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Discussione: Anglica catholica

  1. #311
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    [La Scozia e la Fede: i migliori racconti di George Mackay Brown] “Icarus”
    https://sp-ao.


    di Luca Fumagalli

    «Per la Scozia io canto,

    la nazione rovinata da Knox,

    che il poeta e il santo

    devono ricostruire con la loro passione»

    (George Mackay Brown, Prologue)

    Continua la rubrica dedicata alla presentazione e al commento dei migliori racconti di George Mackay Brown, tra gli scrittori più significativi del cattolicesimo scozzese del XX secolo. Originario delle isole Orcadi, Brown fu poeta, romanziere, saggista e drammaturgo, capace di coniugare nei suoi lavori l’amore per le piccole patrie con l’universalità del messaggio cristiano.

    Per una nota introduttiva sulla figura di George Mackay Brown e sulla sua opera si segnalano i seguenti articoli:

    Il bardo delle Orcadi: le opere e i giorni di George Mackay Brown

    «Una bellezza e una verità senza prezzo»: la conversione di George Mackay Brown

    Un canto per le Orcadi: sfogliando l’autobiografia di George Mackay Brown

    Due articoli dedicati ad altrettanti racconti di Brown sono già apparsi fuori rubrica:

    “The Tarn and the Rosary” e “Winter Tale”

    Per le precedenti puntate della rubrica:

    “The Story of Jorkel Hayforks” / “Witch” / “Master Halcrow, Priest” / “Five Green Waves” / “A Treading of Grapes” / “The Wireless Set“ / “A Time to Keep“ / “The Bright Spade” / “Celia” / “The Eye of the Hurricane”

    «C’è della gente che prova un gran piacere nel profetizzare la fine del mondo. Per loro è una specie di passatempo. Siedono con matite e pezzi di carta, e si danno da fare, manipolando alcuni dei simboli e delle figure oscure del libro dell’Apocalisse, per determinare esattamente il giorno e l’ora in cui arriverà la condanna. Non ci hanno ancora preso, ma continuano imperterriti».

    Così inizia “Icarus”, tra i racconti più brevi della raccolta A Time to Keep (1969). Si tratta di una vicenda agrodolce, che nell’epilogo vira nettamente verso il comico, ambientata ancora una volta nel contesto socio-culturale delle Orcadi. Con “Icarus” Brown pare voler bonariamente prendere in giro quello spirito apocalittico non così raro tra le sette protestanti più estreme, capeggiate da certi profeti urlanti che sono diventati col tempo personaggi iconici anche della satira anti-religiosa.

    La storia, raccontata in prima persona dal giovane protagonista – destinato a rimanere anonimo –, ruota attorno a quello che suo zio Tom annuncia una sera, ovvero che la fine del mondo avverrà il prossimo giovedì, precisamente alle due e mezza del pomeriggio. Per prepararsi all’evento, intenzionato a raggiungere a ogni costo la beatitudine del cielo, l’uomo inizia ad armeggiare con i suoi attrezzi per costruirsi un paio di ali, a imitazione dell’Icaro mitologico. Tuttavia la profezia, come ampiamente prevedibile, si riveli errata e Tom finisce per rompersi una gamba nel tentativo di spiccare il volo dal tetto della fattoria. Il protagonista va allora a visitare lo zio in ospedale e, prima di andarsene, non può fare a meno di notare come sopra uno degli armadietti vi sia una Bibbia, aperta al libro dell’Apocalisse, con accanto un pezzo di carta tutto scarabocchiato. «Ci stai ancora provando», commenta sconsolato il giovane. E Tom, confermando i sospetti del nipote, rilancia con una nuova possibile data per la fine del mondo: «1965, il 24 giugno. Solo non so dirti ancora se sarà alle quattro e cinque minuti del mattino o a dieci alle otto di sera».

    Nella parte centrale del racconto, sullo sfondo del Dounby Show, una fiera agricola che si svolge ogni anno nelle isole, vi è spazio pure per un’ennesima canzonatura da parte di Brown. Questa volta il bersaglio sono i chiromanti e i sedicenti maghi, nulla più che imbroglioni da strapazzo, interessati esclusivamente a spillare denaro al malcapitato di turno. Una tale Madame Roberta annuncia infatti al protagonista che il suo raccolto sarà particolarmente abbondante… peccato che il giovane sia un pescatore!

  2. #312
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    An Old Scandal, a Modern Embarrassment: “The Party System” by Cecil Chesterton and Hilaire Belloc



    Luca Fumagalli

    The Party System, written in 1911 by Cecil Chesterton, journalist and brother of the much better known GKC, and by Hilaire Belloc, the famous Catholic polemicist, is a prophetic book.

    Far from being a sterile examination with predictable judgments, the book addresses the problems arising from the degeneration of the representative system of the major European democracies and, in particular, of Great Britain. An ongoing problem that was well known already at the beginning of the twentieth century. For example, in Italy the priest Luigi Sturzo also identified the party system, together with statism and the squandering of state money, as one of the «three beasts of democracy».

    Belloc and Chesterton, by nature inclined not to be satisfied with trivial or superficial answers, try to identify the fundamental problems linked to the model of representative democracy, starting from the fact that, at a certain point in history, parties have stood between the citizens and institutions.

    Initially born as spontaneous aggregations around charismatic leaders, the parties have turned over time into the main problem of politics. The system they created, in fact, constitutes what the authors call «a colossal scam».

    In fact, without any mandate constraint, parliamentarians can disregard the electoral promises. Likewise, the House of Commons demonstrates a questionable compactness and solidarity between the two main parties when there is an attempt to approve a truly revolutionary reform. The party system is therefore a way to prevent any change.

    The reflection on public financing of parties is also interesting. Although it is an opportunity to allow even the poorest to have political weight, it nevertheless proves to be an instrument of unfair competition when it allows large coalitions to crush any free citizen who intends, on his own initiative, to propose a new alternative political project.

    These are just some of the examples that the reader can discover by reading the pages of The Party System. The book is a useful guide to understanding the roots of the evils that still run through politics today.

