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Discussione: Anglica catholica

  1. #341
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    Salazar’s political philosophy according to de Corte, Gaxotte and Thibon



    Luca Fumagalli

    Antonio De Oliveira Salazar (1889-1970) was prime minister of Portugal from 1932 to 1968. After the institutional chaos created by the Portuguese Republic, he came to power thanks to the army which was looking for a politician capable of restoring order to the country (this is why his power was never absolute, depending on the favour of the military).

    After all, Salazar, a brilliant professor of Political Economy at the ancient University of Coimbra, had already distinguished himself as minister of the economy in the previous four years: thanks to his efforts, he had in fact managed to prevent the financial bankruptcy of Portugal.

    Counter-revolutionary in its essence, traditional in its principles, Portugal’s new regime – the Estado Novo – rejected both liberalism and socialism, relying rather on the social doctrine of the Catholic Church as expressed in the papal encyclicals Rerum Novarum and Quadragesimo Anno. It was a corporatist state, characterized by order and strong authority, and some scholars have categorized Salazar’s government as National-Catholicism.

    In 1956 a book about the Portuguese prime minister was published in Lisbon, which collected the favourable testimonies of some European intellectuals about him and his work. Two years ago a French edition was published from which in 2021 the Catholic publishing house Arouca Press extracted three texts, then translated into English and printed with the title Salazar and His Work, with a preface by Marcos Pinho de Escobar.



    The authors of the three texts are respectively the Belgian classicist and historian Marcel de Corte (1905-1994), the French journalist and historian Pierre Gaxotte (1895-1982) and the French self-taught philosopher Gustave Thibon (1903-2001).

    If de Corte in “Salazar’s Work and Personality” examines Salazar as both a man of his time and a man with a place in history and also political philosophy, Gaxotte in his “Reflections from Margins of the National Portuguese Revolution” shows how healthy politics – of which Salazar is a prime example – is subordinated to the interests of the community. Finally, Thibon reflects on the prime minister’s psychology, calling him a wise man, in the sense that he has remained uncorrupted by the exercise of power (the title of his essay is naturally “Salazar the Wise Man”).

    Even if the texts are dated and their approach is often uncritical, they better explain the complex figure of Salazar and, at the same time, show that the selfless service of religion and country is fundamental for politicians even today, with the current cultural crisis of the West.

    M. DE CORTE, P. GAXOTTE, G. THIBON, Salazar and His Work. Essays on Political Philosophy, Arouca Press, 2021, 84 pages, $8. 95 USD

    Buy the book: http://aroucapress.com/salazar-his-work

  2. #342
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    [La Scozia e la Fede: i migliori racconti di George Mackay Brown] “The Fires of Christmas”



    di Luca Fumagalli

    «Per la Scozia io canto,

    la nazione rovinata da Knox,

    che il poeta e il santo

    devono ricostruire con la loro passione»

    (George Mackay Brown, Prologue)

    Continua la rubrica dedicata alla presentazione e al commento dei migliori racconti di George Mackay Brown, tra gli scrittori più significativi del cattolicesimo scozzese del XX secolo. Originario delle isole Orcadi, Brown fu poeta, romanziere, saggista e drammaturgo, capace di coniugare nei suoi lavori l’amore per le piccole patrie con l’universalità del messaggio cristiano.

    Per una nota introduttiva sulla figura di George Mackay Brown e sulla sua opera si segnalano i seguenti articoli:

    Il bardo delle Orcadi: le opere e i giorni di George Mackay Brown

    «Una bellezza e una verità senza prezzo»: la conversione di George Mackay Brown

    Un canto per le Orcadi: sfogliando l’autobiografia di George Mackay Brown

    Due articoli dedicati ad altrettanti racconti di Brown sono già apparsi fuori rubrica:

    “The Tarn and the Rosary” e “Winter Tale”

    Per le precedenti puntate della rubrica:

    “The Story of Jorkel Hayforks” / “Witch” / “Master Halcrow, Priest” / “Five Green Waves” / “A Treading of Grapes” / “The Wireless Set“ / “A Time to Keep“ / “The Bright Spade” / “Celia” / “The Eye of the Hurricane” / “Icarus” / “A Calendar of Love” / “Sealskin” / “The Cinquefoil” / “The Drowned Rose” / “The Seven Poets” / “Andrina” e “The Day of the Ox” / “The Masked Fisherman” e “The Christmas Dove” / “Dancey” e “Shell Story” / Le altre storie di “A Calendar of Love” / Le altre storie di “A Time to Keep”

    Se il Natale è per tutti noi un tempo di pace e di concordia, non è così per i rudi vichinghi di “The Fires of Christmas”, tra i racconti più brevi della raccolta Hawkfall (1974), la terza pubblicata da Brown.

    La storia è la parafrasi di due episodi narrati nella Orkneyinga saga, giustapposti dall’autore con l’intenzione di dimostrare come, dopo il martirio di San Magnus – il santo patrono delle isole Orcadi –, l’idea di fato tipica della cultura norrena sia stata soppiantata dalla grazia divina.

    Nella prima parte, ambientata nel 1046, si racconta la vicenda di Rognvald Brusison, da poco Earl incontrastato dell’arcipelago grazie all’eliminazione dello zio Thorfinn, arso vivo durante l’incendio della sua dimora (almeno così crede Rognvald, dato che Thorfinn, in verità, è riuscito a fuggire fortuitamente e, ben nascosto, sta meditando la sua vendetta).

    In occasione dei festeggiamenti natalizi, Rognvald si reca con un pugno di uomini fidati sull’isola di Papa Stronsay così da ottenere dai contadini locali il loro famoso malto per fabbricare la birra. Alla sera, intorno al focolare, all’Earl sfugge una sinistra espressione: «Saremo vecchi abbastanza quando questo fuoco si estinguerà». Si tratta di un lapsus; Rognvald voleva semplicemente dire che sarebbero stati sufficientemente al caldo una volta che le fiamme si fossero esaurite. Tuttavia gli uomini sono inquieti dal momento che un lapsus per loro «significa che le tue intenzioni sono state capovolte dall’opera del fato; la lingua fallace è diventata uno strumento profetico».

    Difatti pochi istanti dopo capiscono di essere caduti vittime di un agguato di Thorfinn che, esattamente come aveva fatto il nipote, con i suoi soldati ha dato fuoco all’edificio in cui si trovano. Muoiono tutti, compreso Rognvald, il cui corpo, trascinato dalle onde dopo un disperato tentativo di fuga, viene infine seppellito dai monaci dell’isola.

    Il secondo episodio, che ha luogo dopo la morte di San Magnus e che perciò appare agli occhi di Brown «non così oscuro e privo di speranza come il primo», ha per protagonista il pronipote di Thorfinn, ovvero Paul Hakonson, il cui potere sulle Orcadi è messo in discussione da molti nemici che provengono sia da nord che da sud. Per fortuna al suo fianco c’è il fedele capitano Sweyn Breastrope, forte e coraggioso.

    La vigilia di Natale del 1135 è festeggiata al palazzo dell’ Earl Paul, vicino al quale vi è una chiesa, probabilmente costruita dal padre dopo il suo pellegrinaggio a Roma e a Gerusalemme. Mentre i vichinghi mangiano e bevono in abbondanza, il sacerdote si appresta a celebrare la messa di mezzanotte. Durante la serata giunge alla mensa dell’Earl un giovane, tale Sweyn Asleifson, scampato per poco a un agguato ad opera dei nemici di Paul che hanno sterminato la sua famiglia. Il sovrano, commosso, decide di farlo sedere al suo fianco e di dargli il bacio della pace, un gesto che fa montare la gelosia dell’altro Sweyn, sempre più annebbiato dai fumi dell’alcol. Improvvisamente quest’ultimo impugna la sua spada, ma viene ucciso dal nuovo venuto prima che possa sferrare il colpo letale.

