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Discussione: Anglica catholica

  1. #331
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    La storia del Biancospino di Glastonbury raccontata dal grande apologeta Hugh Ross Williamson

    di Luca Fumagalli

    Sul fatto che il Biancospino di Glastonbury, ribattezzato la “Sacra Spina”, abbia proprietà eccezionali non vi è alcun dubbio. A differenza degli altri biancospini fiorisce due volte all’anno, e quando si è tentato di seminarne le bacche altrove, il risultato è stato quello di veder nascere solo varianti comuni.

    Dal momento che una pianta simile si trova in Palestina, qualcuno ha avanzato la teoria che il Biancospino possa essere stato portato in Inghilterra, in epoca medievale, da un pellegrino di ritorno dalla Terra Santa o da un crociato. La tradizione racconta invece che tutto ebbe origine con l’arrivo a Glastonbury, il giorno di Natale, di Giuseppe d’Arimatea, in cerca del luogo in cui Cristo gli aveva comandato di costruire una chiesa in onore della Madonna. Dato che la popolazione locale era abbastanza scettica a proposito della sua missione, Giuseppe chiese a Dio di concedergli la grazia di un miracolo per dimostrare loro la sua buona fede. Fu così che il suo bastone, una volta piantato nella terra della collina di Wearyall Hill, prese a germogliare fino a che divenne un biancospino.

    Al di là della vicenda della “Sacra Spina”, Giuseppe d’Arimatea è una figura legata a doppio filo al cristianesimo britannico, tanto che gli inglesi si sono sempre vantati di aver ricevuto il Vangelo direttamente dalle sue labbra. Un’altra tradizione – citata pure da William Blake in “Gerusalemme” – vuole addirittura che Giuseppe, interessato al commercio dello stagno, abbia visitato le miniere della Cornovaglia in compagnia di Gesù quando questi era solo un ragazzo (non va dimenticato che l’uomo è ritenuto da alcuni commentatori lo zio di Maria, il fratello minore del padre di lei).



    Sul destino di Giuseppe in seguito alla Passione di Cristo si dilungano fonti variamente attendibile come l’apocrifo Gli atti di Pilato, La vita di Giuseppe d’Arimatea – un testo in versi ampiamente diffuso nel Medioevo ma di origine più antica – e le note dello storico Gildas, attivo nel VI secolo. Secondo tali documenti, Giuseppe, dopo che ebbe riempito due ampolle contenente il sangue e l’acqua versati dal costato di Gesù, venne condannato a quaranta giorni di prigione dal sinedrio. Con la Pentecoste, di nuovo libero, stette accanto a Maria per poi andare in Gallia, con San Filippo, allo scopo di predicare la parola di Dio. In compagnia di altri undici missionari raggiunse poi le coste britanniche trovando infine rifugio a Glastonbury, sulla Wearyall Hill, allora un’isoletta circondata dagli acquitrini, ribattezzata dagli indigeni “Avalon”, cioè “l’isola di vetro”. Lì Giuseppe fece erigere un’umile chiesa, la cosiddetta “Wattle Church”, la prima mai costruita sul suolo britannico, e al suo interno vi collocò un’immagine della Vergine che lui stesso aveva inciso. Quando morì, venne sepolto in quel luogo insieme alle due ampolle che aveva sempre tenuto con sé.

    Indipendentemente dalla veridicità o meno della parabola missionaria di Giuseppe d’Arimatea, è certo che quando Sant’Agostino di Canterbury, nel 597, arrivò da Roma per convertire gli anglosassoni, a Glastonbury si imbatté in una fiorente comunità cristiana (da lì, oltre a innumerevoli torme di pellegrini, si dice che siano passati pure santi del calibro di San Patrick, patrono d’Irlanda, e San David, patrono del Galles). Sulla Wearyall Hill, accanto alla “Wattle Church”, vennero eretti poco alla volta altri edifici, tra cui alcune chiese e un’abbazia benedettina, e lì pare sia stato sepolto anche il leggendario Re Artù, in lotta per la fede contro i sassoni. A Nostra Signora di Glastonbury era devoto pure Alfred il Grande, celebrato da G. K. Chesterton nella Ballata del cavallo bianco per la sua straordinaria vittoria sugli invasori danesi.



    Purtroppo la “Wattle Church” venne distrutta in un incendio nel 1184, ma il nome di Giuseppe d’Arimatea tornò di nuovo in auge con il diffondersi della leggenda del Sacro Graal legata ad Artù e ai suoi cavalieri, proprio in un momento in cui all’interno della Chiesa si stava consumando un vivace dibattito introno alla natura dell’Eucarestia, un dibattito che avrebbe portato, in seguito, alla definizione del dogma della transustanziazione.

    Se sotto il regno di Enrico VIII, allorché iniziò a scontrarsi con il Papa, i monaci di Glastonbury presero dapprima le parti del re, in seguito non mancarono di criticarne la condotta con una determinazione tale che nel 1539 l’abate dell’epoca, Richard Whiting, finì per subire un brutale martirio. Alle spoliazioni operate dagli sgherri del sanguinario Tudor – immortalate dalla penna di un indignato Wordswoth –, seguirono le devastazioni dei puritani, i quali, inebriati di fanatismo iconoclasta e dei fumi delle predicazioni anti-papiste, fecero scempio degli edifici ecclesiastici e non ebbero scrupoli ad abbattere la “Sacra Spina” (per fortuna molte spine sono poi germogliate dalla medesima radice e ancora oggi, ogni anno, a Natale, un ramo di Biancospino viene offerto in dono al sovrano inglese).



    A raccontare con dovizia di particolari l’affascinante storia della pianta ci ha pensato nel 1962 Hugh Ross Williamson in un volumetto, The Flowering Hawthorn, che oggi ritorna sugli scaffali delle librerie grazie alla solerzia dalla canadese Arouca Press, una casa editrice di recente fondazione che sta facendo un gran lavoro per dare nuovamente alle stampe i classici dell’apologetica cattolica di lingua inglese, di cui Williamson è uno degli esponenti di spicco. Quest’ultimo, scomparso nel 1978, era infatti un convertito, storico ed ex prelato anglicano, uno di quei britannici alla Evelyn Waugh o alla Michael Davies che mal sopportava le riforme liturgiche partorite dal Concilio Vaticano II e che sempre si prodigò in favore del “Vetus Ordo”.

    Anche nel suo breve studio sul Biancospino di Glastonbury, Williamson infonde tutta la passione di un saggista consumato, soppesando le notizie, valutando e argomentando con grande scrupolo, senza lasciare nulla al caso, attento a fornire chiavi di lettura le più convincenti possibili. Ne risulta un testo gradevolissimo, un gioiellino della pamphlettistica cattolica da custodire gelosamente nella propria biblioteca.

  2. #332
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    Echi mistici e strani cugini: la parabola letteraria del benedettino “Roger Pater”



    di Luca Fumagalli

    In occasione della pubblicazione della prima edizione italiana di Voci dall’Altrove di Roger Pater (Gondolin, 2022), si ripropone in questa sede l’introduzione al volume, una presentazione della figura dello scrittore benedettino e della sua bibliografia.

    Dom Roger Hudleston O.S.B è uno di quei sacerdoti che, da abili dilettanti, hanno saputo lasciare un piccolo segno nella storia della letteratura cattolica britannica del XX secolo. La sua fama, oggi limitata a una nicchia di appassionati bibliofili e di cultori dell’occulto, è legata soprattutto a Voci dall’Altrove (Mystic Voices, 1923), una raccolta di racconti dell’orrore e del soprannaturale firmata con il nom de plume di Roger Pater (esito della traduzione latina, con inversione, di padre Roger).

    Al di là di qualche occasionale affondo, nessuno studioso si è ancora preso la briga di analizzare sistematicamente la produzione narrativa di Dom Hudleston, che comprende pure un romanzo più tradizionale, My Cousin Philip (1924), legato a doppio filo al lavoro precedente. Ecco spiegato uno dei motivi per cui le scarne informazioni biografiche che si hanno sul suo conto si ricavano quasi esclusivamente dal necrologio scritto dal confratello Richard Hugh Connolly, apparso il 1 ottobre 1936 sulle colonne della «Downside Review».

    Gilbert Hudleston – mutò nome in Roger solo quando divenne un religioso – era nato il 27 dicembre 1874 nell’elegante tenuta di Hutton John, a Penrith, nel Cumberland, oggi trasformata in una casa vacanze. Era l’ultimo figlio di Laura Taylor e di William Hudleston, ricco proprietario terriero di fede protestante che si era distinto servendo il governo inglese in India. La famiglia, il cui cognome veniva scritto indifferentemente con una o due “d”, vantava tra i suoi illustri antenati il benedettino John Huddleston, famoso per aver salvato la vita del re Carlo II e averlo in seguito convertito all’antica fede quando, nel 1685, questi giaceva sul letto di morte.