  3. #313
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    [La Scozia e la Fede: i migliori racconti di George Mackay Brown] “A Calendar of Love”



    «Per la Scozia io canto,

    la nazione rovinata da Knox,

    che il poeta e il santo

    devono ricostruire con la loro passione»

    (George Mackay Brown, Prologue)

    Continua la rubrica dedicata alla presentazione e al commento dei migliori racconti di George Mackay Brown, tra gli scrittori più significativi del cattolicesimo scozzese del XX secolo. Originario delle isole Orcadi, Brown fu poeta, romanziere, saggista e drammaturgo, capace di coniugare nei suoi lavori l’amore per le piccole patrie con l’universalità del messaggio cristiano.

    Per una nota introduttiva sulla figura di George Mackay Brown e sulla sua opera si segnalano i seguenti articoli:

    Il bardo delle Orcadi: le opere e i giorni di George Mackay Brown

    «Una bellezza e una verità senza prezzo»: la conversione di George Mackay Brown

    Un canto per le Orcadi: sfogliando l’autobiografia di George Mackay Brown

    Due articoli dedicati ad altrettanti racconti di Brown sono già apparsi fuori rubrica:

    “The Tarn and the Rosary” e “Winter Tale”

    Per le precedenti puntate della rubrica:

    “The Story of Jorkel Hayforks” / “Witch” / “Master Halcrow, Priest” / “Five Green Waves” / “A Treading of Grapes” / “The Wireless Set“ / “A Time to Keep“ / “The Bright Spade” / “Celia” / “The Eye of the Hurricane” / “Icarus”

    Racconto d’apertura dell’omonima raccolta del 1967, la prima in assoluto pubblicata da Brown, “A Calendar of Love” ha dalla sua la delicatezza di una prosa levigata, avvolgente, le cui tinte pastello introducono il lettore nella vita quotidiana di una piccola comunità delle isole Orcadi.

    La vicenda, incentrata su un triangolo amoroso tra la giovane Jean Scarth, proprietaria del pub del villaggio, il pescatore Peter e il contadino Thorfinn Vik, si dipana lungo un anno, per la precisione il 1962, ed è suddivisa in dodici parti, una dedicata a ogni mese, da gennaio fino a dicembre. Lo scrittore scozzese era appassionato di numerologia biblica, e sia il 3 che il 12 sono cifre notoriamente significative, a indicare quella promessa di compimento che è il filo rosso che lega tutti gli episodi di una storia piuttosto lunga e complessa, presentata attraverso la giustapposizione di frammenti narrativi analoghi, ognuno dei quali è dedicato a Jean, a Peter o a Thorfinn (in alcuni casi si arriva addirittura a descrivere gli accadimenti attraverso una serie di dialoghi paralleli, con il commento esterno di altri personaggi oppure tramite annunci di giornale).

    Sin dalle prime battute i due pretendenti sono ben caratterizzati e appaiono l’uno l’opposto dell’altro: se Peter è uno di quei calvinisti rigorosi e ascetici, uno di quelli che crede di essere predestinato da Dio alla salvezza e che tenta anche di calcolare la data della possibile fine del mondo, Thorfinn è un lavoratore infaticabile, ma per il resto è un tipo scapestrato, amante delle donne e un po’ troppo dedito alla bottiglia. Tra l’altro guida un furgone senza avere nemmeno la patente. Ciò che li riguarda è quasi sempre accompagnato da una nota ironica che, nel caso di Peter, rivela pure l’astio dell’autore nei confronti del settarismo protestante.

    Jean, al contrario, è un tipo più sfuggente. Dolce e affabile, sa comunque trattare con decisione i clienti più indisciplinati. Dopo la morte del padre, da tempo malato, attraversa un periodo complicato di cui approfittano prima Thorfinn e poi Peter con il risultato che la fanciulla, a marzo, rimane incinta e non ha la minima idea di chi possa essere il padre del bambino che ha in grembo.

    Con l’arrivo dell’autunno si diffondono pettegolezzi e indiscrezioni su una gravidanza sempre più difficile da nascondere, così Jean, preda della vergogna, decide di isolarsi nella sua stanza, affidando la gestione del pub a un dipendente. Un giorno, guardando fuori dalla finestra la prima neve che cade, è colta da un inaspettato senso di meraviglia che si tramuta in una rivelazione sul ciclo della vita: «Improvvisamente ogni cosa era al proprio posto. […] E per sempre il mondo sarebbe stato pieno di gioventù e bellezza, di nascita e di morte, di lavoro e di sofferenza». Scompare in lei il senso di disagio che l’aveva accompagnata fino a quel momento, lasciando il posto all’indifferenza per il giudizio altrui e alla determinazione.

    Il bambino nasce verso la fine dell’anno e nel pub è festa grande (che il parto avvenga a dicembre non sembra casuale; si allude probabilmente alla forza redentrice di Dio, in grado di volgere in bene persino il male). Purtroppo, però, c’è brutto tempo e una recente nevicata ha reso impossibile gli spostamenti in paese: mentre Thorfinn cerca inutilmente di aprirsi una strada verso il locale armato solamente di una pala, Peter, in mare, è colto di sorpresa da una tempesta che scaglia la sua nave contro gli scogli.

    Nonostante la sfumatura tragica dell’epilogo, in “A Calendar of Love” è l’amore a trionfare. Sulla dolorosa condizione degli uomini prevale infatti la nascita, l’affermazione della vita. E anche la comunità del villaggio, messe da parte le cattiverie e le meschinità, trova ora un nuovo motivo d’unione. Non a caso il racconto termina con l’immagine di una bottiglia di whisky e di alcuni bicchieri, il preannuncio di un brindisi rincuorante.

  4. #314
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    “In Parenthesis”: the Great War (and much more) in David Jones’s poetic masterpiece



    Luca Fumagalli

    The poetic works of David Jones (1895-1974), at the time of publication, won the acclaim of the public and critics. Dylan Thomas, W. H. Auden, Basil Bunting, Hugh MacDiarmid, W. B. Yeats and Seamus Heaney are just some of the many exponents of the British cultural world who celebreted the lyric talent of the Welsh author. Yet Jones continues to be among the lesser-known of modernist poets. The reason is to be found above all in the particular form pursued by Jones, between poetry and prose, and in the linguistic difficulties. Added to this is the impressive amount of images, symbols and cultural references that form the framework of his works.

