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Discussione: Anglica catholica

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    Predefinito Re: Anglica catholica

    Henry Edward Manning: le opere e i giorni di un grande cardinale vittoriano (Terza parte: il sacerdote)



    Continua con questo terzo articolo una breve biografia in quattro parti del cardinale inglese Henry Edward Manning (1808-1892), l’amico-nemico di J. H. Newman, famoso per le posizioni dottrinali intransigenti e per essere stato con le sue opere a sostegno dei più poveri e degli emarginati uno degli ispiratori dell’enciclica Rerum Novarum di Leone XIII.

    Per chi si fosse perso i primi due articoli:

    1- Il periodo anglicano

    2- La conversione


    6. L’ordinazione e gli studi

    Wiseman, la cui politica era quella di guadagnare convertiti illustri dall’anglicanesimo, salutò con grande gioia l’ingresso di Manning nella Chiesa cattolica. Quando poi seppe che l’ex Arcidiacono aveva intenzione di diventare sacerdote, fece quanto in suo potere per accelerarne l’ordinazione. Si levò qualche voce di protesta, ma Pio IX, che apprezzava Manning e che gli aveva inviato in regalo un cameo col profilo di Cristo, appoggiò il piano, cosicché questi venne ordinato senza ulteriori indugi il 14 giugno 1851.

    Manning fu quindi inviato a Roma per completare la sua formazione, dovendo giocoforza rinunciare alla proposta fattagli da Newman di diventare suo vice all’Università di Dublino, dove allora occupava l’incarico di rettore. Ovviamente Manning non era molto contento alla prospettiva di tronare di nuovo a vestire i panni dello studente, tuttavia la scelta di Wiseman – intesta ad allargare gli orizzonti di quello che già presentiva avrebbe potuto essere un validissimo collaboratore – finì per segnare il corso della carriera cattolica del nuovo convertito, consolidando in lui l’idea di Roma come ultimo baluardo della Fede.

    Si mise in viaggio con il fratello Charles e il poeta Aubrey de Vere che lui stesso accolse nella Chiesa ad Avignone. De Vere fu solo il primo di molti uomini illustri – aristocratici, artisti e intellettuali – che si fecero cattolici per merito di Manning; quest’ultimo iniziò proprio in quel periodo ad appuntare su uno speciale quadernetto i loro nomi, divenuti 343 nel 1865, quando l’ex Arcidiacono veniva soprannominato “L’apostolo dei nobili”. In loro compagnia, in direzione dell’Italia, vi era anche un sacerdote, George Talbot, destinato a giocare un ruolo di primo piano nella futura carriera di Manning.



    Mons. Talbot, quinto figlio del Barone Talbot de Malahide, aveva otto anni meno di Manning ma godeva già di un discreto potere, svolgendo, nei fatti, il ruolo di agente di collegamento tra Pio IX e l’Inghilterra. Studente a Eton e a Oxford, aveva preso gli ordini anglicani prima di farsi cattolico e di essere ordinato sacerdote nel 1846. Wiseman lo aveva quindi mandato a Roma come suo rappresentate e Talbot, affabile quanto determinato, era diventato rapidamente ciambellano papale e intimo di Pio IX (che lo chiamava «il mio buon Giorgio»). Se l’amicizia tra lui e Manning maturò molto probabilmente più avanti, quel primo viaggio insieme fu comunque importante per mettere in contatto due uomini uniti da una grande ammirazione sia per l’Arcivescovo di Westminster che per il Papa.

    Per intercessione di Pio IX, di cui divenne intimo, Manning venne fatto studiare presso l’Accademia Ecclesiastica, un’istituzione blasonata che curava la preparazione dei sacerdoti che avrebbero occupato un qualche incarico di servizio per la Santa Sede. L’ex Arcidiacono, che trascorreva lunghe ore nella biblioteca dell’istituto, alle lezioni preferiva intrattenersi a colloquio con i gesuiti Giovanni Perrone e Carlo Passaglia, due famosi docenti del Collegio Romano, reazionario il primo, liberale il secondo.

    Nel frattempo Wiseman premeva per un suo ritorno in patria: data la scarsa collaborazione degli ordini religiosi inglesi, aveva in animo di creare una fraternità sacerdotale, direttamente assoggettata a lui, con l’obiettivo di prendersi cura dei cattolici più poveri di Londra, in forte crescita a seguito della massiccia immigrazione irlandese. Manning gli sembrava l’uomo giusto per dare corpo al progetto, abile e dotato di senso pratico, un ottimo candidato pure per occupare il ruolo di vescovo ausiliario. Del resto lo scoppio della Guerra di Crimea, nel 1854, diede ampia prova del talento organizzativo del nuovo convertito: grazie ai suoi contatti governativi e alla collaborazione del Vescovo Grant di Southwark riuscì a garantire ampie libertà ai cappellani cattolici dell’esercito nonché a organizzare un gruppo di suore infermiere in appoggio agli sforzi di Florence Nightingale.



    7. Superiore degli Oblati di San Carlo e Prevosto del Capitolo di Westminster

    Nel 1856 Manning terminò gli studi. Pio IX cercò di tenerlo con sé a Roma offrendogli la posizione di ciambellano papale, ma l’ex Arcidiacono preferì tornarsene a Londra per dare corpo al progetto della fraternità sacerdotale tanto caro a Wiseman. Fu così che l’anno successivo vennero fondati gli Oblati di San Carlo, con sede a Bayswater. Manning, che ne divenne il primo Superiore, si ispirò all’omonima congregazione voluta nel XVI secolo, a Milano, da San Carlo Borromeo, modificandone di poco la regola per adattarla meglio alla situazione inglese (l’approvazione definitiva dalla Santa Sede giunse nel 1877).

    Questi sono anche gli anni in cui la sua amicizia con Newman raggiunse l’apogeo, tanto che quest’ultimo volle omaggiarlo dedicandogli il volume Sermons Preached on Various Occasions che contiene, tra l’altro, il famoso sermone sulla “Seconda primavera” del cattolicesimo inglese.

    Una manciata d’anni prima, nel 1855, Wiseman aveva infine scelto come suo coadiutore George Errington, a cui venne concesso il diritto di successione alla sede di Westminster. Errington, che per cinque anni era stato Vescovo di Playmouth, era il perfetto rappresentate di quei “vecchi cattolici” di mentalità “cisalpina”, allergici, cioè, alle intrusioni di Roma nella politica ecclesiastica inglese (i loro oppositori, tra cui Manning, pervicacemente attaccati a Roma e al Papa, erano invece chiamati “ultramontani”). La sua famiglia poteva vantare diversi martiri ed era collaboratore di Wiseman sin dai tempi del Collegio Inglese; ciononostante, a dispetto della confidenza maturata negli anni, il Cardinale si era dimostrato sin da subito poco propenso a delegare totalmente la propria autorità senza diritto di appello. Di conseguenza il loro rapporto si era deteriorato rapidamente e già dopo sei mesi Errington aveva scritto alla Santa Sede chiedendo di essere rimosso dall’incarico. Per evitare lo scandalo, si decise di assegnare provvisoriamente a Errington la guida della diocesi di Clifton, giusto il tempo per fare calmare un po’ le acque. Ciò portò all’allontanamento di quest’ultimo da Londra dal 1855 al 1857, proprio gli anni in cui l’astro di Manning stava iniziando a brillare.



    Edizione recente del volume di Newman dedicato a Manning

    Fu comunque una sorpresa per molti quando il Papa, nel 1857, nominò l’ex Arcidiacono Prevosto del Capitolo di Westminster, un’assemblea in supporto al Vescovo di cui facevano parte i sacerdoti più validi della diocesi. Manning stesso accolse la nomina con stupore, consapevole ora di trovarsi in una posizione delicatissima: in qualità di Superiore degli oblati, infatti, stava portando avanti con entusiasmo le politiche “ultramontane” di Wiseman – e la cosa, inutile dirlo, non piaceva a tutti – mentre come Prevosto si trovava ad avere a che fare con i “vecchi cattolici” più ostili al Cardinale. A garantirlo nel suo nuovo ruolo, oltre a Pio IX, vi era pure mons. Talbot, assiduo frequentatore dei palazzi romani anche per perorare la causa dell’amico inglese. Da parte sua Wiseman colse al volo l’occasione per convincere il Papa ad allontanare definitivamente Errington dal ruolo di suo coadiutore, togliendogli pure il diritto di successione alla sede di Westminster. La querelle si protrasse ancora per qualche tempo, fino a quando la Santa Sede si risolse ad accogliere la richiesta del Cardinale. Ciò avvenne nel 1860, lo stesso anno in cui Manning venne insignito del titolo onorifico di Protonotaro apostolico.

    8. Avversari esterni e interni

    A partire dal 1861, con il Risorgimento in corso, Manning si ritrovò insieme al convertito William George Ward e a pochi altri a rivestire in Inghilterra il ruolo di infaticabile sostenitore del Pontefice e dei diritti della Santa Sede. Nelle sue prediche e negli scritti difese sempre con vigore il potere temporale della Chiesa – addirittura parlava di elevarlo a dogma –, animato da toni polemici che piacevano poco ai “cisalpini” alla Newman e che, come prevedibile, diedero il la al progressivo raffreddamento dei rapporti tra i due. Manning, poco tollerante con chi, nel momento della controversia, non gli mostrava il più leale sostegno, polemizzò pure con Gladstone, chiedendo all’amico ragione del perché il governo inglese si spendesse così tanto per l’unità italiana mentre sembrava del tutto insensibile alle rivendicazioni nazionaliste dell’Irlanda.

    Come se la situazione non fosse già abbastanza complicata, in senso alla gerarchia inglese seguitavano le solite polemiche sulle prerogative dei singoli vescovi e su quanto dovesse pesare, nelle scelte più importanti, l’autorità dell’Arcivescovo di Westminster. A guidare la compagine di chi rivendicava una maggior autonomia vi era il Vescovo di Birmingham, William Bernard Ullathorne, tra i pochi a possedere l’abilità sufficiente per poter seriamente minacciare la posizione di un Wiseman sempre più debole e stanco. Manning non fu abbastanza abile da evitare che il caso venisse sottoposto a Roma e, a peggiorare le cose, cominciò a circolare anche la voce che Errington – sostenuto dalla maggioranza dei vescovi – fosse intenzionato a reclamare i suoi vecchi diritti di successione.



    Prima della morte di Wiseman, nel febbraio del 1865, Manning ottenne almeno una piccola vittoria con la conferma del divieto per i cattolici di poter frequentare l’università di Oxford e con la rinuncia da parte di Newman ad aprire un college cattolico in quell’università: «Manning», scrive Robert Gray, «fu sempre il primo a riconoscere l’importanza di un’educazione di livello per i cattolici, ma voleva che fosse impartita da un’università cattolica autonoma, non da un college cattolico in un’università protestante»…

    La vita di Manning prosegue domenica prossima con la Quarta e Ultima Parte, intitolata L’apogeo.

