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Discussione: Anglica catholica

  1. #301
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    Catholic Literature in England after the Second Vatican Council



    Luca Fumagalli

    British Catholic literature in the second half of the twentieth century has very different writers as protagonists. Muriel Spark and David Lodge, for example, were able to skillfully employ the same techniques as those of contemporary secular literature, giving new breath to the so-called “Catholic Novel” and abandoning many of the stereotypes that characterized it. Others, such as Alice Thomas Ellis, were original and provocative authors, even if they achieved less fame.

    What is striking about modern Catholic fiction is the almost total absence of the most important traditional themes. Not only does the sacrifice of the hero, based on the conflict between human aspirations and religious morality, tend to disappear, but sometimes it even goes to the extreme of challenging morality itself and, consequently, the authority of the Church. Thus, for the first time, stories of apostasy followed one another, of priests who live their vocation with discomfort and of lay people torn by doubt.

    Naturally there was no shortage of those who defended the tradition, opposing the desire for renewal that seemed to have infected Catholics in the years immediately following the closing of the Second Vatican Council.

    At the time, therefore, two opposing tendencies faced each other, defined by Thomas Woodman as “post-Catholic” and “neo-conservative”. However, he himself admitted that there were also intermediate positions that were difficult to label, such as, for example, those expressed by Piers Paul Read in his best works.

    On the political side, the conservatism that characterized previous generations was gradually abandoned by most Catholic writers who, like Graham Greene, ended up embracing the ideas of left-wing parties. The latter, in fact, in his writings addressed a large number of topics, from the Vietnam War to “liberation theology”, almost always criticizing the official positions of the Vatican. In the same way the protagonists of the novels became the middle class or the popular classes, and the apologetic purposes reached the point of being definitively set aside.

    To the reader accustomed to Benson, Belloc, Chesterton and other great writers of the beginning of the century, the Catholic novel of the late twentieth century would appear as something strange, unrecognizable, a sign of a genre that has shed its skin.

  2. #302
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    [La Scozia e la Fede: i migliori racconti di George Mackay Brown] “A Time to Keep”



    «Per la Scozia io canto,

    la nazione rovinata da Knox,

    che il poeta e il santo

    devono ricostruire con la loro passione»

    (George Mackay Brown, Prologue)

    Continua la rubrica dedicata alla presentazione e al commento dei migliori racconti di George Mackay Brown, tra gli scrittori più significativi del cattolicesimo scozzese del XX secolo. Originario delle isole Orcadi, Brown fu poeta, romanziere, saggista e drammaturgo, capace di coniugare nei suoi lavori l’amore per le piccole patrie con l’universalità del messaggio cristiano.

    Per una nota introduttiva sulla figura di George Mackay Brown e sulla sua opera si segnalano i seguenti articoli:

    Il bardo delle Orcadi: le opere e i giorni di George Mackay Brown

    «Una bellezza e una verità senza prezzo»: la conversione di George Mackay Brown

    Un canto per le Orcadi: sfogliando l’autobiografia di George Mackay Brown

    Due articoli dedicati ad altrettanti racconti di Brown sono già apparsi fuori rubrica:

    “The Tarn and the Rosary” e “Winter Tale”

    Per le precedenti puntate della rubrica:

    “The Story of Jorkel Hayforks” / “Witch” / “Master Halcrow, Priest” / “Five Green Waves” / “A Treading of Grapes” / “The Wireless Set“

    «Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo. C’è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante. Un tempo per uccidere e un tempo per guarire, un tempo per demolire e un tempo per costruire. Un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per gemere e un tempo per ballare…»

    È a questo brano del libro dell’Ecclesiaste (3, 1-4) che allude il titolo “A Time to Keep”, scelto da George Mackay Brown per il secondo racconto dell’omonima raccolta datata 1969, una ventina di pagine che costituiscono una sorta di spaccato della vita nelle Orcadi di inizio Novecento.

    La vicenda, che occupa un arco temporale di un anno, è divisa in dodici parti, una per ogni mese. Inizia con l’inverno e con il matrimonio tra Bill e Ingi. Lui è un contadino-pescatore, un tipo pragmatico, ateo, abituato al lavoro duro e al magro guadagno, mentre la ragazza è la figlia di un negoziante di città, affettuosa e devota, che deve però ancora imparare molto su come si gestisca una casa nella vallata. Nonostante le differenze, i due sono profondamente innamorati e presto Ingi scopre di essere incinta.

    Insieme affrontano con successo diversi imprevisti, come vicini fastidiosi e raccolti irrimediabilmente rovinati dal clima ostile, e se col tempo Bill impara a concedere alla moglie qualche soldo in più per la spesa, allo stesso modo quest’ultima matura in una donna risoluta (non a caso l’immagine del fuoco, con allusione alla sicurezza della casa, torna a più riprese nell’arco dell’intera storia).

