dare al lettore il senso di una crisi drammatica. Del resto la cornice del racconto, che parla dell’edificazione di una nuova chiesa dalla «struttura essenziale» sulle rovine di un’antica cappella cattolica, con i suoi archi e l’altare semidistrutto, è già il segno evidente di una religione che si è arresa alle logiche del mondo e che perciò si sta avviando a rapidi passi verso la sua fine.

  9. #299
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    Mr and Mrs Scott-Moncrieff



    Luca Fumagalli

    It was thanks to the nauseating “anti-papist” rhetoric that raged in Scotland at the beginning of the twentieth century that George Scott-Moncrieff decided, in Easter 1940, to convert to Catholicism.

    Twenty years later, in the book The Mirror and the Cross: Scotland and the Catholic Faith he described with obvious contempt one of the violent demonstrations he had witnessed in Edinburgh, when an angry mob attempted to storm the car in which Archbishop McDonald.was traveling.

    Scott-Moncrieff was twenty-five at the time of the Edinburgh riots. He was born in 1910, the second son of a minister of the Church of Scotland, the last child of a family of solid Presbyterian traditions. Despite this, his uncle, Charles Scott-Moncrieff – a well-known translator of Proust, Pirandello and Stendhal – had already become a Catholic when he was still a child.

    In 1934 George married 20-year-old Ann Shearer, originally from Kirkwall, the main town of the Orkney Islands. After working for “The Orcadian”, Ann had moved to London in hopes of a better career; it was in the English capital that she met her future husband, who was also involved in journalism.

    They returned to Scotland shortly before their marriage and six years later they were both welcomed into the Church of Rome.

    Both devoted themselves to literature: George, who died in 1974, published novels such as Cafè Bar and Tinkers’Wind, a volume of verse entitled A Book of Uncommon Prayer and the one-act The Wind in the East. He also wrote The Lowlands of Scotland, Scottish Country, The Stones of Scotland, and was co-editor, from 1939 to 1941, of “The New Alliance”, a cultural magazine that supported the Scottish nationalist cause.

    Ann’s fame, on the other hand, remains linked to children’s stories, although her career, at least at the beginning, was not at all easy: the book Auntie Robbo, for example, was rejected by the London publishers because it was judged “too Scottish” and therefore it could only be published in New York. Unfortunately she died just 29 years old in 1943. According to the poet and critic Edwin Muir, Ann had great talents, and if only she had lived she could have become one of the best Scottish writers of her time.

  10. #300
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    [La Scozia e la Fede: i migliori racconti di George Mackay Brown] “The Wireless Set”



    di Luca Fumagalli

    «Per la Scozia io canto,

    la nazione rovinata da Knox,

    che il poeta e il santo

    devono ricostruire con la loro passione»

    (George Mackay Brown, Prologue)

    Prosegue la rubrica dedicata alla presentazione e al commento dei migliori racconti di George Mackay Brown, tra gli scrittori più significativi del cattolicesimo scozzese del XX secolo. Originario delle isole Orcadi, Brown fu poeta, romanziere, saggista e drammaturgo, capace di coniugare nei suoi lavori l’amore per le piccole patrie con l’universalità del messaggio cristiano.

    Per una nota introduttiva sulla figura di George Mackay Brown e sulla sua opera si segnalano i seguenti articoli:

    Il bardo delle Orcadi: le opere e i giorni di George Mackay Brown

    «Una bellezza e una verità senza prezzo»: la conversione di George Mackay Brown

    Un canto per le Orcadi: sfogliando l’autobiografia di George Mackay Brown

    Due articoli dedicati ad altrettanti racconti di Brown sono già apparsi fuori rubrica:

    “The Tarn and the Rosary” e “Winter Tale”

    Per le precedenti puntate della rubrica:

    “The Story of Jorkel Hayforks” / “Witch” / “Master Halcrow, Priest” / “Five Green Waves” / “A Treading of Grapes”


    Per quanto sia un racconto estremamente breve, giusto una manciata di pagine, “The Wireless Set” riesce a colpire nel segno, provocando il lettore su uno dei temi cardine della produzione di Brown, ovvero il progresso, inteso come una minaccia nei confronti dell’ordine naturale e divino.