    Dopo aver frequentato il prestigioso Wellington College ed essere stato praticante per paio d’anni in uno studio legale di Liverpool, il giovane Hudleston era approdato al Keble College di Oxford. Tuttavia la sua carriera universitaria durò solo pochi mesi: nel 1896 lasciò ogni cosa per diventare cattolico, venendo accolto nella Chiesa l’8 gennaio dal sacerdote Luke Rivington. Partì quindi alla volta di Roma, dove ricevette la prima comunione direttamente dalle mani di Leone XIII, per poi tornarsene in Inghilterra, presso l’abbazia di Downside, con l’intento di entrare a far parte dell’ordine benedettino.



    Dai suoi superiori venne mandato nuovamente nella capitale italiana a studiare presso il Collegio Sant’Anselmo e trascorse pure un breve periodo a Monaco di Baviera, aiutando Dom Leander Ramsay nelle sue ricerche su San Cipriano. Il 24 settembre 1904, due anni dopo la professione solenne, fu ordinato sacerdote dal vescovo di Clifton, George Burton.

    Di corporatura minuta e costretto per tutta la vita a indossare occhiali piuttosto spessi a causa della miopia, Dom Hudleston svolse dapprima diversi incarichi a Downside. Fu bibliotecario, maestro del coro, segretario dell’abate e direttore della «Downside Review». Sua fu la prima guida dedicata alla chiesa dell’abbazia, una delle quattro basiliche minori d’Inghilterra, e nel 1913 inaugurò una missione a Midsomer Norton. Tre anni più tardi, venne nominato preside della scuola che l’ordine gestiva a Ealing, un sobborgo di Londra. Nonostante le sue indubbie capacità – a detta di tutti era un tipo ubbidiente, ligio e devoto –, non passò molto tempo prima che chiedesse di essere rimosso dall’incarico, convinto che quella non fosse la sua strada.

    Allo scoppio della Grande Guerra gli fu così concesso di prestare servizio nell’esercito in qualità di cappellano. Fu di stanza a Salonicco, in Grecia, dove la sua affabilità e il proverbiale buon umore furono un balsamo per lo spirito dei soldati che dovevano confrontarsi ogni giorno con la morte. Al termine del conflitto raccontò la sua esperienza al fronte in un lungo articolo per la «Downside Review», “Notes of a War Journey in the Balkans and Transcaucasia”.

    Rientrato in patria, si fece carico della direzione della parrocchia benedettina di St John, a Bath, e, a partire dal 1924, di quella di Little Malvern. Purtroppo nel 1931 fu costretto a ritirarsi a Downside a causa dell’insorgere di problemi al cuore. Da allora prese a occuparsi principalmente dell’insegnamento della teologia e della gestione economica delle missioni dell’ordine; inoltre, essendo un musicista dilettante di discreto livello, sostituiva volentieri l’organista quando questi era assente. La sua salute, però, andò deteriorandosi rapidamente fino alla morte, avvenuta nel sonno il 5 agosto 1936 per arresto cardiaco.

    Uomo dalla vasta cultura e dalle molteplici doti – pare fosse in grado di risolvere in mezz’ora il cruciverba del «Times» –, sul versante della produzione apologetica Dom Hudleston, oltre a essere stato per un certo periodo il direttore della collana “Orchard Books” della Burns, Oates & Washbourne e ad aver curato le nuove traduzioni inglesi di grandi classici della spiritualità cristiana, pubblicò articoli su diverse testate, tra cui l’americana «Catholic Historical Review» e la «Dublin Review», nonché opuscoliper la Catholic Truth Society. Infine, tra il 1907 e il 1912, compilò una quarantina di lemmi della Catholic Encyclopedia, compreso quello dedicato a John Huddleston.

    In Voci dall’Altrove, deciso a provare le sue doti nel campo della letteratura, radunò alcuni racconti del soprannaturale che aveva iniziato a scrivere nel 1913, durante la convalescenza seguita a un’operazione per appendicite. A questo primo gruppo di storie se ne aggiunsero mano a mano di nuove, composte nei ritagli di tempo tra un’occupazione e l’altra, alcune delle quali apparvero in anteprima sul «Catholic World» nel 1922.

    Quando la Burns, Oates & Washbourne pubblicò il libro, le vendite furono così buone che la casa editrice si adoperò per dare subito alle stampe un secondo testo, My Cousin Philip, che però non riuscì a bissare il successo del precedente (di cui, nel 1926, venne approntata una seconda edizione).

    Protagonista di entrambi i volumi è Philip Rivers Pater, personaggio fittizio che l’autore immagina essere un cugino di suo padre, anch’egli sacerdote e facoltoso signorotto di campagna, ultimo discendente di una famiglia da sempre fedele a Roma. Il Pater immaginario è dotato di capacità extra-sensoriali e funge da “ricettore” di avventure soprannaturali. Fantasmi, possessioni, sedute spiritiche, oggetti maledetti e altri ingredienti tipici delle Ghost Stories vittoriane si accompagnano a un’originale meditazione sulla storia delle persecuzioni anticattoliche in Inghilterra e sulla spiritualità cristiana, una formula che ha come precedenti le raccolte The Light Invisible (1903) e A Mirror of Shalott (1905) di mons. Robert Hugh Benson, conosciuto soprattutto per il romanzo apocalittico Il Padrone del mondo.

    Consapevole del terreno teologicamente scivoloso su cui si stava muovendo, nelle quattordici storie del libro Dom Hudleston, tramite i suoi personaggi, è sempre pronto a stigmatizzare le superstizioni e a operare gli opportuni distinguo tra le mistificazioni a buon mercato e ciò che è veramente miracoloso (che poi non sempre ci riesca è un altro paio di maniche). Anche dal punto di vista stilistico si dimostrò un autore attento: il risultato è una prosa limpida e asciutta, caratterizzata, tra l’altro, da una stratificazione linguistica – con abbreviazioni, termini gergali ed espressioni latine – che avvicina i dialoghi all’immediatezza del parlato e che contribuisce ad accentuare quell’atmosfera esotica che si respira in particolare nei racconti ambientati in Italia, una soluzione analoga a quelle adottate da Henry Harland e Baron Corvo nei loro lavori.

    All’epoca i giudizi della critica furono unanimemente favorevoli. Per il «Times Literary Supplement» «le storie sono piene di pietà, la loro escatologia non è mai ristretta, e l’ultima illustra magnificamente la convinzione dell’anziano prete che esista una salda unità tra tutti coloro che amano Dio con cuore sincero»; il «Church Times», da parte sua, sottolineava «il fascino, la grande erudizione, i molti ragionamenti acuti e le sagge osservazioni» riscontrabili nel libro. Addirittura la «Dublin Review», paragonando Hudleston a Benson, arrivò a dichiarare che «l’allievo è più abile del maestro».




    In risposta alle lettere degli ammiratori, tra cui spiccava il nome della Principessa Blücher, celebre per le sue memorie sulla Prima guerra mondiale, il benedettino fu costretto ad ammettere che quanto raccontato non era solo un prodotto della sua fantasia e che alcune delle strane esperienze vissute da padre Philip erano capitate anche a lui o a sui conoscenti.

    Fino a ora di Voci Dall’Altrove erano stati tradotti in italiano solo una manciata di racconti, ovvero “De Profundis”, “Il lascito dell’astrologo” e “A Porta Inferi”, pubblicati accanto alle storie di altri maestri del fantastico in tre diverse antologie: Occulta, L’omnibus del soprannaturale (Mondadori, 1988), Storie di demoni (parte della collana “I Miti di Cthulhu” targata Fanucci, 1988) e la più recente Storie di diavoli (Newton & Compton, 1997).

    Vale la pena soffermarsi brevemente sui racconti appena menzionati – oltretutto tra i migliori del volume – per fornire, a mo’ di antipasto, un saggio dei tratti peculiari che caratterizzano l’opera di Dom Hudleston.

    “De Profundis”, ad esempio, ritorna su uno dei temi principali del libro, vale a dire il tentativo di un’anima del Purgatorio di comunicare con i vivi allo scopo di offrire consigli o di alleviare le loro sofferenze. La vicenda, ambientata in un convento femminile di Roma, ruota attorno al culto per una superiora scomparsa qualche tempo prima in odore di santità, culto che le suore continuano a praticare in gran segreto dal momento che il Vaticano lo ha ufficialmente vietato (accurate indagini hanno infatti portato alla luce gli isterismi e le menzogne reiterate della defunta). Proprio l’anima dell’ex superiora, che ora si trova in Purgatorio, in una visione rivela l’amara verità a una novizia, nipote di un cardinale, convincendo infine le autorità a intervenire e a chiudere il convento.