    Nelle parti finali, Ingi muore dopo aver partorito uno splendido bambino, Tom, che il padre porta immediatamente alla spiaggia per celebrare una sorta di battesimo laico: «Sii onesto. Sii contro tutte le tenebre. Combatti dalla parte della vita. Sii contro i ministri, i nobili, i negozianti. Sii sempre coraggioso». L’epilogo, sullo sfondo dell’inverno che torna, è all’insegna della speranza, lasciando intendere un nuovo inizio per Bill, forse come marito di una delle figlie del contadino che abita vicino a lui e con cui si è da poco riappacificato.

    Narrato dalla voce del protagonista maschile, il racconto affronta uno dei temi prediletti di Brown, ovvero la ciclicità della vita, che va dal lento incedere delle stagioni alla perenne alternanza vita/morte, passando per il lavoro nei campi e la pesca. La sensazione condivisa da tutti i personaggi è che ogni cosa che accade, lieta o triste che sia, faccia parte di un piano provvidenziale ben più grande: «Noi non dovremmo essere ansiosi rispetto agli avvenimenti dell’esistenza», scrive a tal proposito Linden Bicket, «perché Dio ha deciso che vi è un tempo […] per tutto. E che tutto ultimamente sarà per il meglio». Da qui deriva la fiera dignità che contraddistingue uomini e donne abituati a fare i conti con forze che vanno al di là delle loro possibilità di controllo,

    Oltre a parlare di perdono e riscatto, “A Time to Keep” affronta anche la questione religiosa tramite un linguaggio ricco, che, come sempre in Brown, fonde la dimensione soprannaturale con quella naturale in una serie di immagini di sicura presa. Emblematica, ad esempio, la preghiera di lode descritta nell’ottava parte, in cui terra e mare sono rappresentati rispettivamente come una mano verde e una blu che si congiungono sullo sfondo di un’alba estiva. In un simile contesto persino uno scettico come Bill – tra l’altro uno dei personaggi più complessi e riusciti dello scrittore di Stromness – non può evitare di scorgere in sé i segni di un sentimento religioso mai completamente assopito.

  3. #303
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    Three devotional books by Msgr. Robert Hugh Benson



    Luca Fumagalli

    In addition to the many splendid novels, Msgr. Robert Hugh Benson wrote three devotional books (not counting those dedicated to young readers).

    In 1904 he collected several texts of Anglo-Saxon spirituality in one volume, entitled A Book of the Love of Jesus. After an introduction on the history and tradition of English prayers, the book is divided into four parts according to the subject of the prayers: the love of Jesus, his passion, the Eucharist and devotion. As an epilogue there is a short biography of Richard Rolle of Hampole, a religious and mystic of the fourteenth century



    The Friendship of Christ (1912) reveals Benson’s experience as a preacher. Divided into three parts, it deals with the bond between God and man, the sacraments and the Passion. Christ, with his incarnation and his sacrifice on the cross, is the horizon towards which all earthly friendships converge, the only possibility of liberation from the slavery of selfishness and sin.



    At the outbreak of the First World War, for the spiritual consolation of those who faced the hard life of the trench every day, the monsignor compiled his last devotional text, a prayer book, Vexilla Regis, published posthumously towards the end of 1914. In the volume the prayers for the wounded, prisoners and enemies are of particular importance.




    In general, Robert Hugh Benson’s devotional books deserve to be rediscovered and read. In the present gloomy times, they are a sure guide to help the soul to arrive at the heavenly port.

  4. #304
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    [La Scozia e la Fede: i migliori racconti di George Mackay Brown] “The Bright Spade
    +
    di Luca Fumagalli

    «Per la Scozia io canto,

    la nazione rovinata da Knox,

    che il poeta e il santo

    devono ricostruire con la loro passione»

    (George Mackay Brown, Prologue)

    Continua la rubrica dedicata alla presentazione e al commento dei migliori racconti di George Mackay Brown, tra gli scrittori più significativi del cattolicesimo scozzese del XX secolo. Originario delle isole Orcadi, Brown fu poeta, romanziere, saggista e drammaturgo, capace di coniugare nei suoi lavori l’amore per le piccole patrie con l’universalità del messaggio cristiano.