    La vicenda, divisa in tre parti, ha inizio nella primavera del 1939, quando il giovane Howie Eunson, un pescatore di balene che opera in Antartide, ritorna finalmente a casa, nelle Orcadi, dopo mesi passati in mare. Alla madre, Betsy, porta in dono una radio, la prima che sia mai stata vista nella valle di Tronvik. Sulle prime la donna è perplessa – «Gli uomini parlano, nonostante ciò a volte è difficile capire se quello che dicono è vero o falso» – ma poi sia lei che il resto del villaggio sono vinti dalla curiosità e rimangono ad ascoltare la voce che proviene dall’apparecchio fino a notte fonda. Solo Hugh, il padre di Howie, non si scrolla di dosso lo scetticismo e quando le previsioni del tempo annunciano che per l’indomani è prevista pioggia, l’uomo sbuffa, sostenendo che invece ci sarà bel tempo. Il giorno dopo il sole brilla e la pesca è abbondante, segno che la saggezza di Hugh vale più di qualsiasi servizio meteo.

    Mesi dopo, con lo scoppio della guerra, Howie e altri tre ragazzi sono costretti a partire per il fronte. Il tempo passa e agli abitanti di Tronvik non resta che ascoltare le notizie sull’andamento del conflitto dalla radio di Betsy. Falsità e mistificazioni si susseguono a ritmi tragicomici: se sulle prime i generali francesi sono lodati per il loro straordinario eroismo, una volta sconfitti dai tedeschi, di loro non si sa più nulla. Si parla poi di una nave affondata nel Mediterraneo che invece si trova al sicuro nelle Orcadi e, infine, a dare al tutto un tono ancor più grottesco ci pensa la propaganda filo-nazista del rabbioso William Joyce, soprannominato Lord Haw-Haw, che cerca in ogni modo di minare il morale degli inglesi (realmente esistito, Joyce era un irlandese, ex braccio destro di Oswald Mosley, che fu costretto a lasciare Londra e a riparare in Germania per le sue posizioni estremistiche e antisemite). Gli abitanti della valle lo chiamano «il padre della menzogna», un appellativo dal retrogusto diabolico che Brown associa maliziosamente alla «ferocia estatica» dei sermoni domenicali di Mr Sinclair, il ministro locale, quasi a voler suggerire al lettore una possibile analogia tra la bile evangelica e il totalitarismo.

    Ancora una volta, però, la risposta della piccola comunità non si fa attendere. Dopo che Betsy, stanca di tutte le sciocchezze di Lord Haw-Haw, lancia una pentola contro la radio, l’apparecchio viene spento e le persone di Tronvik si concedono una serata conviviale condita dal racconto di storie «che non avevano nulla a che fare con la guerra».

    Nella parte finale del racconto il postino consegna a Betsy un telegramma che le annuncia la morte del figlio, ucciso per servire una patria che alla donna appare come un concetto lontano, astratto, quasi sinistro. A nulla servono le parole di consolazione di Mr Sinclair, che non trova di meglio che sciorinare una serie di facili luoghi comuni: «Certo è una brutta notizia. Però è morto per il suo paese. Ha fatto un grande sacrificio. Così ora tutti noi possiamo vivere in pace». Intanto il marito, tornato dalla pesca, intuisce quello che è successo – «Sa già tutto», dice Betsy al ministro, «generalmente Hugh conosce la verità di un fatto prima che sia detta qualsiasi cosa» – e senza scomporsi frantuma la radio con un’ascia.

    Mentre la notizia del lutto si sparge per la vallata e dai campi giungono i vicini per le condoglianze, Hugh e Betsy discutono delle occupazioni quotidiane e del pollame, in un finale che ritrae la stoica dignità della coppia. Il ministro, che scambia la loro reticenza per mancanza di sensibilità, non capisce che Hugh e Betsy possono ora trovare una qualche consolazione solo nei rituali della pesca e dell’agricoltura, in quel piccolo mondo periferico che li ha cresciuti e fortificati.

    Inserito nella raccolta A Time to Keep (1969), “The Wireless Set” descrive l’arrivo della modernità e la conseguente perdita dell’innocenza di una comunità che vive a stretto contatto con la natura e che possiede, come dimostra perfettamente Hugh, una sorta di saggezza popolare che le permette di cogliere meglio di chiunque altro le sfumature della vita. L’arrivo del progresso, rappresentato dalla radio e da quell’inglese perfetto che stride con il dialetto che si parla a Tronvik, porta inevitabilmente con sé un senso di morte incombente, e non è un caso che nell’epilogo l’apparecchio venga distrutto violentemente proprio da un genitore a cui è stato portato via l’unico figlio da un mondo follemente in guerra.

 

 
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