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Discussione: Anglica catholica

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    Predefinito Re: Anglica catholica

    Un canto per le Orcadi: sfogliando l’autobiografia di George Mackay Brown, poeta del radicamento



    di Luca Fumagalli

    Continua con questo articolo l’approfondimento sulla vita e le opere dello scrittore scozzese George Mackay Brown (1921-1996), tra gli autori più interessanti e originali del panorama letterario cattolico del Novecento. Per i contributi precedenti:

    Il bardo delle Orcadi: le opere e i giorni di George Mackay Brown – QUI
    La comunità tradizionale e la lunga ombra del progresso nichilista: leggendo “Greenvoe”, il primo romanzo di George Mackay Brown – QUI
    “Magnus” di George Mackay Brown: note a margine di un capolavoro della letteratura cattolica scozzese – QUI
    “Lungo l’oceano del tempo”: il ritorno al reale in un romanzo dello scozzese George Mackay Brown – QUI
    “In quella grotta” di George Mackay Brown: le radici e la memoria in uno splendido romanzo per ragazzi – QUI
    «Una bellezza e una verità senza prezzo»: la conversione di George Mackay Brown, tra i più grandi autori scozzesi del XX secolo – QUI

    Introduzione

    Pubblicata nel 1997, un anno dopo la scomparsa di George Mackay Brown, For The Islands I Sing è un’autobiografia breve e avvolgente, stesa in prima battuta nel 1985 e ampliata di poco nel 1993. Anche se procede in ordine cronologico, il volume è talmente zeppo di incisi e parentesi – compresi alcuni inserti poetici o narrativi – che la cosa si avverte appena. Lo scorrere degli anni sta, per così dire, sullo sfondo, limitandosi a dare coerenza a un testo che rischierebbe altrimenti di franare in una giustapposizione confusa di riflessioni sparse. Difatti in For The Islands I Sing Brown, tra i più grandi poeti e prosatori scozzesi del XX secolo, si dedica soprattutto ad analizzare la propria parabola creativa, mettendo in risalto gli elementi essenziali di una poetica del radicamento dal sapore decisamente antimoderno, che trae linfa vitale sia della piccola patria orcadiana che dalla Fede. Nelle sue opere protagonista indiscusso è proprio il microcosmo delle isole Orcadi, non un mondo a parte ma un riflesso, seppur in scala decisamente più piccola, dell’universo intero. Qui contadini e pescatori vivono in armonia con il creato, nutrendosi pure di racconti e antiche leggende. A minacciare la comunità, con i suoi legami secolari, vi è però costante la presenza del “progresso”, un nemico senza volto, tecnologico e omologante, votato unicamente alla distruzione per un meschino tornaconto economico.

    Tralasciando le parti dedicate alla conversione al cattolicesimo – di cui si è già discusso in un precedente articolo – e quelle più schiettamente biografiche, è possibile individuare in For The Islands I Sing quattro nuclei tematici principali, ovvero le Orcadi, la Orkneyinga Saga, il “progresso” e la scrittura, tutti ugualmente interessanti per apprendere qualcosa in più su Brown e sulla sua opera.




    Le Orcadi e la sua gente

    Brown era nato nel 1921 nella piccola cittadina costiera di Stromness, «chiamata dai vichinghi Hamnavoe, che significa “paradiso dentro la baia”». Lì, salvo una breve parentesi a Edimburgo, condusse una vita ritirata fino alla fine dei suoi giorni.

    Al di là del paese natale, più in generale sono le isole Orcadi a costituire per Brown una fonte di ispirazione imprescindibile: «Mi sono dilungato molto su questo sfondo perché è l’ambientazione di quasi tutto quello che ho scritto. Le Orcadi sono un terreno particolarmente fertile per la narrativa e la poesia. Due orcadiani appartenuti a una generazione precedente la mia – il poeta, traduttore e saggista Edwin Muir e il romanziere Eric Linklater – si sono abbeverati a queste fonti, ognuno a suo modo. Un poeta lirico non molto conosciuto, perché i suoi lavori migliori sono stati scritti nel dialetto delle Orcadi, era Robert Rendall. Qualche volta penso che sia possibile che più o meno una dozzina delle sue liriche perfette sopravvivranno a tutto quello che noi abbiamo fatto».

    Le Orcadi significano poi identità e senso di appartenenza: «Oggi l’onda sembra muoversi contro la cultura – specialmente la poesia – delle piccole nazioni. Un grande e grigio linguaggio universale potrebbe infine coprire ogni cosa. Ma ho fede che la lingua degli uomini sia più strettamente legata alle montagne e ai mari di quanto noi pensiamo; le forme naturali, i suoni e i silenzi genarono la poesia».




    Tutto ciò spiega come mai nella topografia delle isole affondi pure parte dell’immaginario simbolico di Brown (a cui contribuiscono anche altri elementi come, ad esempio, la numerologia biblica). Emblematico è il caso del pozzo, quasi un correlativo oggettivo alla Eliot: «Vi era una fattoria nella parte sud di Brinkie’s Brae con un pozzo a lato della strada la cui acqua, stando a quello che si diceva una volta, aveva poteri miracolosi (un simile pozzo è un simbolo ricorrente nei miei scritti)».

    Tuttavia le Orcadi sarebbero poca cosa senza i loro abitanti e ad essi Brown dedica numerose pagine di For the Islands I Sing.

    I primi a venire menzionati sono i pescatori e i contadini, onnipresenti nelle opere dello scozzese. Sebbene imperfetti al pari di ogni altro essere umano, per Brown divengono emblemi di un legame sincero, sano e fecondo con la natura e con il prossimo: «Ho menzionato gli agricoltori e i pescatori perché sono figure spesso presenti nelle storie e nelle poesie che ho scritto. Nei miei lavori ho cercato di far entrare i due ritmi della terra e del mare; essi sono, in un certo senso, differenti ed opposti, eppure, una volta trasportati nell’immaginazione, creano uno schema e un’armonia». Qualche pagina dopo: «Per quanto gli scozzesi abbiano sempre affermato di essere le più democratiche delle persone, un certo classismo c’è sempre stato, di sicuro a partire dalla rivoluzione industriale. Secondo questo ideale, i lavori più degradanti sarebbero quelli legati alla terra e al mare. Contadini e pescatori, che sono stati così importanti nella società delle Orcadi (essendo la maggioranza), venivano considerati l’ultima ruota del carro». Secondo Brown, naturalmente, le cose stanno all’opposto: «Col passare degli anni sono giunto a considerare contadini e pescatori, e il loro lavoro, come i pilastri di una qualsiasi comunità. Dove sarebbero i generali, i poeti, i legislatori e i filosofi senza il loro lavoro fondamentale? D’altronde le persone migliori che abbia mai conosciuto, gli individui più ricchi e sinceri, erano agricoltori, pescatori e marinai. […] Senza i lavoratori della terra e del mare credo che non avrei mai scritto nessuna storia o poesia».



    Ai vagabondi e ai beoni Brown assegna invece il compito di inscenare il dramma della normalità, quella giostra infinita di miseria e grandezza che, malgrado tutto, non riesce a nasconderei segni della presenza di una provvidenza divina: «I vagabondi e gli ubriaconi entrano frequentemente nelle mie storie e nelle mie poesie (troppo di frequente, secondo alcuni lettori). Un motivo, credo, è che simili persone sono possedute da una libertà selvaggia e precaria negata a molti di quelli che sono immersi nella routine del fare soldi e dei comportamenti accettabili, imprigionati in giorni grigi eternamente uguali. In realtà ho imparato che non è così; la vita di ognuno di noi è misteriosa e unica. Sotto il cumulo dell’abitudine, della noia e delle mode da qualche parte giace qual “diamante immortale” di cui parlava Gerard Manley Hopkins. Edwin Miur l’avrebbe chiamato l’ “Eden”, un’eredità puramente umana che risale direttamente al Creatore. Sono spesso stato affascinato dallo snobismo latente che molte persone, persino le più povere e derelitte, tengono nascosto da qualche parte dentro di loro; al minimo incoraggiamento ti diranno, in un segreto sospiro d’orgoglio, che loro non sono ciò che sembrano, che discendono da un antico lignaggio, che hanno legami con qualche duca di due secoli fa o, andando ancora più a ritroso nelle nebbie del passato, con un famoso capo vichingo. Potrebbe essere un frammento svelato di “Eden” – un simbolo davvero bello della poesia di Muir – o un bisbiglio distorto di certi accenni di immortalità alla Wordsworth. Io stesso mi meraviglio di questa preoccupazione per i frammenti sparsi di regni perduti, di questo guardare alle pietre come se fossero gioielli. […] E’ notevole come nella letteratura moderna sia l’uomo comune a custodire il tesoro più raro. Là, smarrito, vi è il “diamante immortale”».

    Nei sui scritti Brown fu un attento indagatore delle dinamiche relazionali. Ai personaggi volle donare quella compiutezza che aveva tanto apprezzato nei capolavori di Shakespeare, Tolstoy, Mann, Forster e Molière: «Indossiamo delle maschere quando usciamo dalla nostra casa ed entriamo nella comunità. La vita in comune è complessa; indossiamo una maschera diversa per ciascuna persona che incontriamo […]. Simili misteri non li ho certo dimenticati quando ho iniziato a scrivere. In tutti i rapporti umani ci sono intrecci complicati, come gli strumenti musicali in un quartetto o in un’orchestra». Ancora: «Sin dalla riapertura dei pub, un nuovo elemento entrò nei miei scritti: il cambiamento, positivo o negativo, procurato dall’alcol sulle persone. Mi fornì l’opportunità di studiare dall’interno i meccanismi della mente: come al di sotto della grigia complessità della superficie esistesse un semplice mondo ritualistico di gioia e rabbia».




    L’anelito alla compiutezza non è accantonato da Brown nemmeno quando nei protagonisti delle sue storie sono ravvisabili caratteristiche che tendono a ripresentarsi con poche variazioni: «La relazioni tra uomini e donne è spesso esplorata nei miei lavori, e la tendenza è sempre quella di associare gli uomini al pericolo, al rischio, alla rottura e all’abbattimento, e le donne all’attesa infinita, alla pazienza e alla consolazione».

    Una storia norrena

    Al cuore dell’ispirazione dello scrittore scozzese, oltre alle isole e alla sua gente, vi è anche l’ Orkneyinga Saga, «un meraviglioso esempio di letteratura». Si tratta di una delle più celebri saghe norrene che abbraccia la storia delle Orcadi a partire dal IX secolo, quando i norvegesi conquistarono l’arcipelago, fino ad arrivare al XIII secolo, epoca degli Jarl: «Questi fatti storici formano lo sfondo di molte delle opere narrative e dei versi che ho scritto. Senza la bellezza violenta di questi avvenimenti di otto secolo e mezzo fa, la mia scrittura sarebbe stata piuttosto differente». Dall’amore di Brown per la Saga deriva inoltre la convinzione che racconto e memoria siano intimamente connessi: «Mi ha colpito una frase di Thomas Mann, cioè che l’arte in qualche modo è “anonima e della comunità”».