  2. #162
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    [INTERVISTA VIDEO] “Dio strabenedica gli inglesi!”: pronta la ristampa del libro di RS sulla letteratura cattolica britannica



    646* conferenza di formazione militante a cura della CAP dell'Università cattolica del Sacro Cuore (tenuta nella festa di San Giorgio e pubblicata nella festa della Madonna del Buon Consiglio)

  3. #163
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    [IL MERCOLEDÌ DI PADRE BROWN] “La forma errata”: tra gli opposti errori della spiritualità orientale e dello scientismo ateo

    di Luca Fumagalli

    Continua con questo nuovo articolo la rubrica infrasettimanale di Radio Spada dedicata all’approfondimento e al commento dei racconti di Padre Brown, il celeberrimo sacerdote detective nato dalla penna di G. K. Chesterton, tra i più grandi intellettuali cattolici del Novecento. I racconti, a metà strada tra investigazione e apologetica, hanno per protagonista il buffo e goffo Padre Brown, interessato sia a risolvere i crimini che a salvare le anime dei colpevoli.

    Per una disamina introduttiva sulla figura di Padre Brown – protagonista pure di vari film, sceneggiati per la televisione e, addirittura, fumetti – si veda il breve articolo a questo link.

    Per le precedenti puntate: 1. La Croce azzurra / 2. Il giardino segreto / 3. Il passo strano / 4. Le stelle volanti / 5. L’uomo invisibile / 6. L’onore di Israel Gow

    Prima di iniziare, per chi fosse interessato ad approfondire l’opera di G. K. Chesterton e quella di molti altri scrittori cattolici britannici si segnala l’uscita del saggio “Dio strabenedica gli inglesi. Note per una storia della letteratura cattolica britannica tra XIX e XX secolo”. Link all’acquisto.

    La forma errata (The Wrong Shape) è uno dei racconti più famosi che compongono L’innocenza di Padre Brown (1911), la prima raccolta che ha per protagonista il famoso sacerdote investigatore nato dalla penna di G. K. Chesterton. Nel testo atmosfere di un esotismo romantico venato di surrealismo fanno da sfondo a un’indagine su un enigmatico suicidio in cui si ritrovano coinvolti Padre Brown, «della piccola chiesa di San Mungo», e Flambeau, «il suo amico francese», un’indagine che offre all’autore inglese il destro pure per polemizzare contro gli opposti errori della religiosità orientale, un’elegante coperta di fiori e arabeschi che sottrae alla vista un bieco nichilismo, e dello scientismo ateo. Per raggiungere il suo obiettivo, ancora una volta Chesterton non fa nulla per celare la propria presenza dietro la storia, commentando le vicende e rivolgendosi direttamente al lettore.

    Come era già capitato in altri racconti precedenti, ad esempio Il giardino segreto, l’azione si svolge all’interno di una casa in cui sono riuniti diversi ospiti (un classico del genere “giallo”). Questa volta la dimora è quella di Leonard Quinton, un poeta eccentrico, molle e capriccioso, incarnazione di quell’Oriente che tanto venera: «Egli era un uomo che s’immergeva nei colori e li assorbiva, e si abbandonava alla sua passione per i colori fino a trascurare un po’ la forma… e anche le forme. Proprio questa sua tendenza aveva diretto il suo talento totalmente verso l’arte e le decorazioni dell’Oriente; verso quegli incredibili tappeti o abbaglianti ricami dove tutti i colori sembrano piombati in un felice caos, non avendo nulla da rappresentare o da insegnare. Egli aveva tentato, non forse con pieno successo artistico, ma con indubbia fantasia e inventiva, di comporre poemi epici e storie d’amore che riflettessero quell’orgia di colori violenti e persino crudeli: racconti che si svolgevano sotto cieli tropicali d’oro ardente o di rame sanguigno; di eroi orientali che, con mitrie ravvolte in dieci giri di turbante, cavalcavano elefanti viola o verdi; di giganteschi gioielli che cento negri non potevano portare, e che ardevano di antiche e strane luci multicolori. In breve (per presentare la cosa dal punto di vista più evidente) egli trattava molto di cieli orientali, peggiori della maggior parte degli inferni occidentali, di monarchi orientali, che a noi potrebbero sembrare invasati, e di gioielli orientali che un gioielliere di Bond Street (se cento negri barcollanti li introducessero nel negozio) potrebbe forse non considerare genuini. Quinton era un genio, se pure un po’ morboso; morbosità del resto ancora più evidente nella sua vita che nella sua opera. Aveva un carattere debole e suscettibile, e la sua salute aveva sofferto molto per l’esperienza dell’oppio. Sua moglie – una bella donna che lavorava molto, troppo – non approvava l’oppio, ma approvava ancora meno un eremita indiano in carne e ossa, vestito di manti bianchi e gialli, che il marito insisteva a tenere in casa per mesi di seguito, una specie di Virgilio che guidasse il suo spirito attraverso i paradisi e gli inferni orientali».



    Se la moglie di Quinton sembra così al limite della sopportazione da far sorgere un sinistro presentimento nella mente di Padre Brown – «Quella donna è esausta. Essa è una di quelle donne che compiono il loro dovere per vent’anni, e poi commettono qualche cosa di orribile» – il fachiro predica un Nirvana che è la fine di ogni desiderio e che perciò piace molto poco al prete: «Il cristiano è più modesto: egli vuole qualcosa». Ancora, qualche pagina dopo: «Quando quell’indiano ci ha parlato ho avuto una specie di visione, una visione di lui e di tutto il suo universo. Eppure ha soltanto ripetuto la stessa cosa tre volte. Quando disse la prima volta che non voleva nulla, intendeva soltanto che era impenetrabile, che l’Asia non si lascia conoscere. Poi disse di nuovo “Nulla” e capii che voleva dire che bastava a se stesso, come un cosmo che non ha bisogno di Dio, né ammette il peccato. E quando disse per la terza volta “Nulla” lo disse con una luce ardente negli occhi. Allora capii che intendeva alla lettera quello che diceva: il nulla era il suo desiderio e la sua casa; egli desiderava il nulla come si desidera il vino; che è l’annichilimento, la pura distruzione di tutti e di tutto…»

    A completare il quadro degli ospiti vi sono il dottor Harris, il medico di Quinton, e il cognato di quest’ultimo, ovvero il signor Atkinson, senza un soldo e perenne questuante alla porta del poeta. Appena viene scoperto il cadavere del padrone di casa, nella serra, proprio su Atkinson si sfoga istintivamente la rabbia di Flambeau, e solo dopo l’intervento di Padre Brown, che invita i due uomini alla pace, possono avere inizio le indagini (nel frattempo è stata allertata la polizia e il sacerdote ha avuto un misterioso colloquio con la vedova). Nello studio di Quinton viene quindi riportata alla luce una nota di suicidio vergata su un foglio dalla «forma errata», cioè privo di un angolo che è stato verosimilmente tagliato con delle forbici.

    L’associazione di idee rimanda a un’altra «forma errata» incontrata in un punto precedente del racconto, quando Padre Brown aveva raccolto in giardino un curioso coltello, una delle tante cianfrusaglie indiane di Quinton, lo stesso coltello che è stato ritrovato conficcato nel fianco del poeta: «“È molto bello”, disse il prete, a voce bassa, trasognata, “i colori sono bellissimi; ma non ha la forma giusta […] Per nulla: è una forma errata, ingiusta di per se stessa. Non provi mai questa sensazione a proposito dell’arte orientale? I colori sono deliziosi, quasi intossicanti, ma le forme sono meschine e cattive… deliberatamente meschine e cattive. Ho visto delle vere perfidie in certi tappeti turchi. […] Sono lettere e simboli in una lingua che mi è ignota: ma so che significano cose cattive”, continuò il prete, con voce sempre più bassa. “Le linee deviano intenzionalmente, come serpenti che si attorcono per sfuggire”. “Di che diavolo sta parlando?”, disse il dottore, ridendo forte. Flambeau gli rispose piano: “Il Padre a volte è in preda a questa nube mistica; ma l’avverto che non ho mai visto che ciò succedesse senza che ci fosse qualcosa di male vicino”. […] “Ma guardate”, esclamò Padre Brown, tenendo il coltello contorto col braccio teso, come se fosse una serpe scintillante. “Non vedete che non è una forma giusta? Non vedete che non ha un intento chiaro e diritto? Non indica come una lancia; non spazza come una falce. Non sembra un’arma: sembra uno strumento di Tortura […] La forma di questa casa è strana, magari ridicola, ma non ha niente di cattivo”».



    Al di là del coltello, troppe cose non tornano – poco credibile anche l’ipotesi del suicidio – e a questo punto un Padre Brown meditabondo invita Flambeau a seguirlo: «Voi siete il solo mio amico al mondo, e voglio parlarvi; o, forse, rimanere silenzioso con voi». Tra i due sorge un interessante confronto sul mistero, il miracolo e la complessità, tre termini che, al contrario di come comunemente si pensa, raramente vanno d’accordo: «Tu chiami [il caso] strano, e io lo chiamo strano, e tuttavia intendiamo due cose opposte. Lo spirito moderno confonde sempre due idee diverse: mistero nel senso di ciò che è meraviglioso, e mistero nel senso di ciò che è complicato. Qui sta gran parte della difficoltà per quel che concerne i miracoli. Un miracolo è impressionante, ma è semplice. È semplice perché è un miracolo. È potenza che viene direttamente da Dio (o dal diavolo) invece che indirettamente, attraverso la natura o la volontà umana. Ora, tu ritieni che questa faccenda sia strana perché è miracolosa, perché è una stregoneria operata da un cattivo indiano. Comprendimi, non dico che non sia stata spirituale o diabolica. Il Cielo e l’inferno soltanto sanno per quali influssi contingenti strani peccati entrano nelle vite degli uomini. Ma per il momento io sostengo solo questo: se è stata pura magia, come tu pensi, allora non è misteriosa… cioè, non è complicata. La qualità di un miracolo è misteriosa, ma il suo accadimento è semplice. Ora, questa cosa è stata tutto il contrario della semplicità».

    Nell’epilogo una nota scritta dal dottor Harris, il vero colpevole della morte di Quinton, oltre a chiarire alcuni particolari del caso – come la finta nota di suicidio, in verità uno dei fogli su cui il poeta stava scrivendo il suo nuovo romanzo, opportunamente tagliato dal medico per eliminare le virgolette del dialogo – svela il fondo disumano che caratterizza la filosofia dello scienziato scettico: «Amavo la moglie di Quinton. Che c’era di male in questo? La natura me lo ordinava, ed è l’amore che fa girare il mondo. Pensavo anche in tutta sincerità ch’essa sarebbe stata più felice con un animale sano come me che con quel piccolo pazzoide che la tormentava. Che cosa c’era di male? Affrontavo semplicemente i fatti, come un uomo di scienza. Sarebbe stata più felice. Secondo il mio modo di pensare ero liberissimo di uccidere Quinton, il che era la cosa migliore per tutti, lui compreso. Ma, da animale sano, non volevo uccidere me stesso. Risolvetti quindi che non l’avrei fatto finché non avessi visto una possibilità di farlo senza pagare lo scotto. Ho visto la possibilità questa mattina». Ciononostante nemmeno il dottore può essere totalmente immune al senso di colpa: «Quando ebbi compiuto l’atto, accadde la cosa straordinaria. La Natura mi abbandonò. Mi sentii come se avessi fatto qualcosa di male. Credo che il mio cervello venga meno; provo una specie di disperato piacere nel pensare che l’ho detto a qualcuno, che non dovrò sopportarlo da solo, se mi sposerò e avrò dei figli. Che cosa mi succede?… La pazzia… o può essere che esista il rimorso, proprio come in una poesia di Byron!».