    “Il lascito dell’astrologo” e “A Porta Inferi” trattano invece del pericolo dello spiritismo con toni simili a quelli impiegati da mons. Benson nel romanzo I Necromanti. Nel primo racconto si parla di un’antica sfera di epoca rinascimentale impiegata per oscuri riti satanici, mentre il secondo ha per protagonista un ex occultista, reso folle dai suoi esperimenti magici. Solo l’intervento di padre Philip lo libererà, nel finale, dallo spirito demoniaco che lo tormenta.



    Sebbene in Voci dall’Altrove, come già sottolineato, Dom Hudleston faccia di tutto per interpretare l’elemento miracoloso attraverso una Fede certa nel divino, il confine tra ortodossia e creduloneria corre a volte il rischio di farsi pericolosamente labile. Tale ambiguità, riscontrabile pure negli altri autori cattolici del soprannaturale – in terra inglese, oltre a Benson, si contano solo Shane Leslie e l’enigmatico reverendo Montague Summers – è figlia di «una paura del Male personificato in uno spirito concreto, il Demonio, che può tormentarci e perseguitarci dappertutto; […] è una battaglia quasi manichea tra forze indipendenti […]». Così si esprime Richard Griffiths, che prosegue: «Vi era il gusto per il magico e lo straordinario, la convinzione dell’efficacia di certi riti e l’interesse per le manifestazioni esteriori del misticismo, il tutto ridotto a una serie di effetti automatici prodotti da formule magiche e incantesimi». Non va comunque scordato che passioni del genere riguardarono solamente una piccola parte dei cattolici britannici. La maggioranza, che comprendeva eminenti intellettuali del calibro di G. K. Chesterton, dimostrò, all’opposto, di avere i piedi ben più saldamente piantati a terra.

    Se Voci dall’Altrove è stato ripubblicato nel 2001 dalla canadese Ash-Tree Press in un’elegante edizione critica a cura di David G. Rowlands, My Cousin Philip è diventato nel frattempo un costoso cimelio per collezionisti.

    Nel romanzo si narra per esteso la storia di padre Philip, dalla rottura dei rapporti con il genitore di Roger Pater a causa di un litigio, fino ad arrivare alla decisione, troppo a lungo rimandata, di farsi sacerdote. L’abbandono degli studi giuridici, il viaggio a Roma e altri particolari della trama potrebbero illudere il lettore più smaliziato di trovarsi davanti a un vero e proprio roman à clef ; ad ogni modo non pare questo il caso, se non altro perché le differenze tra la parabola biografico-spirituale del protagonista e quella di Dom Hudleston superano di gran lunga le analogie. Per quanto concerne il soprannaturale, poi, l’aggancio più forte con Voci dall’Altrove è costituito dal capitolo XV del libro, intitolato “A Sixth Sense”, in cui si parla in termini espliciti delle straordinarie doti di padre Philip.

    Forse il pubblico italiano, in linea di massima poco avvezzo a simili letture, troverà sulle prime i racconti del benedettino inglese decisamente curiosi, il parto di una mente un po’ troppo incline alle fantasticherie. Eppure, al netto di qualche limite, basterà andare un poco oltre l’immediatezza del testo per accorgersi come dietro a ogni storia si nasconda, in verità, un piccolo grande tesoro spirituale, risultato di una lucida volontà di docere delectando.

    Il libro: Roger Pater, Voci dall’Altrove, Gondolin, Verona, 2022, 224 pagine, Euro 19.

    Link all’acquisto: https://www.fedecultura.com/gondolin?store-page=Voci-dallAltrove-p494119015

  3. #333
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    [La Scozia e la Fede: i migliori racconti di George Mackay Brown] Le altre storie di “A Time to Keep”



    di Luca Fumagalli

    «Per la Scozia io canto,

    la nazione rovinata da Knox,

    che il poeta e il santo

    devono ricostruire con la loro passione»

    (George Mackay Brown, Prologue)

    Continua la rubrica dedicata alla presentazione e al commento dei migliori racconti di George Mackay Brown, tra gli scrittori più significativi del cattolicesimo scozzese del XX secolo. Originario delle isole Orcadi, Brown fu poeta, romanziere, saggista e drammaturgo, capace di coniugare nei suoi lavori l’amore per le piccole patrie con l’universalità del messaggio cristiano.

    Per una nota introduttiva sulla figura di George Mackay Brown e sulla sua opera si segnalano i seguenti articoli:

    Il bardo delle Orcadi: le opere e i giorni di George Mackay Brown

    «Una bellezza e una verità senza prezzo»: la conversione di George Mackay Brown

    Un canto per le Orcadi: sfogliando l’autobiografia di George Mackay Brown

    Due articoli dedicati ad altrettanti racconti di Brown sono già apparsi fuori rubrica:

    “The Tarn and the Rosary” e “Winter Tale”

    Per le precedenti puntate della rubrica:

    “The Story of Jorkel Hayforks” / “Witch” / “Master Halcrow, Priest” / “Five Green Waves” / “A Treading of Grapes” / “The Wireless Set“ / “A Time to Keep“ / “The Bright Spade” / “Celia” / “The Eye of the Hurricane” / “Icarus” / “A Calendar of Love” / “Sealskin” / “The Cinquefoil” / “The Drowned Rose” / “The Seven Poets” / “Andrina” e “The Day of the Ox” / “The Masked Fisherman” e “The Christmas Dove” / “Dancey” e “Shell Story” / Le altre storie di “A Calendar of Love”

    A Time to Keep (The Hogarth Press, 1969), la seconda raccolta di racconti firmata da George Mackay Brown, all’epoca della pubblicazione ottenne un clamoroso successo in termini sia di critica che di vendite, tant’è che nel corso dei decenni successivi il volume ha conosciuto svariate edizioni. Sono molti gli studiosi che sostengono che in essa, così come nella prima raccolta di Brown, A Calendar of Love, vi siano alcune delle più belle storie mai scritte dall’autore orcadiano, tre delle quali vennero pure drammatizzate da John MacGarth per la BBC.

    Naturale successore di A Calendar of Love, A Time to Keep mostra una chiara continuità tematica rispetto alla raccolta precedente, parlando nuovamente di comunitarismo, del pericolo della modernità annichilartice, della religione … Anche dal punto di vista stilistico vi sono numerose affinità: Brown seguita ad alternare una prosa asciutta, a tratti ridondante, a brani di maggior afflato poetico, che procedono per frammenti, accostati in un andamento ciclico che riecheggia i ritmi stagionali di quel microcosmo delle Orcadi, abitato prevalentemente da contadini e pescatori, in cui si ambientano quasi tutti i racconti. A Time to Keep, il cui titolo è un riferimento a un noto passaggio del Libro dell’Ecclesiaste, è inoltre una saga sullo stoicismo, su come semplici uomini riescano in virtù della loro volontà e della fede a sopportare il dolore, la perdita e la tragedia.

    Dal momento che dei principali racconti di A Time to Keep, ovvero “Celia”, “A Time to Keep”, “A Treading of Grapes”, “Icarus”, “The Wirless Set”, “The Bright Spade” e “The Eye of the Hurricane”, si è già discusso in precedenti articoli della rubrica, in questa sede non rimane che dare una rapida occhiata ai rimanenti.



    In “The Story Teller” un uomo anziano intrattiene i clienti dell’Hamnavoe Bar con storie affascinanti che lo vedono protagonista. Nella prima racconta della sua gioventù, di quando il padre, un tipo decisamente severo, voleva che si sposasse con una vedova più anziana di lui così da sopperire alla mancanza di una donna in casa (la moglie è infatti morta). Il ragazzo naturalmente si rifiuta, rassegnandosi a vivere da scapolo. Nel frattempo la fanciulla di cui era innamorato senza speranza, Sara, trova marito, e pure il padre, con cui i rapporti si sono definitivamente interrotti, si risposa. Nella seconda storia il narratore e il compare Amos escono in mare per pescare, approfittando, come tanti altri, della splendida giornata. Ma all’improvviso si scatena una tempesta e i due sono gli unici che riescono per miracolo a salvarsi, mentre gli altri pescatori muoiono tra le onde. La terza e ultima storia, quella forse più interessante, è un’ennesima variazione sul tema del progresso che uccide i tradizionali vincoli comunitari. Samuel Smith è un violinista portentoso che, grazie al proprio strumento, riesce a risollevare gli animi e a risolvere ogni imprevisto per il meglio. Eppure, poco alla volta, la smania di novità seduce gli abitanti dell’isola e, in particolare, un impiegato, tale Finlay Oman. Questi, oltre a vari apparecchi tecnologici, compra una fisarmonica del cui suono tutti si innamorano subito. La conseguenza è che Samuel, fatto salvo per uno sparuto gruppo di coriacei ammiratori, non è più tenuto da conto e durante un festival viene addirittura invitato dalla folla a scendere dal palco, rompendo il suo violino: «In una stagione di follia la gente di questa isola lo spaccò in mille pezzi, e con il violino venne spazzato via uno stile di vita durato per secoli». Samuel muore pochi giorni dopo, apparentemente felice, come se si fosse finalmente liberato da un grande peso.