    Intanto in chiesa è iniziata la messa: «Il coro cantò il Sanctus. […] Dio venne, un povero bambino, in un mondo di violenza, fame e tradimento. L’Earl Paul si inginocchiò di fronte all’altare maggiore ed era contento».

  3. #343
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    Appunti per una storia dell’Inghilterra cattolica. Quarta parte: gli ultimi Tudor e i martiri della fede


    di Luca Fumagalli

    Durante il regno di Edoardo VI, dal 1547 al 1553, la lotta al cattolicesimo si fece ancora più intensa: la Messa venne abolita, gli altari distrutti, e agli inglesi venne imposta una nuova liturgia con una nuova professione di fede. L’arcivescovo Thomas Cranmer si occupò di un’ulteriore revisione del Libro di Preghiere – reso più calvinista rispetto alla versione precedente – e, per consolidare l’opera di protestantizzazione in atto, vennero accolti nel paese diversi riformatori provenienti dal continente a cui furono garantiti posti chiave all’interno delle università. Ancora una volta non mancarono le proteste, ma il sovrano, seguendo l’esempio del padre, non si fece troppi problemi a sopprimerle nel sangue.

    Il successivo regno di Maria e quello della sorellastra Elisabetta sono stati raccontati per molti decenni secondo una prospettiva deformata dall’ideologia: se Maria, ribattezzata “Bloody Mary” dalla propaganda protestante, è diventata col tempo il simbolo di un governo oscurantista e reazionario, capace solamente di distribuire morte, al contrario Elisabetta è ancora oggi celebrata come una donna forte e autorevole, capace da sola di traghettare una nazione verso un avvenire di prosperità economica e successi politici. Naturalmente le cose non stanno proprio così e, del resto, quando si ha a che fare con la storia, più che i bianchi e i neri, sono i toni grigi quelli che prevalgono.

    Comunque, quando la figlia di Caterina d’Aragona salì al trono, non è difficile immaginare la gioia con cui venne accolta da coloro che, dopo un ventennio di follia legalizzata, sognavano finalmente la restaurazione della religione cattolica. Tuttavia i progetti di Maria incontrarono sin da subito l’opposizione della nobiltà, resa ricca dalle spogliazioni dei monasteri e perciò interessata a mantenere lo status quo. Alla regina, affiancata dal cardinale Reginald Pole, non restò altra soluzione che imporre l’ordine con la forza, e forse sarebbe anche riuscita nei suoi intenti se la morte non fosse arrivata improvvisamente nel 1558, quando aveva poco più di quarant’anni.

    Elisabetta, le cui opinioni religiose non dovevano essere troppo diverse da quelle del padre, aveva scarsa simpatia per i riformatori più estremi, ma al contempo era consapevole che i protestanti controllavano il parlamento e che senza il loro supporto il governo del paese sarebbe stato impossibile. Allora, senza perdere tempo, con l’Atto di supremazia ristabilì la legislazione anticattolica, e con l’Atto di uniformità abolì la messa, ripudiando la dottrina della presenza reale. La partecipazione alla nuova celebrazione eucaristica venne resa obbligatoria per legge, e ci sono storici, al pari di Joseph Pearce, che rilevano in questa sciagurata decisione di Elisabetta «i semi del cinismo verso la religione, che sarebbe diventato una caratteristica del popolo inglese verso il XVIII secolo».

    Innanzi ai provvedimenti della sovrana i cattolici si comportarono in modi diversi: alcuni si conformarono alla legge, mentre altri, i cosiddetti “Church Papist”, sebbene prendessero parte ai nuovi riti, continuarono a ricevere la comunione di nascosto. Infine vi erano i “recusant”, uomini e donne disposti a pagare al governo una multa altissima pur di evitare ogni contatto con la liturgia protestante. Gli studiosi espatriati trovarono invece rifugio presso le città universitarie di Lovanio, in Belgio, e di Douai, in Francia, dove nel 1568 il cardinale William Allen fondò il Collegio inglese, un seminario finalizzato all’ordinazione di sacerdoti da rimandare in incognito in patria per portare il sollievo dei sacramenti ai cattolici rimasti (più tardi Allen creò un’istituzione simile pure a Roma).

    L’imprigionamento di Maria Stuart, regina di Scozia, accusata di complottare ai danni di Elisabetta, e la scomunica di quest’ultima da parte del papa, ebbero come conseguenza l’inasprimento della legislazione anticattolica. Seguirono numerose condanne a morte – celebri quelle dei gesuiti Edmund Campion e Robert Southwell – che continuarono anche dopo la vittoria contro l’Invincibile Armada di Filippo II.

    Il regno di Elisabetta finì nel 1603: non essendosi mai sposata, con la sua scomparsa la corona inglese passò agli Stuart di Giacomo I…

    Gli appunti sulla storia dell’Inghilterra cattolica continuano nella prossima puntata.

  4. #344
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    Tolkien tra destra e sinistra: le varie interpretazioni politiche della sua opera



    di Luca Fumagalli

    Nonostante l’immensa fama raggiunta da Tolkien in tutto il mondo, sono ancora rari i contributi che indagano la dimensione politica ed economica della sua narrativa. Lo sottolinea Joseph Pearce, il quale, avendo in mente certe sgangherate disamine di taglio marxista o ecologista, lamenta come quel poco che è stato scritto sul tema «sia erroneo nelle conclusioni e all’oscuro delle finalità che Tolkien si prefiggeva. Le eccezioni che ci sono – ahimè – non fanno che confermare la regola. Ci sarebbe bisogno di uno sforzo ben maggiore in questo campo, anche perché Tolkien in persona aveva affermato, almeno implicitamente, che il rilievo politico della sua opera era secondo, per importanza, solo a quello religioso».

    A Malcolm Joel Barnett va il merito di essere stato tra i primi ad affrontare la questione nel dettaglio e con competenza. In The Politics of Middle Earth, articolo apparso sulla rivista «Polity» nel 1969, Barnett, dopo aver collocato Il Signore degli Anelli accanto ai grandi romanzi politici del XX secolo, fa notare come nell’universo tolkieniano i regimi politici maggiormente influenzati dal potere degli anelli siano quelli tecnologicamente più avanzati e centralizzati (a partire da Mordor). L’analisi è nel complesso interessante, anche se non mancano scivoloni; la descrizione della Contea quale idillio primitivo e democratico è, ad esempio, poco convincente.

    In The Politics of Fantasy: C. S Lewis and J. R. R. Tolkien, saggio pionieristico del 1984 firmato da Lee D. Rossi, l’autore, pur annoverando Il Signore degli Anelli tra le migliori espressioni dello sgomento di un’intera generazione nei confronti della modernità, sostiene la tesi – tutt’altro che condivisibile – che Tolkien, al pari delle sue storie, sia nel complesso una figura apolitica. 

    Più interessante è The Lord of the Ring: The Mythology of Power (1992) che indaga soprattutto il giudizio del professore di Oxford sul potere e sulla sua natura. L’interessante analisi di Jane Chance coglie alcuni snodi decisivi del pensiero politico di Tolkien (in particolare le numerose analogie con quello di Michel Foucault). A difettare è piuttosto l’impostazione generale del testo, marcatamente liberal-democratica, che porta a volte a fraintendimenti e a interpretazioni al limite dell’assurdo.

    Del 2007 è invece Chesterton and Tolkien as Theologians di Alison Milbank. Nonostante il titolo lasci intendere tutt’altro, il libro affronta ampiamente e con lucidità il nesso tra i due autori e la politica. Oltre a soffermarsi sul dono, il perno attorno al quale ruota l’intera economia del lengendarium tolkieniano – così come quella delle saghe nordiche a cui esso si ispira – e unico antidoto al potere distruttivo dell’Anello, la Milbank propone un intrigante accostamento tra Tolkien e il distributismo, una filosofia economica, alternativa al capitalismo e al comunismo, che teorizzava la ripartizione dei mezzi di produzione nel modo più ampio possibile fra la popolazione. Gli iniziatori furono Hilaire Belloc e G. K. Chesterton, desiderosi di applicare i principi della dottrina sociale cattolica espressi nell’enciclica Rerum Novarum di Leone XIII.