    Per una nota introduttiva sulla figura di George Mackay Brown e sulla sua opera si segnalano i seguenti articoli:

    Il bardo delle Orcadi: le opere e i giorni di George Mackay Brown

    «Una bellezza e una verità senza prezzo»: la conversione di George Mackay Brown

    Un canto per le Orcadi: sfogliando l’autobiografia di George Mackay Brown

    Due articoli dedicati ad altrettanti racconti di Brown sono già apparsi fuori rubrica: “The Story of Jorkel Hayforks” / “Witch” / “Master Halcrow, Priest” / “Five Green Waves” / “A Treading of Grapes” / “The Wireless Set“ / “A Time to Keep“
    Tra i racconti più brevi scritti da Brown – solo una manciata di paginette – e parte della raccolta A Time to Keep (1969), “The Bright Spade” ha per protagonista Jacob, il becchino di una povera comunità isolana, che in un inverno particolarmente difficile, funestato da temperature rigide e dalla carestia, si trova a dover seppellire un numero eccezionale di corpi. La storia è tutta qui, esaurendosi in un lungo elenco di morti e dei regali che vengono fatti a Jacob dai parenti dei defunti in cambio dei suoi servigi. Solo nell’epilogo, con il ritorno della primavera, mentre i contadini riprendono le loro normali attività, il becchino può finalmente riporre la sua pala, lucida per l’incessante lavoro (ecco il senso del titolo). L’augurio è che almeno per un po’ non ci siano più cadaveri da seppellire.

    Incentrato sui temi della morte e dell’inesorabile scorrere del tempo, “The Bright Spade” è una sorta di danza macabra in stile medievale, priva tuttavia degli accenti più grotteschi che caratterizzano simili rappresentazioni. Qui a prevalere sono piuttosto le tinte pastello di una mestizia che avvolge un mondo mai così ingrato, preda dei capricci della natura matrigna.

    In un contesto così tragico è facile rendersi conto di come la morte sia davvero democratica, colpendo gli anziani e i giovani, i ricchi e i poveri, gli stranieri e gli isolani. Accade quindi che un novantaquattrenne e una sedicenne muoiano nello stesso mese, e che il figlio del laird si rompa il collo cadendo da cavallo qualche settimana prima che venga ritrovato in casa sua il corpo senza vita di un vecchio che viveva solo (il violino di quest’ultimo, una volta strumento di gioia e divertimento, è ora appeso al muro dell’abitazione di Jacob, inerme e muto per sempre). Ancora, la terribile sorte riservata a sette marinai olandesi vittime di un naufragio è del tutto simile a quella di sette uomini della comunità, travolti da una tormenta mentre cercavano molluschi e alghe sulla spiaggia. Soprattutto, la morte unisce le generazioni, il presente e il passato; e quando Jacob scava una tomba particolarmente profonda, tra la terra trova i resti degli antenati del laird.

    Nel racconto, contraddistinto da un linguaggio semplice e immediato che comunque non disdegna aperture liriche, ritorna pure quel senso di ciclicità dell’esistenza, con il lento incedere delle stagioni, già descritto in “A Time to Keep”, una ciclicità che fa da sfondo alle sventure di una comunità molto unita e solidale, i cui membri si fanno ancora più prossimi con il sopraggiungere della tragedia. È lo stesso Jacob a incarnare le migliori qualità degli isolani: è un tipo gioviale, lavora duramente – a volte persino gratis – e non fa distinzioni di sorta, dando una mano, se possibile, a tutti.

    Dietro la cupa apparenza di “The Bright Spade” si nasconde perciò un messaggio di speranza, simboleggiato nel finale dalla resurrezione primaverile della natura.

  5. #305
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    “Don Tarquinio”: popes, princes and amazing adventures in a Renaissance novel by Baron Corvo



    https://spLuca Fumagalli

    Frederick Rolfe, the self-styled Baron Corvo, had a visceral passion for the Renaissance. For him it was the most striking example of a world that is still vital, energetic, ready for action and prayer; nothing to do, therefore, with the gray flatness of Edwardian England. Corvo had expressed this vision in a powerful essay, Chronicles of the House of Borgia (1901), a work dedicated to the well-known Spanish family which, although historically not very accurate, revealed the great inventiveness of a capable writer.

    The narrative florilege of the book on the Borgias found a natural outcome in Don Tarquinio. Dedicated to his brother Herbert and published in May 1905 by Chatto & Windus, the agile novel – the shortest in Rolf’s bibliography – has a straightforward and compact plot. The style is antiquated, manneristic, full of Latinisms and Greekisms (and it was perhaps this, more than others, that decreed its commercial failure).

    The story, the alleged transcription of a holograph by Don Tarquinio Drakontoletes Poplicola di Santacroce to his son Prospero, is the account of a day in 1495 in which the eponymous protagonist, fifteen at the time, manages in twenty-four hours to carry out an important mission on behalf of Cesare Borgia, to revoke the ban that forces his family away from Rome and to marry the beautiful Hersilia, a bridesmaid in Lucrezia’s train. Around Tarquinio there are the political protagonists of Renaissance Italy, above all Alexander VI and Charles VIII, but also Cardinal Ippolito d’Este and Gioffredo Borgia, prince of Squillace, loyal friends of the young Santacroce.