    Quella del conte Magnus Erlendsson, ucciso a tradimento dal cugino e in seguito venerato come Santo – a lui è dedicata la cattedrale orcadiana di Kirkwall –, è la figura della Saga alla quale l’autore scozzese si sentiva maggiormente legato. Incarnazione del sacrificio provvidenziale, a lui Brown dedicò svariati scritti tra cui il romanzo Magnus (1973), il suo prediletto: «Alcuni sezioni di Magnus credo siano tra le cose migliori che abbia mai scritto. Pochi lettori sono d’accordo con me. Ma, penso, sia sempre così. “Ciò che tu ami sopra ogni cosa” è spesso guardato con freddezza dagli altri».



    a Saga – un classico che, al pari di ogni buon libro, «appartiene a tutte le età, è un’oasi di acqua e verde, è custodito dal suo stesso spirito generoso» – è stata per Brown un modello anche dal punto di vista stilistico: «La struttura e la forma delle storie che compongono una saga sono magnifiche. Penso di aver imparato da esse l’importanza di una forma pura. Ma dalla parte di mia madre, quella celtica, ho tratto il piacere anche per il decorativismo. Si pensi alla complessità della prima arte gaelica. Se sia o meno desiderabile coniugare la “pura narrativa” con una decorazione elaborata non sta a me dirlo. Io scrivo come devo». Sempre a proposito dell’ispirazione: «Non vi è dubbio che gli scrittori prediletti da qualcuno entrino nella sua immaginazione creativa e lo influenzino; tuttavia nessuno deve essere così stupido da imitarli».

    Luci e ombre del tempo che verrà

    La definizione che Brown dà di “progresso” è abbastanza semplice: «Si tratta di quella religione dell’uomo del XIX secolo – quella forza irresistibile – che distrugge e sradica ogni cosa che gli si para innanzi. Niente è sacro o bello; contano solo il denaro e i profitti». Triste esempio di un simile atteggiamento è la fine della ricca cultura gaelica, «quasi del tutto annientata». Ma, come si suol dire, non tutto il male viene per nuocere se altrove Brown scrive che «dalla desolazione delle Highland ho forse ottenuto il mio talento poetico».

    Di nuovo le Orcadi forniscono allo scrittore una geografia simbolico-valoriale all’interno della quale dare sostanza narrativa al suo monito: «Alla fine della strada c’è la vallata marina di Rackwick. […] Una volta era una valle popolosa, ma già aveva parso la maggior parte dei suoi abitanti. Molte delle piccole abitazioni erano abbandonate; la decadenza stava iniziando a cibarsi di ogni cosa. […] Ho rivisto Rackwick parecchie volte dal 1946. Il simbolo ritorna in molte delle mie storie e delle mie poesie migliori, donando loro splendore e forza». A titolo esemplificativo Brown cita Fishermen with Ploughts (1972), ciclo poetico in cui si narra dell’abbandono della vallata di Rackwick e del suo successivo ripopolamento quando, a causa di una guerra nucleare, persone di ogni sorta vi ritornano nella speranza di un nuovo inizio. Lo stesso tema si ripropone anche nel suo primo romanzo, Greenvoe, pubblicato sempre nel 1972 (tra l’altro in Greenvoe fa la sua comparsa il personaggio preferito di Brown, ovvero Elizabeth MacKee, anziana madre del ministro locale che, tormentata dal rimorso per aver condotto il figlio verso l’alcolismo, diviene vittima di uno strano processo inquisitorio in cui a puntare il dito contro di lei sono i fantasmi della sua memoria).



    Ciononostante lo scrittore scozzese è perfettamente consapevole del pericolo di idealizzare il passato, di trasformarlo in un’epoca d’oro che, in verità, non è mai esistita: «Può essere che l’arte, guardando indietro e avanti, esista per celebrare un buon modo di vivere che è andato scomparendo e che potrebbe tornare. Dobbiamo stare sempre all’erta dal pericolo di romanticizzare: la vita in luoghi come Rackwick deve essere sempre stata dura, pericolosa e scomoda». Un giudizio identico è ravvisabile altrove: «Gli architetti moderni hanno molto di cui rispondere, ma almeno alcuni di loro hanno costruito delle scuole pensate per essere luoghi di gioia per i fanciulli»; oppure: «E’ il mondo moderno che ha spinto Edwin Muir e me verso la poesia […] Ma dobbiamo andarci piano. Il nuovo mondo, se in una mano porta una coppa di veleno, nell’altra porta i benefici della scienza. […] C’è stato un tempo, un secolo e mezzo fa, in cui la vita era pericolosa, il linguaggio ricco e la comunità aveva un suo aspetto cerimoniale. Le persone vivevano vicini alle fonti della poesia e della narrativa, e non ne erano consapevoli. Tutta l’arte che ho la devo ai nonni dei miei nonni e alle generazioni ancora prima; riconosco il dono e il debito, ma non avrei mai voluto vivere una vita difficile come la loro».

    Il mestiere di scrivere

    Se «la storia era l’unica materia a scuola mi affascinava. […] Accrebbe la mia immaginazione», uno dei poeti che più influenzò la carriera letteraria di Brown fu senza dubbio il gesuita Gerard Manley Hopkins, a cui lo scozzese dedicò una tesi post-laurea: «Ho sempre amato i componimenti di Hopkins. […] L’immagine che si avvicina maggiormente a Hopkins è quella del fabbro. […] Nessun rimatore inglese ha mai maneggiato il linguaggio con simile abilità, dolcezza e audacia».



    Hopkins fu pure un uomo tormentato, in perenne lotta con se stesso e con il mondo; d’altronde, come ricorda lo stesso Brown, tutte le poesie, sebbene tendano alla contemplazione – «Il silenzio è sempre stato prezioso per me» – «nascono dalla violenza e dall’odio; nella società perfetta non verrebbe recitata alcuna poesia: le persone stesse sarebbero sillabe nel coro universale di gioia, l’armonia di tutte le cose create». Tra i compiti dello scrittore vi è quindi quello di cogliere quanto di buono si nasconde dietro la cortina del male dilagante e del caos: «La prima battuta di Shakespeare che ho letto mi ha subito colpito: “Non so davvero perché sono tanto triste. E questa tristezza mi stanca”. Queste parole andrebbero scolpite sull’architrave della mia porta: in un certo senso esprimono alla perfezione la mia vita e il mio modo di guardare alle cose – una malinconia tremante, un mistero attraverso il quale si intravedono e si indovinano di tanto in tanto forme di bellezza e di gioia. A volte mi sembra che “Sia fatta la tua volontà” sia l’unica preghiera che valga la pena recitare poiché essa comprende ogni cosa».

    Per quanto appagante, la scrittura rimane comunque un mestiere difficile, soprattutto per un puntiglioso come Brown che, perennemente insoddisfatto, sottoponeva i propri lavori a un’incessante opera di labor limae. Ecco perché, quando ci si avventura nella bibliografia dello scozzese, non è raro incappare in versioni differenti della medesima poesia e dello stesso racconto: «Il disgusto che ho per quasi tutto quello che ho pubblicato continua. Perfino mentre scrivo queste righe avverto una sorta di inibizione: non è come dovrebbe essere». Diverse pagine dopo: «Il mestiere di scrivere è, sotto molti aspetti, un affare spiacevole; non è come certi lavori quali l’artigiano o il muratore dove, una volta imparati i rudimenti, si può solo migliorare col tempo. Per lo scrittore il vento soffia dove vuole. Molti giovani cari alle muse sono abbandonati da esse o tenuti a un severa distanza». Per affermarsi è molto importante contare pure sulle persone giuste: «Senza l’aiuto di altri poeti, sarei rimasto un oscuro scrittore delle Orcadi; oppure qualsiasi riconoscimento più ampio sarebbe magari stato posticipato di anni».




    Dopo una stoccata al giornalismo sensazionalista – «La poesia è eternamente in guerra con il giornalismo» –, agli idolatri dell’arte e a quei critici dal facile giudizio che non hanno mai tempo di cogliere la vera essenza di un libro, la conclusione di For the Islands I Sing si risolve in un panegirico a favore della fantasia di contro a certo sterile realismo modero che, a conti fatti, altro non è se non un «nemico dell’immaginazione creativa»: «Ogni volta che ho fatto delle ricerche per ambientare al meglio una storia che stavo per iniziare a scrivere, ho notato che lo spirito della storia finiva per essere schiacciato da un eccessivo accumulo di fatti e di cifre. So che oggigiorno lavorare così non è di moda tra i romanzieri e i drammaturghi, ovvero usando l’intangibile e il libero gioco dell’immaginazione. Oggi gli scrittori devono andare e vedere di persona. […] Molto umilmente posso solo fare appello ai grandi spiriti del passato. Omero è mai stato a Troia?»

  2. #192
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    [IL MERCOLEDÌ DI PADRE BROWN] “La testa di Cesare”: l’idolatria per le cose di questo mondo



    di Luca Fumagalli

    Continua con questo nuovo articolo la rubrica infrasettimanale di Radio Spada dedicata all’approfondimento e al commento dei racconti di Padre Brown, il celebre sacerdote detective nato dalla penna di G. K. Chesterton, tra i più grandi intellettuali cattolici del Novecento. I racconti, a metà strada tra investigazione e apologetica, hanno per protagonista il buffo e goffo Padre Brown, interessato sia a risolvere i crimini che a salvare le anime dei colpevoli.

    Per una disamina introduttiva sulla figura di Padre Brown – protagonista pure di vari film, sceneggiati per la televisione e, addirittura, fumetti – si veda il breve articolo a questo link.

    Per le precedenti puntate… da “L’innocenza di Padre Brown: 1. La Croce azzurra / 2. Il giardino segreto / 3. Il passo strano / 4. Le stelle volanti / 5. L’uomo invisibile / 6. L’onore di Israel Gow / 7. La forma errata / 8. Le colpe del Principe Saradine / 9. Il martello di Dio / 10. L’occhio di Apollo / 11. All’insegna della spada spezzata / 12. I tre strumenti di morte. Da “La saggezza di Padre Brown”: 1. L’assenza del Signor Grass / 2. Il paradiso dei ladri / 3. Il duello del dottor Hirsch / 4. L’uomo nel passaggio / 5. L’errore della macchina

    di Luca Fumagalli

    Continua con questo nuovo articolo la rubrica infrasettimanale di Radio Spada dedicata all’approfondimento e al commento dei racconti di Padre Brown, il celebre sacerdote detective nato dalla penna di G. K. Chesterton, tra i più grandi intellettuali cattolici del Novecento. I racconti, a metà strada tra investigazione e apologetica, hanno per protagonista il buffo e goffo Padre Brown, interessato sia a risolvere i crimini che a salvare le anime dei colpevoli.

    Per una disamina introduttiva sulla figura di Padre Brown – protagonista pure di vari film, sceneggiati per la televisione e, addirittura, fumetti – si veda il breve articolo a questo link.

    Per le precedenti puntate… da “L’innocenza di Padre Brown: 1. La Croce azzurra / 2. Il giardino segreto / 3. Il passo strano / 4. Le stelle volanti / 5. L’uomo invisibile / 6. L’onore di Israel Gow / 7. La forma errata / 8. Le colpe del Principe Saradine / 9. Il martello di Dio / 10. L’occhio di Apollo / 11. All’insegna della spada spezzata / 12. I tre strumenti di morte. Da “La saggezza di Padre Brown”: 1. L’assenza del Signor Grass / 2. Il paradiso dei ladri / 3. Il duello del dottor Hirsch / 4. L’uomo nel passaggio / 5. L’errore della macchina


    La testa di Cesare (The Head of Caesar), sesto racconto della raccolta La saggezza di Padre Brown (1914), per quanto ben congeniato e scritto, non è nulla di speciale. La storia ha dalla sua uno stile spumeggiante, venato di quel surrealismo fiabesco che è il marchio di fabbrica del miglior Chesterton, ma è decisamente manchevole dal punto di vista dei paradossi memorabili. Scarsi sono pure gli spunti apologetici, il più notevole dei quali è forse quello dedicato all’ateismo: dopo una brillante definizione dell’uomo come mistero con un cuore, il sacerdote investigatore chiosa: «Ciò che tutti noi temiamo di più è un’incertezza senza nessun cuore. E’ proprio per questo che l’ateismo è un incubo».