    Ad eccezione di Middle Earth and the Return of the Common Good (2018), saggio di Joshua Hren che, come il mio La società della Contea (2019), equipara il pensiero filosofico-politico di Tolkien a quello di San Tommaso d’Aquino, attualmente la disamina più approfondita della dimensione politica dell’universo tolkieniano è quella offerta da Hobbit Party (2014) di Jonathan Witt e Jay W. Richards.

    Malgrado molti meriti, innanzitutto quello di raccogliere finalmente in un discorso articolato tutti i principali aspetti della filosofia politica tolkieniana, Hobbit Party soffre di varie pecche. Il testo, infatti, sin dalle prime battute tenta di annoverare Tolkien tra gli antesignani del pensiero neoconservatore (non sorprende perciò che gli autori citino come unico studio degno di nota, prima del loro, quello di John West, Celebrating Middle-Earth: The Lord of the Ring as a Defense of Western Civilization, che si muove su identici binari ideologici). Per Witt e Richards, poi, il fatto che lo scrittore inglese fosse avversario dei totalitarismi basta a fare di lui un democratico; questo nonostante numerosi indizi contrari, compresa la famosa dichiarazione contenuta in una lettera indirizzata al figlio Christopher, che, ovviamente, non si cita mai per esteso: «Le mie opinioni politiche tendono sempre più verso l’ “anarchia” (intesa filosoficamente come abolizione del controllo, non come bombaroli barbuti) o verso la monarchia “non costituzionale”» (Christopher Scarf colleziona altre citazioni simili nel suo The Ideal of Kingship in the Writings of Charles Williams, C. S. Lewis and J. R. R. Tolkien). Anche sul piano economico l’analisi non migliora. Gli autori trasformano Hobbit Party in un lungo peana a favore del libero mercato, cercando in tutti i modi, persino contro l’evidenza, di dimostrare che Tolkien era un fiero liberista, fautore dello stato minimo. Il loro approccio, figlio del pensiero neocon di Michael Novak, tuttavia non deve stupire: Witt è membro dell’Acton Institute, fucina del moderno liberalismo cattolico, e tra i ringraziamenti posti a inizio di Hobbit Party figura il nome di don Robert Sirico, autore di A difesa del mercato. Le ragioni morali della libertà economica, un volume dal titolo inequivocabile a cui Witt e Richards attingono a più riprese.

    In ultimo, in aggiunta a L’ anello che non tiene (2003) di Lucio Del Corso e Paolo Pecere, merita di essere segnalato un altro interessante contributo italiano al dibattito sul pensiero politico tolkieniano; si tratta di La verità su Tolkien. Perché non era fascista e neanche ambientalista, pubblicato nel 2004. Il volume, anch’esso di stampo liberal, scritto a quattro mani da Alberto Mingardi e Carlo Stagnaro, ha il pregio di fare un po’ di chiarezza in mezzo ai tanti pregiudizi che hanno caratterizzato il dibattito sulle opere del professore di Oxford in Italia e di dedicare un intero capitolo al legame tra la cultura feudale del Medioevo e la Terra di Mezzo.

    Fonte: L. FUMAGALLI, La società della Contea. Appunti sulla filosofia politica di J. R. R. Tolkien, NovaEuropa Edizioni, 2019.

  5. #345
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    [La Scozia e la Fede: i migliori racconti di George Mackay Brown] “Silver” e “The Book of Black Arts”



    di Luca Fumagalli

    «Per la Scozia io canto,

    la nazione rovinata da Knox,

    che il poeta e il santo

    devono ricostruire con la loro passione»

    (George Mackay Brown, Prologue)

    Continua la rubrica dedicata alla presentazione e al commento dei migliori racconti di George Mackay Brown, tra gli scrittori più significativi del cattolicesimo scozzese del XX secolo. Originario delle isole Orcadi, Brown fu poeta, romanziere, saggista e drammaturgo, capace di coniugare nei suoi lavori l’amore per le piccole patrie con l’universalità del messaggio cristiano.

    Per una nota introduttiva sulla figura di George Mackay Brown e sulla sua opera si segnalano i seguenti articoli:

    Il bardo delle Orcadi: le opere e i giorni di George Mackay Brown

    «Una bellezza e una verità senza prezzo»: la conversione di George Mackay Brown

    Un canto per le Orcadi: sfogliando l’autobiografia di George Mackay Brown

    Dopo il racconto d’apertura, il toccante “A Winter Tale”, la raccolta The Sun’s Net (1976) prosegue con “Silver” e “The Book of Black Arts”.

    La prima storia, piuttosto breve, è ambientata sull’isola di Norday, dove è appena approdato un pescatore – il narratore della vicenda – con l’intento di chiedere la mano di Anna Taing, una bella ragazza con cui ha ballato solo qualche sera prima. Tra un bacio e l’altro, a lei ha offerto pure la sua catenella d’argento come pegno d’amore. Il giovane reca con sé tre pesci da portare in dono ai genitori di Anna, esponenti di una famiglia rispettabile che abita da diversi decenni nella fattoria di Muckle Glebe. Perciò il ragazzo, sebbene in cuor suo fiducioso, non può nascondere un certo nervosismo dovuto alla differenza sociale esistente tra lui e l’amata: «Sapevo allora che non avrei potuto sposare nessun’altra al mondo se non Anna. Il solo pensiero di lei, tutta quella settimana, era stata sufficiente a far tramare il mio spirito. Ma come poteva una povertà come la mia cadere come una benedizione su quella casa orgogliosa?».

    A gettare un’ombra sinistra sulla sua venuta ci pensano un bambino, Oik, e la signora Thomasina Skerry, proprietaria della drogheria locale. Dietro il compenso di un pesce, entrambi giurano che Anna è solamente una bugiarda e che concede i suoi favori a diversi uomini. In effetti quando il pescatore bussa alla porta di Muckle Glebe, mentre l’ultimo pesce che gli è rimasto viene spolpato da alcuni gatti, è informato dalla sorella minore che quella stessa mattina Anna è partita alla volta di Edimburgo per fidanzarsi ufficialmente con uno studente di veterinaria.

    “Silver” deve il suo titolo – nonché la forma e la profondità – alle allusioni all’argento che vengono fatte in più punti della vicenda: al di là della catenella del pescatore, si parla infatti di un bicchiere di rum pagato con una moneta d’argento e del colore argenteo dei pesci. Peculiare anche l’aroma agrodolce della narrazione, caratterizzata da alcuni passaggi davvero riusciti (ad esempio, quando il locandiere lamenta che nel mondo vi sono molti conflitti, il protagonista, inebriato dalla passione, non può che rispondere a colpi di speranza: «Ci devono essere canzoni d’amore anche in luoghi come quelli»).

    Il successivo “The Book of Black Arts”, racconto più lungo e complesso, rivela invece la capacità di Brown di rielaborare le storie del folklore orcadiano, cucendo insieme con rara sapienza elementi straordinari e ordinari, il miracoloso con la normalità.

    Tutto ruota attorno al diabolico libro delle arti oscure, un volume nero corvino con scritte latine in bianco, che si dice abbia il potere di donare al suo possessore vantaggi immediati, conducendolo, però, alla lunga, vero un’inevitabile rovina. Dal momento che il tomo è indistruttibile, per liberarsene l’unico modo è di venderlo a un prezzo più basso di quello d’acquisto, fino a quando verrà comprato a un quarto di penny: a quel punto lo sfortunato andrà direttamente all’inferno.

    Nella prima delle quattro parti in cui è diviso “The Book of Black Arts”, alcuni marinai stranieri approdano ad Hamnavoe e scendono dalla loro nave per fare provviste e bere qualcosa. Uno di loro, non avendo denaro con sé, paga il locandiere con il famigerato volume, che viene utilizzato da quest’ultimo per giocare brutti scherzi agli avventori (alcolici mutati in acqua, strane visioni di sirene sedute ai tavoli…). Il suo locale, col tempo, diventa piuttosto famoso nelle isole e gli incassi lievitano vertiginosamente. Peccato che un giorno, in estate, un fulmine riduca in cenere «la taverna incantata» mandando il proprietario in rovina.