    Deprecating the falsehoods of Guicciardini and Giovio, Don Tarquinio narrates his extraordinary day at Prospero to demonstrate to his son how serious history is written. The curious subtitle of the book, “A Kataleptic Phantasmatic Romance”, indicates the working method followed, alluding to evidence as the ultimate truth criterion, according to the Stoic doctrine also supported by Walter Pater.

    In the prologue, written in the form of an epistle addressed to his brother Herbert, Baron Corvo recounts the origin of the book, the result of the reworking of an article that had been commissioned and then rejected by a publisher, in which he had described the day of a gentleman at the end of the 15th century. Don Tarquinio was the indirect result, so to speak, of the research undertaken for the book on the Borgias (as well as from the author’s personal biography). Several passages re-propose ideas already present in the 1901 volume, such as the attack on the partiality of historians, the protection granted by Rodrigo to the Capitoline Jews or the dubious authorship of Caesar.

    Between blood and prayer, between the sword and the sprinkler, the context is once again that of an ideal era, which deprecates half measures, when men believed in God and the Pope, adversary of the powerful, was still the majestic Ruler of the world, the earthly Vicar of Jesus Christ.

  6. #306
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    Predefinito Re: Anglica catholica



    di Luca Fumagalli

    «Per la Scozia io canto,

    la nazione rovinata da Knox,

    che il poeta e il santo

    devono ricostruire con la loro passione»

    (George Mackay Brown, Prologue)

    Continua la rubrica dedicata alla presentazione e al commento dei migliori racconti di George Mackay Brown, tra gli scrittori più significativi del cattolicesimo scozzese del XX secolo. Originario delle isole Orcadi, Brown fu poeta, romanziere, saggista e drammaturgo, capace di coniugare nei suoi lavori l’amore per le piccole patrie con l’universalità del messaggio cristiano.

    Per una nota introduttiva sulla figura di George Mackay Brown e sulla sua opera si segnalano i seguenti articoli:

    Il bardo delle Orcadi: le opere e i giorni di George Mackay Brown

    «Una bellezza e una verità senza prezzo»: la conversione di George Mackay Brown

    Un canto per le Orcadi: sfogliando l’autobiografia di George Mackay Brown

    Due articoli dedicati ad altrettanti racconti di Brown sono già apparsi fuori rubrica:

    “The Tarn and the Rosary” e “Winter Tale”

    Per le precedenti puntate della rubrica:

    “The Story of Jorkel Hayforks” / “Witch” / “Master Halcrow, Priest” / “Five Green Waves” / “A Treading of Grapes” / “The Wireless Set“ / “A Time to Keep“ / “The Bright Spade”

    “Celia”, posizionato in apertura della raccolta A Time to Keep (1969), nonostante a una prima lettura possa dare l’impressione di non essere perfettamente bilanciato nelle nove parti che lo compongono, è, in realtà, uno dei racconti più riusciti di George Mackay Brown, una mistura unica di umori che ha nella delicatezza di una prosa semplice e levigata il vero punto di forza. Luci e ombre si stendono senza soluzione di continuità a segnare il piccolo paese di Hamnavoe e i suoi abitanti, un frammento di Orcadi che culla in sé tanto i semi della distruzione quanto quelli del riscatto.

    La storia, ambientata nel corso di una settimana, dal lunedì alla domenica, ruota attorno a Celia Linklater, una ragazza alcolizzata che si prostituisce per procurarsi l’amato liquore. Accoglie i suoi clienti nella casa condivisa con il patrigno, il calzolaio Thomas, nella penombra di una stanza scarsamente illuminata che nasconde la vergogna di chi è consapevole di aver toccato il fondo («Ogni dissolutezza uccide una parte di Celia»). Soldi non ce ne sono e non la sfiora nemmeno la speranza che le cose possano un giorno migliorare. Il padre di Celia è morto in mare quando lei aveva dodici anni e la madre, dopo che si era risposata, si era spenta poco alla volta a causa del cancro, ridotta a uno spettro, lei che una volta era così bella. Anche se Thomas l’ha sempre trattata come una figlia, difendendola dai pettegolezzi dei compaesani, Celia non sopporta che il vecchio tenti in tutti i modi di accasarla con il contadino e pescatore Ronald Leask, sinceramente innamorato di lei tanto da dare alla sua barca il nome della ragazza.