    Padre Brown, con il suo «volto non troppo dissimile da quello di un innocente fantasma» e l’amico Flambeau si trovano in una locanda di Brompton, a Kensngton, per trascorrere la serata. Il prete, «già parroco di Cobhole nell’Essex ed ora in missione a Londra» nota attraverso la finestra una losca figura che si aggira per strada con un naso adunco, certamente finto. Insospettito, invita Flambeau a seguirlo. Dopo essere stato lasciato solo, al suo tavolo si avvicina una giovane dai capelli rossi, Cristabel Carstairs, che confida a Padre Brown che è entrata nella locanda proprio per sfuggire a quell’uomo inquietante che da qualche tempo la sta ricattando.

    Inizia così a raccontare la sua storia, che prosegue anche dopo il ritorno di Flambeau. Lei è la figlia del Colonnello Carstairs, famoso per essere stato il proprietario di un’imponente collezione di antiche monete romane che venerava e a cui dedicò tutta la sua vita. Proprio per questo, dopo la sua morte, ha voluto lasciare la collezione in eredità ad Arthur, il figlio più retto e leale, distintosi in matematica ed economia a Cambridge. L’altro figlio, Giles, decisamente più scapestrato, lo aveva invece spedito in Australia con un piccolo assegno, mentre a Cristabel aveva lasciato la maggior parte delle sue sostanze. Sorprendendo tutti, non solo Arthur non se l’era presa per la decisione paterna, anzi, aveva incominciato a comportarsi similmente al Colonnello, passando le sue giornate chiuso in casa, come un eremita, a contemplare la collezione, uscendo solo per vendere e acquistare nuovi pezzi. Nel frattempo Cristabel si era fidanzata con un amico di Giles, Philip Hawker. Tuttavia da quando un giorno aveva portato a questi in dono una moneta con la testa di Cesare sottratta dalla collezione del fratello, un misterioso uomo dal naso adunco aveva preso a seguirla e a ricattarla per il suo furto.

    Sentendo puzza di bruciato, Padre Brown e Flambeau si recano allora presso la dimora londinese dei Carstairs, dove Arthur è temporaneamente alloggiato, per scoprire che l’uomo con il naso adunco non è altri che lui. Preso in trappola, ad Arthur non resta che la via di fuga del suicidio: prima che Flambeau possa fermarlo, ingurgita un intero flacone di medicinali.

    Con l’arrivo della polizia sul posto, il sacerdote detective svela la soluzione del caso: «Il suo perverso padre aveva redatto un testamento crudele, e avete visto che Arthur se ne era risentito non poco. Odiava il denaro romano che possedeva, e si invaghì del vero denaro che gli era stato negato. Non solo vendette la collezione pezzo per pezzo, ma si abbassò a poco a poco alle più basse vie per fare denaro: persino al ricatto della sua stessa famiglia con un travestimento. Ricattò il fratello in Australia per il suo piccolo crimine dimenticato […], ricattò sua sorella per il furto che solo lui poteva aver notato».

    Il racconto si chiude con una condanna rivolta all’idolatria per le cose di questo mondo, una tentazione che è innanzitutto dell’ateo: «Cosa c’è di male per uno spilorcio che non sia male per un collezionista? Cosa c’è di male, tranne… “tu non dovrai scolpire alcuna immagine, non dovrai inchinarti a loro e neppure servirle, perché Io…”».

  3. #193
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    “The Power and the Glory”: rereading Graham Greene’s most famous novel



    Luca Fumagalli

    The Power and the Glory, first published in 1940, is Graham Greene’s most famous novel, a milestone in twentieth-century Catholic literature. It is the only novel in the writer’s extensive bibliography written following a structure already clearly defined at the beginning of the work (the author himself confirms this in the autobiographical volume Ways of Escape). That’s one of the reasons why The Power and Glory appears like a kind of moral fable.

    The story, set in Mexico in the Thirties, during the anti-Catholic persecutions by the government, tells the daring escape of a priest hunted by a group of soldiers, forced to travel at night in disguise and to celebrate Mass wherever is convenient. Tired and in trouble, his wandering existence, especially after meeting a mestizo ready to betray him, seems destined for a terrible ending.

    Greene, who had been closely acquainted with the tragedy of Mexican Catholics, the so-called “Cristeros”, and had recounted it in 1939 in The Lawless Road, a book halfway between a journalistic investigation and a travel story, starts from a precise historical context to create a narrative with a universal meaning – which deals with the crisis of an entire civilization – where space and time matter little in comparison with the tragic value of the protagonists. According to a pattern that is repeated throughout the writer’s production, in the novel there is a constant passage from perdition to redemption and vice versa, in which the traditional and somewhat stereotyped roles of the saint and the sinner are overturned. Consequently, the reader finds himself increasingly lost in a grotesque universe, dominated by disillusionment, devoid of certainties. On the other hand, Greene is very skilled in shuffling the cards on the table, fleeing the temptation to simplify a complex reality like that of the human soul and its manifold contradictions.

    Although a passionate scholar of the Jesuit martyrs during the Elizabethan regime and linked to the figure of the Mexican priest Miguel Agustín Pro – shot without trial, due to his pastoral activity, in 1927 – the author gives shape to unusual protagonists, diametrically opposed to those usually offered in the British Catholic fiction of the Twentieth century: in fact, if the priest is a “whiskey priest”, a drunkard with an illegitimate daughter, who celebrates Mass in mortal sin and who is haunted only by the concern of reaching the border to save himself, the lieutenant of the squad that pursues him shows, on the contrary, a decidedly out-of-the-ordinary moral integrity, worthy of a true missionary, and this despite being the servant of an openly Masonic and violent government. The effect is nothing short of stunning, almost nauseating, deliberately sought by Greene not in a childish spirit of provocation, but to honestly dialogue with a reader who is caught off guard, and therefore without the barriers of prejudice. The “normalization” comes only in the final pages, when the priest reveals himself as a saint, washing with the blood of martyrdom those sins that have weighed on his conscience for too long (it is the glory of eternity that triumphs over power, over the flat and deadly meanness of the world).

    The flight of the anti-hero priest, too fragile in the painful circumstances he has to face, becomes a sort of reflection of the condition of modern man who, rather than escape from the temptation of sin, tries in every way to avoid a God who is mercifully on his trail and with whom it is too burdensome to deal (the affinities with Francis Thompson’s poem “The Hound of Heaven” are all too evident). At an allegorical level, the novel, similar to a Seventeenth-century tragedy in the description of virtue and vice, can be read just as a failed attempt to avoid holiness (the refrain of the priest who confesses his sins, considering himself a great sinner, does nothing but underline it cyclically).

    However, in the epilogue, faith confirms itself as the only alternative to the nothingness in which Mexico was swallowed up, with its villages suffocated by an unbearable heat, marred by the stench of sweat and corruption, inhabited by the same former humans who also appear in the works of Eliot and Waugh. Moreover, the priest’s daughter herself, an ineluctable image of her mistakes, bears with her the trace of a divine charity capable of drawing a greater good from evil, somehow anticipating the novel’s hopeful ending.

    Written with an agile and enveloping style, The Power and the Glory is, in some ways, an anti-hagiographic work, so unusual that many years after the publication, in 1953, even the Holy Office intervened to order Greene to modify some passages, judged excessively direct and unsuitable (the thing ended in nothingness); nevertheless, or perhaps precisely for this reason, the work effectively succeeds in the difficult task of showing what it really means to be a saint, that is not a Übermensch, but a simple man – with all his limitations and cowardice – who converts, who returns to the right path, who learns to welcome circumstances and others with total freedom, also capable of surrendering to the will of the Creator and trusting himself to him, even at the cost of his own life.

    The “Whiskey Priest”, unlike his brother, Father José, who married to avoid prison, and unlike the lieutenant, an undoubtedly noble spirit but capable only of suffocating life, in the end proves faithful to his priestly vocation. His sacrifice is not useless and is indeed destined to bear great fruit: already on the very night of the execution a new mysterious missionary makes his appearance in the city.

  4. #194
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    Evelyn Waugh: uno scrittore contro il Concilio Vaticano II




    di Luca Fumagalli

    Questo domenica d’estate Radio Spada regala ai suoi lettori un articolo speciale che raduna per la prima volta tutte le puntate della rubrica “EVELYN WAUGH: LETTERE SUL CONCILIO”, pubblicate sul nostro blog tra il novembre e il dicembre 2018.

    n Inghilterra, come nel resto del mondo, non furono pochi i cattolici che seguirono con preoccupazione gli sviluppi del Concilio Vaticano II (1962-1965). Il tanto pubblicizzato “aggiornamento”, se entusiasmò chi desiderava una Chiesa più moderna, al passo con i tempi, non mancò di suscitare perplessità in molti altri, i quali, al contrario, vedevano in esso un possibile rischio per la tenuta della Fede, già messa in crisi dallo scetticismo dilagante. Furono accusati di essere dei “profeti di sventura”, ma forse, col senno di poi, non avevano tutti i torti.

    Alec Guinness, nella sua autobiografia, pubblicata a metà degli anni Ottanta, scriveva infatti che «dal pontificato di Pio XII molta acqua è passata sotto i ponti del Tevere portando via da Roma lo splendore e il mistero». L’attore britannico lamentava inoltre «la banalità e la volgarità delle traduzioni che avevano soppiantato il magnifico latino» della liturgia, per non parlare poi «della stretta di mano e dei sorrisi imbarazzanti o affettati che avevano sostituito la gestualità più antica». Nonostante il palese sconforto, Guinnes era comunque sicuro che la Chiesa sarebbe tornata a lodare «il Dio di tutti i tempi, del passato e del futuro, e non l’Idolo della Modernità, così venerato da alcuni dei nostri vescovi, preti e suore in minigonna».

    Tra gli intellettuali inglesi avversi al nuovo corso Evelyn Waugh fu forse quello che più di tutti manifestò pubblicamente il proprio dissenso: fino alla fine dei suoi giorni combatté a colpi di articoli, armato solo di macchina da scrivere, una diuturna battaglia contro l’eterodossia dilagante. Anche nel suo poderoso epistolario – curato da Mark Amory e dato alle stampe nel 1980 – sono rintracciabili diverse lettere che si occupano più o meno direttamente delle questioni dibattute al Concilio. Nel 1996 queste lettere vennero radunate da Alcuin Reid in un volumetto, A Bitter Trial, successivamente ampliato e ripubblicato in seconda edizione nel 2011 dalla Ignatius Press.



    Il 23 novembre 1962, poche settimane dopo l’apertura dell’assise conciliare, Waugh scrisse un lungo articolo per lo «Spectator», intitolato “The Same Again, Please”. In esso, da semplice fedele, lo scrittore si interrogava sui probabili esiti del Concilio Vaticano II a partire dai temi caldi che l’assemblea avrebbe dovuto discutere.

    La riunificazione della cristianità – ipotesi ventilata dallo stesso Giovanni XXIII e ripresa dalle maggiori testate internazionali – pareva a Waugh un’insensatezza: «Non c’è modo che la Chiesa modifichi la propria dottrina per attirare a sé coloro che la disprezzano». Fatta salva una certa cordialità nei rapporti e la possibilità di collaborare per iniziative sociali e umanitarie, la riappacificazione teologica con gli scismatici orientali e i protestanti, secondo lui, era semplicemente una pia illusione.

    Se sul fronte delle riforme strettamente connesse al clero, Waugh era sereno – «Queste cose possono essere lasciate tranquillamente all’esperienza e all’abilità dei padri conciliari» – era invece meno tranquillo a proposito di un probabile accrescimento del ruolo dei fedeli nella Chiesa: in generale aveva scarsa fiducia nei confronti dei teologi laici, spesso al limite dell’eterodossia, e considerava vergognose formule allora sempre più in voga come “il sacerdozio dei fedeli”. Chi domandava mutamenti radicali era solo una piccola minoranza: «Credo che molti dei padri conciliari […] abbiano la scomoda sensazione che esista una fetta consistente dei laici che spinga per decisioni che, in verità, sono molto lontane dalle speranza della maggior parte (quella silenziosa) di essi».