    Jones, who led a retired life, was not only a writer but also an engraver and painter of moderate fame. His biography – meticulously presented in Thomas Dilworth’s massive volume of 2017 – was marked by his experience on the French front during the First World War. He served in the ranks of the Royal Welch Fusiliers and spent 117 weeks on the front line, more than any other British writer. He accompanied his fellow soldiers in the assault on Mametz wood, during the first battle of the Somme, in 1916, and in the attack on Pilckem Ridge, at Passchendaele, in 1917. He survived an injury and illness, but from trauma of war never recovered. Everything he saw and suffered remained with him, like a shadow, for the rest of his life. He began to suffer from panic attacks, depression and violent forms of agoraphobia. Perhaps this growing sense of unease was one of the reasons that led him, in 1921, to become a Catholic. He later lived for a time in the community of Ditchling led by Eric Gill, became a Dominican tertiary and, in later life, was among the signatories of the petition that led to the well-known “Agatha Christie Indult” to preserve the Tridentine Mass in England and Wales.

    Jones himself testifies that the roots of his conversion were linked to his experience of the trenches. According to his account, it was in 1917 that he began to talk about religion with the Jesuit Daniel Hughes, the Catholic chaplain of his battalion, then stationed in Ypres. Father Hughes lent Jones a book by St. Francis de Sales and it was from that moment that he began to think about the Catholic Church. He was also deeply impressed by the Mass, celebrated on the front line and served by zealous soldiers, mostly of Irish or Italian origin.

    From the mud, pain and ashes of that conflict, Jones also drew inspiration for In Parenthesis, perhaps his masterpiece, published in 1937 by Faber & Faber, the result of more than ten years’ work (it was sponsored by T. S. Eliot, who also signed the introductory note).

    What at first might appear to be an unusual war poem turns out to be, in reality, a universal parable of redemption, a magnificent tapestry made up of quotations ranging from Celtic and Welsh myths to Chanson de Roland, from Shakespeare’s Henry V to Le Morte d’Arthur by Malroy, from the Bible to the adventures of Alice narrated by Carroll, from the Catholic liturgy to the famous paintings of Renaissance artists, from The Ballad of the Ancient Mariner by Coleridge to modern folk songs, those in vogue in cafes and among the troops, from lyrics by the Jesuit G. M. Hopkins – another fundamental source of inspiration for Jones – to Welsh nursery rhymes. The various sources of inspiration merge with the autobiographical experience of the author, from which he draws episodes and characters that are transfigured by his pen, taken in a never-ending dialogue between realism, myth and vision, never clearly distinguishable (this is the reason which prompted Jones to accompany the text with a large array of explanatory notes).

    This is why the style, halfway between the informal manner of the journalistic news and the heroic hyperbole of the epic, and the language, which ranges from the rough expressions of the troops and from the “Cockney” colloquialisms to ancient Welsh and Latin, are part integral to that human chain which, far from being merely an appeal to brotherhood among men, for Jones becomes an effervescent comparison between present and past, between legend and reality, between groups and individuals, though without renouncing for this renouncing the verticality of the chain that binds earth and heaven. The man of In Parenthesis is therefore laid bare in every aspect according to that integral approach dear to the French philosopher Jacques Maritain, much admired by Jones.

    After all, the latter was always particularly fond of the notion of “sign”, that is, the re-creation of reality – a form of re-incarnation – which constitutes the essence of his writings and of his best paintings. According to him, the artist’s aim was not to simply represent an object, but rather to reveal the universal light of God in it. This aspect differentiates him from most British war poets, whose poems are characterized by satire against officers and by the explicit moral indignation for the relentless slaughter.

    In Parenthesis begins in December 1915, when the battalion leaves the English coasts to reach France, and ends with the confrontation in Mametz Wood, seven months later, with an epilogue in which the mythical Queen of the Wood visits the fallen and give them garlands to honour their value. Each of the seven parts into which the volume is divided is introduced by a quotation from Y Gododdin, a Welsh epic poem that tells of the battle of Catreath, fought around 600. The meaning of the title is clarified by Jones in his preface: «For us amateur soldiers […] the war itself was a parenthesis».

    Among finely worked fragments that create unexpected dissonances and insertions, In Parenthesis ends by speaking of man, between misery and greatness, and of the hope of redemption offered by Christ.

  5. #315
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    [La Scozia e la Fede: i migliori racconti di George Mackay Brown] “Sealskin”



    di Luca Fumagalli

    «Per la Scozia io canto,

    la nazione rovinata da Knox,

    che il poeta e il santo

    devono ricostruire con la loro passione»

    (George Mackay Brown, Prologue)

    Continua la rubrica dedicata alla presentazione e al commento dei migliori racconti di George Mackay Brown, tra gli scrittori più significativi del cattolicesimo scozzese del XX secolo. Originario delle isole Orcadi, Brown fu poeta, romanziere, saggista e drammaturgo, capace di coniugare nei suoi lavori l’amore per le piccole patrie con l’universalità del messaggio cristiano.

    Per una nota introduttiva sulla figura di George Mackay Brown e sulla sua opera si segnalano i seguenti articoli:

    Il bardo delle Orcadi: le opere e i giorni di George Mackay Brown

    «Una bellezza e una verità senza prezzo»: la conversione di George Mackay Brown

    Un canto per le Orcadi: sfogliando l’autobiografia di George Mackay Brown

    Due articoli dedicati ad altrettanti racconti di Brown sono già apparsi fuori rubrica:

    “The Tarn and the Rosary” e “Winter Tale”

    Per le precedenti puntate della rubrica:

    “The Story of Jorkel Hayforks” / “Witch” / “Master Halcrow, Priest” / “Five Green Waves” / “A Treading of Grapes” / “The Wireless Set“ / “A Time to Keep“ / “The Bright Spade” / “Celia” / “The Eye of the Hurricane” / “Icarus” / “A Calendar of Love”

    “Sealskin” non è solo uno dei migliori racconti della raccolta Hawkfall (1974), la terza firmata da Brown, ma è pure uno dei più interessanti per comprendere la poetica dell’autore scozzese, concludendosi infatti con una lunga e preziosa meditazione sull’arte dalle sfumature marcatamente autobiografiche.