    “The Five of Spade”, non meno agrodolce, è la storia di Jack Harra, promesso in sposa a Clara Moar, un giovane che purtroppo ha il vizio del gioco. Le carte – «il libro del diavolo, il mazzo di carte» – gli causano un guaio dietro l’altro e un giorno finisce in prigione. Riuscito a fuggire, va in America a tentare fortuna, ma anche lì, al netto dei suoi indubbi talenti, il gioco continua a creargli problemi. Finisce così per cambiare continuamente lavoro e, nonostante le promesse fatte a Clara, rimane lontano dalle Orcadi talmente a lungo che il suo nome entra nella leggenda, diventando protagonista di una ballata. Nell’autunno del 1862 torna a casa con la moglie indiana e i loro quattro figli. Jack è un uomo diverso, ormai disinteressato alle carte, che ha saputo «finalmente ammaestrare la bestia dentro di lui», mentre Clara, che non si è mai sposata, lo vede arrivare con i nove figli avuti da altrettanti uomini.



    Il ritorno a casa del protagonista è l’episodio che dà il via anche a “The Whaler’s Return”. Andrew Flaws, dopo un’estate trascorsa su una baleniera, ha in tasca denaro sufficiente per sposare Peterina e per iniziare una nuova vita da contadino e pescatore: «Il prossimo anno, da nuovo proprietario della fattoria di Breck, avrebbe preso parte in prima persona al rituale del grano, il ciclo di nascita, amore, morte, resurrezione». Tuttavia, una volta sbarcato, il suo viaggio a piedi per raggiungere l’amata è segnato da continui festeggiamenti e bevute. Durante il tragitto scopre inoltre che il futuro suocero è morto e, con i pochi soldi che gli sono rimasti, dopo aver saldato gli ultimi debiti di Peterina, è pronto a iniziare una nuova vita con lei.

    “Tartan” è un racconto senza troppe pretese che segue le scorrerie nelle Highland di una banda di vichinghi; uno di loro viene ucciso e si decide di donare alla vedova del tessuto tartan, tra il bottino dei saccheggi. Al contrario, “A Carrier of Stones”, che con “Tartan” condivide la medesima ambientazione medievale, è una storia più matura, tra l’altro esito di un miscuglio di stili eterogenei, con passaggi di taglio epistolare o simil-teatrali. Rolf è appena tornato nelle Orcadi dopo essersi ricoperto d’onore come razziatore vichingo. Tutti, sulle isole, cercano invano il suo aiuto, ma l’uomo pare preferire una vita ritirata, lontano dal clamore: «La poesia è figlia del silenzio» risponde al Laird che gli vorrebbe offrire in sposa una delle sue figlie. Stanco di essere continuamente infastidito, entra in un monastero, dove, oltre a pregare, svolge lavori di fatica tra cui spostare grosse pietre.

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    Predefinito Re: Anglica catholica

    A Limerickal Commentary on the Second Vatican Council



    Luca Fumagalli

    In 2020 Hugh Somerville Knapam OSB, while looking for other documents in the archive of Stanbrook Abbey, accidentally discovered, among the papers of the Benedictine nun Felicitas Corrigan, a typescript containing some limericks written by English-speaking bishops during the Second Vatican Council.

    The limericks, whose authors are churchmen with different theological ideas, recount the conciliar revolution with irony, also underlining the contradictions of the most ardent reformers such as Rahner, Congar and Suenens.

    The precise motivation behind the compilation of these verses remains unknown. Nonetheless, it is a pity that they are not more widely know because, in addition to providing a commentary on the main themes and most famous personalities of the Council, they are a precious testimony to the humanity and wit of those who wrote them. Bernard Wall, Bishop of Brentwood, even translated them into Latin demonstrating an exceptional erudition and sense of humour.



    Among the prelates who have also been poets, the most skilled are John Patrick O’Loughlin, bishop of Darwin, Australia, Gordon Wheeler, who would end his career as bishop of Leeds, Cyril Cowderoy, archbishop of Southwark, George Patrick Dwyer, archbishop of Birmingham and Denis Hurley, archbishop of Durban, South Africa.

    The Canadian publishing house Arouca Press has finally published the typescript, edited by Father Knapman, with the title A Limerickal Commentary on the Second Vatican Council, containing both the English and Latin versions of the limericks. There is also a foreword by George Cardinal Pell.

    It is a rather small booklet, although it can be an excellent opportunity to understand the nature of the Second Vatican Council from a different and fascinating point of view.

    Buy the book: https://aroucapress.com/limericks

  5. #335
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    Appunti per una storia dell’Inghilterra cattolica. Prima parte: dalle origini fino ad Alfredo il Grande



    di Luca Fumagalli

    L’origine della presenza cristiana in Inghilterra risale al 63, quando a Glastonbury venne fondata la prima chiesa dell’intera cristianità. Tradizione dice che fu Giuseppe d’Arimatea a posare la prima pietra, e da quel luogo, nei secoli successivi, passarono diversi santi illustri come San Patrizio e Santa Brigida, patroni d’Irlanda, e San Davide, patrono del Galles.

    Per altre notizie intorno alle prime comunità cristiane bisogna attendere fino al 179, quando Lucio, sovrano dei britanni al tempo dell’occupazione romana, scrisse una lettera a papa Eleuterio con la richiesta di inviare dei missionari. Lui stesso venne battezzato e c’è da credere che durante il suo regno la maggior parte della popolazione fosse ormai fedele alla nuova religione.

    All’inizio del IV secolo si colloca invece il primo martire inglese, Sant’Albano, ucciso al tempo delle persecuzioni di Diocleziano.

    Una volta pacificato l’impero e garantita la tolleranza religiosa, a destabilizzare il cristianesimo britannico non intervenne una nuova persecuzione ma l’eresia del monaco Pelagio. Sostanzialmente quest’ultimo negava l’esistenza del peccato originale e insegnava che gli uomini erano in grado di salvarsi solamente in virtù della propria buona volontà. Di conseguenza veniva negata la dottrina della grazia. I fedeli inglesi ricorsero allora all’aiuto di due vescovi originari della Gallia, Germano d’Auxerre e Lupo di Troyes, in seguito canonizzati, i quali, oltre a confutare con valide argomentazioni le teorie pelagiane, operarono diversi miracoli. Tuttavia fu necessario attendere fino al 634 prima che un papa, Onorio, condannasse ufficialmente le idee eterodosse di Pelagio.

    Nel V secolo, a rendere ancora più instabile la situazione generale, intervenne l’improvviso ritiro delle truppe romane dalle isole britanniche, un provvedimento reso necessario per cercare in qualche modo di tamponare la penetrazione barbarica all’interno dei confini dell’impero. Poche notizie rimangono su questo particolare frangente della storia inglese in cui si collocano la leggendaria figura di re Artù e dei suoi cavalieri.

    Con la fine della Britannia romana e l’inizio della dominazione anglosassone il paganesimo tornò nuovamente a proliferare, almeno fino a quando, nel 596, papa San Gregorio Magno inviò in Inghilterra un piccolo gruppo di monaci capeggiati da Sant’Agostino. Il re e i sudditi furono battezzati poco dopo e Agostino divenne il primo Arcivescovo di Canterbury, il primate della Chiesa inglese. Nel 627 gli succedette Sant’Onorio, sotto la cui guida il paese divenne definitivamente una terra cristiana, destinata a dare i natali a numerosi santi.

    Tra VII e VIII secolo nacque anche la letteratura inglese. Se il primo poeta conosciuto, Caedmon, era un monaco, il Beowulf, tra i migliori racconti epici mai scritti, è un’opera profondamente cristiana. Sempre in questi anni, precisamente nel 731, il cronachista San Beda il Venerabile ultimò la stesura della sua opera più importante, ovvero la Historia ecclesiastica gentis Anglorum. Dichiarato dottore della Chiesa da Leone XIII nel 1899, San Beda è comunemente ritenuto il padre della storia inglese. 

    Un altro santo britannico del tempo che ebbe una certa importanza in ambito culturale fu Alcuino di York. Su insistenza di Carlo Magno, di cui fu mentore e consigliere, divenne uno dei principali artefici del Rinascimento carolingio, dandosi parecchio da fare per diffondere la conoscenza cristiana tra i franchi. 