    Più urgenti, sempre secondo Waugh, erano riforme che normalizzassero l’Indice dei libri proibiti – a volte confusionario e contraddittorio –, che rendessero più rapidi ed efficienti i tribunali ecclesiastici e che definissero con precisione i rapporti tra i fedeli e i vescovi.

    Ma più di tutto a preoccupare lo scrittore erano le insistenti voci che davano per imminente una riforma liturgica: «Recentemente ho ascoltato la predica di un sacerdote appena ordinato, un’entusiasta, che parlava di un “grande vento” che avrebbe spazzato via le inutili aggiunte accumulatesi nel corso dei secoli e che avrebbe riportato la Messa alla sua primitiva e apostolica semplicità». Ancora, più avanti: «Una strana alleanza è stata stipulata tra gli archeologi, assorti nelle loro speculazioni sui riti del secondo secolo, e i modernisti, che vogliono dare alla Chiesa l’impronta della nostra deplorabile epoca. Insieme essi si autodefiniscono “liturgisti”».

    Waugh chiudeva infine l’articolo criticando l’architettura strampalata di alcune chiese moderne – a partire dalla nota cappella di Vance, su progetto di Matisse –, l’uso del volgare nella liturgia in sostituzione del latino e la volontà di alcuni di voler ridurre la Messa a un «pasto comunitario».

    La pubblicazione di “The Same Again, Please” suscitò l’entusiasmo degli ambienti più conservatori del cattolicesimo britannico. L’arcivescovo di Liverpool, John Carmel Heenan – futuro cardinale arcivescovo di Westminster e primate della Chiesa inglese – il 25 novembre scrisse a Waugh una lettera di congratulazioni in cui si rammaricava soltanto che l’articolo non fosse uscito prima, quando progressisti di ogni sorta avevano riempito il «Tablet» e il «Catholic Herald» con i loro peana rivoluzionari. Dello stesso tenore anche l’epistola del vescovo di Leeds, George Patrick Dwyer, datata 27 novembre.

    Al tempo, però, né Waugh, né Heenan, né Dwyer potevano immaginare che solo qualche anno più tardi i loro peggiori timori sarebbero diventati realtà.



    Il 16 marzo 1963 Waugh scrisse una breve lettera al direttore del «Tablet», il più importante settimanale cattolico britannico: «Le Chiese uniate d’oriente conservano ancora un’antica forma di culto a loro cara e liturgie che in molti casi sono incomprensibili ai fedeli. Non è forse tempo di chiedere simili privilegi per i cattolici romani? Promuoverebbe un appello rivolto alla Santa Sede per la creazione di una Chiesa uniate latina che possa conservare tutti i riti come erano al tempo di Pio IX?».

    La curiosa proposta, volutamente provocatoria, nasceva dalla crescente preoccupazione dello scrittore per la ventilata riforma liturgica. A quanto si diceva, vi era la volontà di sostituire il latino della Messa con le lingue nazionali, e questo sarebbe stato solo un primo passo in direzione di una rivoluzione complessiva del rito eucaristico.

    Cosa pensasse Waugh di tali cambiamenti è discusso nel dettaglio in una missiva del 15 marzo indirizzata a Lady Daphne Acton. La donna aveva prestato all’amico un saggio di padre Charles Davis, Liturgy and Doctrine (1960), che lo aveva parecchio indispettito: «Non mi è piaciuto affatto. Al di là delle obiezioni che nutro nei confronti della maggior parte dei temi trattati, penso che essi siano espressi in maniera banale e presuntuosa, qualche volta dando come assodato un fatto che, invece, doveva essere dimostrato, e qualche volta ancora scadendo nel luogo comune. […] Le Chiese uniate sono parecchio importanti. A loro è permesso conservare le antiche abitudini di devozione e avere lingue liturgiche come il siriaco, il greco-bizantino, […] e lo slavo che sono più morte del latino. Perché non dovremmo anche noi avere una Chiesa romana uniate e lasciare ai tedeschi i loro spettacoli comici? Penso sia una grande impudenza da parte dei tedeschi quella di provare a insegnare al resto del mondo qualcosa riguardo la religione. Dovrebbero piuttosto vestire per sempre una tela di sacco e cospargersi di cenere per tutte le enormità da loro commesse, da Lutero fino a Hitler».

    Waugh metteva poi in discussione altri punti, come la vaghezza dell’aggettivo “vernacolare” riferito alla lingua dei nuovi riti e la bontà della riforma della Settimana Santa, datata 1955: «Quando padre Davis dice che la nuova, impoverita Settimana Santa è una cosa buona poiché insegna alle persone l’Antico Testamento, sta delirando. Di Antico Testamento ce n’era sei volte tanto nei vecchi riti».

    L’epilogo della lettera restituisce nei termini dell’ironia amara la rassegnazione di un uomo votato a combattere una battaglia senza speranza: «La decisione che certamente verrà presa al Concilio, ipotizzo, sarà che tutta l’introduzione del canone della Messa diventerà in volgare nei giorni obbligatori. Si dice anche che noi avremo la stessa versione degli americani, il Cielo ci aiuti …».



    Nel 1964, nel pieno del dibattito conciliare, l’arcivescovo di Westminster John Carmel Heenan si trovò costretto a scrivere una lettera pastorale – da leggere nelle parrocchie il 9 febbraio – per fugare i crescenti dubbi che stavano turbando parecchi fedeli, invitandoli al contempo ad aver fiducia in Roma: «Lasciatemi dire chiaramente che la Chiesa non ha il potere di trasformare la legge di Dio. Ciò che è sbagliato e immorale non potrà mai diventare giusto. Né potrà essere alterata nessuna dottrina […]. Prendete, ad esempio, i cambiamenti nella Santa Messa. Qualcuno di voi è allarmato. Voi immaginate che tutto sarà mutato e che quello che avete conosciuto sin dall’infanzia vi verrà sottratto. Qualcun altro, d’altronde, tifa per le riforme e ha timore che pochissime cose verranno modificate. Entrambi questi atteggiamenti sono sbagliati. La Chiesa, ovviamente, farà delle riforme, […] ma niente sarà cambiato se non per il bene delle anime. Noi vescovi, con il Papa, siamo la Chiesa docente».

    Almeno nella sostanza Waugh condivideva il messaggio di Heenan, tant’è che 8 agosto il «Times» pubblicò un suo intervento in cui esprimeva un’incondizionata fiducia nei confronti della gerarchia inglese, perfettamente in grado, almeno a suo giudizio, di garantire ampi spazi d’azione agli estimatori del “Vetus Ordo”. Tuttavia lo scrittore doveva nutrire ancora delle riserve se il 3 marzo precedente aveva scritto ad Ann Fleming: «Vado a Roma per la Pasqua così da evitare gli orrori della liturgia inglese». Inoltre, più o meno nello stesso periodo, aveva annotato nel suo diario una fugace riflessione sulla Messa, un capolavoro da preservare ad ogni costo: «La prima volta che sono entrato in chiesa fui attratto non dallo splendore delle cerimonie, ma dallo spettacolo offerto dal sacerdote-artigiano. Lui ha un importante compito da svolgere, per il quale nessun altro è qualificato. […] “Partecipare” – la nuova parola d’ordine – non significa, come credono i tedeschi, fare baccano. Uno partecipa a un’opera d’arte quando si accosta ad essa con reverenza e consapevolezza».




    l 7 agosto 1964 Waugh indirizzò parole di fuoco al direttore del «Catholic Herald», una testata che fino a quel momento si era schierata senza mezzi termini con l’ala più progressista del Concilio. Come sempre, i temi affrontati dallo scrittore erano molteplici: si andava dalla critica rivolta ai novatori alla liturgia, alla differenza capziosa tra cattolicesimo e romanità, fino ad arrivare all’inganno portato avanti da chi pretendeva che “l’età giovannea” fosse diversa da quella di Pio XII (come accennato, Waugh non aveva perdonato a Papa Pacelli la riforma della liturgia della Settimana Santa).

    L’aspetto più interessante dello scritto, però, è l’appassionata difesa dei conservatori: «Padre Sheerin sostiene che il conservatorismo cattolico sia il prodotto di una politica difensiva necessaria nello scorso secolo contro il secolarismo nazional-massonico dell’epoca. Lo pregherei di considerare che la funzione della Chiesa in ogni tempo è stata conservatrice, ovvero di trasmettere un credo ereditato dai predecessori, non diminuito né contaminato. […] Il conservatorismo non è una nuova influenza nella Chiesa. […] Per tutta la sua vita la Chiesa è stata coinvolta in una guerra attiva contro i nemici esterni e i traditori interni».

    Qualche giorno dopo, il 16 agosto, Waugh scrisse ad Heenan, rivelando a quest’ultimo come un buon numero di fedeli, sempre più preoccupati da quello che stava accadendo al Concilio, dopo aver letto il suo scritto apparso sul «Catholic Herald» lo avesse pregato di porsi alla guida di una sorta di gruppo di pressione anti-riforme, organizzando magari una petizione da consegnare allo stesso arcivescovo. L’epilogo è sarcastico: «È forse troppo chiedere che tutte le parrocchie debbano avere due Messe, una “pop” per i giovani e una “trad” per gli anziani?».

    Da questa prima mossa di Waugh nacque tra lui ed Heenan un vivace botta e risposta, compendiato in tre lettere, datate rispettivamente 20, 25 e 28 agosto. L’arcivescovo, che ringraziava Waugh per quanto scritto sul «Catholic Herald», cercava tuttavia di stemperare i toni. A suo avviso la riforma liturgica non sarebbe stata così drammatica e scaricava sui cosiddetti “intellettuali” la colpa di ogni fraintendimento ed esagerazione: «Penso che i leader del nuovo pensiero (se non è una parola troppo dura) non siano i giovani ma i cattolici “intellettuali”. È così che si chiamano tra loro e credono davvero di esserlo. Chiunque abbia un diploma ora è un intellettuale. […] Ci guardano come dei campagnoli con la mitra e cercano una guida nel clero continentale (che è stato ampiamente abbandonato dai lavoratori) o nei loro passati insegnanti (che, naturalmente, mancano di esperienza pastorale). La gerarchia è in una posizione difficile. Non abbiamo perso il rispetto dei cattolici ordinari, ma il costante baccano degli intellettuali così come le loro […] lettere e i loro articoli sulle riviste cattoliche possono col tempo turbare il semplice fedele».

    Ecco perché, secondo Waugh, il “sacerdozio universale” dei fedeli, in fondo, non era altro se non una nuova forma di anticlericalismo che «minimizza il carattere sacramentale dei sacerdoti e suggerire che i laici siano al loro stesso livello». La conseguenza di un simile clima, aggiungeva Heenan, è che «la Messa non sia più il Santo sacrificio ma la cena in cui il sacerdote è il cameriere. Il vescovo, ipotizzo, è il caposala e il Papa l’anfitrione».





    «Il Concilio Vaticano II sta gravando sul mio spirito. Non ho dubbi che la verità infine prevarrà, ma sono state dette sciocchezze a non finire». Questi i sentimenti che Waugh confessò all’amica Lady Diana Cooper nell’autunno del 1964. Il Concilio era ormai agli sgoccioli e molte delle folli proposte dei progressisti erano state accettate acriticamente. Qualcuno aveva protestato, ma in fin dei conti erano stati pochi i prelati che avevano osato alzare la voce. La maggior parte dei padri, pur con qualche riserva, si era limitata a subire i cambiamenti senza battere ciglio.