    Nella settima parte la protagonista confessa l’origine del suo malessere al reverendo Andrew Blackie: si viene così a scoprire che Celia è un animo particolarmente sensibile e che l’alcol è l’unico modo che ha per sopportare i dolori del mondo. La ferocia degli animali, i terremoti, la discriminazione razziale, la guerra in Vietnam e l’Olocausto sono solo alcuni esempi che sembrano negare la possibilità dell’esistenza di una divinità benevola e misericordiosa: «Nemmeno il peggior essere umano che sia mai vissuto farebbe le cose che Dio fa». Solo quando beve, quando per qualche istante ha la sensazione di comminare lungo il confine tra due universi, la ragazza si sente come una regina in esilio, intravedendo tra i fumi dell’alcol il riflesso di un regno che le è stato in qualche modo promesso. Lei vorrebbe davvero avere fede, ma non ci riesce e certamente il reverendo, con le sue risposte preconfezionate, non le è di nessun aiuto.

    Mentre nella locanda del villaggio si consuma una tragicomica rissa tra gli abitanti del luogo e un gruppo di marinai norvegesi, rissa causata da un pugno dato da Ronald a uno degli abituali clienti di Celia, quest’ultima si trova al capezzale di Thomas, colto da violenti attacchi di tosse. Fa di tutto per confortarlo e, almeno per quella sera, non vuole ricevere nessuno. Solo quando lascia intendere che forse sposerà Ronald, il vecchio si addormenta soddisfatto. Nell’epilogo, a segnare l’inizio di un cammino di redenzione, Celia osserva il sole sorgere nella baia mentre viene avvolta dalla luce di un giorno nuovo.

    Il racconto, che venne adattato per la televisione nel 1971 da John McGrath, è il frutto di un lungo labor limae, finalizzato in particolare a eliminare i riferimenti troppo scopertamente cattolici presenti nei due manoscritti precedenti alla versione pubblicata. Brown non voleva dare l’impressione di fare della propaganda spicciola, optando infine per affidare all’implicito, tra le righe, la sostanza religiosa della vicenda. La stessa protagonista, il personaggio femminile più complesso che compare nelle novelle dello scrittore orcadiano, con quel misto di vergogna e pietà ricorda da vicino i caratteri di Grahm Greene; ed in effetti Celia è il risultato di una fusione tra la Sarah Miles di Fine di una storia, l’adultera che compie miracoli dopo la sua morte, e Stella Cartwright, un tempo fidanzata di Brown, donna dotata di grande fascino e carisma, ma destinata a scomparire prematuramente, nel 1985, a causa dell’abuso di alcol.

    Più in generale, nella storia al simbolismo diffuso si associa una critica al crudele Dio del calvinismo, incapace di offrire un senso al male che aleggia sul mondo. Tuttavia la speranza fa capolino nell’epilogo, nel momento in cui la protagonista si apre per la prima volte all’ipotesi di un amore autentico, quello caritatevole nei confronti del patrigno e quello coniugale con Ronald.

  7. #307
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    A few words about the Scottish novelist Bruce Marshall



    Luca Fumagalli

    The case of Bruce Marshall is unique. While his novels have been published in various languages ​​and are still read today by a small but devoted group of readers, very little has been written about his life or work.

    Born in Edinburgh in 1899, Marshall became a Catholic in 1917, spiritually marked by the horror of the Great War (the following year, six days before the armistice, he suffered a bad wound with the unfortunate consequence of having his leg amputated). In 1929 he finished his studies and became, to quote his own words, an “accountant”. After a daring interlude at the time of the Second World War as an assistant to the French resistance on behalf of the British secret services, thanks to the success of a couple of his novels he was finally able to devote himself full time to writing. He then moved permanently to France, to the French Riviera, and died there in 1987.

    Marshall’s works, the most famous of which are Father Malachy’s Miracle (1931) and The World, the Flesh, and Father Smith (1944), all ironic and insightful, show how in the end, by virtue of the sacrifice of Christ, good is always destined to triumph.

    For Marshall, literature is therefore an encounter with man without fear, ready to accept his miseries and greatness, with the result that his stories are never a lesson or a sermon but rather an attempt to describe with common sense the simple taste of ‘existence. That’s why, to aspiring novelists, he gave a curious piece of advice: «Stay away! But if you really have to write, first learn Latin, dive into the depths of the abyss or practice piracy and you will be able to write and you will have something to write ». In other words: first life, then books.
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    [Segnalazioni letterarie] Anthony Burgess, Indro Montanelli e il diavolo nella bottiglia



    di Luca Fumagalli

    Anche se qualcuno vide in lui un papabile per il premio Nobel, Anthony Burgess (1917-1993) fu più uno scrittore di quantità che di qualità, tanto che col tempo il suo nome è finito nel dimenticatoio. Non è perciò un caso se l’unico suo romanzo ancora diffusamente letto, Arancia meccanica, debba la propria fama quasi esclusivamente all’adattamento cinematografico firmato dal regista Stanley Kubrick.

