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Discussione: Anglica catholica

  1. #221
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    «Accedit ad cor altum»: la fede di Evelyn Waugh raccontata dal gesuita Martin D’Arcy



    di Luca Fumagalli

    «Non credo che qualcuno abbia mai pensato che Evelyn Waugh fosse un santo, ma in molti furono colpiti dalla sua fede risoluta e sincera».

    È con queste parole che il gesuita Martin D’Arcy dà inizio a “The Religion of Evelyn Waugh”, uno degli articoli che compongono Evelyn Waugh and His World (Weidenfeld And Nicolson, 1973), un volume, curato da David Pryce-Jones, che raccoglie i contributi di diversi amici e studiosi del grande scrittore britannico. D’Arcy fu colui che accolse Waugh nella Chiesa cattolica e nel suo breve scritto analizza la parabola spirituale di quest’ultimo, offrendo pure una convincente interpretazione di quelle sfumature paradossali del suo carattere che furono pretesto per frequenti attacchi e polemiche.

    Waugh, nato e cresciuto in una famiglia formalmente anglicana, era piombato nello scetticismo sin dai tempi della scuola superiore, un atteggiamento confermato anche durante gli anni dell’università a Oxford, trascorsi tra eccessi di ogni sorta. Del resto una della condizioni per mantenere la borsa di studio che aveva vinto per l’Hertford College era quella di essere ufficialmente membro della Chiesa d’Inghilterra, ma, a quanto pare, il ragazzo non partecipò mai ad alcuna funzione religiosa.



    Ecco perché nel 1930 la sua conversione al cattolicesimo prese alla sprovvista tutti. Addirittura qualcuno arrivò a sostenere che si trattasse semplicemente di una posa, forse scordandosi che Waugh, essendo divorziato, fece il grande passo pur consapevole che avrebbe dovuto rinunciare per sempre al sogno di una famiglia (difatti fu solo diverso tempo dopo che, grazie all’interesse di una amico esperto di diritto canonico, venne a sapere che nel suo caso c’erano gli estremi per un annullamento; riuscì infine a ottenerlo e a risposarsi, nonostante dovette attendere e penare non poco). L’affetto per la Chiesa non venne meno neanche durante i difficili anni del Concilio Vaticano II contro le cui riforme Waugh combatté in prima linea.

    Tra la sua cerchia di amici vi erano svariati cattolici, ad esempio Gwen e Olivia Plunket-Greene, Harold Acton e Douglas Woodruff, ma a spingere lo scrittore verso Roma fu soprattutto il suo intelletto, tanto che, a tal proposito, «non parlò mai di esperienze o sentimenti». Da quel momento nei suoi libri iniziò a farsi largo poco alla volta un nuovo attore, ovvero la Provvidenza divina, destinata a operare secondo vie misteriose. Per descriverla, in Ritorno a Brideshead Waugh utilizza l’immagine chestertoniana dello “strappo al filo” mutuata da una delle storie di Padre Brown. Allo stesso modo in Elena e nella trilogia Spada d’onore la fede appare come l’unica certezza in mezzo alle macerie e alle illusioni di una vita fondamentalmente tragica, fonte di speranza pure per chi va incontro a un sorte crudele (Waugh lo ribadisce nella sua biografia del gesuita Edmund Campion, martire dell’epoca elisabettiana).



    Quando fu chiesto allo scrittore di contribuire a un libro intitolato The Road to Damascus e di spiegare le ragioni della sua conversione, egli ammise che la vita, senza Dio, non può che essere «incomprensibile e insopportabile». Sul perché, poi, avesse scelto la Chiesa di Roma, la risposta fu altrettanto netta: «La struttura cattolica giace ancora appena sepolta sotto ogni aspetto della vita inglese; la storia, la topografia, la legge, l’archeologia, […] e i viaggi all’estero rivelano ovunque il carattere locale e temporale delle eresie e degli scismi, e il carattere eterno della Chiesa». Dello stesso tenore un passaggio contenuto nel libro The Holy Places, scritto nel 1952 dopo una vacanza in Palestina: «Tutto della nuova religione era suscettibile di interpretazione, poteva essere impreziosito o diminuito, tutto eccetto l’affermazione irragionevole che Dio si era fatto uomo ed era morto sulla Croce; non un mito o un’allegoria; il vero Dio, incarnatosi realmente, torturato fino alla morte in un preciso luogo geografico, un mero fatto storico. Questa era la pietra d’inciampo a Cartagine, ad Alessandria, a Efeso e ad Atene, ed è questa pietra che tutti i talenti del periodo hanno cercato di ridurre, nascondere o eliminare». Tuttavia cosa significhi davvero per lui la fede è esplicitato in un altro brano, quando Waugh racconta di aver assistito a una Messa mattutina presso il Santo Sepolcro: «Uno è entrato nel cuore della propria religione. È tutto lì, con i suoi errori umani e i trionfi soprannaturali, e si realizza davvero, forse per la prima volta, che la cristianità non ha messo la sua prima radice a Roma, a Canterbury, a Ginevra o a Maynooth ma qui, nel levante, dove tutto è intrecciato e niente è assimilato» (D’Arcy riassume il concetto citando il Salmo 63: «Accedit ad cor altum»).