    Nel febbraio 1965 un’altra missiva diretta a Lady Cooper – che nel frattempo si era recata a Roma – testimoniava il burrascoso stato d’animo di Waugh; questa volta lo scrittore sfogava la sua frustrazione prendendosela in particolare con il cardinale Agostino Bea, principale promotore dell’ecumenismo: «Stanno distruggendo tutto quello che, in superficie, vi è di attraente nella mia Chiesa. È una gran tristezza per me, immeritata (almeno per una volta). Se vedi il cardinale Bea, sputagli in un occhio».

    Qualche settimana prima, Waugh aveva scritto ancora a Heenan. Nella lettera, piena di dubbi e riserve, questi confidava la sua fatica a partecipare a una funzione liturgica già vittima di troppe traduzioni, mutilazioni e rifacimenti: «Io e i miei amici proprio non riusciamo a capire la nuova forma della Messa. […] Prego Dio di non abiurare mai la mia Fede, ma andare a Messa è ora diventato una compito difficile». Le critiche proseguono: «L’idea che [il “Novus Ordo”] attirerà i protestanti è da scartare. Gli anglicani hanno una forma di servizio elegante e comprensibile. Tutto quello che a loro manca sono degli ordini validi che lo renderebbero preferibile. Se si desidera una Messa completamente in inglese, allora il primo libro di Edoardo VI, con solo qualche piccolo emendamento, può andare bene. Invece noi abbiamo un guazzabuglio di greco, di latino e un di inglese rozzo».

    Heenan, dal canto suo, si limitò a rispondere a Waugh con poche righe, rassicurando l’amico che, al di là dei suoi legittimi dubbi, «la stragrande maggioranza dei fedeli apprezza l’introduzione dell’inglese nella liturgia, persino chi prima vi si opponeva». I medesimi giudizi vennero nuovamente espressi dall’arcivescovo, in forma ufficiale, nella lettera pastorale della Pasqua del 1965: «Non dobbiamo pretendere che non si cambi nulla. La verità non cambia, ma la comprensione della verità è in continua evoluzione».

    ***



    Il 15 aprile 1965 un Waugh al limite della sopportazione trovò la forza di aprire il proprio cuore a mons. McReavy indirizzandogli poche righe: «Trovo che la nuova liturgia sia una tentazione contro la Fede, la speranza e la carità, ma, a Dio piacendo, non sarò mai un apostata».

    La sua lunga battaglia contro i cambiamenti liturgici aveva sortito scarsi risultati; non solo la stampa cattolica si era schierata in blocco a favore di un ipotetico “Novus Ordo”, ma persino Heenan aveva assunto un atteggiamento un po’ troppo ambiguo. Questi, infatti, se da una parte si dimostrava solidale nei confronti di Waugh e dei fedeli più scettici, dall’altra continuava a minimizzare la portata delle innovazioni, sostenendo che non avrebbero intaccato o diminuito in alcun modo l’autorità della Chiesa e la verità del suo insegnamento.

    Nel proprio diario, durante la Pasqua, lo scrittore prese amaramente atto di come le speranze di una retromarcia fossero ormai irrimediabilmente sfumate: «Prego Dio di non apostatare, ma ora vado in chiesa solo come un atto di dovere e di obbedienza».

    Si consolò in parte togliendosi almeno lo sfizio, per così dire, di sparare gli ultimi colpi. Il 24 aprile scrisse al direttore del «Tablet» con toni provocatori: «I sapientoni giustificano il continuo processo di cambiamento della liturgia dicendo che aiuterà i laici a “partecipare” alla messa. Potrebbero allora spiegarci, per cortesia, come questo obiettivo desiderabile sia favorito dalla perentoria proibizione odierna di inginocchiarsi all’incarnatus durante il Credo?».

    In una seconda lettera, più lunga e meglio argomenta, datata 31 luglio, Waugh reiterava invece i soliti dubbi sulla bontà delle innovazioni e sul pericolo di spaccare la cattolicità: «Forse saremo gli ultimi convertiti di questo secolo […]. Tutto quello che noi chiediamo è che in ogni chiesa, dove possibile, vi sia una messa nei giorni obbligatori celebrata come avveniva al tempo di Pio IX».


    Tra l’agosto e il settembre del 1965 scrisse altre tre lettere al direttore del «The Tablet».

    Nella prima, datata 14 agosto, lo scrittore britannico tornava nuovamente all’attacco sull’uso del vernacolare nella liturgia: «Certamente molti sono quelli che non riescono a seguire la liturgia latina più di quanto un infante possa comprendere le parole che sono pronunciate al suo battesimo. Il flusso della Grazia non è ostacolato dal vocabolario». Ciò che più premeva a Waugh non era tanto il cambiamento della lingua – da lui stesso definita «una questione di estetica» – quanto evidenziare i «gravi pericoli per la Fede» che ne sarebbero derivati, in primis «una diminuzione del rispetto della dignità sacerdotale». Nel prosieguo Waugh si scagliava pure contro il “movimento liturgico” americano: «Nel XVI secolo la richiesta della comunione sotto entrambe le specie (di per sé inoffensiva) divenne una caratteristica dell’eresia. Allo stesso modo oggi l’appetito per alcune interpolazioni e tagli, per alzare la voce anziché la mente e il cuore, la messa in disordine di servizi di grande bellezza e significato che si sono sviluppati nel corso dei secoli […], potrebbero essere sintomo di un grave male».

    Nelle altre due lettere, datate rispettivamente 21 agosto e 18 settembre, Waugh se la prendeva con i “liturgisti”, «che usano la più piccola concessione che caritatevolmente è stata offerta loro per spingere verso riforme della Messa più radicali e sconvenienti». Dopo aver citato un articolo in cui si esaltava il nuovo ruolo del sacerdote-presidente e la creatività liturgica, Waugh commentava lapidario: «Bastino questi pochi estratti come prova di quel movimento sotterraneo, attivo ovunque nella Chiesa, che è molto lontano dall’essere un fantasma immaginato dai tradizionalisti».

    Tutti i timori dello scrittore vennero riordinati e brillantemente riassunti in un’epistola del 14 gennaio del 1966, destinata a Heenan: «Il Concilio è finito. Entrambi non vivremo abbastanza da vedere i suoi effetti malefici. La Chiesa è durata ed è sopravvissuta a molti periodi oscuri. È una sfortuna per noi vivere in uno di questi. Le chiedo di pregare per la mia perseveranza e per quella dei molti cattolici inglesi che sono spaesati e sconcertati dai cambiamenti a loro imposti. Sono abbastanza fortunato da vivere a metà strada tra due ottime parrocchie. Mio cognato è diventato ortodosso».

    ***



    Nel 1966 Waugh sentiva che la fine era ormai vicina. Tutto quello in cui aveva sempre creduto era stato spazzato via dal Concilio Vaticano II. Grazie all’ottusa connivenza della maggioranza, pochi vescovi – coadiuvati da furbi periti che lavoravano nell’ombra – in una manciata d’anni erano riusciti a trasformare irrimediabilmente il volto della Chiesa. Roma non era più la casa ospitale che, decenni addietro, aveva accolto a braccia aperte lo scrittore e, con lui, migliaia di convertiti inglesi.

    «Negli ultimi due anni sono diventato molto vecchio», scriveva il 9 marzo a Diana Mosley, «il Concilio Vaticano II mi ha devastato». Il 30 marzo, sempre in una lettera a Lady Mosley, Waugh rincarava la dose: «La Pasqua ha sempre significato molto per me. Prima di Papa Giovanni e del suo Concilio – hanno distrutto la bellezza della liturgia. […] Ora mi aggrappo tenacemente alla Fede senza gioia alcuna. Andare a Messa è per me solamente un dovere. Non vivrò per vedere la restaurazione. È ancora peggio in altri paesi».

    Waugh morì improvvisamente il 10 aprile, la domenica di Pasqua, dopo aver assistito a una Messa celebrata in latino dal gesuita Philip Caraman. La figlia Margaret, come scrisse a Diana Cooper, pretese di scorgere nella scomparsa del padre i segni della Provvidenza divina: «Non essere troppo affranta per papà. Penso sia stato una sorta di meraviglioso miracolo. Lo sai quanto desiderasse ardentemente morire, ed è scomparso la domenica di Pasqua, quando tutta la liturgia è basata sulla morte e la resurrezione, dopo aver assistito alla Messa in latino e aver ricevuto la Santa comunione esattamente come voleva. Sono sicura che durante la messa abbia chiesto di morire. Sono davvero, davvero felice per lui». Dello stesso parere la moglie Laura: «Credo che pregasse di morire già da molto tempo e per lui non sarebbe potuto accadere in modo più bello e felice».

    Padre Caraman tenne la predica in occasione della Messa da Requiem, celebrata presso la cattedrale di Westminster il 21 aprile. Tra i presenti, oltre a numerosi nomi noti del panorama culturale britannico, vi era il pure Heenan (fu soprattutto merito dell’abilità diplomatica del cardinale se si arrivò, nel 1971, al celebre “Indulto di Agatha Christie”).

    La breve omelia di Caraman, un affettuoso omaggio a un cavaliere della Tradizione, fu quasi completamente dedicata al profondo amore di Waugh per la liturgia romana, sigillo di verità e di universalità: «È stato detto giustamente da un suo amico cattolico che il tabernacolo e la lampada del santuario erano per lui i simboli di una Chiesa immutata in un mondo in rovina».

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    Predefinito Re: Anglica catholica

    [IL MERCOLEDÌ DI PADRE BROWN] “La parrucca violacea”: il lato tragicomico del giornalismo e dell’aristocrazia



    di Luca Fumagalli

    Continua con questo nuovo articolo la rubrica infrasettimanale di Radio Spada dedicata all’approfondimento e al commento dei racconti di Padre Brown, il celebre sacerdote detective nato dalla penna di G. K. Chesterton, tra i più grandi intellettuali cattolici del Novecento. I racconti, a metà strada tra investigazione e apologetica, hanno per protagonista il buffo e goffo Padre Brown, interessato sia a risolvere i crimini che a salvare le anime dei colpevoli.

    Per una disamina introduttiva sulla figura di Padre Brown – protagonista pure di vari film, sceneggiati per la televisione e, addirittura, fumetti – si veda il breve articolo a questo link.

    Per le precedenti puntate… da “L’innocenza di Padre Brown: 1. La Croce azzurra / 2. Il giardino segreto / 3. Il passo strano / 4. Le stelle volanti / 5. L’uomo invisibile / 6. L’onore di Israel Gow / 7. La forma errata / 8. Le colpe del Principe Saradine / 9. Il martello di Dio / 10. L’occhio di Apollo / 11. All’insegna della spada spezzata / 12. I tre strumenti di morte. Da “La saggezza di Padre Brown”: 1. L’assenza del Signor Grass / 2. Il paradiso dei ladri / 3. Il duello del dottor Hirsch / 4. L’uomo nel passaggio / 5. L’errore della macchina / 6. La testa di Cesare

    Quando si ha a che fare con una raccolta di racconti, in special modo di genere investigativo, la varietà, tanto nella natura dei casi quanto nelle tecniche narrative, è una delle chiavi del successo.

    La parrucca violacea (The Purple Wig), settima storia de La saggezza di Padre Brown (1914), nonostante tratti una vicenda dall’esito abbastanza scontato, si differenzia dalla maggior parte degli altri racconti dedicati al celebre prete investigatore per l’intrigante forma data alla narrazione: il lettore, infatti, è portato a indossare i panni di Edward Nutt, industrioso redattore capo del «Daily Reformer», intento a valutare una coppia di articoli scritti da un suo cronista d’assalto, tale Francis Finn (dietro al quale, per verve provocatoria e gusto del paradosso, parrebbe nascondersi lo stesso Chesterton).