  4. #164
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    Henry Edward Manning: le opere e i giorni di un grande cardinale vittoriano (Quarta e ultima parte: l’apogeo)



    di Luca Fumagalli

    Si conclude con questo quarto articolo una breve biografia del cardinale inglese Henry Edward Manning (1808-1892), l’amico-nemico di J. H. Newman, famoso per le posizioni dottrinali intransigenti e per essere stato con le sue opere a sostegno dei più poveri e degli emarginati uno degli ispiratori dell’enciclica Rerum Novarum di Leone XIII.



    Per chi si fosse perso i precedenti articoli:

    1- Il periodo anglicano

    2 – La conversione

    3 – Il sacerdote

    9. Arcivescovo di Westminster

    Dopo la scomparsa di Wiseman nei primi mesi del 1865, la questione di chi gli sarebbe succeduto in qualità di Arcivescovo di Westminster rimase senza soluzione per dieci settimane. Manning, che non sperava nulla per sé e che temeva che quella “ultramontana” fosse una parentesi ormai conclusa, caldeggiava la nomina di Ullathorne: nonostante le diverse opinioni, a suo dire il Vescovo di Birmingham rimaneva l’unico in grado di guidare con mano ferma il piccolo gregge cattolico in una realtà che gli era ancora ostile. Da parte sua il Capitolo di Westminster propose a Roma tre nomi, ovvero quelli del Vescovo Clifford di Clifton, del Vescovo Grant di Southwark e di George Errington, l’ex braccio destro di Wiseman, che nel frattempo aveva rifiutato la nomina ad Arcivescovo di Port of Spain, sull’isola di Trindad. Dal momento che Clifford e Grant si chiamarono fuori quasi subito, il “cisalpino” Errington rimase l’unico in lizza; Pio IX, quando venne a conoscenza della cosa, andò su tutte le furie: «Questa è un offesa!».

    Se i “vecchi cattolici” inglesi e la gerarchia irlandese premevano per Errington, Propaganda Fide preferiva Ullathorne (anche se più tardi il Cardinale Barnabò, intuendo le intenzioni del Papa, passò a sostenere Manning). Lord Palmerston, il primo ministro britannico, fece sapere che la scelta di Clifford o Grant sarebbe stata egualmente soddisfacente per il governo, tanto che anche il Cardinale Antonelli, Segretario di Stato del Papa, si risolse ad appoggiare la candidatura di Clifford.

    Fu quindi una sorpresa per tutti, Manning compreso, quando in primavera Pio IX espresse la decisione di fare di lui il nuovo Arcivescovo di Westminster, persuaso sia dalle qualità pratiche che della solidità dottrinale dell’ex Arcidiacono.



    Convinto che fosse vitale collaborare con gli altri vescovi ed evitare – quando possibile – inutili scontri, Manning volle dapprima dedicare tutte le energie al consolidamento della propria diocesi. Dopo la consacrazione episcopale, avvenuta l’8 giugno per mano di Ullathorne, approvò il progetto per la costruzione della nuova cattedrale di Westminster, che sarebbe stata completata solo dopo la sua morte; favorì poi l’istituzione di un sistema di scuole primarie in grado di rispondere alle esigenze delle famiglie fedeli a Roma, e fece costruire anche orfanotrofi e riformatori, animato dal desiderio di strappare i fanciulli cattolici dalle grinfie della famigerate Workhouse protestanti.

    Su scala nazionale promosse invece vaste campagne a favore dell’astensionismo dall’alcol, una piaga che allora affliggeva la classe operaia, e col tempo accrebbe pure il suo interesse per la questione irlandese. Oltre a stabilire contatti con l’Arcivescovo Cullen di Dublino, utilizzò in più di una occasione le sue conoscenze politiche per indirizzare il governo britannico verso la concessione di una maggiore autonomia all’isola.

    In realtà nei confronti dell’Irlanda il suo atteggiamento fu sempre piuttosto ambiguo: Manning aveva a cuore la tutela dei diritti del popolo irlandese – lo dimostra la Letter to Earl Gray (1868), il pamphlet più infuocato che scrisse – ma gli interessi della Chiesa e la stabilità dell’Impero britannico avevano comunque la proprietà. Soprattutto temeva che in Irlanda il movimento nazionalista, al pari di quello italiano, potesse prendere una piega anticattolica, e nella sua testa “feniano” e “mazziniano” divennero presto perfetti sinonimi.



    L’Arcivescovo era così coinvolto nella vita pubblica nazionale che nel 1869 lo «Spectator» avanzò l’ipotesi di nominarlo pari del regno, un episodio che la dice lunga su come l’integrazione sociale dei cattolici stesse procedendo a grandi falcate.

    Sul fronte dottrinale non passò molto tempo prima che Manning si trovasse coinvolto in nuove polemiche. Se già nel 1864 aveva invitato con successo il Sant’Uffizio a condannare il gruppo ecumenico noto come Association for the Promotion of the Unity of Christendom (APUC), nell’autunno del 1865 un nuovo libro di Pusey offrì a Newman il pretesto per attaccare gli “ultramontani”. W. G. Ward aveva pronta una risposta al fulmicotone e fu solo grazie all’intervento di Manning se non venne mai pubblicata. Il nuovo Arcivescovo invitava alla moderazione anche perché nel frattempo era impegnato in prima persona a ostacolare l’ennesimo tentativo degli oratoriani di aprire una loro sede a Oxford. Da sempre contrario a una mescolanza degli studenti cattolici con quelli protestanti, Manning invocò l’intervento di Propaganda Fide che nel 1867 dettò sentenza a suo favore. Questo e altri episodi simili contribuirono a incrementare ulteriormente la distanza tra lui e Newman, attorno al quale cominciarono a coalizzarsi i suoi oppositori.

    10. Il Concilio Vaticano e l’azione sociale

    Nonostante non fosse ancora stato nominato Arcivescovo, nell’arile del 1865 Manning fu uno dei pochi prelati a ricevere da Pio IX una lettera confidenziale in cui il Pontefice annunciava l’intenzione di convocare un Concilio. Cinque anni dopo, nell’aula conciliare l’ex anglicano fu tra i più strenui sostenitori del dogma dell’infallibilità pontificia di contro al vescovo Dupanlup di Orleans e agli altri che, come lui, ritenevano un simile pronunciamento inopportuno, che avrebbe sicuramente contribuito a inasprire i rapporti tra la Santa Sede e i governi europei e a tenere ancora più lontani i protestanti e gli scismatici orientali dalla Vera Chiesa. Newman, così come la maggioranza dei fedeli inglesi, la pensava allo stesso modo; ciononostante l’Arcivescovo di Westminster non si fece intimidire e, appena giunto a Roma, con lo zelo di un San Carlo fece in modo che gli schemi sull’infallibilità fossero dibattuti il prima possibile (perciò venne ribattezzato dai più maliziosi “il diavolo del Concilio”). Il 25 maggio il suo lungo discorso di quasi due ore fu accolto dall’entusiasmo generale: Manning sottolineò come lui fosse l’unico convertito presente al Concilio e che la dottrina dell’infallibilità non avrebbe allontanato i protestanti dalla Chiesa, anzi, li avrebbe attratti come una luce in mezzo all’oscurità e al caos della modernità.

    Alla fine venne approvata una formula più restrittiva rispetto a quella auspicata dall’Arcivescovo, ma questo non gli impedì di tornarsene a Londra da vincitore, seppure con qualche nemico in più. La sua amicizia con Gladstone, benché di lungo corso, non sopravvisse alle polemiche scatenate in Inghilterra dagli “anti-papisti”, mentre la Letter to the Duke of Norfolk di Newman, intesa a minimizzare l’entusiasmo “ultramontano” per il Concilio, non fece altro che gettare nuova benzina sul fuoco, restituendo all’opinione pubblica l’immagine di una Chiesa poco coesa al suo interno (altre contese sorsero con l’ex amico in occasione della sua elevazione al cardinalato, nel 1879, ma ormai tra lui e Manning non vi era più affetto né stima).



    I toni più estremi l’Arcivescovo preferì riservarli per condannare il Risorgimento italiano. Nel 1870, a seguito della presa di Roma, ciò non lo trattenne comunque dal criticare la politica d’inerzia dei cosiddetti “miracolisti”, invitando la Santa Sede a trovare una qualche forma d’accordo con Vittorio Emanuele II.

    In Inghilterra il pugnace Arcivescovo si dedicò principalmente a scrivere sermoni e articoli in difesa del Papa e della Chiesa, provvedendo pure alla fondazione di nuovi seminari per garantire ai candidati al sacerdozio una preparazione adeguata, concorrenziale a quella offerta dai gesuiti, un ordine con cui da tempo non era più in buoni rapporti. Le sue idee sul sacerdozio, «il più alto stato di perfezione nel mondo», vennero successivamente raccolte nel libro The Eternal Priesthood (1883), un classico della spiritualità cattolica.

    Intransigente per quanto riguardava i princìpi, negli affari del mondo Manning era più pragmatico, pronto a tradurre la parola in azione e a cogliere l’opportunità migliore per avvantaggiare la causa cattolica. Se mai fu machiavellico – accusa che Disraeli gli rinfacciò nuovamente in un altro romanzo, Endymion (1880), meno sferzante del precedente – lo fu non per un qualche vantaggio personale ma per la maggior gloria della Chiesa. Si spese per salvaguardare il diritto a esistere delle scuole religiose – una battaglia che portò avanti in alleanza con altre denominazioni cristiane – e tentò, per quanto inutilmente, di fondare un’università cattolica; combatté inoltre la prostituzione, si oppose alla vivisezione degli animali e continuò la sua lotta contro l’alcolismo fondando la League of the Cross, un movimento che nei suoi stilemi organizzativi para-militari anticipò – più che imitò – l’Esercito della Salvezza di William Booth.



    Sul fronte economico Manning aveva scarsa simpatia per i teorici del laissez-faire ed era fermamente convinto che il sistema capitalista dovesse essere riformato al più presto, altrimenti prima o poi sarebbe scoppiata una terribile rivoluzione. Per lui era la società che doveva servire l’uomo e non viceversa: «Il suo astio per i dogmi sociali», scrive Robert Gray, «era evidente tanto quanto il suo amore per quelli religiosi».

    La causa per la tutela dei poveri e degli oppressi avvicinò Manning a John Ruskin, di cui fu ammiratore e amico, mentre il pio desiderio di convertire a Cristo gli intellettuali vittoriani lo portò a prendere parte agli incontri della Metaphysical Society. Al contrario l’intellighenzia cattolica non smise mai di considerarlo con sospetto per il suo forte attaccamento a Roma, giudicato eccessivo e sconveniente. Il poeta Coventry Patmore fu il più volgare quando osò definirlo «un’anima piccina».