    Nel 878 ebbe luogo la Battaglia di Ethandun, cantata da G. K. Chesterton ne La ballata del cavallo bianco (1911), uno degli eventi più importanti della storia del cattolicesimo inglese. Lo scontro, che vide contrapposti il sovrano anglosassone Alfredo il Grande e gli invasori vichinghi, poi sconfitti, secondo Hilaire Belloc fu fondamentale non solamente per la sopravvivenza della fede nelle isole britanniche ma addirittura per la sopravvivenza dell’intera cristianità. Al di là di questo, Alfredo il Grande ebbe meriti anche in campo culturale e politico: unificò l’Inghilterra come nazione, ridando nuovo lustro al latino e facendo dell’inglese la lingua ufficiale; riformò il sistema legale e creò una scuola di corte…

    Gli appunti sulla storia dell’Inghilterra cattolica continuano nella prossima puntata

  6. #336
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    “La tunica senza cuciture”: il dramma e la redenzione in un romanzo dimenticato di Maurice Baring



    di Luca Fumagalli

    Se l’inglese Maurice Baring in vita era «uno dei più celebrati romanzieri cattolici», lodato, tra gli altri, dal francese Mauriac, oggi di lui si sono quasi completamente perse le tracce. In Italia i suoi titoli non sono più stampati da decenni, mentre nel Regno Unito preziosi interventi di critici del calibro di Edmund Wilson, Paul Horgan e Joseph Epstein hanno illuso chi sperava in un revival. Tuttavia negli ultimi vent’anni non sono mancate sporadiche iniziative finalizzate a valorizzare l’opera di Baring, compresa la ripubblicazione dei suoi migliori romanzi da parte della casa editrice House of Stratus.

    Lo scrittore, nato nel 1874, era l’erede dei lord Asburton e Revelstocke, settimo di otto figli. La sua famiglia, discendente di un pastore protestante tedesco, aveva dato all’Inghilterra, sin dal XVIII secolo, grandi banchieri, amministratori e finanzieri. Ottenuta la laurea ad Oxford, Baring aveva scelto la carriera diplomatica, abbandonata in seguito per il giornalismo e la scrittura. Nel 1909 si era convertito al cattolicesimo – «l’unica azione nella mia vita di cui sono abbastanza certo di non essermi mai pentito» –, associando alla vecchia amicizia con Hilaire Belloc quella con G. K. Chesterton (i tre sono raffigurati insieme nel dipinto Conversation Piece di James Gunn). I numerosi viaggi per il mondo gli lasciarono, tra le altre cose, una profonda passione per gli scrittori russi, in particolare per Cechov, la cui influenza, accanto a quella di Proust e Gide, è ravvisabile nei suoi romanzi, tutti pubblicati dopo la Grande Guerra e caratterizzati da «uno stile totalmente naturale». A interromperne una carriera singolarmente feconda, costellata pure di saggi, poesie e testi teatrali, intervenne negli anni Trenta il morbo di Parkinson che accompagnò Baring fino alla morte, nel 1945.

    Nelle opere dell’inglese, scrive Epstein, «si scorge l’influenza dell’approccio religioso alla vita sulla letteratura, e i scoprono sia la sua forza che la sua debolezza». Racconti di formazione e amori infelici donano al lettore un senso diffuso di lacrimae rerum, come se l’esistenza, con gli imprevisti del quotidiano, fosse al fondo intollerabile, abitata da imperfezioni, delusioni e sconfitte che paiono non promettere mai nulla di buono. A segnare il clima è la perenne incompiutezza, una promessa di felicità che, pur facendo occasionalmente capolino tra le pagine, è destinata ad allontanarsi ogni volta che si ha l’illusione di averla a portata di mano. Ciò dona alla prosa di Baring una particolare allure drammatica, una nota di strisciante decadenza, con protagonisti che tentano inutilmente di affrontare un male che è più grande di loro. La narrazione procede a guizzi, a colpi di reni, e se talvolta si cristallizza in una freddezza che mal si accoppia con le forti emozioni che attraversano i cuori dei personaggi, un sentore di sospeso è l’incentivo più forte per il lettore che si ritrova presto a sfogliare una pagina dopo l’altra alla caccia di una qualche risoluzione.

    Tutto dà l’impressione di volgere al peggio, eppure la speranza resta: senza cadere nell’errore di trasformare i propri romanzi «pieni di teologia» in opere stucchevolmente apologetiche, Baring, armato di rara delicatezza, mostra che le porte della redenzione sono aperte per chiunque lo voglia. La fede è ciò che rimette insieme i pezzi dispersi di un puzzle, ridando ordine al caos e senso alla follia, e pure il miracolo, soprattutto nelle sue ripercussioni psicologiche, ricopre un ruolo nel felice esito della vicenda.

    Queste caratteristiche si ritrovano in La tunica senza cuciture (The Coat Without Seam, 1929), a detta di Ralph McInerny e di altri studiosi uno dei romanzi più riusciti di Baring. Del libro, dedicato all’Abbé Mugnier, amico e confessore di Huysmans, esiste pure una vecchia traduzione italiana targata Istituto di Propaganda Libraria.

    La vicenda, che abbraccia un arco temporale di diversi anni, ha per protagonista Christopher Trevenen. Del ragazzo, tormentato da un non facile rapporto con i propri genitori, reso ancora più complicato dall’improvvisa morte della sorella maggiore, si segue la carriera scolastica fino all’età adulta, quando Christopher tenta dapprima la via della carriera diplomatica per poi rassegnarsi a fare il corrispondente estero per la stampa inglese (impossibile non scorgere in questi passaggi echi della biografia di Baring). Condannato dalla cattiva sorte a perdere ogni occasione che gli viene offerta, la sua vita, come nota Emma Letley, «consiste in una serie di amicizie infrante, amori infelici e scelte di carriera sfortunate. Più dolorosamente, è una vita di possibilità evaporate».

    La storia del giovane è intervallata con quella della tunica senza cuciture, «un pezzo di stoffa logora rosso scuro», il vestito che i soldati romani tirarono a sorte dopo la crocifissione di Gesù. Christopher si imbatte svariate volte nelle pie leggende legate alla reliquia – ad anticipare sempre eventi drammatici –, ma solo nell’epilogo arriva a comprendere che essa, a prescindere dalla veridicità o meno delle sue proprietà miracolose, ha un’importantissima valenza simbolica: l’esistenza è infatti una stoffa lacerata dal peccato, dalle infinite contraddizioni dell’umano, e solo Dio è in grado di riportarla alla sua originale unità.

    All’epoca della pubblicazione, Chesterton, subodorando che il romanzo avrebbe senz’altro scatenato le ire dei recensori protestanti e laicisti, scrisse a Baring una lettera piena d’affetto: «È straordinario come il mondo esterno riesca a notare tutto tranne il punto. E curiosamente è così con buona parte del lavoro cattolico di grande qualità che oggi è fatto nella letteratura, specialmente in Francia. […] Io sono solo un volgare giornalista polemico e non ho mai preteso di essere un romanziere; in ogni caso la mia scrittura non riesce ad essere così fine e delicata come la tua. […] Ma ci sono molte persone che apprezzeranno qualcosa di buono come La tunica senza cuciture».

  7. #337
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    J. R. R. Tolkien e il Concilio Vaticano II



    di Luca Fumagalli

    La Chiesa, specialmente negli ultimi anni di vita, causò a Tolkien più di una preoccupazione.

    Ferrandez Bru, nel saggio J. R. R. Tolkien e Francis Morgan. Una saga familiare, racconta come per lo scrittore inglese la Fede fosse qualcosa di fondamentale: si recava a Messa ogni giorno – Humphrey Carpenter, che tra l’altro definisce «appassionata e totale» l’adesione del professore al cattolicesimo, dedica nella sua biografia un paio di pagine alla descrizione di questa buona abitudine – e molto ebbe a soffrire a causa dell’avversione dell’amico C. S. Lewis per il “papismo” e dell’atteggiamento tiepido della moglie Edith. Una lettera di Tolkien del 1941 indirizzata al figlio Michael si chiude proprio con un elogio del Santissimo Sacramento che coinvolge pure la morte, descritta con i medesimi echi francescani ravvisabili nelle sue opere: «Qui troverai fascino, gloria, onore, fedeltà e l’autentica via per tutti i tuoi amori sulla terra, e ancora di più: la Morte; che, per il divino paradosso, dà termine alla vita e richiede la rinuncia a tutto, eppure solo gustandola (o pregustandola) ciò che cerchi nelle relazioni terrene (amore, fedeltà, gioia) può mantenersi, o assumere quell’apparenza di realtà, di eterna durata, che il cuore di ogni uomo desidera».

    Tolkien era inoltre così profondamente devoto alla Madonna che vari critici hanno notato dei riflessi mariani nelle figure dell’Elfa Galadriel e di Elbereth, Regina delle Stelle; più in generale, il culto dei santi era per lui qualcosa di imprescindibile, in parte legato alla sua avversione per l’esoterismo. Così scriveva in una lettera del 1954: «I Santi sono quelli che malgrado tutte le loro imperfezioni non hanno mai totalmente piegato il cuore e la volontà al mondo dello spirito del male (in termini moderni ma non universali: alla Macchina, al materialismo “scientifico”, al socialismo in ognuna delle sue varietà che oggi sono in guerra)».