    Dal punto di vista caratteriale, ricorda il gesuita, tutti coloro che avevano a che fare con Waugh prima o poi si rendevano conto del suo umore ballerino, di come passasse «rapidamente dalla gioia alla depressione più glaciale. Una simile depressione poteva essere avvertita quasi fisicamente. Inoltre, in certi momenti, sapeva essere non solo pungente ma anche feroce […], diventando aggressivo e sprezzante». Sempre secondo D’Aarcy, «nella sua fede giaceva la sola fonte di gioia e speranza». D’altronde per uno come lui – o come il suo doppio protagonista del romanzo Le avventure di Gilbert Pinfold –, abituato a considerare le cose sub specie aeternitatis, il mondo appariva noioso, «piatto come una carta geografica» (ne parla pure nella sua autobiografia, A Little Learning). Un simile senso di vuoto Waugh lo compensava con un cinismo più formale che sostanziale e «trattando male persino gli amici. Ma la fede religiosa lo aiutò a riposare la mente, donandogli una disciplina e un nuovo e prolungato affetto per la famiglia e i sodali».

    Che sotto la scorza del fustigatore velenoso e dello snob – accusa rivoltagli da chi non comprendeva il suo profondo attaccamento alla tradizione – pulsasse il cuore di un uomo sinceramente innamorato di Cristo e del prossimo è dimostrato dalla grande carità, che rimase immutata anche dopo aver raggiunto il successo. Non solo in svariate occasioni Waugh seppe perdonare chi lo aveva precedentemente offeso, ma donò pure diversi soldi alla cappellania cattolica presso la Manchester University e alla Campion Hall di Oxford. Altro episodio significativo è quando lo scrittore si offrì volontario per tenere compagnia a mons. Ronald Knox dopo che questi ebbe subito una delicata quanto inutile operazione per rimuovere un tumore: «Tutti conoscono il suo straordinario coraggio, ma in pochi sanno quanto fosse generoso».



    Ecco perché la morte, avvenuta improvvisamente il giorno di Pasqua del 1966, a molti è apparsa quasi simbolica, un degno «sigillo sul suo lavoro e sulla sua speranza religiosa».

  2. #222
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    [IL MERCOLEDÌ DI PADRE BROWN] “Il miracolo della Mezzaluna”: saggi e assaggi di un sano realismo cristiano



    di Luca Fumagalli

    Continua con questo nuovo articolo la rubrica infrasettimanale di Radio Spada dedicata all’approfondimento e al commento dei racconti di Padre Brown, il celebre sacerdote detective nato dalla penna di G. K. Chesterton, tra i più grandi intellettuali cattolici del Novecento. I racconti, a metà strada tra investigazione e apologetica, hanno per protagonista il buffo e goffo Padre Brown, interessato sia a risolvere i crimini che a salvare le anime dei colpevoli.

    Per una disamina introduttiva sulla figura di Padre Brown – protagonista pure di vari film, sceneggiati per la televisione e, addirittura, fumetti – si veda il breve articolo a questo link.

    Per le precedenti puntate… da “L’innocenza di Padre Brown” (1911): 1. La Croce azzurra / 2. Il giardino segreto / 3. Il passo strano / 4. Le stelle volanti / 5. L’uomo invisibile / 6. L’onore di Israel Gow / 7. La forma errata / 8. Le colpe del Principe Saradine / 9. Il martello di Dio / 10. L’occhio di Apollo / 11. All’insegna della spada spezzata / 12. I tre strumenti di morte. Da “La saggezza di Padre Brown” (1914): 1. L’assenza del Signor Grass / 2. Il paradiso dei ladri / 3. Il duello del dottor Hirsch / 4. L’uomo nel passaggio / 5. L’errore della macchina / 6. La testa di Cesare / 7. La parrucca violacea / 8. La fine dei Pendragon / 9. Il Dio dei Gong / 10. L’insalata del Colonnello Cray / 11. Lo strano delitto di John Boulnois / 12. La fiaba di Padre Brown. Da “L’incredulità di Padre Brown” (1926): 1. La resurrezione di Padre Brown / 2. La freccia del cielo / 3. L’oracolo del cane