    Una simile cornice offre allo scrittore inglese uno spazio privilegiato per criticare pure l’ottusità, la miopia e il demenziale politically correct di certo giornalismo, un mondo che lui stesso conosceva molto bene. Ecco allora che Nutt viene ritratto come un uomo votato alla mediazione, assuefatto al cinismo, che, fondamentalmente, non ha a cuore nulla: «Si poteva […] dire di lui, come di molti altri autorevoli giornalisti, che l’emozione che gli era più familiare era un continuo timore: timore di essere citato per calunnia, timore di perdere clienti per la pubblicità, timore degli errori di stampa, timore di perdere il posto. La sua vita era una serie di laceranti compromessi tra il proprietario del giornale (e suo), che era un vecchio e rimbambito fabbricante di sapone, e il personale efficiente che aveva assunto per fare il giornale, uomini molto intelligenti ed esperti e (il che era ancora peggio) sinceramente entusiasti della linea politica del giornale». Finn, che appare più sincero e coraggioso, non ha paura di criticarlo nelle lettere che occasionalmente gli invia: «Non credi in nulla, nemmeno nel giornalismo. […] Se nel tuo ufficio avvenisse un miracolo, tu dovresti metterlo a tacere, ora che tanti vescovi sono agnostici». Ma ancora più spassosi sono i momenti in cui il redattore capo prende in mano le bozze e, armato di matita blu, sostituisce meticolosamente le parole giudicate sconvenienti: se, ad esempio, «ebreo» muta in «straniero» e «soprannaturale» in «meraviglioso», «Dio» diventa semplicemente – e grottescamente – «circostanza». Vorrebbe persino trasformare il Padre Brown che appare negli articoli di Finn in uno spiritista, così da non infastidire un pubblico che di certo «non gradirebbe un prete cattolico nella storia».

    Finn, stanco di attaccare l’aristocrazia inglese per il suo spumante e i suoi diamanti, vorrebbe piuttosto svelare il lato oscuro che si nasconde dietro di essa, segnalare «quanto terribile, inumano, diabolico addirittura, sia il vero odore e l’atmosfera di quei palazzi». Si è messo allora a indagare sulla presunta maledizione dei Duchi di Exmoor: secondo la leggenda, da generazioni la famiglia, colpevole di svariate atrocità, sarebbe afflitta da un grave deformità alle orecchie a causa di un antico antenato che venne sorpreso a origliare segreti inconfessabili nelle stanze del sovrano.

    Le sue ricerche lo hanno infine condotto a una locanda del Devonshire – tipico luogo chestertoniano di schietta umanità, «prima che i membri di una società di temperanza, ed i birrai fra questi, distruggessero la libertà» – dove, attorno a un tavolo, sono radunati l’ultimo Duca di Exmoor, il suo bibliotecario, ovvero il corpulento Dottor Mull, e Padre Brown: «Era meno facile fissare tale impressione per quel che riguardava l’uomo alla sua destra, che, a dire il vero, era la persona più comune che potesse vedersi in qualunque posto, con una testa rotonda dai capelli castani e un rotondo naso all’insù, vestito anche lui clericalmente di nero, ma con più severità. Soltanto quando vidi il suo cappello dall’ampia tesa ricurva lo collegai con qualche cosa di antico. Era un prete cattolico romano». Di Brown viene poi notata anche l’ampia cultura e la pena, pur senza imbarazzo, con cui ascolta le terribile storie della famiglia Exmoor raccontate dallo stesso Duca.

    Attorno a quel tavolo avviene l’incidente che Finn descrive nei suoi articoli, quando Padre Brown, che rivela un’insospettabile determinazione, intima al Duca di togliersi la sua curiosa parrucca violacea per svelare una volta per tutte la verità sul suo conto: «“Io conosco il Dio Sconosciuto”, disse il piccolo prete, con un’inconscia ferma grandezza che si levava come una torre di granito. “Conosco il suo nome: è Satana. Il vero Dio si fece carne e abitò fra noi. E io dico: se il Demonio ti dice che qualcosa è troppo terribile per essere guardato, tu guardalo. Se ti dice che qualcosa è troppo terribile da sentire, tu sentila. Se una verità ti pare insopportabile, sopportala. Insisto affinché Vostra Grazia ponga fine a questo incubo ora, qui a questa tavola”. “Se lo facessi”, disse il Duca a bassa voce, “lei e tutto quello in cui crede, e tutto quello per cui vive avvizzireste e perireste per primi. Vi sarebbe dato un istante per conoscere il gran Nulla prima di morire”. “La Croce di Cristo sia fra me e il Male”, disse Padre Brown. “Si tolga la parrucca”». Dopo una breve colluttazione che costringe il Duca a cedere, si scopre che l’uomo altri non è che Isaac Green, un avvocato senza scrupoli che tempo addietro era riuscito ad aggirare il legittimo Duca di Exmoor – nel frattempo morto suicida – e a sottrargli titolo e proprietà.

    Il pezzo di Finn si conclude con una chiosa pungente, che mostra il fondo meschino e ridicolo di molta aristocrazia. Lo fa ricollegandosi direttamente a quell’idea di malsano mistero già evocata da Padre Brown: «[Green] si servì delle antiche favole feudali; probabilmente, nella sua anima di “snob”, le invidiava e le ammirava veramente. Cosicché migliaia di poveri Inglesi tremavano dinnanzi a uno strano capo, con un antico destino e un diadema di stelle malefiche, mentre in realtà tremavano davanti a un uomo venuto dal marciapiede che era un avvocato da strapazzo e un usuraio meno di una dozzina d’anni fa. Mi sembra molto tipico della nostra nobiltà così come è, e sarà, finché Dio non ci manderà uomini migliori».

    Al capo redattore, allergico alle verità che potrebbero comprometterlo troppo, non resta che cestinare l’articolo.

  6. #196
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    Anthony Burgess: Notes on Catholicism and Clockwork Oranges



    Luca Fumagalli

    When diagnosed with a brain tumor, Anthony Burgess (1917-1993) decided to hastily write three or four novels, the proceeds of which would help his wife after his death. The diagnosis turned out to be incorrect and it was instead his wife, who had long been ill with cirrhosis, who died. Married to the Italian Liana Macellari, his second wife, Burgess continued to publish book after book throughout his life, although today he is remembered for his best-seller, A Clockwork Orange, which became famous thanks to the film by Stanley Kubrick.

    Lynne, Burgess’s first wife, was Anglican, and during the marriage the writer definitively abandoned the Catholicism in which he had grown up. Later in religious matters his privileged interlocutor became Liana, in truth an anticlerical atheist. Yet until the end of his days Burgess maintained an ambiguous relationship with the Roman Church: he was certainly no longer Catholic, he was not a practising one, but at the same time he did not have the courage to completely cut off all links with religion. He himself, while his wife was sleeping, baptized his son Paolo Andrea with rainwater, just to be on the safe side. At a certain point he also decided to leave England both to escape the oppressive taxation and to finally encounter that Christian Europe towards which he felt a strange attraction, a Christian Europe which unfortunately – as he discovered with pain – no longer existed.

    All this and more is described in his two-volume autobiography, Little Wilson and Big God and You’ve had Your Time, which also tells of his love for music, for Shakespeare and for those linguistic inventions that appear in A Clockwork Orange (partly the result of his fascination for Joyce, another writer self-exiled from the Church and his homeland).

    Burgess’s literary career had a promising start with a trilogy of Malaysian setting novels that displayed his prose qualities, with a style reminiscent of George Orwell and Graham Greene in equal measure. Later he wrote a lot of poetry and children’s stories, touching almost all genres. To supplement his meager income he also worked as a translator: after all he was a man of letters and his pen was his only source of sustenance.

    Burgess defined himself as “an apostate Catholic”, even though he harshly criticized many of the doctrinal evolutions of the modern Church. In his novels he mixed the flesh and the spirit with a sometimes embarrassing ease: in addition to the blasphemous Man of Nazareth, this is demonstrated by the remarkable Earthly Powers, perhaps his best work. Despite this, he never tired of seeking God through the experiences of his characters, who manifest themselves as variegated derelicts on a pilgrimage towards an identity.

  7. #197
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    “Amore tra le rovine”: un racconto distopico di Evelyn Waugh tra incubi statalisti, piromani e donne barbute



    di Luca Fumagalli

    n un futuro non troppo lontano l’Inghilterra si è tramutata in uno stato socialista simile a quello descritto da Orwell in 1984, un tentativo d’utopia finito male dove i cittadini – rigorosamente distinti in classi – conducono una vita grigia e triste, costretti a indossare uniformi e a sopravvivere con poco. Ascensori malfunzionanti, brutture edilizie e un esperimento governativo di controllo climatico conclusosi in farsa sono solo alcuni esempi di una modernità incamminata di gran carriera sul viale del tramonto. Il cristianesimo è stato ridotto a mero mito – ora si usano formule alternative quali «Che lo Stato sia con voi» oppure «Stato mio!» – così come i valori morali tradizionali sono stati completamente ribaltati da psicologismi assurdi; il divorzio è diventato ormai una moda e «uno dei princìpi della Nuova Terra insegnava a non ritenere nessuno responsabile delle conseguenze delle proprie azioni» (un simile concetto sta alla base del romanzo L’uomo che voleva essere colpevole del danese Henrik Stangerup, un piccolo gioiello del genere distopico pubblicato nel 1973). Ecco perché i più privilegiati finiscono per essere gli orfani – per la cui istruzione lo Stato spende enormi somme di denaro – e i delinquenti: «Nella Nuova Inghilterra che stiamo edificando non ci sono criminali. Ci sono soltanto delle vittime di servizi sociali inadeguati» .

    Ad entrambe queste categorie appartiene Miles Plastic, reduce da quasi due anni di detenzione al Castello di Mountjoy per aver dato fuoco al campo d’addestramento presso il quale lavorava e aver causato la morte di diversi aviatori. Miles rappresenta il primo successo di un nuovo metodo riabilitativo basato sul dialogo e la comprensione. Dopo essere stato munito del «certificato di personalità umana», le autorità gli assegnano perciò un incarico impiegatizio al Dipartimento dell’Eutanasia. I suoi colleghi lo considerano un privilegiato dato che l’eutanasia statale è «l’unico servizio in via di sviluppo»: difatti, ogni giorno, un numero crescente di disperati si affolla davanti all’ingresso della Cupola di Sicurezza di Satellite City per chiudere definitivamente la partita con una vita di miserie e umiliazioni.



    Un giorno Miles incontra Clara, un ex ballerina che ha dovuto appendere al chiodo le scarpette per via della «lunga, biondissima barba bionda come seta» che le è cresciuta a seguito di un’operazione di sterilizzazione andata male. I due si innamorano e Miles inizia a passare sempre più tempo nella baracca della ragazza, un’abitazione diversa da tutte le altre perché arredata con quadri antichi – e non i soliti Picasso e Léger approvati dal ministero dell’arte –, con uno specchio incorniciato in fiori di porcellana e con altri oggetti di quella civiltà da tempo dimenticata. Dopo qualche mese Clara rimane incinta. Volendo tornare di nuovo a ballare, senza dire nulla a Miles si reca in ospedale per abortire e per farsi rimuovere la barba con la chirurgia. Il risultato, però, è tragicomico, e quando l’amante giunge finalmente da lei non può che rimanere inorridito: «Gli occhi e le sopracciglia erano tutto quanto era rimasto del suo bel visino. Sotto, era qualcosa di inumano, una maschera lucida e tesa, di un rosa salmone» (l’episodio ricorda l’analoga e iconica scena del film Brazil di Terry Gilliam). La separazione a questo punto è inevitabile. Per dare sfogo a quel senso di delusione che lo opprime, Miles appicca un incendio al Castello di Mountjoy: «Il sistema della terra bruciata aveva avuto successo. Aveva creato nella sua immaginazione un deserto che poteva chiamare pace. […] Ora la sua breve vita di adulto era cenere. L’incantesimo che aveva circondato Clara aveva fatto la fine delle bellezze di Mountjoy. La grande barba bionda era scomparsa insieme alle lingue di fuoco che avevano serpeggiato e si erano spente tra le stelle».