    La sua Fede fu messa seriamente alla prova solamente negli anni del Concilio Vaticano II, quando, tra il 1962 e il 1965, la Chiesa diede il via a un processo di aggiornamento teologico-dottrinale che non mancò di suscitare polemiche. Del resto, oltre al professore di Oxford, furono molti gli esponenti di spicco del revival cattolico in Inghilterra che assunsero posizioni scettiche – quando non apertamente critiche – nei confronti delle riforme promosse dal Concilio. Pochi, come Graham Greene, furono gli entusiasti: la maggior parte degli intellettuali, al contrario, avanzò più di una riserva. Il capofila dei dissidenti fu senza ombra di dubbio Evelyn Waugh, che dal giorno della chiusura del Concilio non smise mai di chiedere a Dio di poter morire ancora cattolico (pertanto, nella sua scomparsa, avvenuta improvvisamente durante la Pasqua del 1966, si è tentati di scorgere un segno provvidenziale di qualche sorta).

    Al pari di Waugh, anche Tolkien visse con sentimenti contrastanti quanto stava avvenendo al Concilio. George Sayer, che con il professore discusse lungamente durante gli anni Sessanta, in un’intervista rilasciata a Joseph Pearce parlò di una matrice “tradizionale” del cattolicesimo tolkieniano: «Era un cattolico molto rigoroso. Era molto ortodosso e vecchio stile, e si oppose alla maggior parte dei nuovi sviluppi nella Chiesa al tempo del Concilio Vaticano II». Parole analoghe sono impiegate da John Tolkien, il figlio dello scrittore, diventato sacerdote negli anni Quaranta: a sua detta il padre era «contro i cambiamenti, […] soprattutto la perdita del latino». Anche Carpenter lo nota: «Un’altra sorgente di infelicità fu, in età avanzata, l’abolizione della Messa in latino, poiché l’introduzione dell’inglese nella liturgia al posto di quel latino che aveva conosciuto e amato sin da ragazzo lo aveva profondamente ferito».

    Del resto il 1 settembre 1963 lo stesso Tolkien aveva scritto una lettera in cui, dopo aver espresso tutto il suo amore per il Papato romano e per l’Eucarestia, elogiava San Pio X, il Pontefice che, secondo lui, aveva fatto «la più grande riforma dei nostri tempi». In un’altra epistola indirizzata al figlio Michael, manifestò più esplicitamente i suoi dubbi: «So abbastanza bene che, sia per me che per te, la Chiesa che una volta percepivamo come un rifugio, ora sembra spesso una trappola. […] Penso che non ci sia nulla da fare se non pregare, per la Chiesa, per il Vicario di Cristo, e per noi stessi; e allo stesso tempo esercitare la virtù della lealtà, che diventa veramente una virtù solo quando vi è il serio rischio di tradirla».

    Le accuse di Tolkien erano dirette soprattutto ai novatori, in particolare a coloro che pretendevano di tornare a una presunta purezza originale: «Cosa fosse la “Chiesa primitiva”, nonostante tutte le ricerche, rimarrà qualcosa di ampiamente sconosciuto; […] ciò che è primitivo non è garanzia di valore». Nel prosieguo della lettera, il professore di Oxford spiega poi come sia assurda la pretesa di estirpare un albero per ricercarne il seme: semplicemente quest’ultimo non c’è più; il tronco, le fronde e le foglie sono la sua naturale evoluzione, non certo un tradimento.

    Altre questioni scottanti, come l’ecumenismo, incontrarono solo in parte il suo favore: se da un lato Tolkien considerava ovvio che i soldati del cattolicesimo non potessero vincere la guerra rimanendo sempre asserragliati nella propria fortezza, dall’altro ricordava a Michael: «Che cosa sarebbe ora la cristianità se la Chiesa di Roma fosse stata distrutta?».

    Tuttavia, a differenza di Waugh, non intraprese la strada dell’opposizione militante. Optò – come la maggior parte dei perplessi – per l’ubbidienza, accettando con rassegnazione cambiamenti che non capiva fino in fondo. Davanti a un tale smarrimento scelse l’unica soluzione che gli pareva possibile, quella cioè di affidarsi al giudizio del Papa. D’altronde, lo aveva imparato sin da piccolo, non era pur vero che il Pontefice non poteva ingannarsi e ingannare in materia di Fede?

    Fonte: L. FUMAGALLI, La Società della Contea. Appunti sulla filosofia politica di J. R. R. Tolkien, NovaEuropa Edizioni, 2019.

  8. #338
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    Tolkien e la Grande Guerra



    di Luca Fumagalli

    Tolkien e la grande guerra di John Garth è forse il saggio che meglio approfondisce l’esperienza del giovane scrittore inglese sul Fronte Occidentale. Per quanto Garth esageri l’influenza che il Primo conflitto mondiale ebbe sull’immaginario tolkieniano, è altrettanto vero, però, che la guerra è uno dei temi più ricorrenti nel suo legendarium. Lo notò anche C. S. Lewis, secondo cui l’epica dell’amico «possiede le caratteristiche autentiche della guerra che la mia generazione ha conosciuto». Shippey, in J. R. R. Tolkien: la via per la Terra di Mezzo, rincara la dose affermando che Il Signore degli Anelli «è un libro di guerra e sul dopoguerra, inquadrato nella crisi della civiltà occidentale (1914-1945 e oltre) rispetto alla quale costituisce una forma di risposta».

    Nelle trincee della Francia affondarono le speranze di un’intera generazione di inglesi: mentre Tolkien perdeva i suoi amici più stretti, quelle anime affini che con lui avevano coltivato, sin dai tempi del liceo, il sogno di redimere il mondo dalle brutture e dalle volgarità, migliaia di altri suoi compatrioti videro deflagrarsi in quella mattanza disumana i nobili ideali che avevano portato molti di loro ad arruolarsi come volontari: «Le attitudini nei confronti della guerra erano cambiate», scrive Pearce in Catholic Literary Giants, «perché la guerra stessa era cambiata. La guerra non era più una prova di forza tra uomini ma tra l’uomo e la macchina, o addirittura, e sempre di più, tra la macchina e la macchina (e l’uomo in mezzo). Non vi era nulla di glorioso nell’uscire dalla trincea verso una morte certa tra il fuoco delle mitragliatrici, nulla di glorioso nel gas tossico o nel filo spinato; nulla di glorioso nella “febbre da trincea” e nella dissenteria. La guerra non era più dei combattenti ma delle macchine di morte e dei campi di morte. La guerra era ora la vittoria delle macchine sull’uomo».

    Pearce, parlando della Macchina, rievoca nel contesto bellico uno dei temi più cari a Tolkien, spaventato dal crescente asservimento dell’uomo moderno nei confronti della tecnologica annichilente (al Fosso di Helm Aragorn si accorge che il malvagio Saruman ha escogitato «qualcosa di diabolico. Hanno un fuoco che squarcia esplodendo»). All’alba del XX secolo l’epica dell’età cavalleresca era stata ridotta a un gioco al massacro, dove la morte è costantemente dietro l’angolo e, cosa ancora più terribile, mero frutto del caso, dipendendo poco o nulla dall’abilità del singolo soldato. Per Mingardi e Stagnaro, una guerra siffatta «determina una terribile mutazione antropologica. Cancella la pietà e chiama i sentimenti più oscuri».

    Perciò l’esperienza sul Fronte Occidentale segnò in profondità la giovinezza di Tolkien. «Una guerra è abbastanza per un uomo. Spero che a te verrà risparmiata la seconda», scriveva al figlio Michael il 9 giugno del 1941. In altre lettere fu più pungente, parlando dello «spreco di tempo» e del «militarismo» ottuso dell’esercito: «Non è la durezza che preoccupa. Anch’io ci sono passato, proprio quando ero pieno di cose da scrivere e cose da imparare, e non ho mai recuperato il tempo perso». Altrove: «Tra i superiori non esistono gentiluomini, e persino gli esseri umani sono rari».

    Ancora, il 30 aprile del 1944, in un’epistola al figlio Christopher, pilota della Raf: «Lo stupido spreco della guerra, non solo materiale ma morale e spirituale, è così duro per chi lo deve sopportare. Ed è sempre stato così (nonostante i poeti) e lo sarà sempre (nonostante chi fa propaganda per la guerra): naturalmente non che non sia e sarà necessario doverla affrontare in un mondo corrotto. Ma è così corta la memoria degli uomini e sono così evanescenti le generazioni che fra poco più di trent’anni ci sarà pochissima gente o addirittura nessuno che abbia esperienza diretta della guerra, l’unica che colpisce veramente il cuore. Solo scottandosi si impara a conoscere il fuoco. A volte mi spavento al pensiero della quantità di miseria umana che esiste in tutto il mondo in questo momento: i milioni di persone divise, angosciate, che sprecano giornate inutilmente – senza contare la tortura, il dolore, la morte, le perdite, l’ingiustizia. Se l’angoscia si potesse vedere, quasi tutto questo mondo ottenebrato sarebbe avvolto in una nuvola densa di vapore scuro, nascosto agli occhi stupiti del cielo. E i risultati di tutto questo saranno per lo più malefici, considerandoli da un punto di vista storico».