    Nel 1875 Manning ricevette la berretta cardinalizia. La promozione giunse sorprendentemente in ritardo essendo attesa già all’indomani della sua nomina ad Arcivescovo. Probabilmente la condotta troppo battagliera al Concilio costrinse il Papa a temporeggiare ancora per un po’, volendo evitare di dare ai detrattori l’impressione che il cardinalato a Manning fosse solo una ricompensa per il suo impegno a sostegno dell’infallibilità, nulla più che un quid pro quo. Ciò che è certo è che al conclave che seguì la morte di Pio IX, Manning non fu mai seriamente in lizza per diventarne il successore (ottenne forse uno o due voti e ciononostante fu l’inglese più vicino al papato dai tempi di Nicholas Breakspear). D’altronde lui stesso era consapevole che in un simile frangente storico la scelta migliore sarebbe stata quella di un Pontefice italiano, cosa che puntualmente avvenne con l’elezione di Leone XIII.



    11. Tempo di bilanci

    Anche se negli ultimi anni di vita lasciava di rado il palazzo di Westminster, Manning continuò a spendersi per i cattolici, intervenendo nel dibattito pubblico a favore della religione e contro gli errori della modernità. Per il Cardinale, poco avvezzo all’ozio, le decisioni politiche e quelle morali erano semplicemente inseparabili: questo è quello che aveva in mente quando a un giovane Belloc disse che «tutti i conflitti umani in ultima analisi sono teologici».

    Una delle prove più forti della fiducia che i fedeli nutrivano in lui si ebbe in occasione dello sciopero al porto di Londra, nel 1889. Migliaia di operai – tra cui un gran numero di cattolici irlandesi – presero a protestare a motivo dei salari troppo bassi e si decisero a interloquire unicamente con Manning. Dopo aver parlato alla folla, questi venne nominato rappresentante degli scioperanti per condurre le trattative con il governo. La situazione fu risolta così brillantemente che nel maggio dell’anno seguente, in occasione della festa del lavoro, il ritratto del Cardinale venne portato in processione per le strade di Londra accanto a quello di Karl Marx (un “onore” in verità poco gradito a Manning).

    Se l’opera del Cardinale inglese, al contrario di quanto sostenuto da alcuni, non fu la principale fonte d’ispirazione dell’enciclica Rerum Novarum (1891) di Leone XIII, il suo esempio contribuì perlomeno a evitare che Roma assumesse una posizione troppo reazionaria sulla questione sociale.



    Al netto dei molti meriti, Manning ebbe anche grossi limiti. Lo spirito incline all’azione lo spingeva a volte a seguire più l’emozione che la ragione, così come nei dibattiti dottrinali interni al cattolicesimo la sensazione diffusa è che si limitasse a considerare gli avversari, solo per il fatto di avere opinioni differenti dalla sue, nemici della Verità di Cristo e della Chiesa. Allo stesso modo il donarsi completamente agli altri gli impedì, paradossalmente, di avere amici intimi: fu un prelato fondamentalmente solo e nemmeno i pochissimi che meglio lo conobbero riuscirono mai a penetrare la corazza della sua proverbiale riservatezza.

    Almeno una cosa è comunque incontestabile: con la sua morte, avvenuta il 14 gennaio 1892, si chiuse una delle parentesi più radiose del cattolicesimo inglese degli ultimi due secoli.

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    Predefinito Re: Anglica catholica

    “Lungo l’oceano del tempo”: il ritorno al reale in un romanzo dello scozzese George Mackay Brown



    i Luca Fumagalli

    Continua con questo articolo l’approfondimento sulla vita e le opere dello scrittore scozzese George Mackay Brown (1921-1996), tra gli autori più interessanti e originali del panorama letterario cattolico del Novecento. Per i contributi precedenti:

    Il bardo delle Orcadi: le opere e i giorni di George Mackay Brown – QUI
    La comunità tradizionale e la lunga ombra del progresso nichilista: leggendo “Greenvoe”, il primo romanzo di George Mackay Brown – QUI
    “Magnus” di George Mackay Brown: note a margine di un capolavoro della letteratura cattolica scozzese – QUI

    «In ogni momento della sua vita,

    ognuno porta con sé il suo passato e il suo futuro»

    (Oscar Wilde, De Profundis)

    Stando a quanto racconta Ron Ferguson, nel settembre del 1994, quando venne annunciato che Lungo l’oceano del tempo (Beside the Ocean of Time) era stato inserito tra i finalisti del Booker Prize, George Mackay Brown, un tipo notoriamente schivo e riservato, ingurgitò in fretta e furia delle pillole calmanti, tanto gli pesava il clamore mediatico suscitato dal suo ultimo romanzo: «Non fu facile per gli intervistatori cavare qualche parola dal loro scontroso soggetto. In un tempo in cui si pensava che gli scrittori dovessero promuovere se stessi e svelare la loro personalità, Brown si ritirava ancora di più nel suo io». Alla fine non vinse le 20.000 sterline del premio finale – che andarono invece a James Kelmanma per Troppo tardi, Sammy – ma per l’autore scozzese, poeta prima che romanziere, fu la consacrazione definitiva, e nello stesso anno il libro ricevette lo Scottish Saltire Book of the Year Award.

    Pubblicato in Italia una ventina d’anni fa dalla piccola casa editrice Tranchida e purtroppo ormai fuori commercio, Lungo l’oceano del tempo è il romanzo della maturità di Brown – che sarebbe morto di lì a poco, nel 1996 – dove trovano nuova e definitiva sintesi i punti nodali della sua poetica. Le storie che colorano i vari capitoli, cucite con maestria dall’intuito narrativo del “bardo di Stromness”, si svolgono in un’atmosfera ambigua, tra il crudo realismo delle Orcadi, luoghi in cui la natura sa essere madre ma anche matrigna, e i sogni a occhi aperti di un ragazzo, veri e propri slanci lirici a cui si accompagnano pure certi spiragli autobiografici tipici di un roman a clef.

    Del resto il talento di Brown, che non fa nulla per nascondere la propria presenza tra le righe del racconto, sta tutto nel saper accompagnare chi legge in un luogo letterario perennemente in bilico tra terra e cielo. C’è un tocco guareschiano nella sua descrizione appassionata dei villaggi scozzesi, un piccolo mondo antico abbastanza grande, però, da abbracciare l’eternità; anche suggestioni pascoliane, ungarettiane e buzzatiane fanno capolino nella sua opera quando è dalle zolle dei campi e dalle onde del mare che lo scrittore attinge a piene mani per rispondere ai più urgenti interrogativi esistenziali. Ne scaturisce una sorta di visione mistica, un matrimonio tra l’anima dell’uomo e la natura che non ha nulla di pagano, anzi: Lungo l’oceano del tempo, così come il resto delle produzione di Brown – poco importa se si tratta di poesia, narrativa o teatro – è pregno di un cattolicesimo che, sebbene quasi mai esplicito, costituisce l’impalcatura stessa della scrittura, senza il quale le parole perderebbero di stabilità scivolando via dalla pagina.



    Soprattutto l’ultimo romanzo di Brown, al pari di Time in Red Coat (1984), è una meditazione sul tempo, sul passato, sul presente e sul futuro, e sulla diversa percezione che gli uomini hanno di esso. Il titolo, tratto da La montagna magica di Thomas Mann – uno dei suoi libri preferiti – rimanda esplicitamente al colloquio tra finito e infinito che caratterizza l’intera vicenda, il tutto condito con il consueto timore di Brown per quella modernità galoppante votata all’autodistruzione. In gioco vi è la possibilità di afferrare l’anima segreta delle cose: «La storia della vita di ogni uomo è un avvenimento unico, un filo ricco di significato all’interno della rete immensa dell’umanità che si dispiega. Credo che sia così, se potessimo vedere la vita di ogni persona “sub specie aeternitatis”, attraverso lo sguardo dell’angelo custode assegnato dal Cielo. La verità è che finché siamo rinchiusi in questo involucro decadente di fango, la vita di numerose persone, comprese la nostra, appare vana, futile e fugace alla fine. Ci teniamo stretti avidamente, e spesso disperatamente, a quella polvere che siamo noi stessi, sapendo come presto verrà sparsa ai quattro venti, eppure tentiamo di abbellire questo “latte cagliato, sfogliatella irreale” che è il nostro corpo con quanti ornamenti e beni e oro esso può portare, e addirittura con più gioia di quanto gli giova. “Noi trasportiamo il nostro pesante fardello per un po’, poi la morte ce ne libera…” È tutto privo di significato, a meno che non affermiamo un altro sé, un sé reale, un’anima, che sia in cerca per tutta la vita di un vero tesoro, il Graal… Il guaio è che questo pellegrino è nascosto il più delle volte, e lo s’intravede solo di quando in quando in momenti di profonda angoscia o gioia».

    La vicenda, ambientata nell’immaginaria isola orcadiana di Norday nella seconda metà degli anni Trenta, ha per protagonista il giovane Thorfin Ragnarson, un ragazzo apparentemente privo di qualità, pigro e svogliato, poco incline sia allo studio che al lavoro nei campi. Dalla sua ha solo una fervida immaginazione e non è poi così raro scovarlo in qualche luogo remoto dell’isola con la mente persa in fantasie di ogni sorta. Sogna, ad esempio, di essere un marinaio vichingo che si dirige a Bisanzio, oppure uno spettatore della battaglia di Bannockburn, quando nel XIV secolo la Scozia riuscì con le armi a ottenere l’indipendenza dall’Inghilterra; durante una gita scolastica presso un broch – una possente torre circolare risalente all’età del ferro – si immagina invece nelle vesti di un poeta che canta dell’eroica lotta degli antichi abitanti dell’isola contro i popoli del mare. A volte le sue divagazioni abbandonano la storia per assumere i contorni della fiaba: in un’occasione, dopo aver fantasticato sull’epopea del Bonnie Prince Charlie e sui metodi ingegnosi con cui gli orcadiani sfuggivano alle coscrizioni forzate di Giorgio III, Thorfin ripercorre l’avventurosa parabola biografica del “vecchio Jacob” – un abitante di Norday appena scomparso – per poi ritrovarsi sposato con la bellissima Mara, del popolo delle persone-foca, che prova nostalgia per la sua casa tra le onde.

    Incuranti dalle fantasie di Thorfin, gli abitanti di Norday continuano a condurre un’esistenza tranquilla, tra i soliti alti e bassi, fondata su consolidati riti quotidiani e sui cicli della natura: «Ci furono raccolti abbondanti, scarsi e discreti. Talvolta il mare era generoso di merluzzi e aragoste, talvolta avaro». Ogni mattina i contadini si recano nei campi e i pescatori prendono il largo con le loro navi, mentre le mogli si dedicano alla cura della casa o escono per fare compere e i più giovani raggiungono la scuola. Alla sera, prima che la giornata giunga al termine, gli uomini si radunano intorno al fuoco per bere, discutere di politica o intonare antiche ballate. A vegliare su tutti loro vi sono il vecchio laird, il nobile locale, e il bizzarro ministro presbiteriano, le uniche figure che godono di una qualche autorevolezza agli occhi degli isolani.



    Ciononostante nemmeno la remota Norday viene risparmiata dalla Seconda guerra mondiale e buona parte delle proprietà vengono requisite dal governo per la costruzione di una base aerea. Come in Un’estate a Greenvoe (1972), diverse navi di burocrati e operai giungono improvvisamente con l’ordine di sfrattare gli abitanti delle fattorie e di abbattere gli edifici più vecchi; l’intera isola è presto scossa da violente esplosioni e il palazzo del laird, già in rovina, è scelto per ospitare gli alloggi dei piloti e degli equipaggi. Nel frattempo la natura appassisce lentamente, così come gli uomini, e se il locandiere MacTavish muore di crepacuore, qualcuno, al colmo del disperazione, arriva a incendiare la propria casa in segno di protesta: «Altre lampade ad arco vennero accese tra le colline. Le stelle erano cenere» e «gli isolani ebbero la sensazione che una parte di loro stessi fosse morta».