    Nell’epilogo – apoteosi di quell’umorismo nero che permea l’intera vicenda – Miles viene incaricato di tenere un ciclo di conferenze in tutto il Paese per testimoniare il buon risultato ottenuto dal governo grazie al nuovo metodo penale. Tuttavia, dal momento che «la cittadinanza completa deve comprendere il matrimonio», è prima costretto a sposare la poco avvenente signorina Flower, appositamente scelta per lui dal Ministro del riposo e della cultura. All’ufficio della stato civile, prima del fatidico “sì”, Miles è però colto dallo sconforto e decide infine di darsi fuoco con un vecchio accendino ritrovato per caso in una delle sue tasche: «Schiacciò lo scatto e subito, cosa rara, ne uscì una fiammella, scintillante come rubino, nuziale, di buon augurio».

    Com’è facile intuire dalla trama, Amore tra le rovine (Love Amogn the Ruins), è uno dei racconti più strani e controversi di Evelyn Waugh, pubblicato nel 1953 in un piccolo volume corredato dai disegni dell’autore. In esso la satira e il grottesco tipici dello scrittore britannico raggiungono vette di distorsione caricaturale inedite, al limite del surreale. Se, stando a quanto scrive Humphrey Carpenter, «la tecnica compositiva di Waugh è quella di imporre una schema classico a un mondo che è talmente caotico da risultare incoerente», in Amore tra le rovine l’effetto complessivo è reso ancora più stordente da un analogo impego delle illustrazioni, ispirate alle opere di Canova. Nell’immagine di copertina, ad esempio, Miles e Clara appaiono nei panni di Cupido e Psiche (con la barba), ma in un mondo emozionalmente sterile come quello descritto da Waugh Cupido perde inevitabilmente le sue ali.



    Ecco perché il volume, certamente di non facile decifrazione, lasciò sbigottito più di un recensore. Per difendersi dalla critiche, sulle colonne dello «Spectator» Waugh si limitò a derubricare il proprio racconto a mero intrattenimento. Si trattò comunque di una strategia poco credibile, che forse tentava di ridimensionale quell’elemento di critica sociale che egli stesso, col senno di poi, giudicava evidentemente poco riuscito. Del resto svariati studiosi hanno avanzato l’ipotesi che Amore tra le rovine volesse costituire una sorta di risposta tardiva al piano utopico di stampo socialista teorizzato da Cyril Connolly nel 1946 sulle colonne della rivista «Horizon». Connolly immaginava un’Inghilterra retta da un governo di coalizione laburista-conservatore in cui l’eutanasia è offerta gratuitamente ai richiedenti dal sistema sanitario nazionale e in cui lo Stato ha smantellato le prigioni per sostituirle con lussuosi centri di riabilitazione.

    Indipendentemente dalla veridicità o meno di una simile suggestione, l’origine di Amore tra le rovine risale al 1951, quando Waugh aveva iniziato a tratteggiare una storia sul tema dell’eutanasia provvisoriamente chiamata “A Pilgrim’s Progress”. Inizialmente il progetto doveva risolversi in un testo più lungo, ma lo scrittore mutò opinione nel momento in cui si accorse che i personaggi mancavano della sostanza necessaria. Il titolo di Amore tra le rovine, precedentemente impiegato da Warwick Deeping (1904) e Angela Thirkell (1948) per i loro romanzi, fu scelto per riecheggiare quello di una poesia di Browning, “Love Among the Ruins”, in cui un pastore osserva con malinconia una città desolata, mandata in rovina da abitanti che non sono stati capaci di amare. Nel racconto di Waugh, infatti, al di là di un libertinaggio diffuso simile a quello descritto ne Il mondo nuovo di Huxley, è messo alla berlina tutto ciò che lui detestava, a partire dai politici e dal welfare state fino ad arrivare alla psicanalisi, all’arte astratta, alla plastica e all’architettura del dopoguerra.

    Il risultato, come si diceva, è un pastiche assurdo, quasi un freak show caratterizzato da personaggi irrazionali e da situazioni ancora più impensabili. Miles Plastic, emblema dell’«Uomo Moderno», prodotto di quel «Progresso» che tanto inorgoglisce i membri del governo, è solo un povero disilluso che sfoga il suo niente incenerendo ogni cosa, persino se stesso. In ciò è molto simile all’Alex di Arancia meccanica, un criminale “guarito” solo in apparenza. Più in generale, in Amore tra le rovine ogni cosa è segnata dal medesimo destino di decadenza, tanto che pure il Castello di Mountjoy, al contrario delle altre magioni signorili che compaiono nelle opere di Waugh, emblema di un’epoca d’oro purtroppo scomparsa, è ridotto a un resort per delinquenti (Mountjoy, tra l’altro, è il nome del carcere di Dublino).



    A salvare il racconto da un epilogo altrimenti disperante resta unicamente la sua natura distopica, il voler essere innanzitutto un monito, una messa in guardia contro l’inveramento degli incubi politici, culturali e morali che affollavano la mente di Waugh (alcuni dei quali, sia detto per inciso, sono diventati oggi una triste realtà). Dietro una patina di facile divertissement, Amore tra le rovine nasconde dunque una sostanza polemica nient’affatto disprezzabile, la stessa che rende la storia meritevole di essere letta e meditata.

  8. #198
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    [IL MERCOLEDÌ DI PADRE BROWN] “La fine dei Pendragon”: il lupo di mare e un’oscura maledizione



    di Luca Fumagalli

    Continua con questo nuovo articolo la rubrica infrasettimanale di Radio Spada dedicata all’approfondimento e al commento dei racconti di Padre Brown, il celebre sacerdote detective nato dalla penna di G. K. Chesterton, tra i più grandi intellettuali cattolici del Novecento. I racconti, a metà strada tra investigazione e apologetica, hanno per protagonista il buffo e goffo Padre Brown, interessato sia a risolvere i crimini che a salvare le anime dei colpevoli.

    Per una disamina introduttiva sulla figura di Padre Brown – protagonista pure di vari film, sceneggiati per la televisione e, addirittura, fumetti – si veda il breve articolo a questo link.

    Per le precedenti puntate… da “L’innocenza di Padre Brown: 1. La Croce azzurra / 2. Il giardino segreto / 3. Il passo strano / 4. Le stelle volanti / 5. L’uomo invisibile / 6. L’onore di Israel Gow / 7. La forma errata / 8. Le colpe del Principe Saradine / 9. Il martello di Dio / 10. L’occhio di Apollo / 11. All’insegna della spada spezzata / 12. I tre strumenti di morte. Da “La saggezza di Padre Brown”: 1. L’assenza del Signor Grass / 2. Il paradiso dei ladri / 3. Il duello del dottor Hirsch / 4. L’uomo nel passaggio / 5. L’errore della macchina / 6. La testa di Cesare / 7. La parrucca violacea

    È difficile comprendere la scelta chestertoniana di posizionare La fine dei Pendragon (The Perishing of the Pendragons), ottavo racconto della raccolta La saggezza di Padre Brown (1914), subito dopo La parrucca violacea. Le due storie, infatti, sono piuttosto simili e ruotano entrambe attorno a una terribile maledizione che grava su una famiglia colpevole di orrendi delitti. In questo caso, all’epoca della Regina Elisabetta, Sir Peter Pendragon aveva poco onorevolmente ucciso due dei tre prigionieri spagnoli che si trovavano sulla sua nave. Il terzo era riuscito a fuggire a aveva giurato eterna vendetta. In effetti i Pendragon – lupi di mare da generazioni – sono stati poi funestati da diverse sciagure e persino il padre e il fratello dell’ultimo della famiglia, il vecchio Ammiraglio, sono morti in naufragio. Quest’ultimo vive su un’isoletta fluviale in una casa al cui fianco sorge una strana torre di legno, avvezza a prendere fuoco all’approssimarsi di una tragedia (per venire ogni volta pazientemente ricostruita).

    Il racconto, pur di buona fattura, non si distingue più di tanto tra quelli che hanno per protagonista il celebre sacerdote investigatore. Non solo di apologetica c’è poco o nulla, ma si avvertono scricchiolii anche dal punto di vista dell’intreccio: troppi particolari vengono consegnati a un lettore sempre più disorientato, che fatica fino all’epilogo – momento della soluzione-rivelazione di Padre Brown – a trovare il bandolo della matassa. Sebbene un simile effetto stordente sia evidentemente cercato, La fine dei Pendragon funziona piuttosto per l’ambientazione, resa suggestiva dalle eccellenti doti descrittive di Chesterton, e per l’azione, con tanto di convincente scena di colluttazione tra un gruppo di personaggi. Allo stesso modo la prosa dello scrittore inglese è briosa e acuta, con divertenti paradossi e giochi di parole del tipo «Verso la fine del pranzo, i domestici tolsero dalla vista i propri abiti gialli ed il proprio viso nero, lasciandovi solamente l’abito nero e la faccia gialla del maggiordomo»; oppure: «“Come vedete, sono un pessimo bevitore. Vi prego di scusarmi” – una piccola macchia di vino era caduta sulla tovaglia».

    Nelle prime righe ci vengono rivelati aspetti inediti del carattere di Padre Brown, coinvolto in una gita in barca dall’amico Flambeau e da Sir Cecil Fanshaw, un giovane possidente suo amico: «Padre Brown non era disposto alle avventure. Era ultimamente caduto malato per eccesso di lavoro […] Brown era ancora piuttosto debole; non era un buon marinaio, e benché non fosse mai della specie di coloro che brontolano o che si deprimono, il suo atteggiamento non passò mai la pazienza e la cortesia». La loro imbarcazione si avvicina all’isola dei Pendragon e il sacerdote pare ridestarsi dal torpore del convalescente quando guarda per la prima volta la torre di legno, un edificio che gli evoca qualcosa di sinistro: «Quando veniva ingannato, aveva l’intelligenza di analizzare il proprio inganno». Fanshaw conosce il vecchio Ammiraglio e, una volta a terra, i tre vengono invitati a cena dall’uomo che narra loro i dettagli della maledizione che affligge la sua famiglia. Vengono così a sapere che il nipote, Walter, sta ritornando in barca dal fiume giusto quella sera e che l’uomo teme per la sua incolumità. Qualche ora dopo la torre prende fuoco, e mentre Falmbeau e Fanshaw si lascino intimidire dalle suggestioni della leggenda, Padre Brown è pronto a spegnere l’incendio. Dell’Ammiraglio si sono nel frattempo perse le tracce, ma almeno il nipote è sano e salvo e può finalmente abbracciare la sua amata.

    Quello che è accaduto è abbastanza semplice: l’Ammiraglio, per mettere la mani sull’eredità dei Pendragon, doveva sbarazzarsi dell’ultimo potenziale concorrente. «Conosceva l’uso della leggenda di famiglia» e l’incendio della torre era finalizzato a disorientare la nave di Walter per farlo naufragare sugli scogli: «È sufficiente dire che ogni qualvolta questa torre con la sua pece e il suo legno resinoso prendeva veramente fuoco, il suo chiarore sembrava sempre, all’orizzonte, come la luce gemella del faro sulla costa». A destare i primi sospetti in Padre Brown era stata una carta geografica opportunamente camuffata che i suoi amici avevano scambiato per quella delle isole del Pacifico: «Basta mettere una piuma con un fossile e un frammento di corallo, e tutti crederanno che si tratti di un esemplare. Basta mettere la stessa piuma con un nastro e un fiore artificiale, e tutti penseranno che si tratti di un cappellino per signora. Basta mettere la stessa piuma dentro un calamaio e prendere un libro e una pila di fogli, e la maggior parte delle persone giureranno di aver visto una penna d’oca per scrivere. Così avete visto la mappa in mezzo agli uccelli tropicali e alle conchiglie, e avete creduto che si trattasse di una carta delle Isole del Pacifico. In realtà era una mappa di questo fiume».