    Il libro viene quindi venduto a un contadino, Rob Skelding, un tipo indolente, che lo usa per avere «un meraviglioso anno di fertilità» e per distruggere il raccolto dell’odiato vicino, Tammo Groat (en passant Brown coglie l’opportunità per un’ennesima messa alla berlina della modernità, questa volta con un piglio decisamente provocatorio: «Nei giorni antichi, quando veniva osservata una simile perversione nella natura, la parola “stregoneria” sarebbe stata sussurrata con paura ad ogni focolare e ad ogni soglia. Ma alcuni di questa generazione di contadini hanno imparato a leggere e a scrivere. […] Hanno ricevuto una piccola misura di illuminazione. Hanno abbandonato per sempre la regione oscura dell’ignoranza dove si generano streghe e fate»).

    Mentre Tammo affronta la situazione avversa con filosofia e buon senso – «È una cosa che succede. Devo aver comprato del seme di scarsa qualità È una croce che ogni tanto il contadino deve portare» –, Rob si ammala gravemente e decide di liberarsi del libro maligno offrendolo a Swart il fabbro, il quale, da uomo gentile e cordiale, si trasforma in un bruto assetato di sangue, il cui unico scopo è quello di vendicarsi dello straniero che lo ha battuto in una competizione di lotta. Riesce nel suo intento, ma paga un prezzo altissimo in termini di salute fisica.

    Il libro delle arti oscure viene infine ceduto per un quarto di penny alla povera Teenie Twill, donna delle pulizie, infermiera e sarta, innamorata senza alcuna speranza di Sam il traghettatore, che, al contrario di lei, ha parecchio successo con l’altro sesso. Una mattina, dopo aver sfogliato il volume, una Teenie a dir poco sorpresa si ritrova ad aprire la porta di casa sua proprio a Sam, in cerca d’aiuto per medicare una ferita. Trascorrono insieme una nottata d’amore, dopodiché per Teenie seguono solo disgrazie: Sam non ha alcuna intenzione di rivederla, e gli altri membri della comunità, una volta saputa la storia, non vogliono avere più nulla a che fare con lei (ennesima dimostrazione di come in Brown il microcosmo delle Orcadi non sia mai idealizzato).

    Di male in peggio, Teenie partorisce un figlio morto e solo a quel punto, quando medita il suicidio, si decide a rivolgersi al ministro locale che compie un esorcismo e distrugge definitivamente l’odioso libro: «Era un ammasso di ceneri nella ricca ultima luce che arrivava da occidente».

  6. #346
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    The new Cenacle Press edition of “The King’s Achievement”: the madness of Henry VIII according to R. H. Benson



    Luca Fumagalli

    The King’s Achievement, published for the first time in 1905, was the second of Benson’s post-conversion novels and it is now available in a new edition by Cenacle Press, a publishing house run by the good monks of Silverstream Priory in Ireland. This edition is particularly welcome for the beautiful drawings illustrating the text, made by Jerzy Orga, and for the foreword by Joseph Pearce.

    The historical novel addresses the pain of a nation that must choose between heresy and the Faith of the fathers. The events that, like a mosaic, make up the plot, have in common the spoliation of the monasteries – the true protagonists of the book – caused by the ambition and greed of Henry VIII, the former defensor fidei who revolted against Rome. The outcome is a brilliant operation of historical revisionism which aims to demonstrate the original corruption of English Protestantism, born exclusively to satisfy the immoderate appetites of the lustful sovereign, Elizabeth’s father.

    Set between 1533 and 1540, The King’s Achievement describes the conflict between two brothers belonging to the aristocratic Torridon family. Against the backdrop of the dispute between the Pope and Henry, Christopher, a monk faithful to the Catholic cause, faces Ralph, an ambitious servant of power, so blinded by the mirage of a rapid career at court that he is unscrupulous, even going so far as to refuse Beatrice’s hand , the woman he has always loved. Between intrigues and mysteries, between providential help and difficulties, in the end the two Torridons will both risk dying.

    The triumph of Henry VIII described by Benson is fleeting and fruitless. In the king’s arrogant smile the misery of a man who sacrificed his soul for a little power was represented. The monarch pursues his tyrannical project with clarity, does not tolerate anyone questioning his will and does not hesitate to eliminate anyone who tries to hinder him. To achieve his goals he uses a more effective weapon than violence: bureaucracy, capable of hiding the great changes taking place, giving an appearance of legality and spiritual renewal to his vices.



    Next to him, petty and ambiguous figures move in the shadows, terrible characters in a terrible era, such as the ex-priest Layton, who is marked by an obscene personal involvement in the sacking of monasteries, and the very faithful chancellor Thomas Cromwell, always careful to satisfy Henry’s every whim, by whom he will then be betrayed and killed in 1540.

    On the opposite side are the true triumphs of the book. They are the martyrs – above all Thomas More and Cardinal John Fisher – who, sacrificing themselves to affirm the rights of Christ and the Church, obtained sanctity, the only true victory. Through their gesture comes the redemption of the nation: like sacrificial lambs, they shed their blood to redeem an entire people from their sins.

    As the Catholics are persecuted, their cry for forgiveness rises above the crowd, an attitude in stark contrast to the falseness of the king who lives in a constant climate of anxiety and suspicion. There is something allegorical in this, as if Benson had wanted to make Henry VIII not only the emblem of the heresiarch, but also of the incapable governor, completely indifferent to the interests of the people. He had promised his subjects the gold seized from the monasteries and then delivered it, with an unscrupulous about-face, to the nobility.

    With the dissolution of the religious orders, even the monks, now without residence, find themselves forced to choose between the Pope or the sovereign, and there are many, the majority, who spontaneously submit to the crown to protect their own physical safety

    The role-play on which the narrative is based is broken only at the end, when even Ralph, the tragic hero of the book, is granted the possibility of forgiveness before dying.

    If his soul is saved, not so an England spiritually reduced to a wasteland.

    The book: Robert Hugh Benson, The King’s Achievement, The Cenacle Press at Silverstream Priory, 2022, 448 pages, €21,95

    Buy the book: https://cenaclepress.com/en-it/products/the-kings-achievement-benson

  7. #347
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    [La Scozia e la Fede: i migliori racconti di George Mackay Brown] Le ultime storie di “Andrina”



    di Luca Fumagalli

    «Per la Scozia io canto,

    la nazione rovinata da Knox,

    che il poeta e il santo

    devono ricostruire con la loro passione»

    (George Mackay Brown, Prologue)

    Continua la rubrica dedicata alla presentazione e al commento dei migliori racconti di George Mackay Brown, tra gli scrittori più significativi del cattolicesimo scozzese del XX secolo. Originario delle isole Orcadi, Brown fu poeta, romanziere, saggista e drammaturgo, capace di coniugare nei suoi lavori l’amore per le piccole patrie con l’universalità del messaggio cristiano.