    La guerra, in un mondo macchiato dal peccato, è ineluttabile. Il professore di Oxford in questo è realista, non si fa illusioni, ma ciò non significa che fosse un guerrafondaio, come invece qualcuno ha provato a insinuare (ne parla lungamente James E. Person nell’articolo The Transcendent in Tolkien). Altrettanto certamente non era un pacifista, ma le sue lettere e i suoi racconti lasciano trapelare un giudizio chiaro e univoco sull’orrore della guerra. Basti pensare, a titolo d’esempio, alla terribile scena degli Orchi che assediano Minas Tirith, quando questi scagliano le teste dei prigionieri al di là delle mura cittadine: «Ma, pur sfigurate com’erano, accadeva spesso che un uomo rivedesse il volto di qualcuno che conosceva, che portava fieramente le armi, o coltivava i campi, o che un giorno di vacanza era venuto a cavallo dalle verdi valli sulle colline». Di più, la Seconda guerra mondiale aveva portato via a Tolkien pure quella natura che tanto amava: «Gli alberi e le campagne sono diventati aeroporti e obiettivi da bombardare».

    Se la guerra nei suoi scritti non viene mai idealizzata – tra l’altro ne Il Signore degli Anelli essa non esaurisce lo scontro, dato che la missione di Frodo e Sam è ancora più importante – parimenti egli fu capace di non ridurre il nemico a un’astrazione disumana da abbattere. Tornando sulla Somme, così scrive Rialti: «Tolkien sapeva che stava combattendo per la causa giusta, ma amava troppo la cultura tedesca per poter ricorrere a questa scappatoia. Carpenter racconta l’episodio quando, dopo la vittoria sui tedeschi, “Tolkien parlò con uno degli ufficiali che erano stati catturati, offrendogli da bere; l’ufficiale corresse la sua pronuncia tedesca”. Spesso la sua epica è stata accusata di presentare un conflitto a scacchiera con un dualismo semplicista. Ma chi solleva queste obiezioni tralascia passaggi come quelli in cui Sam si trova vicino a un soldato del Nemico ed “era contento di non poter vedere il viso del morto. Avrebbe voluto sapere da dove veniva e come si chiamava quell’Uomo, se era davvero di animo malvagio o se non erano state piuttosto menzogne e minacce a costringerlo a una lunga marcia lontano da casa; se non avesse invece preferito restarsene lì in pace”».

    La guerra in Tolkien non è solo un conflitto spirituale con se stessi, ma significa anche affrontare un avversario oggettivo ed esterno. Quando il Consiglio di Elrond si riunisce, lo fa proprio perché è certo che la guerra sia imminente e che sia necessario scegliere tra l’ignorare una tale certezza oppure rispondere alla minaccia con tutta la forza e la saggezza di cui sono capaci i popoli liberi.

    Il professore di Oxford, scrivono Witt e Richards, «sposò una visione profondamente radicata nella tradizione cristiana: la dottrina, appunto, tradizionale della guerra giusta. I Padri della Chiesa la elaborarono fondandola sulle Scritture e su argomenti di diritto naturale». Sebbene i dettagli teorici siano complicati – sicuramente Tolkien li conosceva – le condizioni perché si possa parlare in ambito cattolico di guerra giusta rientrano in una breve lista che comprende, tra l’altro, la giusta causa, la retta intenzione di chi usa la forza, l’essere l’ultima risorsa disponibile e la proporzionalità dei mezzi. A maggior ragione tutto ciò vale, come nel caso de Il Signore degli Anelli, se si tratta di una guerra a scopi difensivi.

    È solo a partire da questo convincimento che il professore di Oxford riuscì a restituire una dimensione epica e “umana” ai conflitti di cui racconta nelle sue opere. Nessuno vorrebbe la guerra, soprattutto i piccoli Hobbit, ma la realtà è “vocazione” e alle sue chiamate – ancorché indesiderabili – bisogna pur sempre rispondere.

    La condotta di guerra dei popoli liberi, poi, è caratterizzata da una “fantasia” – o, se si preferisce, da una “follia” – che è del tutto estranea alla ferrea razionalità del Male (il diavolo è “loico”, come ricorda a Dante, nella Divina Commedia, l’anima dello sventurato Guido da Montefeltro). Mai Sauron si sarebbe aspettato che qualcuno potesse rinunciare volontariamente al potere dell’Anello e che, anzi, cercasse addirittura di distruggerlo. Il suo Occhio, intento a scrutare gli esiti del conflitto in atto, non si cura minimamente di Frodo e Sam che possono così giungere al Monte Fato per completare con successo la loro missione. Oltre al caso di Gollum, non mancano neppure episodi che testimoniano la compassione e la clemenza verso gli sconfitti: ad esempio, quando i cavalieri di Rohan catturano un gruppo di Uomini delle colline, alleati di Saruman, s’impone a questi ultimi di consegnare le armi e di lavorare per la ricostruzione, concedendo loro l’opportunità di ricominciare. Si assiste a simili atti anche dopo la battaglia dei Campi del Pelennor e dopo quella del Nero Cancello.

    Ciò che manca nei popoli liberi dell’universo tolkieniano è quel devastante ideale superiore, già condannato da Simone Weil, per cui si combattono le guerre moderne e in nome del quale vengono giustificate efferatezze di ogni sorta. Lo dimostra pure la posizione che il professore assunse al tempo del Secondo conflitto mondiale: quantunque disprezzasse i totalitarismi, non era così sciocco da credere che l’azione militare alleata sarebbe stata il rimedio a ogni male. Per questo la lotta nella Terra di Mezzo è un conflitto anti-ideologico, proprio perché è condotto contro l’Anello, cioè contro il potere in quanto tale: «Tutto va avanti con nomi diversi», scrive Tolkien al figlio Christopher, «e tu e io apparteniamo alla parte dei sempre sconfitti ma mai sottomessi. Avrei odiato l’Impero romano all’epoca (e difatti lo odio), e sarei rimasto un cittadino romano pieno di patriottismo, preferendo una Gallia libera e vedendo il lato buono dei cartaginesi. Delenda est Carthago. È una frase che si sente spesso oggigiorno. In realtà a scuola mi è stato insegnato che si trattava di una bella frase: e io “reagivo” (come si dice, in questo caso applicandomi meno del solito) subito. C’è ancora qualche speranza che, almeno nella nostra amata terra di Inghilterra, la propaganda sconfigga se stessa e produca persino l’effetto opposto. Dicono che è così persino in Russia; e scommetto che è così anche in Germania».

    In tale contesto germoglia la vera dimensione eroica che per Tolkien significa prima di tutto coraggio, abnegazione e sacrificio: «È l’eroismo della dedizione e dell’amore, e non quello dell’orgoglio e dell’ostinazione, a essere il più alto e il più commovente». Ecco perché l’umile a valoroso Sam Gamgee, stando a quanto scrive il professore di Oxford in una sua lettera, «è una riflessione sui soldati semplici inglesi e sugli attendenti che ho conosciuto durante la guerra del ’14, un modo per dimostrare come fossero molto superiori a me stesso». Shippey, che in J. R. R. Tolkien autore del secolo nota correttamente come la mitologia nordica cara a Tolkien preveda, con il Ragnarök, la vittoria finale del male, scrive: «Alle persone questa mitologia nordica chiede di più del cristianesimo, poiché non offre Paradiso, né salvezza, né compenso per la virtù se si eccettua l’austera soddisfazione di aver fatto il bene».

    Ne Lo Hobbit e ne Il Signore degli Anelli tale forma di coraggio norreno – ovviamente temperata dal cattolicesimo dell’autore – è una delle virtù maggiormente rappresentate: «Non vi fu mai molta speranza», dice Gandalf ponendo la mano sul capo di Pipino, «la speranza di uno stolto, come mi è stato detto». In Bilbo, che tutto solo decide di avvicinarsi a Smaug, e in Frodo che continua imperterrito la marcia verso le terre del Nemico, non vi è nessuna irruenza e nemmeno avventatezza. La guerra giusta, è bene non dimenticarlo, presuppone ragionevoli possibilità di successo (anche se scarse). Quando Faramir, su ordine del padre Denethor, sta per intraprendere una missione suicida per proteggere le difese orientali, Gandalf lo implora dicendo: «Non gettare via la tua vita con troppa temerarietà, o per troppa amarezza […]. C’è bisogno di te qui, e per ben altre cose che la guerra».

    La lezione di Tolkien sulla guerra ricorda quindi, con qualche piccolo aggiustamento, un celebre aforisma di Oscar Wilde: sebbene l’uomo sguazzi nel fango (delle trincee), per fortuna c’è ancora qualcuno capace di guardare alle stelle.