  9. #199
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    The Sentimental Journey of Baron Corvo



    Luca Fumagalli

    In the streets of early twentieth-century Venice, the city so marvellously described by Thomas Mann in one of his best novels, a strange Englishman in his fifties wandered. The man seemed to be the personification of the city: in the elegantly cut clothes, now worn and torn, there was the mark of an ancient glory that had given way to neglect. He posed as a wealthy dandy with a cigarette between his lips, pince-nez and old silver rings on his fingers, but there was not a penny in his pockets. It was said that he was a writer, but hardly anyone had ever read a book by him. He lived on expedients and the incipient baldness contributed to giving his figure a modest tone. The little money that his friends generously lent him was quickly spent so that many nights he was forced to sleep in a filthy gondola. Loneliness and sadness, he knew well, would soon bring him to an end.

    The life of the writer Frederick Rolfe (1860-1913) – known by the nom de plume Baron Corvo – is summed up in a tragedy of the abject and the sublime, a spectacle of human frailty set in the sparkling fin de siècle, between Catholicism and the low recesses of vice.

    Rolfe never abandoned that Catholic Faith to which he had converted at the age of twenty-six. Perhaps, at least in the beginning, it was only a superficial infatuation, nurtured by his love of Latin and the liturgy, but soon, whatever the initial religious sentiment, it was stabilized in a deep devotion.

    On the other hand, his public behaviour repeatedly provokes scandal and reproof. Homosexual and reactionary, he combined excesses with a difficult character, bordering on paranoia, which naturally led to obstinacy, ingratitude and arrogance. He had friends, but with one exception several of them were with him for only a short time. He surprisingly managed to antagonize mild men, such as Msgr. Robert Hugh Benson, not to mention the numerous benefactors who never saw their generosity returned except with insults and cowardly attacks. When he tried to become a priest – which happened immediately after his conversion – he suffered the shame of being removed from two seminaries. Naturally Rolfe interpreted the circumstances as a personal affront, an injustice perpetrated against a weak novice who, in reality, must have seemed rather capricious to his superiors, in his unwillingness to apply himself diligently to his studies.

    The same disordered passion that characterized his moral conduct is also found in his career as an artist. He first tried the path of painting, then that of photography, and finally settled on literature. In the late nineteenth century he made his debut with some short stories in the pages of the “Yellow Book”, the literary periodical which was symbolic of English decadence. He then wrote essays and novels which, with the partial exception of Hadrian the Seventh (1904), the story of an obscure scholar who becomes Pope, met with little success with the public and critics. Their commercial failure produced in Rolfe the feeling of being the victim of a universal conspiracy against him, so his relations with publishers and collaborators inevitably ended in accusations, outbursts and quarrels.

    Perennial vagabond, he was always traveling between England, Scotland, Wales and Italy, without a stable job and almost completely without economic support; and in the last years of his life, depressed and disheartened, he was reduced to begging. The clumsy attempts to regain a shattered social credibility were useless: in order to raise some money, he shamelessly resorted to claiming that the pseudonym of Baron Corvo was an authentic noble title. Alone and despised by everyone, he dragged himself along until his death in Venice, a year before the outbreak of the Great War.

  10. #200
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    [IL TEATRO DI GRAHAM GREENE] “L’ultima stanza”: solo i migliori vanno all’Inferno…



    di Luca Fumagalli

    Come promesso, ecco la prima puntata dello speciale agostano dedicato alle migliori opere teatrali di Graham Greene.

    Complesso, tormentato e provocatorio, Graham Greene rimane uno degli scrittori più importanti del Novecento. Nell’alveo della cultura cattolica britannica – e non solo – si incaricò di indossare gli scomodi panni della coscienza critica, quasi “eretica”, sfornando opere in cui i protagonisti camminano sull’orlo del baratro, costantemente in bilico tra salvezza e dannazione. Nei suoi lavori migliori i paradigmi del “Catholic Novel” vengono scardinati un pezzo alla volta per lasciare spazio a storie in cui l’animo dei personaggi è sviscerato in tutte le sue sfumature e contraddizioni. Dunque niente bozzetti consolatori o Santi da cartolina, men che meno facili prediche o fredde esposizioni dottrinali, ma un’umanità dolente alla ricerca di una felicità che pare sempre sfuggire.

    Se Greene è celebrato in tutto il mondo per i romanzi, i racconti e per le sceneggiature degli adattamenti cinematografici di diversi suoi libri, meno nota è la produzione teatrale. Si tratta di un vero peccato, anche perché nel teatro Greene si mostra particolarmente abile nel mostrare la complessa psicologia dei protagonisti, al contempo vili e gloriosi, lacerati da dubbi e incertezze. Anche in questo caso è inutile cercare nello scrittore manifestazioni di una Fede dottrinalmente ortodossa. Ciò che è chiesto allo spettatore – o al lettore – è piuttosto di abbandonarsi agli eventi raccontati e di cogliere in essi l’occasione per fare i conti con la propria vita.

    L’ultima stanza (The Living Room) è la prima pièce teatrale scritta da Greene, composta da due atti di un paio di scene ciascuno e dedicata alla sua amante di allora, Catherine Walston (la burrascosa vita sentimentale dell’autore inglese è cosa nota). L’esordio sulle scene avvenne nell’autunno del 1952, a Stoccolma, mentre per i teatri inglesi – e per la pubblicazione in volume – fu necessario attendere l’anno successivo. In L’ultima stanza Greene esplora con rinnovato vigore i temi del tradimento, degli scrupoli di una coscienza cattolica e del suicidio, già presenti nei suoi migliori romanzi del dopoguerra come Il nocciolo della questione e Fine di una storia. Sullo sfondo vengono analizzate anche antinomie del tipo amore/morte, gioventù/vecchiaia, cattolicesimo/ateismo, Fede/scienza e colpa/innocenza.



    La vicenda ruota attorno alla giovane Rose Pemberton che, dopo la morte della madre, inizia una relazione clandestina con uno psicologo di mezza età, Michael Dennis, già sposato con una donna schizofrenica. Quest’ultimo, il cui legame con la moglie si basa più sulla pietà che sull’amore, è pure l’esecutore testamentario della defunta. Con Rose si reca allora a casa delle anziane prozie di lei, Teresa ed Helen Brownie, entrambe devote cattoliche e particolarmente affezionate alla figura di Santa Teresa di Lisieux. Con loro vive anche il fratello invalido, Padre James, un sacerdote costretto sulla sedia a rotelle da un incidente avvenuto vent’anni prima.

    L’impianto della pièce è quello tipico del dramma, ma l’organizzazione della scena è caratterizzata da una forte connotazione simbolica di stampo teologico. Teresa, Helen e James abitano infatti in un vecchio e grande edificio di cui però occupano solo una strana stanza al terzo piano arredata a mo’ di soggiorno. Il resto dei locali è stato chiuso a chiave e reso inaccessibile semplicemente parchè qualcuno vi è morto all’interno. Tutto questo non rappresenta altro che la paura della morte e il limite fisiologico dell’esperienza umana; soprattutto il soggiorno – che una volta era la stanza da gioco dei bambini – è l’incarnazione architettonica della negazione di qualunque possibile legame tra il mondo dei vivi e l’aldilà.

    Sebbene James vanti certi connotati del classico “whisky priest” greeneiano – si considera un povero sacerdote storpio e inutile, «che non può dire Messa, confessare o visitare i malati» – presto assume il ruolo di guida, quantunque imperfetta, per quelle persone spiritualmente claudicanti che lo circondano. Ad esempio avverte Michael che, tradendo la moglie, non sta ferendo solo la donna, ma pure se stesso e «il Dio in cui non credi», e rincuora Teresa allontanando da lei l’infondato terrore della dannazione eterna: «Non conosco nessuno grande abbastanza per l’Inferno eccetto Satana».



    La profonda devozione di Padre James per San Giovanni della Croce rimanda invece alla “lunga notte dell’anima” e all’incapacità d’amore della famiglia Brownie, con le porte della casa che vengono progressivamente chiuse dalla morte. Al soggiorno – ovvero la “stanza della vita” secondo l’intraducibile gioco di parole del titolo inglese – è lasciato il compito di fare da spaccato esemplare di un mondo decaduto, la cui essenza è efficacemente descritta dal sacerdote mentre parla di Teresa ed Helen: «Sono brave persone, dubito che abbiano commesso qualche grave peccato nella loro vita; forse sarebbe stato meglio se lo avessero fatto. Ho notato, nei vecchi tempi, che erano i peccatori ad avere maggiore fiducia. Nella misericordia. Le mie sorelle non sembrano averne affatto».

    Tragicamente la più influenzata dall’aria claustrofobica che si respira nella casa è Rose, un tempo dinamica e solare, che pare invecchiare sensibilmente mano a mano che lo spettacolo procede (in realtà tra il primo e il secondo atto passano solo tre settimane). A lacerarla è la difficoltà di fare ciò che in qualche misura percepisce essere la cosa giusta, ovvero abbandonare l’uomo di cui è follemente innamorata: «Credi che se lasciassi Michael potrei davvero amare un Dio che pretende tutto quel dolore prima di offrire Se stesso?». Non vale a nulla nemmeno l’appello di Padre James alla Misericordia divina e all’intercessione dei Santi: «Non credo nella tua Chiesa e nella tua Madre di Dio. Non ci credo. Non ci credo». Al culmine della disperazione Rose si uccide in soggiorno ingoiando le pillole lasciate dalla moglie di Michael che, in precedenza, aveva minacciato il suicidio. Poco prima di morire, l’ultima preghiera della ragazza è un aggrapparsi all’innocenza dell’infanzia: «Padre nostro che sei… che sei… Benedici mia madre, la bambinaia e Suor Marie-Louise, e ti prego, Dio, fa che la scuola non ricominci mai più».




    Nell’ultima scena, una riflessione sull’amore di Dio e il perdono, il pubblico è quindi invitato, al pari dei personaggi, a speculare sulla salvezza o la dannazione di Rose, nonostante sulla sua coscienza gravino peccati mortali quali l’adulterio e il suicidio. Attraverso la saggezza di Padre James, Greene riporta in primo piano il motivo, a lui caro, della “terribile” natura della Grazia divina, e il sacerdote cita un libretto devozionale letto anni addietro in seminario: «Più i nostri sensi sono in rivolta, incerti e disperati, più la Fede dice con fermezza: “Questo è Dio: tutto va bene”». Helen, la sorella più forte e carismatica, continua a nutrire una profonda paura nei confronti della morte e vorrebbe perciò chiudere definitivamente anche il soggiorno. Tuttavia Teresa per la prima volta ha il coraggio di opporre un netto rifiuto, in questo sostenuta da un Padre James ancora scosso dal dolore per non essere stato in grado di aiutare la nipote: «Per più di vent’anni sono stato un prete inutile. Avevo una reale vocazione per il sacerdozio. […] E per vent’anni il desiderio di aiutare è stato imprigionato su questa sedia. […] La scorsa notte Dio mi ha dato la possibilità. Ha portato questa bambina, qui, presso le mie ginocchia, che implorava aiuto, che implorava speranza. […] Ho chiesto a Dio, “Metti le parole nella mia bocca”, ma Lui mi ha dato vent’anni su questa sedia senza nulla da fare se non prepararmi per quel momento, perciò perché Lui dovrebbe intervenire? E tutto quello che ho detto è stato: “Potresti pregare”».

    L’ultima stanza si conclude con le parole di Teresa che costituiscono una riaffermazione della Fede nella Vita eterna tra le macerie e i limiti dell’umano: «Per me non c’è stanza migliore dove poter addormentarmi per sempre che quella in cui è morta Rose»

 

 
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