    Thorfinn, mandato al fronte, viene fatto prigioniero e trascorre quasi tutta la guerra in un campo in Baviera. Lì, in un ambiente che richiama La svastica e la croce (1973), complice un comandante tedesco affabile e gentile, un buon cristiano il cui figlio è stato ucciso a Motnecassino, comincia a scrivere libri basati sui viaggi immaginari della gioventù: «Il soldato Ragnarson fu così audace da dire che la letteratura non conosceva frontiere; poteva essere il mezzo per unire insieme le nazioni della terra in pace e amicizia, come la musica e tutta l’arte. Anche il maggiore Schneider lo pensava».

    Una volta terminata la guerra, si trasferisce a Edimburgo e riesce persino a diventare uno scrittore abbastanza affermato. Eppure qualcosa continua a tormentarlo, a lasciarlo insoddisfatto, tanto che alla fine si risolve a tornare a Norday, vivendo di pesca. L’isola è ormai deserta e i suoi vecchi abitanti o sono morti o si sono trasferiti altrove; una comunità hippie ha cercato di condurvi una vita all’insegna della natura, ma di loro non vi è più alcuna traccia, fuggiti solo dopo una manciata di mesi a causa delle avverse condizioni meteorologiche. Se all’inizio Thorfin crede di essere solo, poco dopo scopre che nell’entroterra di Norday vive Sophie, la sorella del vecchio ministro dell’isola, un donna oltremodo affabile, che da sola manda avanti una piccola fattoria ricevuta in eredità. Lei era la prima che aveva creduto nel talento del ragazzo, pronosticando per lui un futuro da scrittore, e ora tende la mano a Thorfin, invitandolo a non disperare: «Non si raggiunge mai quel che si desidera. Dovremmo essere felici per questo».

    Il “ritorno al reale” del protagonista – per parafrasare il titolo del celebre saggio di Gustave Thibon – consiste nel riappropriarsi di quelle radici tanto disprezzate dai cantori della modernità a ogni costo. Sottile e brillante il ribaltamento che avviene nell’epilogo, quando il “sognatore”, schernito da giovane, si scopre essere l’unico vero realista in un mondo succube di utopie impossibili (a sottolineare un’altra convinzione di Brown, cioè che l’arte non è mai evasione ma contaminazione con il dramma dell’umano). A tal proposito si potrebbero citare gli esempi di Thomas Vass, il liberale di Norday, l’unico così miope da salutare con entusiasmo la costruzione dell’aerodromo – «Sarete gli uomini più ricchi delle Orcadi» – oppure il nuovo comandante del campo di prigionia tedesco, fanatico assertore di un nuovo ordine mondiale ariano benché la disfatta di Hitler sia imminente.




    Lungo l’oceano del tempo si chiude quindi con un atto d’amore, l’incontro tra una contadina e un pescatore che, a riecheggiare il titolo della raccolta poetica Fishermen with Ploughs (1971), può solo generare un miracolo: «“Nostro figlio, sarà lui il poeta” disse lei, mentre camminavano lungo l’oceano della fine e dell’inizio».

  6. #166
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    [IL MERCOLEDÌ DI PADRE BROWN] “Le colpe del Principe Saradine”: una racconto gotico (ma non senza speranze) sulla malvagità dell’uomo




    di Luca Fumagalli

    Continua con questo nuovo articolo la rubrica infrasettimanale di Radio Spada dedicata all’approfondimento e al commento dei racconti di Padre Brown, il celeberrimo sacerdote detective nato dalla penna di G. K. Chesterton, tra i più grandi intellettuali cattolici del Novecento. I racconti, a metà strada tra investigazione e apologetica, hanno per protagonista il buffo e goffo Padre Brown, interessato sia a risolvere i crimini che a salvare le anime dei colpevoli.

    Per una disamina introduttiva sulla figura di Padre Brown – protagonista pure di vari film, sceneggiati per la televisione e, addirittura, fumetti – si veda il breve articolo a questo link.

    Per le precedenti puntate: 1. La Croce azzurra / 2. Il giardino segreto / 3. Il passo strano / 4. Le stelle volanti / 5. L’uomo invisibile / 6. L’onore di Israel Gow / 7. La forma errata

    Le colpe del Principe Saradine (The Sins of Prince Saradine), ottavo racconto dell’Innocenza di Padre Brown (1911), è una storia di tradimenti, ricatti e vendette, calata in un’atmosfera di esotismo meridionale. La vicenda, che si svolge presso la dimora del Principe Saradine, nel Norfolk, dove Flambeau e Padre Brown si trovano in visita, pare la bella copia di una di quelle storie gotiche a buon mercato che, almeno per un certo periodo, godettero di discreta fama in Inghilterra, dove il sangue e una visione macchiettistica dei popoli mediterranei – soprattutto del loro cattolicesimo – la facevano da padrone.

    Basta dare un’occhiata alla parabola biografica di Saradine per rendersene immediatamente conto: prima di stabilirsi sull’Isola delle Canne, il Principe «era stato un personaggio brillante e alla moda nell’Italia meridionale. In gioventù, si diceva, era fuggito con una donna sposata di nobile famiglia; l’impresa non era poi tanto insolita nel suo ambiente, ma era rimasta nel ricordo della gente per via di una tragedia che l’aveva seguita: il suicidio del marito offeso che, a quanto pareva, si era gettato in un precipizio in Sicilia. Il Principe era vissuto poi a Vienna per qualche tempo, ma gli ultimi anni li aveva trascorsi in viaggi continui e senza sosta».

    Anche quell’alone di incanto che circonda la casa del Principe – «Pare di essere in una terra di fate», esclama Flambeau – è solamente un abbaglio che nasconde qualcosa di terribile: «Padre Brown […] si fece il segno della croce. Il suo movimento fu così improvviso che l’amico gli chiese, guardandolo con uno sguardo un po’ stupito, che cosa avesse. “Quelli che hanno scritto le ballate medievali”, rispose il prete, “ne sapevano più di te sulle fate. Non capitano solo cose piacevoli nel regno delle fate”». Più avanti, quando si ode all’improvviso un suono, «come quello di un folletto che battesse un tamburello lillipuziano e grottesco», «la strana sensazione di trovarsi in triste e cattiva terra magica ripassò per la mente del prete come una nuvoletta grigia».

    La medesima ambiguità vale per l’abitazione del Principe, un luogo solare ma al contempo malinconico: «Graziosa com’era e unica nel suo genere, la casa aveva tuttavia una strana, luminosa tristezza. Le ore vi sembravano giorni. Le lunghe stanze con tutte quelle finestre erano piene di luce, ma come di una luce morta. E, oltre tutti i rumori, le parole, il tintinnio dei bicchieri, i passi della servitù, giungeva da tutti i lati della casa la melanconica voce del fiume. “Abbiamo preso una svolta sbagliata, e siamo venuti in un posto sbagliato”, disse Padre Brown, guardando fuori della finestra i larici grigi e il fiume d’argento. “Non importa; a volte si può fare del bene, se si è la persona giusta nel posto sbagliato”».

    Tuttavia a stemperare i toni tornano i tipici paradossi chestertoniani – «lo guardava attentamente con lo sguardo grave di un bimbo» – e certe sferzate di saggezza da parte del sacerdote investigatore: «“Crede lei nel destino?”, chiese, improvvisamente, l’irrequieto Principe Saradine. “No”, rispose il suo ospite. “Credo nel giorno del Giudizio”. Il Principe si staccò dalla finestra e lo guardò in modo strano, con il viso in ombra contro la luce del tramonto. “Che cosa vuol dire?”, chiese. “Voglio dire che qui non vediamo l’arazzo dalla parte giusta”, rispose Padre Brown. “Le cose che capitano qui non sembrano avere significato: lo hanno altrove. Altrove la punizione cadrà sul vero colpevole: qui sembra spesso sbagliare persona”».




    Flambeau e Padre Brown sono ospiti di Saradine – una figura così indecifrabile, su cui circolano dicerie e pettegolezzi di ogni sorta – perché tempo addietro, quando il detective francese era ancora un famoso ladro internazionale, aveva ricevuto una lettera di stima da parte del Principe che, tra le altre cose, lo invitava proprio a venirlo a trovare nel Norfolk.

    Quando giungono alla dimora di Saradine, però, il Principe non è ancora arrivato. Al suo posto trovano il signor Paul, il maggiordomo, che li fa accomodare e li informa che il padrone è atteso a momenti, e Mrs. Anthony, la governate, «una donna bruna e bella, dall’aria assai maestosa» che parla con un lieve accento italiano. Padre Brown, «sebbene per lo più silenzioso, era un ometto stranamente simpatico, e in quelle poche ma interminabili ore entrò più a fondo nei segreti della Casa delle Canne che non il suo amico investigatore. Egli aveva quel che di silenziosamente amichevole che è così importante per le confidenze e, senza quasi dire una parola, ottenne dalle sue nuove conoscenze tutto quello che erano disposte a dire». Scopre così, per bocca dei domestici, che il Principe sta venendo ricattato dal fratello, il capitano Stephen Saradine, ed è questa la ragione per cui ora si trova costretto a vivere in Inghilterra, in una casa decisamente umile rispetto agli standard di lusso a cui, un tempo, era abituato.

    L’ingresso in scena di Saradine, un curioso misto di vivacità e asprezza, contribuisce ad accrescere quel senso di oscuro presagio che precede il drammatico epilogo: «Invero, nonostante tutta la sua dignità di uomo di mondo, il Principe Saradine emanava, per osservatori sensibili come il prete, una certa atmosfera inquieta e anche sospetta. Il suo viso era annoiato, ma gli occhi avevano un che di selvaggio; certi movimenti nervosi indicavano un uomo dedito all’alcool o agli stupefacenti». Difatti poco dopo sull’isola approda Antonelli, un giovane siciliano in cerca di vendetta, che accusa Saradine di aver ucciso suo padre con l’inganno quando lui era un fanciullo e di essere poi scappato con la madre fedifraga. Dopo il rituale schiaffo, vengono quindi estratte le spade e la contesa sta per essere risolta con un duello. Flambeau è in quel momento lontano, a pesca, e il tentativo di Padre Brown di fermare i contendenti è inutile: «Era balzato avanti, cercando di comporre la disputa; ma si accorse subito che la sua presenza peggiorava le cose. Saradine era un massone francese, ferocemente ateo, e la vista di un prete agiva su di lui secondo la legge dei contrari. Quanto all’altro uomo, né preti né laici avrebbero potuto dissuaderlo. Quel ragazzo dal volto di Bonaparte e gli occhi castani era qualcosa di più rigido di un puritano: era un pagano. Era un uccisore del mattino del mondo: un uomo dell’età della pietra… un uomo di pietra».

    Se sulle prime gli schermidori mostrano una pari abilità, alla fine è Saradine che viene ferito a morte. In quel preciso momento giunge la polizia, allertata con sospetta lentezza del signor Paul, e arresta un Antonelli sprezzante ed euforico, soddisfatto per essere riuscito a vendicare la morte del genitore e che perciò non teme più nulla, nemmeno la forca.