    Ambientata nella seconda metà del XIX a Norday, un’isola delle Orcadi, la storia, divisa in otto sezioni, è composta da due blocchi distinti. Il primo, che va dalla prima alla settima parte, ha per protagonista Simon Olafson, un giovane contadino che vive con i genitori. Il padre, Ezekiel, è un devoto cristiano, non più in grado di lavorare a causa dei reumatismi, mentre la madre, Annie, è morbosamente attaccata al figlio ed è gelosa di qualsiasi ragazza che gli si avvicina. Simon ha anche un fratello, Matthew, andato via di casa, all’improvviso, dieci anni prima.

    Un giorno, mentre passeggia vicino agli scogli, trova una pelle di foca. Non vedendo nessuno nei paraggi, decide di prenderla e, per sicurezza, la nasconde nel granaio della fattoria. L’indomani, più o meno nello stesso luogo, soccorre una ragazza nuda, apparentemente in fin di vita. La porta con sé a casa e convince la madre, all’inizio piuttosto contrariata, a prendersi cura di lei. La giovane non ha un nome e non parla inglese: viene perciò chiamata Mara Smith e si decide che rimarrà con loro come sguattera, aiutando Annie a occuparsi delle faccende domestiche e degli animali.

    Da vari indizi disseminati lungo il testo, il lettore si rende conto che Mara altri non è che una selkie, ovvero una di quelle creature che, secondo la mitologia nordica, vivono nel mare come foche, ma sono in grado di rimuovere il loro manto per assumere un aspetto umano (e non possono fare ritorno fra le onde fino a quando non lo recuperano). Nel villaggio qualcuno lo sospetta, ciononostante il ministro invita i fedeli, con tono d’ammonimento, a non credere a simili «tradizioni pagane».

    I mesi passano, Annie muore e Simon è trascinato davanti al consiglio parrocchiale per rispondere della sua relazione scandalosa con Mara, da cui è nato un figlio, Magnus. Dovendo regolarizzare la loro posizione, i due si sposano, ma il matrimonio è destinato a essere infelice: il giorno delle nozze Mara si rifiuta di ballare col marito, preferendo stare col figlio, e col tempo le cose non fanno altro che peggiorare. La comunicazione tra loro è ridotta allo stretto necessario, e quando, per caso, Simon ritrova nel granaio la pelle di foca – della cui esistenza si era ormai dimenticato –, la moglie sparisce, abbandonando lui e il figlio: «È venuta fuori dal silenzio ed è tornata nel silenzio». Nel frattempo muore anche Ezekiel, e il piccolo Magnus, con i soldi che il nonno gli ha lasciato, si compra un violino.

    L’ottava e ultima parte del racconto, quella più lunga, marca una netta cesura rispetto alle precedenti, focalizzandosi su Magnus adulto, diventato un musicista stimato in tutta Europa. Dopo anni trascorsi a girovagare tra le principali città del continente, ha deciso di passare le vacanze estive sulla sua isola natale, giusto un paio di settimane per riprendere i contatti con i vecchi amici e conoscenti: «In tutti questi anni ha portato Norday con sé ovunque andasse, ma la sua memoria l’ha resa un luogo trasfigurato, più come il pezzo di un arazzo che un album di fotografie». Tuttavia bastano pochi giorni per accorgersi che qualcosa è diverso. La gente, per strada, o lo ignora o la saluta con freddezza, e nessuno pare disposto a intrattenersi con lui. L’unica consolazione è quella che gli offre il cimitero – situato nei pressi di un’antica cappella senza tetto, forse cattolica – dove, girovagando tra le tombe, può ritrovare i nomi delle persone che gli furono care, compreso quello del padre: «Circondato da questi morti, si sentì umano e accettato per la prima volta da quando era ritornato a Norday».

    Al molo, prima di ripartire, si rende conto che è lui, e non gli abitanti dell’isola, a essere irrimediabilmente cambiato, e inizia quella riflessione sull’arte che, poco alla volta, lo porterà ad acquisire una nuova consapevolezza di sé come uomo e musicista: «Un artista deve pagare a caro prezzo, in termini di tenerezza umana, i frammenti di bellezza che giacciono nella sua bottega».

    Ritornato sul continente, Magnus non riesce a nascondere i segni di un disagio crescente: «Nei momenti di depressione si sentiva spesso parte di una carnevalata senza senso in cui tutti, lui compreso, erano costretti a indossare una maschera». Sempre più in crisi con se stesso e con la propria vocazione, solo e incapace di coltivare una relazione stabile con una donna, cerca una ragione per andare avanti, e se da tempo ha abbandonato l’idea romantica secondo la quale chi fa arte è, in qualche modo, «l’antenna sensibile della società», solo di recente ha compreso che l’arte è piuttosto quello «spietato bordo tagliente che registra, celebra e profetizza sulle tavole di pietra del tempo».

    A Parigi un suo amico pittore gli ha poi ricordato che la vera arte, lungi dal bastare a se stessa, deve avere una caratura morale, deve tornare a farsi ancella della religione, com’era nell’epoca classica e nel medioevo. Con lui, alla vigilia di Natale, si reca pure a Notre Dame per la messa di mezzanotte. Magnus, abituato all’austerità del servizio presbiteriano, alla lunga è abbastanza annoiato dalla liturgia, ma i riferimenti alla sacra famiglia, alla mangiatoia, alla stalla, al bue e all’asino gli fanno tornare alla mente la fattoria di Norsday e la sensazione che «là ci fosse una sorta di legame sacro tra gli animali e i contadini che erano nati e morti sotto il medesimo tetto ricoperto di paglia».

    La rivelazione decisiva gliela offre però un manoscritto gaelico che sta leggendo per una nuova opera: davanti a una modernità senza ritegno o pudore, che, in nome del progresso, si permette qualsiasi follia, lo scopo dell’artista è allora quello di «continuare a riparare il sacro tessuto del creato – l’armonia cosmica di Dio e dell’animale e dell’uomo e della stella e del pianeta – nel nome dell’umanità, contro coloro che nel nome dell’umanità lo stanno distruggendo stupidamente e sistematicamente».