    Burgess può essere dunque accusato, con buone ragioni, di aver troppe volte sacrificato il talento a una macchina produttiva che sfornava libri su libri a ritmi vertiginosi (facendosi beffe delle cinquecento parole al giorno prodotte da Graham Greene, sosteneva di riuscire, nello stesso tempo, a vergare due pagine intere, corrette e pronte per la stampa).

    Allo stesso modo, però, all’interno di una bibliografia sterminata che comprende anche saggi, testi teatrali, sceneggiature e articoli di giornale, sarebbe ingiusto trascurare alcuni titoli niente male, i quali, sebbene non capolavori in senso assoluto, meritano almeno lo sforzo di una lettura. Limitandosi alla narrativa, tra i lavori migliori di Burgess figurano Il seme inquieto, un racconto distopico decisamente attuale, il prolisso ma avvincente Gli strumenti delle tenebre, forse il suo romanzo migliore, e la quadrilogia dedicata al buffo e sfortunato scrittore Enderby.

    Con l’ovvia eccezione di Arancia meccanica e di una manciata di altre recenti ristampe, in Italia chi è interessato ai libri di Burgess è purtroppo costretto a ripiegare sui canali dell’usato e del modernariato. La situazione si fa ancora più problematica quando si è alla ricerca di studi o monografie a lui dedicati. Di valore, nella nostra penisola, non è mai stato prodotto praticamente nulla, un vulnus che appare davvero inspiegabile se si considera che lo scrittore britannico sposò in seconde nozze una donna di origini marchigiane, Liana Macellari, e dimorò per qualche tempo a Roma, possedendo pure una casa in campagna, a Bracciano, e un’altra proprietà a Montalbuccio. Soprattutto, venne coinvolto nel dibattito culturale del paese, distinguendosi per le sue posizioni conservatrici, figlie di quel cattolicesimo nel quale era cresciuto e da cui in seguito aveva preso, in parte, le distanze.




    Dal 1978 al 1981 scrisse per «Il Giornale» di Indro Montanelli, passando poi al «Corriere della Sera». Si dice che la scelta fu dettata dal denaro, dal momento che in via Solferino lo pagavano tre volte tanto, ma c’è chi suggerisce che Burgess volesse piuttosto prendere le distanze da una collaborazione che giudicava ormai troppo scomoda. Famosa la battuta finale di Montanelli in una lettera aperta che gli indirizzò: «Ti auguro, caro Anthony, tutta la fortuna che non meriti».

    Mentre ci si sta avvicinando alle celebrazioni per il trentennale della scomparsa dello scrittore, in Italia a scommettere su di lui, oltre a un paio di “big” come Einaudi e Minimum Fax, sono rimaste, per fortuna, alcune piccole realtà editoriali.

    Ne è un ottimo esempio la De Piante Editore, che nel 2021 ha pubblicato l’elzeviro Il diavolo nella bottiglia, apparso per la prima volta sulle colonne del «Giornale» il 6 aprile 1980 (il titolo pare sia frutto dell’inventiva di Marcello Staglieno).

    Partendo dalla recensione di un libro di Constantine FitzGibbon, giudicato di scarso valore, nell’articolo Burgess affronta il tema del rapporto tra letteratura e alcolismo. Dopo aver trattato dell’inspiegabile legame che si è generato nella storia tra alcune culture e l’alcol, si passa a una disamina di quei malesseri, innanzitutto la depressione, che possono condurre uno scrittore a cercare consolazione nella bottiglia. Il tema è affrontato da Burgess con lucidità ed empatia, tenendo sempre a mente la morte per cirrosi della sua prima moglie. La conclusione, caratterizzata da un accenno alla dottrina cristiana a proposito dei peccati capitali, sintetizza l’opinione dell’autore: «Scrittore io stesso, posso approvare la razionalizzazione che considera il bere come un piede di porco per forzare la facoltà creatrice. […] Un nuovo io, di una specie particolarmente ripugnante emerge – come un diavolo – dalla bottiglia».

    Il piccolo volume, editorialmente raffinatissimo, è ulteriormente impreziosito da una prefazione di Renato Besana, che racconta del suo primo incontro con Burgess e della collaborazione di quest’ultimo con l’Editoriale Nuova, e da una postfazione di Luigi Mascheroni dedicata a quei romanzieri, più o meno famosi, che ebbero problemi con l’alcol. Le ultime pagine ospitano invece una sintetica nota bio-bibliografica.