    Fonte: L. FUMAGALLI, La Società della Contea. Appunti sulla filosofia politica di J. R. R. Tolkien, NovaEuropa Edizioni, 2019.

  9. #339
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    Appunti per una storia dell’Inghilterra cattolica. Seconda parte: dal X secolo fino a Enrico VII



    di Luca Fumagalli

    Il X secolo in Inghilterra fu benedetto dalla presenza di San Dunstano (Dunstan), arcivescovo di Canterbury e primate del regno. A lui si deve un’efficace riforma della vita monastica e diocesana che, stando a Hilaire Belloc, ispirò un secolo dopo San Gregorio VII.

    Sul versante politico, dopo il devoto re Canuto, al trono salì Sant’Edoardo il Confessore, che regnò fino al 1066, l’anno della conquista normanna. Il suo progetto più ambizioso fu indubbiamente la fondazione della Westminster Abbey, dove ancora oggi si incoronano i re e le regine d’Inghilterra. Dopo la morte divenne per un certo periodo patrono della nazione, almeno fino a quando i crociati, di ritorno dalla Terra Santa, presero a diffondere il culto di San Giorgio, il santo guerriero, che finì per soppiantarlo.

    Questi sono anche gli anni in cui nel Norfolk una vedova venne benedetta dalla visione della Madonna. Walsingham, il luogo del miracolo, divenne da allora una delle più importanti mete di pellegrinaggio non solo del paese ma di tutta la cristianità.

    Con l’avvento di Guglielmo il Conquistatore, la Chiesa inglese dovette resistere al tentativo del sovrano di sottometterla alla propria volontà. Una simile politica fu portata avanti dai suoi successori, ma tutto questo non ebbe la minima influenza sulla fioritura spirituale dell’isola. Nel XII secolo venne addirittura eletto quello che ad oggi è l’unico Papa inglese della storia, ovvero Adriano IV, al secolo Nicholas Breakspear.

    Nel 1170 il vile assassinio di Thomas Becket, arcivescovo di Canterbury, da parte di alcuni tirapiedi di Enrico II ebbe come effetto imprevisto quello di stroncare definitivamente ogni movimento di opposizione all’autorità della Chiesa. Il sovrano si trovò di conseguenza in una situazione difficile, costretto a fare i conti con una posizione precaria che lasciò in eredità, per così dire, ai suoi successori.

    Non a caso, poco tempo dopo, Giovanni Senzaterra fu obbligato a firmare la Magna Carta, limitando così il potere della monarchia e gettando le basi del sistema legale inglese. L’arcivescovo Langton, oltre ad aver collaborato alla stesura del documento, fu il primo testimone a firmarlo. Il suo ruolo fu così importante che il filosofo politico Ernest Barker l’ha definito «il padre della libertà inglese».

    Il XIII secolo – in cui, tra l’altro, San Simone (Simon) Stock ricevette dalla Madonna ad Aylsford, nel Kent, il famoso scapolare – è quello che, più di altri, ha contribuito alla creazione del mito della “Merry England”, tanto caro a diversi intellettuali cattolici del Novecento tra cui Chesterton, Belloc e Tolkien. Si tratta di un’epoca in cui la Chiesa rivestì un ruolo determinante nella vita quotidiana del popolo, educando i bambini, aiutando i poveri e prendendosi cura dei malati.

    In tal modo venne aperta la via al secolo successivo, quello di Chaucer e dei mystery plays, in cui la lingua inglese ritornò a prendere piede dopo che per tre secoli, a causa dei normanni, era stata esclusa dagli affari di corte. Fu un’epoca di santi – come, ad esempio, San Giovanni (John) di Bridlington e la mistica Giuliana (Julian) di Norwich – ma vi furono pure certi “cortocircuiti”, a dimostrazione di una malcelata fragilità del sistema ecclesiastico. Emblematico, in tal senso, è il caso di un precursore della Rivoluzione protestante come John Wycliffe, scacciato dall’università di Oxford per i suoi reiterati attacchi al papato, al sacerdozio e alla vita religiosa. Se i suoi seguaci, conosciuti col nome di lollardi, ebbero scarso seguito, fu dovuto solamente alla cultura cattolica della gente.

    La grande devozione degli inglesi a Maria, la madre di Dio, era testimoniata al tempo dalla presenza di svariati santuari in tutto il paese, quasi tutti successivamente abbattuti della furia puritana. Secondo la tradizione fu proprio allora che Riccardo II volle dedicare l’Inghilterra alla Madonna, definendola «la dote di Nostra Signora» (il titolo era probabilmente già in uso da tempo, connesso in qualche modo col santuario di Walsingham).

    Dopo la terribile disfatta nella Guerra dei cent’anni e il conflitto civile che coinvolse il paese per un trentennio, nel 1485 divenne re Enrico VII, il primo della dinastia Tudor. Durante il suo regno le cose sembravano procedere come sempre: con l’invenzione della stampa erano moltiplicati i libri devozionali, le confraternite religiose prosperavano e ogni villaggio aveva nella chiesa parrocchiale il naturale punto di riferimento. Per di più i circoli che si erano formati attorno a personalità del calibro di John Fisher, John Colet e Thomas More avevano dato nuovo impulso allo studio dei classici greci e latini, cercando di rinsaldare tra l’altro il prezioso connubio tra Fede e ragione.

    Tuttavia gli eventi erano destinati a prendere una piega tanto imprevedibile quanto terribile …

  10. #340
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    Appunti per una storia dell’Inghilterra cattolica. Terza parte: la rivoluzione di Enrico VIII



    di Luca Fumagalli

    La situazione in Inghilterra cominciò a farsi instabile quando intorno al 1520, a Cambridge, il teologo Thomas Cranmer – futuro arcivescovo di Canterbury – prese a diffondere i testi di Lutero nei circoli accademici, facendoli aggetto di discussione e dibattito con i colleghi. Il sovrano Enrico VIII, allarmato, scrisse allora un libello, intitolato Assertio Septem Sacramentorum, in cui, oltre a difendere la dottrina cattolica dei sacramenti, ribadiva il primato della sede di Roma. La sua confutazione delle tesi del monaco tedesco gli valse la gratitudine del pontefice, Leone X, che volle addirittura conferirgli il titolo di “Difensore della fede”.

    Se la decisione papale, col senno di poi, appare beffardamente ironica, al tempo era perfettamente giustificata: Enrico VIII era infatti un uomo colto e raffinato, con le qualità giuste per governare saggiamente il proprio paese in una proficua collaborazione con la Chiesa (cosa che lasciava presagire la nomina dell’umanista Thomas More a Lord Cancelliere). Col tempo, però, la volontà del re venne corrotta dallo spirito machiavellico dei suoi ministri, Thomas Cromwell su tutti, e dall’anticlericalismo del parlamento. Il mancato annullamento del matrimonio con Caterina d’Aragona gli fornì quindi il pretesto perfetto per rompere con il papa e per allungare le sue mani sui beni del clero.

    A partire dal 1534, quando venne approvato l’Atto di Supremazia che rendeva Enrico VIII il capo supremo della Chiesa d’Inghilterra, chiunque osasse opporsi alla sua volontà era considerato un traditore e, di conseguenza, destinato alla condanna a morte, la sorte che toccò al vescovo John Fisher e a More. Mentre dal suo esilio romano il cardinale Reginald Pole tuonava contro l’arroganza del sovrano inglese, nel 1536 il parlamento approvò la soppressione dei monasteri e il trasferimento alla corona di tutti gli averi degli ordini religiosi. Pare che in totale siano stati distrutti circa 800/900 edifici ecclesiastici, con migliaia di monaci e suore che da un giorno all’altro si ritrovarono in strada, senza più un tetto sulla testa. Se qualcuno di loro rinunciò per sempre alla vita religiosa, la maggior parte seguitò a rispettare i voti fatti a Dio, creando, quando possibile, nuove comunità più o meno clandestine.

    A conti fatti, quella di Enrico VIII si rivelò una decisione scellerata anche in termini di semplice realpolitik: la spoliazione della chiesa inglese coinvolse pure i nobili i quali, alla fine dei saccheggi, vennero a costituire una nuova plutocrazia in grado di limitare fortemente il raggio d’azione del re; inoltre i poveri, che già mal sopportavano le riforme attuate in senso alla chiesa inglese, non poterono più beneficiare della carità degli ordini religiosi. Il malcontento iniziò a diffondersi in tutti gli angli del regno – ulteriormente alimentato dalla tassazione elevata – fino a quando sfociò in una vera e propria ribellione, passata alla storia con il nome di Pellegrinaggio di Grazia, destinata a concludersi anzitempo in un bagno di sangue.

    La morte di Enrico VIII, nel gennaio del 1547, chiuse uno dei periodi più draconiani di tutta la storia inglese.

 

 
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