    Ecco allora che la solitudine, il perenne senso di insoddisfazione e la consapevolezza di essere un “diverso” – addirittura, in questo caso, il figlio di un contadino e di un essere mitologico, simbolo dell’unione tra uomo e natura, tra terra e mare, tra storia e folklore – sono tutti sacrifici necessari per Magnus, così come per qualsiasi altro artista, Brown compreso (tra l’altro tra lui e il protagonista del racconto le somiglianze sono evidenti). Come esplicitato anche nella poesia “The Poet”, il gesto creativo non può non nascere da un vuoto che si vuole colmare, da un silenzio che ci si appresta, con passione, a indagare.

  6. #316
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    Chesterton’s “Heretics”: nowadays everything matters, except everything



    Luca Fumagalli

    Everything matters, except everything. Modernity, according to G. K. Chesterton, is full of events and discoveries, but what seems to be missing is a global vision of being. The liberal mentality, with its absurd claim to emancipate man from the past, has done nothing but enslave him to an even more dangerous enemy: nothingness. Everything is questioned and relativized, including good and evil.

    Chesterton, to cure the ideological hangover of the world, far more dangerous than that caused by his beloved beer, wrote a revolutionary book entitled Heretics (1905). Conversion to Catholicism, at the time, was still a long way off, yet Chesterton had already embarked on the road that would lead him to Rome. The great idea of Heretics, in fact, is the invitation to recover, according to the famous Gospel metaphor, a rock on which a stable house can be built.

    The author becomes a sort of tour guide and invites the reader to visit with him a unique wax museum, endless corridors where the brazen follies born from two centuries of anti-Christian dictatorship are collected. If Kipling, Shaw and H.G. Wells are just some of the intellectuals that Chesterton criticizes, the book illustrates above all a method to observe life, reiterating how important it is to fight for worthwhile ideas, those that bear fruit instead of being barren.

    Chesterton challenges nihilism, atheism, anthropocentrism and all those ideologies that have done nothing but distance man from himself. At the same time he talks about the hypothesis of an ultimate immortal truth, which should be the natural result of the much trumpeted progress (science should in fact lead not to democracy but to dogma).

    Heretics is therefore an ever-relevant book that deals with true love, that for perennial things.

  7. #317
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    Un degno figlio della Scozia e della Chiesa di Roma: due parole sullo scrittore Fionn Mac Colla



    Molti degli scrittori scozzesi nati a inizio Novecento invocarono un ritorno al tradizionale cattolicesimo celtico come antidoto all’arrogante politica inglese e a un’industrializzazione asfissiante che stava facendo tabula rasa della loro terra e della loro cultura. Tra questi, oltre ai più celebri Compton Mackenzie e George Scott-Moncrieff, figura anche Thomas MacDonald (1906-1975), i cui lavori vennero tutti pubblicati con il nom de plume di Fionn Mac Colla.

    Nato nel piccolo paese di Montrose, sulla costa est, ed educato nel rigido settarismo dei Plymouth Brethren, MacDonald, dopo aver completato gli esami con voti brillanti, divenne preside della Laide Public School, a Wester Ross, appena diciannovenne. Tuttavia già l’anno successivo si spostò in Palestina, dove lavorò come missionario per tre anni prima di tornare in patria e di convertirsi al cattolicesimo, nel 1935.

    La scelta era maturata di pari passo alla consapevolezza che la Chiesa presbiteriana aveva tradito la cultura gaelica, rimuovendo quel legame tra religione e stato-nazione che ancora esisteva, ad esempio, nella vicina Irlanda (tra l’altro suo padre parlava perfettamente gaelico ed è grazie a lui che MacDonald, ancora giovane, maturò quell’interesse per la storia e la politica scozzese che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita). Dal momento in cui divenne un fiero “papista” si dedicò con passione a un diuturno lavoro apologetico in senso anti-protestante, vivendo per molti anni a Barra, un’isola delle Ebridi.



    Nell’introduzione del suo primo romanzo, The Albannach (1932), dato alle stampe quando ancora non si era deciso a imboccare la via per Roma, scrisse che «il protestantesimo della Riforma non era cristianesimo, e nemmeno una forma di cristianesimo, ma era la sua completa antitesi». Al sacerdote che compare nella storia, Padre O’Reilly, basato su un prete realmente esistito, l’autore affida il compito di evidenziare la dimensione gioiosa e anti-puritana del cattolicesimo, di contro al freddo calvinismo della maggioranza degli scozzesi. Simili idee vennero espresse da MacDonald in un altro romanzo di poco posteriore, And the Cock Crew (1935), nel racconto Scottish Noel (1958) e in un volume di saggi, singolarmente pungente, intitolato At The Sign of the Clenched Fist (1967).

    Al pari dell’amico Hugh MacDiarmid, MacDonald si risolse sin dall’inizio della sua carriera a utilizzare uno pseudonimo di origine celtica. Fionn Mac Colla è la forma gaelica di Fionn MacCool, un eroe del Ciclo feniano, che rimanda pure ad Alasdair Mac Colla, il famoso guerriero cattolico del XVII secolo, originario della Highlands. Non sorprende perciò trovare il nome dello scrittore tra quello dei fondatori del National Party of Scotland e, più in generale, tra quello dei promotori del cosiddetto “Scottish Renaissance”.

    Di MacDonald, i cui libri non sono mai stati tradotti in italiano e che oggigiorno risultano difficilmente reperibili persino nella loro edizione originale, rimane anche un ritratto che gli fece l’artista Edward Baird, capace, con pochi tocchi, di cogliere la vera anima del suo soggetto. Intitolato Portrait of a Young Scotsman e attualmente collocato alle National Galleries of Scotland, rappresenta infatti MacDonald con indosso la divisa dei nazionalisti, il volto sereno e lo sguardo fiero: un degno figlio della Scozia e della Chiesa di Roma.

    Fonte dell’articolo: L. BICKET, George Mackay Brown and the Scottish Catholic Imagination, Edinburgh University Press, Edimburgo, 2019.