    Piacevole e di facile lettura, Il diavolo nella bottiglia non può quindi mancare nelle librerie di tutti gli amanti di Burgess (e non solo).

    Il libro: Anthony Burgess, Il diavolo della bottiglia, De Piante Editore, Busto Arsizio, 2021, 40 pagine, 20 euro.

    Link all’acquisto: https://www.depianteditore.it/prodotto/anthony-burgess-il-diavolo-nella-bottiglia/
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    [La Scozia e la Fede: i migliori racconti di George Mackay Brown] “The Eye of the Hurricane”



    di Luca Fumagalli

    «Per la Scozia io canto,

    la nazione rovinata da Knox,

    che il poeta e il santo

    devono ricostruire con la loro passione»

    (George Mackay Brown, Prologue)

    Continua la rubrica dedicata alla presentazione e al commento dei migliori racconti di George Mackay Brown, tra gli scrittori più significativi del cattolicesimo scozzese del XX secolo. Originario delle isole Orcadi, Brown fu poeta, romanziere, saggista e drammaturgo, capace di coniugare nei suoi lavori l’amore per le piccole patrie con l’universalità del messaggio cristiano.

    Per una nota introduttiva sulla figura di George Mackay Brown e sulla sua opera si segnalano i seguenti articoli:

    Il bardo delle Orcadi: le opere e i giorni di George Mackay Brown

    «Una bellezza e una verità senza prezzo»: la conversione di George Mackay Brown

    Un canto per le Orcadi: sfogliando l’autobiografia di George Mackay Brown

    Due articoli dedicati ad altrettanti racconti di Brown sono già apparsi fuori rubrica:

    “The Tarn and the Rosary” e “Winter Tale”

    Per le precedenti puntate della rubrica:

    “The Story of Jorkel Hayforks” / “Witch” / “Master Halcrow, Priest” / “Five Green Waves” / “A Treading of Grapes” / “The Wireless Set“ / “A Time to Keep“ / “The Bright Spade” / “Celia"

    Barclay, il narratore di “The Eye of the Hurricane”, è uno scrittore in fuga da una fallimentare storia d’amore e alla ricerca della giusta ispirazione per terminare il suo ultimo romanzo, dedicato al pellegrinaggio in Terra Santa dell’Earl Rognvald Kolson e dei suoi vichinghi, nel XII secolo (episodio raccontato per esteso pure da Brown in un suo libro). Da tre mesi vive nel villaggio di Hamnavoe, nelle Orcadi, occupando l’appartamento al piano terra della casa del capitano Stevens: «Sono venuto ad abitare tra persone semplici e senza complicazioni. Lavoravo assecondando il ritmo blando e regolare dei pescatori e dei contadini. La mia immaginazione si nutriva di salutari fonti primitive, il mare e la terra. Mi pare che la mia scrittura avesse una chiarezza e una profondità mai raggiunta prima».

    L’anziano capitano affoga nell’alcol il dolore causatogli, dieci anni prima, dalla morte della moglie e del figlioletto; chiuso nella sua stanza, crede ancora di essere su una nave, a capo di una ciurma di lupi di mare. Un tempo era davvero un ufficiale decorato e stimato, ma ora è ridotto a un relitto, del tutto simile a quello di un’imbarcazione danese che si è da poco incagliata tra gli scogli dell’isola e che i marinai paiono non voler rimettere in mare (del resto, è di gran lunga meglio godersi i liquori e le donne del luogo che faticare sul ponte di una nave).

    Barcley, da sincero cattolico, crede di fare un gesto di bontà andando ogni settimana in paese a comprare una bottiglia di rum per il capitano, ma Miriam, la ragazza che si occupa delle pulizie, lo rimprovera, avvisandolo che Stevens ha già rischiato di morire in un paio di occasioni a causa del troppo bere. I due – sempre più intimi – decidono allora di collaborare e di fare di tutto affinché il capitano rimanga sobrio. Purtroppo, però, i loro sforzi sono vani: un giorno Barcley non riesce a impedire a due ex compagni di Stevens di entrare in casa con del rum. Finiscono così per condannare a un tragica fine il vecchio marinaio, che spira invocando il nome della moglie, e da quel giorno Miriam si rifiuta di rivolgere parola allo scrittore.

    Nell’epilogo, dopo il funerale e la triste storia del capitano Falquist, suicida per amore, di cui il giovane Stevens dovette improvvisarsi sostituto nel bel mezzo di una tempesta, Barcley si ritrova a camminare per le viuzze di Hamnavoe, rincuorato da un concerto ascoltato alla radio, dalla giovialità degli avventori del bar e dei canti dell’Esercito della Salvezza, tra i cui membri vi è anche Miriam, «radiante sotto i lampioni della strada».