    Per una nota introduttiva sulla figura di George Mackay Brown e sulla sua opera si segnalano i seguenti articoli:

    Il bardo delle Orcadi: le opere e i giorni di George Mackay Brown

    «Una bellezza e una verità senza prezzo»: la conversione di George Mackay Brown

    Un canto per le Orcadi: sfogliando l’autobiografia di George Mackay Brown

    Per le precedenti puntate della rubrica:

    A Calendar of Love (1967) “A Calendar of Love” / “Five Green Waves” / “Witch” / “Master Halcrow, Priest” / “The Story of Jorkel Hayforks” / Le altre storie di “A Calendar of Love”

    A Time to Keep (1969) “Celia” / “A Time to Keep“ / “A Treading of Grapes” / “Icarus” / “The Wireless Set“ / “The Bright Spade” / “The Eye of the Hurricane” / Le altre storie di “A Time to Keep”

    Hawkfall (1974) “Hawkfall” / “The Fires of Christmas” / “Tithonus” / “The Fight at Greenay” e “The Burning Harp” / “The Cinquefoil” / “Sealskin” / “The Girl” e “The Interrogator” / “The Drowned Rose” / “The Tarn and the Rosary”

    The Sun’s Net (1976) “Winter Tale” / “The Seven Poets” / “Silver” e “The Book of Black Arts” / “Brig-o-Dread” e “Perilous Seas” / Le altre storie di “The Sun’s Net”

    Andrina (1983) “Andrina” e “The Day of the Ox” / Le prime storie di “Andrina” / “The Poets” e “King and Shepard”

    The Masked Fisherman (1989) “The Masked Fisherman” e “The Christmas Dove”

    Winter Tales (1995) “Dancey” e “Shell Story”

    Dopo il racconto eponimo, Andrina (1983), quinta raccolta firmata da George Mackay Brown, scivola pigramente verso un epilogo anticlimatico, in cui a trionfare sono i toni più soffusi e intimisti di storie singolarmente delicate, caratterizzate pure da incursioni nel fantastico.

    La seconda metà del volume si apre con “Magi”, una narrazione tripartita, giocata sul tema della decadenza e della rinascita, che ha per protagonisti i famosi re che giunsero dal piccolo Gesù seguendo la Stella cometa, re di cui Brown si diverte a indagare il passato senza badare troppo alla coerenza con quanto esposto nei Vangeli (anzi, il legame si fa via via più labile passando da un frammento all’altro).

    Il primo magio, il giovane asiatico Hwa Su, si ritrova improvvisamente sovrano dopo che il padre, uomo saggio e coraggioso, è stato ucciso in battaglia. Mentre i nemici stanno marciando minacciosi verso la capitale del regno e tutti si danno alla fuga, la madre gli consegna un piatto d’oro, invitandolo ad andarsene lontano senza perdere altro tempo: «“Fai qualcosa che non è mai stato fatto prima […] Donalo a qualche bambino povero. L’oro, lo smeraldo e la perla dovrebbero appartenere a tutte le persone del mondo. I ricchi li nascondono negli scrigni. Dona il piatto reale al bambino più povero che incontrerai nei tuoi viaggi”».

    Nel secondo episodio i membri di una tribù africana eleggono il loro nuovo capo, un ragazzo, per celebrare poi il legame che li unisce alle creature cha abitano la giungla, preziosa fonte di sostentamento. Il clima di festa è tuttavia rovinato da un invasato che profetizza un’imminente sciagura alla quale seguirà un lungo esilio. Il nuovo capo passa allora la notte in meditazione e decide di andarsene, portando con sé una preziosa scatola contenente dell’incenso.

    Nel frammento conclusivo, ambientato tra i ghiacci del nord, Ikk, il figlio del capo di un villaggio in difficoltà, è combattuto tra il suo destino di futura guida del popolo e quella vocazione artistica che lo porta, appena può, a cercare la compagnia dell’intagliatore di ossa. Alla fine, complice una ferita al braccio rimediata durante una pericolosa caccia all’orso, si rassegna a imparare l’arte della politica dal genitore, non prima però di aver inciso su un dente di tricheco «una danza di creature» attorniate da un semplice cerchio: «Cos’era? Era il sole, e il pozzo del rinnovamento; era il segno che ha sempre circondato le persone di pienezza e pace». Tutto sembra procedere come al solito fino al giorno in cui Ikk prende il dente e abbandona il villaggio: vi farà ritorno solamente da anziano, quando ormai lì non vive più nessuno.

    “The Feast at Paplay” è l’ennesima rivisitazione browniana dell’omicidio di San Magnus, patrono della Orcadi, avvenuto il lunedì di Pasqua del 1117 e descritto questa volta dal punto di vista della madre del martire, Thora. La donna, impegnata ad allestire il banchetto serale che avrebbe dovuto festeggiare la pacificazione tra Magnus e il cugino Hakon, si ritrova invece ad implorare l’assassino del figlio di concederle la possibilità di seppellirlo nella chiesa di Birsay, dal momento che il suo corpo è stato lasciato «sotto le stelle». Nel racconto ritornano allusioni simboliche già presenti nel romanzo La croce e la svastica (Magnus), a partire dalla verginità della moglie di Magnus fino al parallelismo tra la morte di Cristo che dà frutto e quella del Santo che porta finalmente la pace nelle isole.

    Segue “The Battle in the Hills”, curiosa rievocazione in chiave polifonica della Battaglia di Summerdale (1529): lo scontro, che vede contrapporsi gli abitanti delle Orcadi all’esercito di Giacomo V, re di Scozia, è descritto da sei donne, tre delle quali hanno il marito tra le fila dell’esercito ribelle (Gunnhild, Solveig e Thora). L’anziana Ragna profetizza al generale del sovrano la sua imminente sconfitta, mentre Ingerd, una vedova accecata da un viscerale odio per gli scozzesi, uccide per errore il proprio figlio. Dal canto suo Anna, originaria delle Highlands, non può che assistere con sgomento all’imprevedibile disfatta degli uomini del re.

    Se “The Lost Boy” descrive il fantastico ringiovanimento di un arcigno marinaio contagiato dallo spirito del Natale, in “Men and Gold and Bread” la struttura fiabesca si sposa con una feroce critica nei confronti della modernità tecnologica e della sua logica del profitto.

    Un uomo, mentre scava tra la torba, trova uno scrigno pieno d’oro e se ne va dal villaggio «senza dire una parola». Quando molti anni dopo riprende possesso della sua vecchia casa è ormai anziano, dall’aspetto dimesso, e regala volentieri una moneta a un ragazzo che è venuto a trovarlo: «Sono così povero che non posso accogliere un visitatore alla vecchia maniera. Non posso darti molto cibo o bere. Ma prendi questo, prendi questo. Il denaro, l’unica cosa che conta oggigiorno nel mondo».

    Inserito nel contesto dei festeggiamenti per l’ultimo giorno dell’anno, “Darkness and Light”, il racconto finale della raccolta, si riduce a una riflessione toccante sulla sofferenza generata in Ben dalla scomparsa della moglie Sanna, avvenuta qualche mese prima. Ben, nel buio di casa sua, sembra evocare l’amata con parole e gesti rivolti al nulla, indifferente a chi bussa alla sua porta. Nell’epilogo, l’accensione del camino e la luce che va a inondare la stanza lasciano presagire una speranza di qualche tipo, forse addirittura la possibilità di un nuovo inizio per il protagonista.

  8. #348
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    Decadente o cattolico? Alla (ri)scoperta del poeta Lionel Johnson (parte 1 di 3)



    di Luca Fumagalli

    W.B. Yeats riconobbe in lui il maestro più importante, mentre Ezra Pound e T. S. Eliot spesero volentieri parole di elogio nei confronti della sua abilità lirica. Eppure di Lionel Johnson, poeta e critico di talento, col tempo si è andata a perdere la memoria e fino a non molti anni fa, quando alcuni studiosi hanno iniziato poco alla volta a riscoprirne la parabola biografica e la straordinaria produzione, ci si poteva imbattere nel suo nome tuttalpiù scorrendo le note a piè di pagina di qualche saggio dedicato alla stagione fin de siècle.

    Parte della responsabilità è da attribuire allo stesso Johnson il quale, schivo e umile, condusse un’esistenza sempre appartata secondo il personale motto «Uno dovrebbe essere abbastanza impercettibile». Ciò spiega anche il motivo per cui di lui, a parte un disegno dell’amico Edwin Ellis, non vi sono ritratti e sopravvivono solamente tre fotografie da adulto, la cui autenticità, tra l’altro, è difficilmente verificabile. Pure le sue carte sono andate disperse dopo la morte, e fino alla pubblicazione nel 2012 del volume biografico Lionel Johnson: Victorian Dark Angel di Richard Whittington-Egan, per ricostruirne la vita gli studiosi si sono dovuti accontentare delle sue poesie più personali, di qualche lettera, delle memorie di chi l’aveva conosciuto e di una manciata di articoli e brevi saggi monografici. L’inevitabile conseguenza è stato un lungo reiterarsi di imprecisioni, omissioni, quando non di vere e proprie calunnie, ulteriormente smentite da Robert Asch nel suo Lionel Johnson. Poetry and Prose (2021), una raccolta critica del meglio della produzione di Johnson che va a costituire il giusto complemento al lavoro di Whittington-Egan.