  8. #318
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    [La Scozia e la Fede: i migliori racconti di George Mackay Brown] “The Cinquefoil”



    di Luca Fumagalli

    «Per la Scozia io canto,

    la nazione rovinata da Knox,

    che il poeta e il santo

    devono ricostruire con la loro passione»

    (George Mackay Brown, Prologue)

    Continua la rubrica dedicata alla presentazione e al commento dei migliori racconti di George Mackay Brown, tra gli scrittori più significativi del cattolicesimo scozzese del XX secolo. Originario delle isole Orcadi, Brown fu poeta, romanziere, saggista e drammaturgo, capace di coniugare nei suoi lavori l’amore per le piccole patrie con l’universalità del messaggio cristiano.

    Per una nota introduttiva sulla figura di George Mackay Brown e sulla sua opera si segnalano i seguenti articoli:

    Il bardo delle Orcadi: le opere e i giorni di George Mackay Brown

    «Una bellezza e una verità senza prezzo»: la conversione di George Mackay Brown

    Un canto per le Orcadi: sfogliando l’autobiografia di George Mackay Brown

    Due articoli dedicati ad altrettanti racconti di Brown sono già apparsi fuori rubrica:

    “The Tarn and the Rosary” e “Winter Tale”

    Per le precedenti puntate della rubrica:

    “The Story of Jorkel Hayforks” / “Witch” / “Master Halcrow, Priest” / “Five Green Waves” / “A Treading of Grapes” / “The Wireless Set“ / “A Time to Keep“ / “The Bright Spade” / “Celia” / “The Eye of the Hurricane” / “Icarus” / “A Calendar of Love” / “Sealskin”

    Il racconto “The Cinquefoil”, incluso nella raccolta Hawkfall (1974), è ambientato sull’immaginaria isola di Selskay, nelle Orcadi, e ruota attorno agli abitanti della piccola comunità locale, le cui vicende si intrecciano attraverso cinque episodi distinti, accumunati dal tema amoroso.

    Il primo si intitola “Unpopolar Fisherman”. Albert Gurness e Fred Houton pescano insieme a bordo della Thistle, la loro barca, e ogni sera si recano al pub per bere birra o, quando i soldi scarseggiano, per giocare a freccette. Houton abita con l’anziana madre alla fattoria di Ingarth, sulle colline, mentre Gurness vive da solo in una casupola fatiscente. Quando quest’ultimo si innamora di Rosie Wasdale, la figlia del proprietario dell’emporio che «ha portato scompiglio nelle mie giornate», la sua amicizia con Houton si affievolisce poco alla volta fino a che i due si risolvono a non lavorare più insieme. Dal momento che la madre sta male e ha bisogno che qualcuno la aiuti ad occuparsi dei campi, Houton si fa liquidare la sua quota e Gurness può così tenere la barca per sé, aiutato da un nuovo apprendista, Jerome Scabra. Col tempo, però, anche il rapporto con Rosie va a rotoli e alla fine la ragazza sposa Houton, con cui ha pure un figlio. Significativo il commento di Gunress a fine episodio, tra il rammarico e un profondo senso della realtà: «Credo che sia meglio per una donna essere legata a un uomo che trae il suo sostentamento dalla terra. Di certo è una vita più stabile e sicura per una fanciulla. Il mare è troppo pericoloso».

    “The Minister an the Girl” racconta invece del giovane e stimato reverendo John Gillespie, da poco giunto sull’isola, di cui si innamorano diverse parrocchiane. Addirittura qualcuna delle famiglie più rispettabili della comunità ha tentato, in realtà senza successo, di accasarlo con una delle loro figlie. Una sera bussa alla sua porta Tilly Scabra che implora aiuto: i suoi genitori stanno avendo un furioso litigio e c’è bisogno di qualcuno che intervenga per calmarli. I coniugi Scabra non sono estranei a simili comportamenti ed è questo il motivo per cui sono mal visti dal resto degli isolani; dediti all’alcol e pieni di debiti, paiono essere capaci solamente di sfornare figli su figli. Quando Gillespie giunge a casa loro, per fortuna le acque si sono calmate. Sulla via del ritorno, sollevato, si accorge improvvisamente, come un fulmine a ciel sereno, di essersi innamorato di Tilly: «Il mio cuore tremava per la figliola tremante, con pietà, sì, ma – ora lo capisco – con qualcosa di diverso, nuovo e completamente inaspettato».

    Il terzo episodio, “A Friday of Rain”, ha per protagonista il vecchio e malconcio Jake Sandside che ogni venerdì, da trent’anni, si aggira per l’isola chiedendo l’elemosina. Durante la guerra, in marina, Jake è stato ferito, ma la pensione non è sufficiente per tirare avanti; e poi il venerdì i pescatori sono particolarmente generosi, forse per riparare il torto fatto dal loro patrono, San Pietro, quando ha rinnegato Cristo. Quel particolare venerdì vi è pioggia battente e Jake si appresta al solito pellegrinaggio. Con grande disappunto scopre però che Annie Ross, una sua vecchia fiamma, lo ha anticipato e, di conseguenza, sono pochi quelli disposti a donargli qualcosa. Tuttavia, durante la notte, Annie fa visita a casa sua portandogli parecchi regali: la donna, sentendo che Jake sta soffrendo di reumatismi, ha voluto semplicemente aiutarlo facendo il consueto giro al suo posto (e ciò anche se l’ex marinaio, in passato, non si è comportato affatto bene con lei).

    Dopo una parentesi sul senso e sul valore della comunità, “Seed, Dust, Star” si concentra sul mercante James Wasdale, che si reca ogni settimana sulla tomba della moglie morta vent’anni prima. Sebbene non sia molto contento che la figlia abbia sposato uno come Fred Houton, il suo cuore non conosce rancore, rimanendo convinto che «l’amore esista ancora. […] L’età, l’allontanamento e la morte hanno rimosso il seme dalle sue cure; ora è parte della vita precaria e continua dell’isola».

    Nell’ultima parte, “Writings”, si giustappongono quattro scene diverse. Gillespie, causando grande scandalo, ha abbandonato il ministero per andare a vivere con Tilly, da cui aspetta un figlio. Al momento sono ospitati dalla famiglia della ragazza, ma si spera che presto avranno una dimora tutta loro. Jerome gli insegna a pescare e dopo aver rotto con Gunress i due fanno società insieme. Nel mentre uno straniero è giunto a Selskay per l’annuale fiera agricola, accolto con calore e affetto dagli abitanti. La festa procede a gonfie vele almeno fino a quando Gurness e Houton iniziano a prendersi a pugni. Sono arrestati dalla polizia e, in seguito, dopo essere comparsi davanti a un giudice, vengono punti con una multa salata. Qualche mese dopo Gurness muore durante una tempesta in mare e, con grande sorpresa, si scopre che nel testamento ha lasciato tutto a Houton.