    Ma le sorprese non sono ancora finite, e solo col ritorno di Flambeau viene chiarito il mistero che si cela dietro la terribile storia: il signor Paul è il vero Principe, mentre l’altro, quello deceduto, era il fratello a cui, sommerso dai debiti, Saradine aveva recentemente ceduto tutte le sue proprietà, divenendone maggiordomo. Negli ultimi anni era stato costretto a cambiare continuamente dimora perché sapeva che Antonelli era sulle sue tracce, bramoso di sangue, e così, dando ogni cosa a Stephen, puntava a sbarazzarsi di due uomini pericolosi in un colpo solo, istigandoli a eliminarsi a vicenda, ispirato da un vecchio trucco di Flambeau che, da ladro, era riuscito con l’inganno a far arrestare un poliziotto da un altro poliziotto: «In fondo, è una storia primitiva. Un uomo aveva due nemici; ma poiché era savio, s’accorse che è meglio avere due nemici anziché uno». Nonostante ciò il piano di Saradine aveva una falla – unica nota di speranza in un finale altrimenti cupissimo – e c’è mancato poco che le sue macchinazioni finissero in un nulla di fatto: «C’era una difficoltà che torna a onore della natura umana», commenta Padre Borwn. «Gli animi cattivi come Saradine spesso sbagliano per non aspettarsi mai nessuna virtù dagli uomini. Egli era sicuro che il colpo dell’italiano, quando fosse arrivato, sarebbe stato oscuro, violento e anonimo, come il colpo che vendicava, che la vittima sarebbe stata pugnalata di notte, o colpita da una fucilata dietro una siepe, e sarebbe quindi morta senza parlare. Fu un brutto momento per il Principe Paul quando la cavalleria di Antonelli propose un duello formale, con tutte le possibili spiegazioni. Fu allora che lo vidi scappare in barca, con gli occhi terrorizzati. Fuggiva, a testa scoperta, in una barca, prima che Antonelli scoprisse la sua identità. Ma, per quanto agitato, non era senza speranza. Conosceva l’avventuriero e conosceva il fanatico. Era possibilissimo che Stephen, l’avventuriero, tacesse, per l’istrionico piacere che provava nel rappresentare una parte, l’avidità di conservare la sua nuova e comoda casa, la furfantesca fiducia nella fortuna e nella propria possibilità di schermitore. Era anche certo che Antonelli, il fanatico, avrebbe taciuto, e si sarebbe lasciato impiccare senza raccontare le storie di famiglia. Paul rimase sul fiume finché capì che il duello era finito. Poi diede l’allarme in città, chiamò la polizia, vide portar via per sempre i suoi due nemici sconfitti, e si sedette sorridendo a pranzo».

    Padre Brown e Flambeau sono di nuovo in barca, ormai lontani dall’Isola delle Canne dove il Principe si sta godendo la vittoria con la sua consorte (Mrs. Anthony, in realtà, è la madre del giovane Antonelli). Purtroppo, ma solo su questa terra, non è sempre il bene a trionfare.

  7. #167
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    IL MERCOLEDÌ DI PADRE BROWN] “Il martello di Dio”: uomini come dei (e conseguenti delitti)



    di Luca Fumagalli

    Continua con questo nuovo articolo la rubrica infrasettimanale di Radio Spada dedicata all’approfondimento e al commento dei racconti di Padre Brown, il celeberrimo sacerdote detective nato dalla penna di G. K. Chesterton, tra i più grandi intellettuali cattolici del Novecento. I racconti, a metà strada tra investigazione e apologetica, hanno per protagonista il buffo e goffo Padre Brown, interessato sia a risolvere i crimini che a salvare le anime dei colpevoli.

    Per una disamina introduttiva sulla figura di Padre Brown – protagonista pure di vari film, sceneggiati per la televisione e, addirittura, fumetti – si veda il breve articolo a questo link.

    Per le precedenti puntate: 1. La Croce azzurra / 2. Il giardino segreto / 3. Il passo strano / 4. Le stelle volanti / 5. L’uomo invisibile / 6. L’onore di Israel Gow / 7. La forma errata / 8. Le colpe del Principe Saradine

    Il martello di Dio (The Hammer of God) è una delle storie più iconiche tra quelle che hanno per protagonista Padre Brown, una perfetta sintesi del suo modus operandi e di quella filosofia cristiana che è il fondamento delle sue brillanti intuizioni: «Sono un uomo e perciò ho il cuore pieno di diavoli». Non a caso il racconto, il nono della raccolta L’innocenza di Padre Brown (1911), figura spesso nelle antologie dedicate al buffo prete investigatore e da esso è stato tratto pure l’episodio pilota della recente serie tv britannica Father Brown (una versione molto rimaneggiata dell’originale chestertoniano, ma non per questo priva di interesse). A rendere speciale Il martello di Dio, oltre allo strano delitto descritto, vi sono pure gli immancabili paradossi, alcuni dei quali come «Pochi, eccetto i poveri, conservano le tradizioni. Gli aristocratici […] seguono la moda» o «Non c’è un uomo così amante della legalità come l’ateo» sono tra i più famosi e citati di Chesterton.

    Al pari del racconto precedente, Le colpe del principe Saradine, anche ne Il martello di Dio la vicenda, ambientata nel piccolo villaggio di Bohun Bacon, ha a che fare con una coppia di fratelli, ultimi discendenti di una nobile famiglia decaduta: «Due fratelli s’incontrarono per la strada e si parlarono; ma uno finiva la giornata e l’altro la incominciava. Il reverendo e onorevole Wilfred Bohun era molto pio, e si dirigeva a compiere qualche austero esercizio di preghiera o di contemplazione mattutina. Il Colonnello e onorevole Norman Bohun, suo fratello maggiore, non era per nulla pio, e se ne stava seduto in abito da sera a una tavola del “Cinghiale Azzurro”, bevendo quello che un osservatore filosofo era libero di considerare sia il suo ultimo bicchiere del martedì che il primo del mercoledì».

    Il Colonnello, dopo essersi alzato, rivela al fratello che si sta recando alla casa di Barnes, il fabbro, per intrattenersi amabilmente con la bella moglie mentre il marito è occupato a Greenford. Ad ogni buon conto, onde evitare spiacevoli colluttazioni nel caso l’uomo dovesse rientrare in paese anzitempo, ha provveduto a nascondere sotto il suo cappello una specie di antico elmo orientale, recuperato tra i cimeli di famiglia. Se Norman non fa nulla per nascondere la volgarità del tipo mondano, Wilfred cerca in tutti i modi di riportarlo sulla retta via. Eppure anche in quest’ultimo non manca una nota d’ambiguità: «Pareva vivesse soltanto per la sua religione; ma c’era chi diceva (specie il fabbro, che era presbiteriano) che il suo era piuttosto amore dell’architettura gotica che amore di Dio, e che la sua assidua presenza in chiesa, dove si aggirava come uno spettro, era soltanto un’altra forma, più sublimata, di quella quasi morbosa sete di bellezza che spingeva suo fratello al vino e alle donne. Ma quest’accusa era discutibile, mentre la sua devozione era fuor di dubbio. Invero, l’accusa nasceva più che altro dall’ignoranza e dall’incomprensione dell’amore della solitudine e della preghiera raccolta, e si basava sul fatto che lo si trovava spesso inginocchiato, non davanti all’altare, ma in posti strani, nella cripta o nella galleria, o anche sul campanile».

    Poco dopo l’incontro/scontro tra i due Bohun viene ritrovato il cadavere di Norman con il cranio fracassato. Wilfred e gli abitanti del villaggio si radunano subito attorno al corpo, mentre l’ispettore di polizia e il medico locale cercano di stabilire la dinamica dell’omicidio. Tra la folla c’è pure Padre Brown, «il prete della Cappella Cattolica Romana, alla quale apparteneva la moglie del fabbro», «un uomo non così interessante da poter essere osservato, avendo dei capelli bruni irsuti e un viso rotondo e stolido»; solo «i suoi grandi occhi rotondi e grigi di bue non erano insignificanti quanto il resto del volto».



    Accanto al cadavere viene trovato un piccolo martello, ma nessuno, compreso il robusto fabbro – nel frattempo tornato in paese – avrebbe avuto la forza per vibrare un colpo così forte da uccidere il Colonnello. Inoltre è strano il fatto che l’omicida non abbia usato un martello dimensioni maggiori, di certo più adatto ai suoi scopi. Perciò è da escludere anche l’ipotesi che a commettere il delitto sia stata una donna, come sottolinea Padre Brown al medico: «Lei è come tanti dottori e la sua scienza mentale è davvero suggestiva; è la sua scienza fisica che è assolutamente impossibile. Sono d’accordo che la donna desideri uccidere il complice più di quanto lo desideri il marito offeso, ma c’è un’impossibilità fisica. Nessuna donna potrebbe frantumare a quel modo il cranio di un uomo».

    Uno alla volta vengono esclusi i vari sospettati e le indagini inevitabilmente si arenano. Barnes ha addirittura il coraggio di avanzare un’ipotesi soprannaturale, ovvero che a commettere l’omicidio sia stato Dio stesso, intenzionato a punire un viscido peccatore: «“Oh, lor signori possono sgranare gli occhi e ridacchiare e anche i preti che la domenica ci dicono in quale solitudine il Signore colpì Sennacherib. Io credo che Qualcuno che cammina invisibile in ogni casa ha difeso l’onore della mia, e ha steso morto l’offensore davanti alla soglia. Io credo che la forza di quel colpo era la forza che solleva i terremoti, nulla di meno”. Wilfred disse, con voce assolutamente indescrivibile: “Io stesso avevo detto a Norman di badare ai fulmini”».

    A questo punto Padre Brown ha un’intuizione e capisce, come rivela al medico, che la natura del delitto è sia fisica che “soprannaturale”. Porta dunque via il reverendo, stanco e sconvolto, e con lui si dirige verso la chiesa, intenzionato a visitarla. I due raggiungono così una balconata sulla sommità dell’edificio: «Immediatamente sotto e intorno a loro le linee dell’edificio gotico si tuffavano nel vuoto con una velocità vertiginosa, quasi suicida. C’è un elemento titanico nell’architettura medioevale che, da qualunque parte la si guardi, sembra sempre fuggir via, come il robusto dorso di un cavallo impazzito. Questa era costruita in antica e silenziosa pietra, cosparsa di barbe di vecchi licheni e macchiata di nidi di uccelli. E tuttavia, quando la vedevano dal di sotto, si levava in aria come una fontana verso le stelle, e ora che la guardavano dall’alto, precipitava come una cataratta in un abisso silenzioso. Quei due uomini sulla torre erano soli con il più terribile aspetto del gotico: mostruosi scorci e sproporzioni, vertiginose prospettive, grandi cose che parevano piccole e cose piccole che parevano grandi: un mondo di pietra sottosopra e sospeso a mezz’aria. Particolari di pietra, enormi per la vicinanza, si stagliavano su un disegno di campi e di case, minuscoli per la lontananza. Un uccello o un altro animale scolpito che sporgeva su un angolo pareva un grande drago che camminasse o volasse a devastare i pascoli e i villaggi sottostanti. Tutta l’atmosfera era vertiginosa e pericolosa: era come esser tenuti sospesi dalle roteanti ali di colossali spiriti dell’aria, e tutta quella vecchia chiesa, grande e ricca come una cattedrale, sembrava incombere sulla campagna soleggiata come un temporale».