    In generale, al di là degli stereotipi da “minore” del decadentismo, Johnson pare piuttosto incarnare con la sua vita e la sua opera quell’estetica degli anni Novanta, giudicata da Holbrook Jackson la più autentica, che aveva come obiettivo di dare corpo a una risposta religiosa allo spirito cinico e disilluso che pervadeva la cultura.

    Lionel Pigot Johnson era nato il 15 marzo 1867 a Broadstairs, cittadina costiera del Kent. Era il terzo figlio di William Victor Johnson (1822-1891), ufficiale dell’esercito in pensione e spirito conservatore vicino all’ “High Church”, e di Catherine Delicia Walters (1826-1903), il cui padre era un avvocato. In totale i piccoli di casa erano quattro, tre maschi e una femmina, mentre altre due bambine erano morte in tenera età. Una volta cresciuti, entrambi i fratelli di Lionel divennero capitani dell’esercito britannico e uno dei due fu a fianco di Kitchener a Khartoum.


    A differenza di loro il piccolo Johnson era un ragazzo minuto – non superò mai il metro e sessanta –, di costituzione fragile, che soffriva anche d’insonnia e che preferiva di gran lunga i libri allo sport. Simili caratteristiche hanno dato adito ad alcune delle più strampalate leggende diffuse sul suo conto dai memorialisti: Yeats, ad esempio, sosteneva che non si fosse mai sviluppato fisicamente oltre il quindicesimo anno d’età, e Santayana, da parte sua, era solito ripetere il racconto di Wilde secondo il quale Johnson, uscendo immancabilmente ubriaco dal bar ogni mattina, cercasse sostegno aggrappandosi ai passeggini che incrociava.

    Al di là dell’aneddotica spuria, quel che è certo è che il ragazzo trascorse l’infanzia a King’s Mead, la dimora di famiglia vicino a Cranborne Chase, circondato dalle persone che gli erano più care, ovvero la sorella Isabella e la cugina Olivia Shakespeare. Al contrario, sembra che con i genitori non ci fosse un grande rapporto, tant’è che dopo che a dieci anni venne mandato a studiare in un collegio, se si escludono i periodi di vacanza, non volle mai più tornare a casa. Nel 1884 i Johnson lasciarono King’s Mead e si trasferirono a Rhual, nel nord del Galles, nello stesso periodo in cui Lionel si convinse di essere una perfetta incarnazione dello spirito celtico.




    Iniziò a versificare all’età di otto anni, e alla scuola preparatoria di Mr. Wilkinson, a Clifton Downs, maturò sia un amore per il greco e il latino che un profondo disgusto per la matematica.

    Grazie alla vittoria di una borsa di studio, nel 1880 poté entrare al Winchester College, una delle istituzioni scolastiche più prestigiose d’Inghilterra. Oltre ad accumulare premi in inglese, storia e nelle lingue classiche, dal 1884 al 1886 divenne direttore del giornale della scuola, il «Wykehamist», che, grazie a lui, si trasformò in una rivista letteraria di qualità. Prese parte a diverse iniziative educativo-didattiche e, complice l’aspetto, spesso si ritrovò a vestire panni femminili negli spettacoli teatrali promossi dalla società shakespeariana. Era in rapporti epistolari con diversi studenti di Oxford e con Walt Whitman, venendo considerato dai compagni un erudito e un eccentrico. Correva persino voce che avesse letto tutti i libri della biblioteca e che bevesse sal volatile; per qualcuno era un tipo sinistro, forse omosessuale – sebbene manchino prove certe –, e in un’occasione, probabilmente a causa di dubbie amicizie, finì per essere coinvolto in uno scandalo di qualche tipo.
    Gli anni di Winchester segnarono pure l’avvio del personale itinerario spirituale di Johnson il quale, complice una fede inaridita, si accostò per un breve periodo al buddismo e alla teosofia. Il buddismo, in particolare, lo deluse per il suo essere troppo legato all’esperienza orientale e per predicare un elitismo ascetico chiaramente fuori dalla portata dei più, specie dei poveri, verso cui il ragazzo nutriva uno speciale attaccamento di cui è testimonianza la partecipazione a un’iniziativa caritatevole come la Winchester Mission. Al netto dei dubbi, poi, manteneva intatta una certa reverenza per il sacerdozio, per la liturgia e per la persona di Cristo, tanto che più avanti si ritrovò ad accarezzare l’ipotesi di prendere gli ordini anglicani, probabilmente spinto in tale direzione dal reverendo anglo-cattolico Malise Cunninghame Graham, un suo amico, la cui tragica e prematura morte avrebbe ispirato a Johnson la poesia “In Memory”.

    Le oscillazioni spirituali dell’epoca, compreso il progressivo avvicinamento al cattolicesimo, sono testimoniate dalla corrispondenza con Frank Russell – fratello maggiore del filosofo Bertrand Russell –, Charles Sayle e J. H. Badley, pubblicata nel 1919 col titolo Some Winchester Letters of Lionel Johnson.



    La scuola superiore affinò anche i gusti letterari del precoce studente che dimostrava di ammirare un sorprendente ventaglio di autori, da Browning, Meredith, Rossetti, Newman fino ad arrivare a Platone, Virgilio, Lucrezio ed Eschilo, passando per Hugo, Pater, Arnold, Hawthorne e il meglio che il XVII e il XVIII secolo avevano da offrire.

    Nonostante le carenze in matematica, con l’ennesima borsa di studio ottenuta per meriti scolastici, nell’ottobre del 1886 Johnson poté approdare al New College di Oxford…

  9. #349
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    Decadente o cattolico? Alla (ri)scoperta del poeta Lionel Johnson (parte 2 di 3)



    di Luca Fumagalli

    Il periodo trascorso all’università di Oxford, tra il 1886 e il 1891, è l’unico – fatta forse eccezione per i primi due anni londinesi – in cui si può parlare propriamente di un Johnson decadente.

    Così lo descriveva Arthur Waugh: «Si diceva che [il giovane Lionel] fosse in grado di scrivere versi in latino e in inglese con la medesima facilità, e che leggesse Platone ed Eschilo per puro intrattenimento. […] Si sussurrava inoltre che […] fosse il catecumeno di strani riti religiosi che venivano celebrati nella sua stanza. […] Solitamente usciva dal College nelle ore piccole, […] girovagando […] in comunione solitaria con gli immortali». Secondo Santayana, «viveva di uova al mattino e di nient’altro che tè e sigarette durante il resto della giornata. Raramente usciva, ma quando lo faceva era per concedersi una camminata in campagna di venti miglia: e in quei giorni cenava. Su un tavolo centrale era ben visibile anche una brocca di whisky Glengarry posta tra due libri aperti: I fiori del male e Foglie d’erba». A completare l’arredamento della sua stanza, «erano appesi alle pareti due grandi ritratti, quello del Cardinale Newman e del Cardinale Wiseman».

    Johnson era d’altronde caduto sotto l’influenza di Walter Pater, il padrino del decadentismo britannico, con cui strinse un’importante e duratura amicizia. A differenza di molti, il ragazzo fu però in grado di andare oltre la patina estetizzante delle opere più celebri del maestro – a partire dal romanzo Mario l’epicureo – per apprezzarne quel filone essenzialmente cristiano, più evidente negli scritti della maturità, fatto di pietas e ascesis, di tradizione e trascendenza.