    Brillantemente congeniato e commovente, “The Cinquefoil” descrive le varie forme dell’amore: si va da quello coniugale all’amicizia, dall’amore di un genitore per i propri figli alla carità verso il prossimo, fino alla comunione mistica che si consuma tra uomo e natura. Il titolo del racconto si riferisce alla Potentilla, pianta dai fiori gialli, con cinque petali, a simboleggiare la peculiarità di ogni persona, ma anche la felice unità che caratterizza, al fondo, la comunità isolana, soggetta, al pari di tutte le altre cose di questo mondo, ai capricci del tempo, all’alternarsi delle stagioni e al ciclo della vita e della morte. A Selskay l’amore non è mai qualcosa di totalmente egoistico o autoreferenziale, anzi, per vie impreviste finisce sempre per aprirsi al mondo. Ne consegue una visione eucaristica della creazione e del tempo, uno dei tratti più tipici della poetica di Brown: «Tutti gli amori e gli affetti acquistano significato solo in relazione all’Amore stesso. L’amore di un giovane uomo e di una ragazza, in una piccola isola, è sempre gravato dalla gelosia, dalla lascivia, e dallo spettegolare nel negozio del villaggio. Ma i mistici insistono sul fatto che l’Amore stesso “muove le stelle”. Dicono che, nonostante il terrore e il dolore siano inseparabili da esso, “tutto andrà bene” – dentro l’anima isolata, e nell’isola, e nell’universo. Il più meschino della comunità lo sente occasionalmente; non potrebbe soffrire il terribile peso del tempo, del caso e della mortalità se non lo avesse fatto; una dolcezza e un desiderio sono infusi in lui, un prendersi cura di qualcosa o qualcuno al di fuori del suo sé chiuso».

  9. #319
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    Belloc facing Richelieu



    Luca Fumagalli

    Richelieu (1929) is among the best historical books written by Hilaire Belloc. As the title suggests, it deals with the life of Duke Armand-Jean du Plessis, the famous Cardinal Richelieu.

    Selfish, self-referential and arrogant, in The Three Musketeers by Dumas Richelieu is the symbol of 17th century ecclesiastical corruption. On the other hand, paintings like that of Henri-Paul Motte, in which the cardinal, clad in shining armour, observes the siege of the Huguenot fortress of La Rochelle with satisfaction, have contributed to exaggerate his virtues, even transforming him in a kind of new crusader.

    Belloc’s book aims to restore the truth about Richelieu. The cardinal is first of all relocated to the specific historical context in which he lived, the seventeenth century, characterized by two great events: the contrast between Catholicism and Protestantism, and the fatal “religion of patriotism”. Richelieu was the undisputed protagonist of this revolutionary era, an era that definitively wiped out all memory of medieval Christianity. The cardinal – a forerunner of Bismarck – with his political outlook was the true founder of modern nationalism and, at the same time, contributed to making permanent the religious division in Europe.

    A brilliant diplomat but, if necessary, a shrewd double agent, Richelieu became the deus ex machina of the early seventeenth century through the conduct of an aggressive and fortunate policy. In a France prostrated by difficulties, the cardinal first concerned himself with eliminating the Calvinist aristocracy in constant turmoil, and then with strengthening the army, the bureaucracy and the crown – paving the way for absolutism – and, finally, he put French interests before those of the Catholic world during the Thirty Years War. To the Calvinists, now politically irrelevant, he guaranteed freedom of worship and, as further evidence of how religion was considered by him only a political tool, he unleashed the Lutheran king of Sweden against the emperor.

    Richelieu’s end came suddenly, bringing down the cardinal at the height of his work: with him modern Europe was born with religious pluralism and extreme nationalisms. But all of this was achieved at a high price and, in hindsight, for minimal gain.

  10. #320
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    Il mistero di Wrenne Jarman: la triste storia di una poetessa “cattolica”



    Ovviamente – e questo vale per personaggi trattati tanto nei vari articoli quanto nei libri – il giudizio complessivo su figure di spicco della letteratura, ora eccentriche, ora controverse, deve tenere come supremo criterio quello della Dottrina Cattolica: salvare il buono, rigettare il cattivo, usare prudenza per tutto [RS]

    di Luca Fumagalli

    Tra gli scaffali della biblioteca dei dimenticati, quel luogo ideale che riunisce i libri di cui, nel tempo, si è persa la memoria, figurano anche le opere della poetessa britannica Wrenne Madeleine Jarman.

    Se ancora qualcuno si ricorda di lei, il merito va soprattutto al carmelitano Brocard Sewell, appassionato cultore di letteratura, che della Jarman ha scritto, seppure brevemente, in alcuni dei suoi volumi e nell’opuscolo Tell Me Strange Things, un tributo a Montague Summers datato 1991 (la Jarman era amica dell’enigmatico reverendo, autore di saggi sull’occulto, sulla stregoneria e sui vampiri, e fu tra le poche persone presenti al suo funerale). In tempi più recenti, sulle tracce della poetessa si è messo il critico e bibliofilo Roger Dobson, scomparso nel 2013, che ha raccolto altri indizi e testimonianze. L’esito delle sue ricerche è stato esposto in un articolo, “Remembering Renjie: The Wrenne Jarman Mystery”, apparso sul numero 3 della rivista «The Lost Club Journal» (Inverno 2003-primavera 2004) e firmato con lo pseudonimo di Anthony Carter.