    Sulla balconata avviene il dialogo centrale del racconto, quello in cui la giustizia umana e la divina sono messe a stretto confronto, rivelando infine la grande presunzione di Wilfred, colpevole di aver creduto di essere un dio, superiore al resto dell’umanità, dispensatore di giudizi e punizioni: «“Io credo che sia piuttosto pericoloso stare in posti così alti, anche per pregare”, disse Padre Brown. “Le altezze sono fatte perché le si guardi dal basso, non dall’alto”. “Perché si può cadere?”, chiese Wilfred. “L’anima può cadere, anche se il corpo non cade”, disse l’altro prete. “Non la capisco”, mormorò Bohun. “Guardi quel fabbro, per esempio”, continuò Padre Brown tranquillamente, “un buon uomo, ma non un cristiano: duro, imperioso, inesorabile. Ebbene, la religione scozzese fu creata da uomini che pregavano in cima a colline o ad alte rocce, e imparò a guardare giù verso il mondo più che a guardar su verso il cielo. L’umiltà è madre di giganti. Si vedono cose grandi dalla valle, e solo cose piccole dalle cime”».



    Più avanti il sacerdote arriva alla soluzione del caso, svelando come Wilfred abbia ucciso il fratello facendogli cadere addosso, da quell’altezza considerevole, il piccolo martello ritrovato accanto al cadavere: «“Pensò che le fosse dato di giudicare il mondo e di colpire il peccatore. Non avrebbe mai avuto un pensiero come questo se si fosse inginocchiato con gli altri uomini su un pavimento. Ma lui vedeva tutti gli uomini andare intorno come insetti. Ne vide uno in particolare, che si pavoneggiava proprio sotto di lui, che spiccava insolentemente per via di un cappello di colore vivace… un insetto velenoso. […] A tentarla fu anche il fatto che aveva in mano una delle più terribili forze della natura: voglio dire la forza di gravità. […] Se lasciassi cadere un martello… anche un piccolo martello…».

    Il reverendo, colto dallo sconforto, vorrebbe gettarsi di sotto ma Padre Brown riesce ad afferrarlo in tempo: «Non per questa porta […], questa porta conduce all’inferno». Infine lo convince a costituirsi: «Ma mi ascolti ancora. Le dico che so tutto questo; ma nessun altro lo saprà. Il prossimo passo sta a lei; io non ne farò altri, e suggellerò tutto questo con il suggello della confessione. Se mi chiede perché, ci sono molte ragioni, e solo una che la riguarda. Lascio la cosa a lei perché non è andato molto lontano sulla strada del male, come i soliti assassini. Lei non ha contribuito a dare la colpa al fabbro quando era facile, né alla moglie, quando pure era facile. Ha cercato di dare la colpa all’idiota del villaggio perché sapeva che non ne avrebbe sofferto [in quanto ritardato non sarebbe stato condannato a morte ndr]. Questo è uno di quegli sprazzi che è mio compito trovare negli assassini. E ora scenda nel villaggio, e vada per la sua strada libero come l’aria: infatti io ho detto la mia ultima parola».

  8. #168
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    [IL MERCOLEDÌ DI PADRE BROWN] “All’insegna della spada spezzata”: la storia, i suoi eroi e le sue bugie



    di Luca Fumagalli

    Continua con questo nuovo articolo la rubrica infrasettimanale di Radio Spada dedicata all’approfondimento e al commento dei racconti di Padre Brown, il celeberrimo sacerdote detective nato dalla penna di G. K. Chesterton, tra i più grandi intellettuali cattolici del Novecento. I racconti, a metà strada tra investigazione e apologetica, hanno per protagonista il buffo e goffo Padre Brown, interessato sia a risolvere i crimini che a salvare le anime dei colpevoli.

    Per una disamina introduttiva sulla figura di Padre Brown – protagonista pure di vari film, sceneggiati per la televisione e, addirittura, fumetti – si veda il breve articolo a questo link.

    Per le precedenti puntate: 1. La Croce azzurra / 2. Il giardino segreto / 3. Il passo strano / 4. Le stelle volanti / 5. L’uomo invisibile / 6. L’onore di Israel Gow / 7. La forma errata / 8. Le colpe del Principe Saradine / 9. Il martello di Dio / 10. L’occhio di Apollo

    All’insegna della spada pezzata (The Sign of the Broken Sword), undicesimo e penultimo racconto de L’innocenza di Padre Brown (1911), marca una netta differenza rispetto ai precedenti. In esso, infatti, le doti del sacerdote detective si concentrano nell’ambito dell’investigazione storica, cercando di comprendere cosa sia realmente accaduto durante una strana battaglia del passato, una di quelle gloriose disfatte i cui protagonisti, nonostante tutto, vengono celebrati con targhe e monumenti funebri sparsi per tutto l’Impero.

    L’eroe della battaglia del Fiume Nero, combattuta in Brasile durante un’immaginaria campagna britannica ai danni del presidente Olivier, è il genarle Sir Arthur St. Clare. Si racconta che dopo aver condotto i suoi uomini in un attacco avventato – su un terreno paludoso e con forze nemiche molto più numerose delle sue – il generale abbia inutilmente opposto una forte resistenza, venendo infine catturato e impiccato.

    Eppure troppe cose non tornano, a partire dagli ambigui comportamenti di St. Clare e di Olivier, notoriamente soldati d’esperienza e galantuomini. Il generale inglese ha commesso un errore troppo grossolano, così come il presidente brasiliano ha agito con una crudeltà che non gli apparteneva. Per questo Padre Brown ha trascinato Flambeau in lungo e in largo per l’Inghilterra allo scopo di ispezionare da vicino tutti i monumenti dedicati al generale. Ora si trovano a poche centinaia di metri da un’osteria, in piena notte, e mentre si incamminano per raggiungerla il sacerdote espone all’amico le sue riflessioni: «Il mistero è un mistero di psicologia; anzi un mistero di due psicologie. In quella impresa brasiliana due dei più famosi uomini della storia moderna operano contro il loro carattere. […] Ecco il mistero. Come mai uno degli uomini più saggi al mondo agì come un idiota senza alcuna ragione? Come mai uno degli uomini migliori al mondo si comportò come una canaglia, senza alcun motivo?».




    Nel corso degli anni Padre Brown è riuscito a scovare altri indizi interessanti, racimolati qua e là da persone vicine a St. Clare o che furono con lui al Fiume Nero, tanto che i pezzi del puzzle hanno ormai trovato la loro collocazione. Dietro il misterioso scontro presso il Fiume Nero si nasconde in realtà una storia di tradimenti e ricatti: St. Clare non solo ha ucciso il maggiore Murray, che minacciava di denunciare ai superiori i suoi loschi affari, ma ha anche mimetizzato il cadavere dell’uomo in una carneficina: «Dove una persona saggia nasconde una foglia? Nello foresta. Se non vi è alcuna foresta, egli la fa nascere. E se desiderasse nascondere una foglia morta, egli farebbe una foresta morta. […] E se un uomo avesse da nascondere un cadavere, farebbe un campo di cadaveri». La spada del generale si era spezzata nell’atto omicida e per tutta la durata dello scontro era stato sufficientemente accorto da non estrarla mai. Tuttavia i soldati avevano finito per capire cosa era successo e i pochi sopravvissuti alla battaglia, catturati e subito liberati dal cavalleresco Olivier, si erano fatti giustizia da soli condannando a morte il loro comandante. Si sono poi accordati per mantenere il segreto sull’accaduto, onde evitare ulteriori e fastidiose indagini.

    Come mai St. Clare avesse così tanto bisogno di soldi da essere sul punto di tradire i suoi stessi soldati, consegnandoli al nemico, è presto detto: «Sir Arthur St. Clare, come ho già detto, era un uomo che leggeva la sua Bibbia. Ecco il guaio. Quando capirà la gente che è inutile leggere la propria Bibbia se non si legge anche quella degli altri? Un tipografo legge la Bibbia in cerca di errori di stampa; la legge un mormone e vi trova la poligamia; un adepto della Christian Science legge la sua, e vi trova che non abbiamo né gambe né braccia. St. Clare era un vecchio soldato protestante anglo-indiano. Ora, pensa un momento che cosa questo può significare e, per amor del cielo, senza ipocrisia retorica. Potrebbe significare un uomo dal fisico formidabile che vive sotto un sole tropicale in una società orientale, immergendosi senza giudizio né guida in un libro orientale. Naturalmente, leggeva il Vecchio Testamento piuttosto che il Nuovo. Naturalmente, trovava nel Vecchio Testamento tutto quello che voleva… lussuria, tirannia, tradimento. Oh, magari in buona fede, come si dice; ma che vale la buona fede nell’adorazione della disonestà? In ognuno dei torridi e misteriosi paesi dove andava, teneva un harem, torturava i testimoni, ammassava illecitamente oro; ma certo avrebbe detto, con occhi fermi, che lo faceva per la gloria del Signore. La mia teologia è chiaramente espressa dalla domanda: quale Signore? Comunque, questa perdizione apre una porta dopo l’altra verso l’inferno, e sono porte che immettono in stanze sempre più strette. Ecco quello che si deve dire contro il peccato; non è che si diventi sempre più sfrenati, ma sempre più meschini. St. Clare fu presto soffocato dalle difficoltà di tacitare i ricattatori; e aveva sempre più bisogno di denaro. E, al momento della battaglia del Fiume Nero, era caduto giù fino a quel luogo che Dante mette al punto più basso dell’universo».



    Stoccata anti-protestante a parte – una critica al caposaldo luterano del “Sola Scriptura” – All’insegna della spada pezzata è la storia della corruzione di un’anima, di come «pazzia e disperazione siano cose abbastanza innocenti» rispetto alla lucida scelta di operare il male, arrivando addirittura all’estremo di condurre alla morte uomini senza colpe. Tuttavia Padre Brown non ha alcuna intenzione di rivelare al mondo la verità dei fatti, e spiega il perché a un Flambeau stordito dall’aver appena scoperto che l’osteria finalmente raggiunta è intitolata proprio alla spada spezzata del generale: «Non si finirà mai di parlare di lui in Inghilterra finché durerà il bronzo e la pietra. Le sue statue marmoree infiammeranno le anime di fieri, innocenti ragazzi per secoli, e la tomba del suo villaggio sarà circonfusa da un profumo di lealtà come quello dei gigli. Milioni di persone che non l’hanno mai conosciuto lo ameranno come un padre… quest’uomo che da quei pochi che lo videro per ultimi fu trattato come una cosa immonda, sarà considerato un santo; e la verità non sarà mai detta, perché io ho finalmente deciso. C’è tanta parte di bene e tanta di male nell’infrangere i segreti, che mi sono imposto una prova. Tutti questi giornali periranno; l’ostilità contro il Brasile è già passata; Olivier è ormai onorato dappertutto. Ma io mi dissi che se in qualche posto, nel metallo o nel marmo che durerà come le piramidi, […] qualunque persona innocente fosse stata a torto biasimata, allora avrei parlato. Se si trattava soltanto di lodi tributate a torto a St. Clare, avrei taciuto. E quindi tacerò».