    In questi anni ebbe modo di incontrare pure Oscar Wilde, Robbie Ross, Bernard Berenson, W. B. Yeats e Simeon Solomon, e divenne intimo di Lord Alfred “Bosie” Douglas, suo ex compagno a Winchester (i due, al contrario di quello che viene comunemente sostenuto, non erano affatto parenti e probabilmente nemmeno amanti). Johnson ebbe modo di frequentare anche il poeta Ernest Dowson e di stabilire contatti con Arthur Galton e i membri del gruppo Century Guild, una comunità di artisti votata all’artigianato di qualità.

    A segnare l’inizio della sua discesa nel baratro dell’alcolismo fu forse una prescrizione medica: il dottore gli aveva infatti consigliato di prendere del whisky per curare quell’insonnia che lo affliggeva sin dalla fanciullezza. Se a questo aspetto si aggiungono un’omosessualità sublimata nei versi – solamente di una relazione esiste qualche prova, peraltro non schiacciante – e la ricerca spirituale che lo vedeva sempre più prossimo alla Chiesa di Roma, prende poco alla volta forma quella relazione triangolare che lo studioso Robert Asch ha definito «il cuore della tragedia di Johnson».

    Per quanto eccentrico, questi era comunque un tipo che incuteva un certo rispetto, essendo presidente della Essay Society e uno dei pochi giovani autori che poteva vantare di aver già pubblicato qualche poesia, come Sir Walter Raleigh in the Tower, premiata a Winchester e data alle stampe nel 1885, e il compimento religioso A Descant Upon the Litany of Loretto, del 1887.

    Per nulla interessato a un’eventuale carriera in ambito accademico, una volta terminati gli studi Johnson si trasferì a Londra, andando ad abitare in alcune stanze al terzo piano di una palazzina di Fitzroy Street, luogo in cui rimase fino al 1895, quando venne cacciato con l’accusa di essere un bevitore eccessivo. Grazie alle lettere di presentazione che Pater gentilmente gli fornì, in breve tempo poté dare il via a una promettente carriera di critico letterario, con articoli che apparvero sull’ «Academy», sull’ «Athenaeum», sull’«Anti-Jacobin» e sul più popolare «Daily Chronicle». Per di più la stessa Fitzroy Street era un frizzante polo artistico, un ponte tra la cultura preraffaelita e l’estetismo, dove tra l’altro avvenivano gli incontri del nascente Rhymers’ Club.



    I poeti francesi, in controtendenza rispetto alla moda del tempo, esercitarono sui versi di Johnson un’influenza molto marginale; erano piuttosto le tortuosità del suo spirito, le mille e più contraddizioni che abitavano in lui a portare la sua penna ad allinearsi a certe sfumature della stagione decadente, idiosincrasie stilistiche comprese. Tuttavia, se la sua tormentata parabola biografica, culminata in una morte prematura, per certi aspetti appare tipicamente fin de siècle, non così la sua visione del mondo e la sua poetica.

    Ne è dimostrazione, ad esempio, il duro giudizio maturato nel tempo nei confronti di Wilde, con il quale Johnson era sempre stato in buoni rapporti (non va dimenticato che fu proprio lui, nel 1891, a presentargli Douglas). All’epoca dei famosi processi, Johnson non mancò di prendere le distanze dai comportamenti meschini dello scrittore irlandese, a suo giudizio impegnato in una folle corsa verso l’autodistruzione, incurante di sé e della sua famiglia. A distanziarlo da Wilde – dedicatario di una poesia significativamente intitolata The Destroyer of a Soul – vi erano anche ragioni filosofico-estetiche, tant’è che Johnson non solo non ne condivideva lo scetticismo, ma pure l’idea che l’ego fosse più importante della verità lo lasciava piuttosto perplesso.

    Una simile sensibilità, affinata nel corso del tempo, aveva conosciuto un importante tappa di sviluppo il 22 giugno 1891, quando Johnson venne accolto nella Chiesa cattolica, un evento che più tardi lui stesso definì «la principale gioia» della sua vita. Fu battezzato da padre William Lockhart presso la parrocchia di St. Etheldreda, a Ely Place, e successivamente cresimato dal cardinale H. E. Manning, celebre figura di porporato intransigente verso il quale Johnson nutriva una grande venerazione, testimoniata da una manciata di versi che volle dedicargli in occasione della morte, a mo’ di elogio funebre (At the Burial of Cardinal Manning).



    Il numero di patroni che il ragazzo scelse in quel giorno speciale svela invece l’ampiezza e la profondità delle sue simpatie e delle sue preoccupazioni spirituali: San Giovanni Battista, San Longino, Sant’Albano, San Francesco d’Assisi, San Luigi IX e San Carlo Borromeo.

    A spingerlo verso Roma – una scelta che in tarda epoca vittoriana significava l’autocondanna all’emarginazione sia in società che in famiglia – furono verosimilmente la sua sete di verità mistica e l’attaccamento alla tradizione e ai classici, con la loro visione del mondo fondativa dell’Occidente (in questo senso è da interpretare il giudizio di Ezra Pound, che considerava Johnson «il tradizionalista dei tradizionalisti […] Ma se lui fu un tradizionalista, lo fu nel miglior senso del termine. Conosceva davvero la tradizione»).

    A parziale eccezione di Frederick Rolfe, il quale in verità si reinventò romanziere solo in un secondo momento, Johnson fu il primo scrittore di una certa importanza a convertirsi in venticinque anni, dimostrando altresì sincerità e indipendenza di giudizio: «Se Cristo è Dio», scriveva a Charles Sayle, «qual è la sua Chiesa docente e infallibile, una e indivisibile? E chi può dire che la verità dovrebbe essere senza parti ripugnanti e difficoltà terribili?». Alla ricerca di un’autorità certa, deluso dall’anglicanesimo, non aveva avuto altra alternativa che rivolgersi a Roma, la meta che lo studio degli scritti di Newman, di Sant’Agostino e dei padri della Chiesa gli aveva finalmente indicato quale possibile punto di sintesi delle sue passioni, dei suoi interessi e delle sue convinzioni.

    In poco tempo mutò amicizie, e di pari passo all’allontanamento da Yeats e dal Rhymers’ Club, prese ad avvicinarsi a scrittrici quali Katharine Tynan e Louise Imogen Guiney, nonché a Wilfrid e Alice Meynell, presso la dimora dei quali incontrò Conventry Patmore e Francis Thompson. Verso Dowson, uno dei pochi sodali di lungo corso che ancora frequentava, assunse un atteggiamento protettivo, cercando di tenerlo lontano dalle donne di malaffare e dalle infatuazioni superficiali. Se quest’ultimo si fece cattolico solo una manciata di mesi dopo di lui, molto del merito è da attribuire a Johnson.

    La decisione di arrendersi a Roma ebbe un impatto immediato e duraturo sia sulla sua quotidianità – profondamente devoto al Santissimo Sacramento, andava a messa regolarmente e si atteneva con scrupolo a ogni precetto –, che sulla sua opera. Delle oltre duecento poesie sopravvissute più della metà hanno a che fare con tematiche legate alla fede, né mancano liriche manifestatamente religiose, composizioni dedicate a grandi uomini di Chiesa e inni (particolarmente apprezzati dal sacerdote John Gray, da giovane un protetto di Wilde). Anche la sua produzione saggistica, i racconti e le lettere testimoniano un diuturno interesse per la fede e le implicazioni connesse a essa.

    In ultimo, Johnson spostò il suo interesse per la cultura celtica dal Galles all’Irlanda, divenendo un importante attore del cosiddetto “Irish Revival” e assumendo un atteggiamento critico nei confronti dell’imperialismo britannico, sulla falsariga di Hilaire Belloc e di G. K. Chesterton…

  10. #350
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    Decadente o cattolico? Alla (ri)scoperta del poeta Lionel Johnson (parte 3 di 3)



    Sull’orientamento sessuale di Lionel Johnson e sui suoi problemi con l’alcol rimangono svariati punti interrogativi.