    “The Eye of the Hurricane” ha in comune con altri acconti della raccolta A Time to Keep (1969) il tema del dolore. In questo caso la sofferenza deriva dalla perdita di un amore o di un’amicizia. Al di là del capitano, infatti, anche Braclay soffre a causa delle ferite causategli nell’animo dal burrascoso rapporto con Sandra; Falquist si è tolto la vita perché la moglie lo aveva abbandonato, e il marinaio Robert Jansen, ormai ammattito, cerca in ogni dove il suo compare Walls, affogato in mare tempo prima. Come dice Stevens, «c’è solo una cosa più importante del coraggio, cioè l’amore», ed ha così ragione che Barclay si trova bloccato al quinto capitolo del suo romanzo, incentrato su Rognvald ed Ermengarda, proprio perché fatica a rendere efficacemente il miracolo e la complessità di un simile sentimento. Lui stesso nel finale del racconto si trova costretto, almeno provvisoriamente, ad alzare bandiera bianca: «L’amore è un soggetto troppo profondo per la prosa; solo la musica e la poesia possono edificare ponti tra la furia del seme nel solco, l’accoppiamento delle bestie, la passione di uomini e donne, la preghiera del santo. Il seme e la bestia e il santo sono toccati con un semplice fuoco. […] So […] che tutti questi amori sono esaltati nel loro vero ordine, e semplificati, e riconciliati, nella ruota dell’essere il cui centro è l’Incarnazione; si muovono per sempre come stelle silenziose».

    La riflessione di Barclay sull’amore è legata a doppio filo sia con la sua fede – che Miriam giudica insensata, ai limiti dell’idolatria – sia con la sua professione di scrittore. In “The Eye of the Hurricane” letteratura e religione vanno spesso di pari passo, e se Barcley, che vanta diverse somiglianze con Brown, spera «in un modo un po’ vago, che la scrittura sia il mio atto di carità, che forse i miei libri possano portare sollievo e felicità a qualche persona che non ho mai visto o conosciuto», allo stesso tempo si prende ampio spazio per raccontare i dettagli del processo creativo, la sua routine metodica, arrivando pure a confessare, in un momento di stallo, come forse tutto ciò che valeva la pena di essere scritto sia già stato messo nero su bianco da giganti del calibro di Cervantes, Tolstoj, Proust o Chaucher.

    Nonostante i dolori causati da una vita imprevedibile e tremenda come un uragano, anche in “The Eye of the Hurricane” trionfa la speranza, figlia della consapevolezza che per tutti esiste, da qualche parte, un porto sicuro al quale approdare.

  10. #310
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    “Oliver Cromwell”: the Banality of Evil according to Hilaire Belloc



    Luca Fumagalli

    Hilaire Belloc, journalist and polemicist, was an extraordinarily prolific writer, who ventured into the most disparate genres. With his inseparable friend G. K. Chesterton he shared the desire to make culture a weapon in support of the truth of Christ and his Church. A lover of facts rather than words, even on the slippery political terrain he spent a long time supporting the rights of the lowest and the oppressed. He was responsible for the first theorization of the so-called “distributism”, a movement that aspired, unfortunately without success, to create an alternative economic model to capitalism and communism.

    Oliver Cromwell, more than a classic historical book, with meticulously reported dates and facts, is an insight into the psychology of Cromwell, the rich Puritan who for a few years, from 1653 to 1658, after leading the parliamentary forces to victory during the English Civil War, became the dictator of England. Belloc wants to dispel all those legends that circulate about Cromwell to reveal the most intimate nature of the latter, the man behind the myth. Thus begins a fascinating journey that captures the attention of the reader both for the wit of the intuitions and for the belligerent but cultivated style.

    The short pamphlet, first published in 1927, after a quick introduction tracing the changes that took place in Reformation England, focuses, chapter after chapter, on the description of the different aspects of Cromwell’s character, which, taken together, contributed to his rise. The portrait that emerges, different from that proposed by traditional hagiography, is that of a brilliant leader – his “New Model Army”, prototype of the modern army, was a very successful invention – and of a shrewd diplomat, willing to lie in order to gain some personal advantage. For the rest Cromwell was a resolute but very common spirit, perpetually uncertain and singularly cruel; from his upbringing he had in fact inherited a fanatical Puritanism which, more than in devotion and theology found expression in the indiscriminate slaughter of Catholics, especially Irish. Even as a dictator he proved, on balance, profoundly inadequate, unable to take advantage of the favourable situation in which he found himself.

    Oliver Cromwell deserves to be read because shows that, well before Eichmann, the “Banality of Evil” already had a face, the dark and menacing one of Cromwell.

 

 
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