  9. #169
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    “Pictures in the Cave”: memory and tradition in a novel by George Mackay Brown



    George Mackay Brown (1921-1996) is one of the most important Scottish writers of the twentieth century. Born in Stromness, in the Orkney Islands, during his long career he has published collections of poetry, short stories, novels and plays, as well as numerous articles in various periodicals. In his writings the desolate landscape of Orkney Islands is the background to the events of the poor local community, linked to its traditions, which survives thanks to fishing and working in the fields. However, Brown doesn’t want to make some sort of documentary, but he blends the present with myth and history, creating narratives between reality and fantasy. In the same way, his Catholicism is always present, even if often hidden, to give hope to individuals who would otherwise be overwhelmed by the hardships and pains of life, victims of the whims of nature and of the malice of their neighbours. Above all, what is frightening is the modernity that advances relentlessly, without heart or roots, close to swallow everything.

    Pictures in the Cave (1977), although aimed at younger readers, deals with the same themes. The novel is inspired by Greenvoe (1972), first of all for the fragmentary style, and it prepares the ground for Beside the Ocean of Time (1994), one of the most read and appreciated works by the Scotsman.



    The plot revolves around Sigurd, an Orcadian boy who loves the sea more than school. One morning, while as usual he is loitering on the beach, he meets Shelmark, of the people of the seal-men, who tells him the stories related to the mysterious cave that is nearby, where the inhabitants of the island believe it once experienced a terrible witch. At this point Sigurd disappears from the text to return only in the final chapter, while in the previous pages Shelmark’s stories are told, all set in different centuries, where the cave is the only recurring element (the passage of time is another important theme in Brown’s novels).

    If the first story talks about the wild Jennifer Stoor who does not want to marry the noble of the island, from the third chapter the various stories develop following a chronological order, from antiquity, when the Orkneys were victims from the Viking raids, up to the Second World War and the German planes that threaten the sky. Other stories tell of King Robert’s victory in Stirling against the English, or of a Spaniard who survived the sinking of an Armada galleon and then marries the girl who rescued him (this is of a well-known Scottish legend, revisited in a farcical version by Compton Mackenzie in Whiskey Galore! and mentioned in the recent TV series Shetland). The book then continues with the Bonnie Prince Charlie rebellion up to decidedly crude and dramatic episodes such as those that have as protagonists two smugglers who end up hanged or a mad suicide, the latter so in love with an imaginary siren that he is drowned. Of course, there are more sunny moments: a story, for example, involves a retarded boy who offers help to a family of gypsies on the run; in another one, the discovery of a pearl in an oyster saves father and son from eviction.



    The ambiguous epilogue, another typical feature of Brown, marks the decline of an era. In fact, Sigurd returns home after a life as a globetrotting captain to discover to his great regret that the cave, guardian of eternity, is about to be destroyed with the complicity of the island’s authorities by a company interested in exploiting some mineral deposits. Finally, in order not to lose that precious treasure that is memory, Sigurd decides to entrust his stories to little Solveig, the daughter of the housekeeper, with the task of passing them on to the successive generations.

    Only when no one tells them more, only when tradition will be forgotten, the island will end up like Atlantis.

  10. #170
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    I racconti giovanili di Ronald Firbank



    di Luca Fumagalli

    Figlio spirituale di mons. Robert Hugh Benson, l’apprezzato autore del bestseller distopico Il padrone del mondo, Ronald Firbank (1886-1926) è una di quelle personalità funamboliche del decadentismo edoardiano che sfuggono a ogni facile classificazione, poco ortodosso sia nella condotta di vita che nelle manifestazioni letterarie. Fino alla prematura scomparsa fu costretto a pagare di tasca propria tutti i romanzi che pubblicò, tanto che la sua opera venne riscoperta e rivalutata solo in seguito, quando la critica iniziò a intravedere nella produzione dell’inglese, rampollo di una famiglia della upper-class, un ideale ponte tra la stagione fin de siècle e l’avanguardia modernista.

    In Firbank, infatti, la leggerezza decadente diventa puro delirio, artificio camp, un costante dirottare il lettore dalla sostanza del racconto verso il dettaglio, l’orpello, l’artificio. L’intreccio, quando non del tutto assente, tende ad essere soverchiato dalle battute di personaggi che hanno la consistenza di marionette, condotti su un palcoscenico snob – una sala da tè, un castello o il salotto di una facoltosa signora – e invitati a dire la loro senza per questo creare una reale interazione. Più che narrare a Firbank piace illustrare, e le immagini e i suoni si caricano di un preciso valore alla maniera delle corrispondaces baudleriane. Le storpiature caricaturali dei nomi propri e, più in generale, il pirotecnico ludismo verbale dell’inglese vanno a completare un quadro che non è poi così azzardato accostare a Jonesco e ad altre voci del cosiddetto teatro dell’assurdo. Il risultato è dunque una prosa ricca e levigata, fatta di pomposi arabeschi che si dileguano in fantasmagorici trompe l’oeil e che danno corpo a racconti simili a frammenti iridescenti, abbozzi sovraccarichi di preziosismi barocchi, dove lo splendore, l’ironia e il kitsch vanno a braccetto in un caos anti-narrativo.



    Eppure sarebbe un errore liquidare l’opera di Firbank come un qualcosa di fondamentalmente superficiale, un colto esperimento letterario che, per quanto interessante, risulta un po’ troppo fine a se stesso. E’ vero che i suoi scritti, alla lunga, possono facilmente venire a noia data l’abbondanza di fumo e la cronica scarsità d’arrosto ed è altrettanto vero che lo stesso autore firmò sempre opere piuttosto brevi, per primo consapevole dell’impossibilità di sostenere a lungo un artificio privo di anima. Tuttavia la sensazione è che Firbank abbia voluto svelare con la vacuità del suo mondo letterario quel nichilismo di cui è preda la modernità, dove nulla ha un peso reale, nemmeno l’amore. I personaggi non comunicano forse perché, in fondo, non c’è nulla di vero e di sensato da dire. La loro superficialità fanciullesca, se sulle prime può strappare un sorriso, pagina dopo pagina appare sempre più come un’inquietante ombra, il riflesso di una reificazione e di un abbruttimento animalesco fatti di egoismo e della più totale mancanza d’empatia. Al pari delle grottesche figure che popolano i quadri di Ensor, dietro la loro maschera si cela uno scheletro avvizzito, privo di una sostanza umana che è andata a dissolversi. Di loro, parafrasando Montale, si può dire al massimo ciò che non sono. Dal momento che la realtà ha semplicemente cessato di esistere, la via del decorativismo per Firbank è ineludibile, e se nelle sue storie c’è un mondo, questo è “in negativo”, a sottolineare un’assenza. Il frivolo outsider inglese si trova così ad anticipare tutta la letteratura in destruendo del XX secolo e non a caso Thomas Bernhard lo colloca con Walser nel suo privato Olimpo degli autori da leggere e venerare.

    Ecco perché, al di là di un’infatuazione estetizzante, è possibile ipotizzare una ragione più profonda per la conversione di Firbank al cattolicesimo, quasi a voler ritrovare quell’anima, quell’essere, di cui sembrava difettare l’epoca edoardiana. Nei suoi racconti l’imprevisto è sempre dietro l’angolo e persino in “Studio di carattere”, uno schizzo disimpegnato di noie aristocratiche e amori labili, la gravitas si trova a soppiantare improvvisamente la levitas: «La vita moderna si distingue per il suo culto della bella figura e la corruzione dei costumi. Essere intelligenti equivale a essere artificiali. Essere artificiali equivale ad essere intelligenti. Non c’è un solo uomo, o una donna, in tutta Londra, che osi essere veramente se stesso, o se stessa. Siamo soffocati da leggi e convenzioni invisibili, pecchiamo tutti senza distinzione e ricopriamo i nostri peccati di chiffon e diamanti. Lo chiffon, certo, è trasparente, chiunque può attraversarlo con lo sguardo, pure lo chiffon resta un velo, e i diamanti, poi, i diamanti!…Noi siamo volgari e duri di cuore, ma l’essenziale è che i diamanti brillino».



    Coccolato da Giorgio Manganelli, anche in Italia Firbank ha goduto del proverbiale quarto d’ora di celebrità, sebbene le ultime traduzioni dei suoi romanzi più famosi, targate Rizzoli, Feltrinelli, Vallecchi e Guanda, risalgono ormai a parecchi anni fa.

    Solo di recente, precisamente nel 2014, sono stati tradotti i suoi racconti giovanili – i contes, come li chiamava lui stesso, alla francese – raccolti dalla piccola Robin Edizioni in un volumetto dal titolo Derelitto splendore, ulteriormente impreziosito da un’introduzione di Silvio Raffo. Si tratta di short stories appartenenti a generi differenti, scritte tra il 1903 e il 1908, che vanno dall’idillio al poema in prosa, dalla “pastorale artificiale” al divertissement, dove l’universo firbankiano con i suoi archetipi è già tutto presente.

    Se “L’amica più cara” e “Studio di carattere” testimoniano il gusto salottiero dell’autore, con vicende che si esauriscono nel chiacchiericcio femminile attorno all’immancabile tazza di tè, “Amore vero”, “La mésalliance di Lady Appledore” e il già citato “Studio di carattere” non mancano di risvolti maggiormente seri, con protagonisti impegnati in scelte difficili, destinate a cambiare per sempre il corso delle loro vite. “Vedove in amore” e “Uno studio in opale” svelano invece come nelle dinamiche sentimentali siano la gelosia, l’invidia e il desiderio d’evasione a farla da padroni, mentre “La novizia incostante” racconta della spaventosa fragilità di chi pretende di fare scelte esistenziali radicali senza aver valutato ogni possibile conseguenza. Altri racconti, come ad esempio i brevissimi “Lontano lontano”, “La principessa dei girasoli” e “Souvenir d’automne”, appaiono simili a poemi in prosa, con intrecci labili e descrizioni ridondanti, certamente meno significativi rispetto a “L’uccellino e la luna”, dove l’estro di Firbank si trasforma in un struggente fiaba alla Wilde.



    Non potevano mancare nemmeno storie segnate dalla Fede dell’autore come l’agrodolce “La leggenda di Sainte Gabrielle”, in cui la morte di una suora sedicenne, portata in Paradiso dalla Madonna, si trasfigura nel pianto di una madre per la figlia scomparsa. Infine “Odette d’Antrevernes”, il racconto posto in apertura del volume e forse il migliore in assoluto della raccolta, è, come recita il sottotitolo, “una favola per i delusi del mondo”, ossia una curiosa novella di conversione. Odette è una bambina orfana che vive in una castello con la zia, rimasta vedova dopo che il marito è stato ucciso in duello. Appassionata lettrice della storia di Santa Bernadette, anche lei vorrebbe vedere da vicino la Madonna. Una notte, allora, esce di nascosto in giardino nella speranza di incontrarla al chiaro di luna, ma al suo posto si imbatte in una donna disperata che Odette consola regalandole una croce d’argento. Anche se non ha visto la Madonna, la fanciulla torna nel suo letto felice, soddisfatta per aver fatto del bene.

    “Odette d’Antrevernes” e altre storie analoghe dimostrano che il genio della frivolezza può essere anche il genio della verità. Tutto questo – e molto di più – è Ronald Firbank.
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