    Se evidenze dell’omofilia del poeta emergono occasionalmente nel corso di tutta la sua vita, per quanto con una frequenza via via inferiore, non si ha notizia di alcuna relazione e, stando alle testimonianze di chi lo conobbe, pare che Johnson fosse a disagio anche solo ad affrontare esplicitamente certi argomenti. L’unica liaison che forse ebbe fu quella con “Bosie” Douglas, di cui si vociferava a Oxford, in ogni caso di breve durata. Allo stesso modo è innegabile che Johnson sia stato intimo di diversi membri del sottobosco omosessuale londinese e che abbia contribuito a periodici equivoci quali «The Chameleon» e «The Spirit Lamp», ma lo stesso può essere detto di Max Beerbhom e di altri autori eterosessuali.

    Per quanto riguarda l’alcolismo, il poeta era un forte bevitore sin dall’adolescenza e la situazione degenerò ulteriormente col passare del tempo. Non così chiaro, invece, se l’attaccamento alla bottiglia fosse legato in qualche modo a un tentativo di assopire una pulsione sessuale da lui percepita come innaturale e scandalosa. Quel che è certo è che dopo la conversione al cattolicesimo Johnson dovette rassegnarsi a portare una croce ben pesante, resa un po’ più sopportabile solo quando qualcuno dei suoi conoscenti decideva di seguirlo nella Chiesa: «[Lionel] si adoperava per la salvezza spirituale degli amici», annotava Richard Le Gallienne, «ed era ansioso che potessero trovare rifugio dove lui stesso l’aveva trovato».

    Tra il 1890 e il 1891 Johnson prese a collaborare con diversi periodici – tra cui lo «Yellow Book», il «Savoy», il «Merry England», la «Pall Mall Gazette», il «Month» e il «Daily Chronicle» – e fino alla prematura scomparsa rimase piuttosto noto negli ambienti letterari. A dispetto dell’indole schiva, incline alla vita ritirata, fu inoltre membro di diversi circoli, tenendo conferenze per la Catholic Truth Society e per altre organizzazioni.

    Tuttavia il suo nome è oggi associato soprattutto al Rhymers’ Club, un laboratorio artistico che esercitò una notevole influenza sui poeti modernisti. Gli editori John Lane e Elkin Mathews, titolari della Bodley Head e abili nell’intercettare i gusti del pubblico, furono rapidi nell’assemblare due collezioni del gruppo, The Book of the Rhymers’ Club (1892) e The Second Book of the Rhymers’ Club (1894), in cui figurano pure versi di Johnson.

    Già nel 1891 Lane lo aveva avvicinato con una commissione per un saggio dedicato a Thomas Hardy. Questi accolse con favore la proposta e si mise immediatamente all’opera, intavolando una corrispondenza con il famoso romanziere. The Art of Thomas Hardy fu pronto nel novembre del 1892, ma a causa di una serie di contrattempi, tra cui la rottura tra Lane e il socio, venne dato alle stampe due anni più tardi dal solo Mathews. Lo stesso Hardy fu contento del risultato e il volume, al netto dei limiti, seguita a occupare un ruolo importante tra gli studi critici a lui dedicati.



    Forse la perdita più tragica del periodo è una raccolta di articoli letterari che Johnson offrì a Mathews e che non venne mai pubblicata – la sua prosa, a detta di tutti, era affascinante e sorprendentemente accessibile –, una perdita solo in parte compensata dall’uscita di Poems (1895), uno dei libri più iconici del decennio, che contiene alcuni dei migliori componimenti del poeta. Purtroppo l’improvvisa morte di Pater, che certo avrebbe potuto recensire la raccolta dandole un certo risalto, e l’inizio dei processi a Wilde, con il conseguente disgregamento dell’ambiente letterario che gravitava intorno a lui, contribuirono alla sua eclissi.

    L’entusiasmo per l’Irlanda – unitamente al legittimismo giacobita – seppe offrire al poeta nuovi spunti: come ricorda Victor Plarr, il suo lavoro finì per combinare «con successo nazionalismo e cattolicesimo in un modo che Yeats non avrebbe potuto». Nel corso degli anni Johnson visitò l’isola di smeraldo in diverse occasioni, un luogo che divenne per lui quasi una seconda casa, circondato da correligionari tanto rumorosi quanto gioviali con cui si sentiva a proprio agio, e nel 1897 fu data alle stampe Ireland with Other Poems, una seconda raccolta costituita per la maggior parte dalle liriche scartate dalla prima.

    Nel medesimo 1893 in cui approdò per la prima volta Dublino in compagnia di Yeats, Johnson firmò The Dark Angel, quella che ancora oggi è la sua poesia più letta e studiata. Il componimento, che tratta di un inquietante angelo oscuro, simbolo del peccato, che turba l’esistenza della sua vittima, è un ottimo esempio della capacità dell’autore di miscelare materiale proveniente da fonti diverse – in questo caso il Veni creator spiritus, il rito dell’esorcismo, la messa, San Paolo, il Libro di Giobbe, Sant’Agostino, Plotino e Lucrezio – per dare corpo a una creazione originale ed emotivamente intensa.
    A confronto di The Dark Angel, la restante parte della sua produzione è relativamente sconosciuta, e a dispetto di ciò che ci si potrebbe aspettare l’elemento decadente non è affatto preponderante. Le poesie di Johnson, che affrontano temi che vanno dalla fede all’amore, dalla cultura celtica al valore militare, sono rese ostiche dall’alta intertestualità dei versi, colmi di rimandi e riferimenti, caratterizzati inoltre da un lessico arcaico e ricercato e da una punteggiatura che segue gli usi del XVII e del XVIII secolo. Numerose sono anche le inversioni e ogni strofa è costruita con grande attenzione formale, motivo per cui Pound accostò il suo stile a quello di Théophile Gautier. Elemento unificante è la voce, ossia la presenza di qualcuno che parla intimamente al lettore in una volontà di rapporto ribadita pure dal frequente uso della seconda persona singolare.

    A partire dal 1895 il poeta fu costretto più volte a cambiare casa, trasferendosi prima al 7 di Gray’s Inn Square, poi al numero 8 di New Square, Lincoln’s Inn e infine all’8 di Clifford’s Inn. Questi incomodi, assommati all’aggravarsi dei problemi con l’alcol e a una vita notturna sempre più vagabonda, contribuirono al deteriorarsi della sua salute e spesso Johnson si trovava costretto a rimanere a letto per giorni interi. Non giovarono nemmeno le manifestazioni di sciovinismo che accompagnarono il giubileo del 1897 e lo scoppio della Guerra Boera, le quali, anzi, non fecero altro che incoraggiare il suo allontanamento dalla società.

    Nel 1898, mentre Wilde raccomandava che una copia de La ballata del carcere di Reading fosse inviata a Johnson, certificando una stima che ancora durava, il poeta contribuì alla stesura dell’omelia di una messa, celebrata a Boston, per l’anima del disegnatore Aubrey Beardsley, recentemente scomparso.



    Secondo l’inchiesta ufficiale, Johnson morì di emorragia cerebrale il 4 ottobre 1902, dopo essere collassato al locale The Green Dragon in Fleet Street (la storia che venne investito e ucciso da una carrozza è dunque un mito). Venne condotto d’urgenza al St. Bartholomew’s Hospital ma non vi era più nulla da fare: al suo direttore spirituale, padre Thomas Dawson, che nel frattempo era stato mandato a chiamare, non restò che amministrare gli ultimi riti.

    Fu sepolto al St. Mary’s Catholic Cementry di Kensal Green quattro giorni dopo e consegnato così alla leggenda insieme agli altri artisti della «generazione tragica». Strano che a nessuno sia venuto in mente di incidere sulla sua lapide, a mo’ di sfida cristiana alla morte, il motto di famiglia, Vicisti et vivimus, (“hai vinto e noi viviamo”): sarebbe stato un epilogo semplicemente perfetto.

 

 
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