    Wrenne Jarman, classe 1905, proveniva da una famiglia benestante di Richmond-on-Thames, nel Surrey – suo padre, Job Jarman, era un costruttore – e, ad eccezione di una parentesi alla fabbrica di aerei Hawker Siddeley durante la guerra, lavorò sempre come giornalista per il «Richmond and Twickenham Times». Probabilmente incontrò Summers per la prima volta proprio quando le fu chiesto di scrivere una serie di articoli sugli abitanti più famosi della cittadina ed è perciò ragionevole attribuire a lei il pezzo sul reverendo, apparso senza nome, risalente all’inverno del 1945. Gli stralci sopravvissuti della loro corrispondenza mostrano un affetto sincero da parte di entrambi. Padre Sewell, ad esempio, rivelò di aver trovato in un libro un tempo appartenuto a Frances Horovitz un biglietto di auguri indirizzato da Summers alla Jarman in occasione della Pasqua del 1946. Allo stesso anno risale pure una lettera, sempre da parte del reverendo, scritta quando l’amica, ormai ammalata, stava per entrare in una casa di cura ad Amblecote: «Mangia bene, bevi bene, dormi bene, riposa bene – cerca di stare bene. E possa Nostra Signora di Lourdes vegliare su di te come certamente farà».

    Versi della Jarman, chiamata “Renjie” dagli amici, apparvero su diversi periodici del tempo come la «Poetry Review», il «Poetry Quarterly» e il «Punch», mentre del 1948 è la raccolta The Breathless Kingdom, pubblicata per la Fortune Press di Reginald Caton, un losco ma ingegnoso editore che, a seguito di diversi problemi con la giustizia, si era deciso a mettere da parte la letteratura erotica per passare alla poesia. Dopo la morte della Jarman vide la luce una seconda raccolta, Nymph, in Thy Orisons, curata dal fratello Archie, anch’egli poeta e pittore, e data alle stampe nel 1961 da Padre Sewell per i tipi della Saint Albert’s Press in un’edizione limitata di 250 copie. Le liriche riscossero il plauso, tra gli altri, di Walter de la Mare e Clifford Bax, e almeno in un’occasione la poetessa venne invitata ai microfoni della BBC. Nel 1970 le sue poesie migliori furono radunate in Poems of Wrenne Jarman (Hilary Press), corredate da una prefazione di Edmund Blunden.


    Oltre a Summers, che ne elogiava l’intelligenza e il coraggio, un altro amico della Jarman dalla fama discutibile fu Aleister Crowley, l’autoproclamatasi “Bestia 666”, che negli anni quaranta abitava non troppo distante da casa sua. A quanto pare la fede cattolica di lei – testimoniata pure dalle sue poesie, molte delle quali a tema religioso – non fu di alcun ostacolo al loro rapporto, iniziato forse perché Crowley era rimasto folgorato dalla rara bellezza della donna che la faceva assomigliare, parole di Dobson, «più a una stella del cinema che a una poetessa». Sull’esatta natura della loro relazione, se fosse qualcosa di più di una semplice amicizia, è impossibile esprimersi. Quel che è certo è che da allora la Jarman prese a soffrire d’asma e, almeno a suo dire, era stato Crowley ad averglielo trasmesso in qualche modo.

    Altri aneddoti sulla poetessa sono stati raccontati dallo scrittore Derek Stanford in un articolo, “Boutique Fantasque”, apparso sul «London Magazine» nel numero di agosto/settembre 1988. Stanford, che ebbe modo di conoscerla quando lavorava al Baldur Bookshop di Hill Rise, si dilunga sul suo fascino, sulla sua sfortuna con gli uomini – «Tutti quelli che amo, e che mi amano, muoiono, Derek. È qualcosa che ha a che fare con me, non pensi?» – e sulle sue preoccupazioni a proposito di una casa infestata dai fantasmi. Si parla pure di una disavventura con Dylan Thomas, quando, invitato a Richmond per recitare alcune poesie, si presentò davanti all’uditorio visibilmente alticcio, concludendo la sua performance con uno straordinario conato di vomito. Sul finale i toni dello scritto si fanno però più cupi: Stanford scrive di avere incontrato la Jarman un’ultima volta, poco prima della sua morte, dietro la stazione degli autobus. Nonostante la splendida giornata d’inizio estate, appariva triste e gli confessò con marezza che non riusciva più a pregare.


    La poetessa morì di cancro al Westminster Hospital l’8 marzo 1953, appena quarantottenne. Il canonico R. P. Philips, lo stesso che nel 1948 aveva celebrato il funerale di Summers, le diede gli ultimi sacramenti. Di lei disse: «Era una grande anima e sopportò atroci sofferenze con la più grande pazienza e rassegnazione».

    Il suo corpo venne infine sepolto nella tomba di famiglia al Richmond Cemetery accanto a quello del padre, della madre e del fratello, scomparso nel 1982.

    Per anni il luogo di sepoltura è stato al centro di un piccolo mistero: a cadenza regolare qualcuno vi lasciava lettere e fiori, un fatto decisamente curioso che non mancò di ispirare a Stanford una ghost story. L’identità dell’ammiratore rimase sconosciuta fino a quando, nel 2000, Lionel Kenneth Watson, un settantenne di Isleworth, si fece avanti: «Non incontrai mai Wrenne personalmente, ma da giovane […] sono venuto a conoscenza del suo nome alla London Poetry Society, pochi mesi prima della morte. L’inusuale nome di battesimo mi rimase in mente; di lì a poco lessi entrambi i suoi libri di poesie, alcune delle quali mi piacciono davvero molto, e infine venni a sapere della sua tomba non molto distante da qui».

    Watson rivelò anche l’esistenza di un terzo libretto della Jarman, otto pagine in tutto, The Inward Greatness, contenente un componimento dedicato a Winston Churchill e pubblicato dalla misconosciuta Fountains Press di Richmond (un nome di comodo dietro il quale verosimilmente si celava l’autrice stessa).

    Ancora si attende qualcuno che si prenda la briga di indagare la vita della Jarman, caratterizzata da numerose zone d’ombra, mettendo soprattutto in risalto un talento poetico che in pochissimi hanno avuto la fortuna di incontrare.

    Fonti dell’articolo e delle immagini: R. DOBSON, Remembering Renjie: The Wrenne Jarman Mystery, in The Library of the Lost, a cura di M. VALENTINE, Tartarus Press, Leyburn, 2020, pp. 118-128; B. SEWELL, In Memory of Wrenne Jarman, in Tell me Strange Things, The Aylesford Press, Aylesford, 1991, pp. 17-18.

 

 
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