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    Non tutte le ciambelle escono col buco, e anche Il miracolo della Mezzaluna (The Miracle of the Moon Crescent), quarto racconto della raccolta L’incredulità di Padre Brown (1926), appare debole e fiacco rispetto a quelli che lo hanno preceduto. Chesterton qui commette l’errore di sacrificare un po’ troppo l’aspetto letterario per dare spazio soprattutto a quello apologetico, che si risolve in una critica, pur interessante, agli opposti errori del materialismo e dello psicologismo. Non mancano nemmeno riflessioni paradossali sul male, sulla natura dei miracoli – con più di un rimando, seppur tra le righe, al miracolo per eccellenza, ovvero l’Incarnazione di Dio – e sullo «spirito commerciale» degli americani, forse figlio di quel XVIII secolo «in cui gli uomini come Washington e Jefferson erano sembrati ancora più repubblicani per il fatto di essere degli aristocratici».

    La vicenda, ambientata in una città sulla costa orientale degli Stati Uniti, è incentrata sulla strana sparizione di Warren Wynd, riformatore e direttore di parecchie opere benefiche, famoso per la straordinaria capacità di formarsi un chiaro giudizio sul carattere delle persone in tempi molto rapidi. Wynd si trovava nel suo appartamento, uno dei tanti di una bizzarra palazzina la cui forma ricorda la mezzaluna, intento a rovistare tra i documenti personali. Con lui, prima di essere congedati, vi erano un paio di collaboratori, tra cui il cameriere Wilson, un tipo grande e grosso. La porta è rimasta chiusa solo per una mancata di minuti, ma quando è stata riaperta dell’uomo non vi era più alcuna traccia. Il fatto è davvero singolare anche perché, ad eccezione dell’ingresso principale – tra l’altro sempre presidiato – non vi sono altri modi per entrare in casa; pure le finestre, oltre ad essere a un’altezza considerevole, si affacciano su due pareti perfettamente lisce.

    Il gruppo che ha assistito al presunto miracolo è composto da quattro persone: Fenner, il segretario di Wynd, Vandan, un magnate dell’olio, Art Alboin, un americano dell’Ovest che predica una «religione dell’avvenire» basata sul controllo della respirazione, e Padre Brown, «grosso come un fungo nero, perché era molto basso e la sua piccola figura tozza era eclissata dal largo cappello da prete; la rassomiglianza sarebbe potuta essere più completa se i funghi avessero l’abitudine di portare un ombrello, se pure logoro e sgangherato». È stato proprio il sacerdote a spingere gli altri ad aprire la porta dell’appartamento di Wynd per verificare lo stato di salute di quest’ultimo: pochi istanti prima, infatti, passeggiando tranquillamente per strada, aveva incontrato un irlandese cencioso, una sua vecchia conoscenza, che aveva giurato morte al riformatore («“Padre Brown siete il solo uomo la cui faccia può incutermi timore oggi” – capii che voleva dire di aver commesso un’azione violenta o peggio»). Il prete lo aveva allora seguito, ma l’irlandese si era limitato a sparare a salve, con una vecchia pistola, contro il muro di un magazzino, producendo un gran rumore e nulla più. Dopo la scoperta della sparizione di Wynd, superato il loro iniziale scetticismo, Fenner, Vandan e Alboin iniziano a rivolgersi a Padre Brown con toni più accomodanti: «Avevano messo da parte quell’uomo come un sognatore superstizioso, per aver semplicemente accennato a quello che era poi accaduto davanti ai loro occhi».

    Alla sera, usciti dall’edificio, i quattro si imbattono nel cadavere di Wynd, impiccato a uno degli alberi del parco accanto alla strada. La polizia viene immediatamente allertata e i giornalisti, «che si sentono sempre responsabili di guidare il pubblico e spingerlo in una direzione più saggia», colgono immediatamente la palla al balzo per lanciarsi in speculazioni di ogni sorta, attirando anche la curiosità degli appassionati di occultismo. Se il pragmatismo un po’ sciocco di Mr. Collins, incaricato delle indagini, non porta a nulla – «Non avete senso pratico; siete un imbroglione» – ancora più ridicole appaiono le pretese del Professor Vair, eminente psicologo, preso a male parole da Fenner: «È questo ciò che contesto nella vostra insinuazione, professore. Faccio prima a credere in un sacerdote che crede in un miracolo, piuttosto che a non credere a una persona che non ha alcun diritto di credere in un evento. Il sacerdote mi dice che un uomo può appellarsi a un Dio di cui io non conosco nulla, per vendicarsi secondo le leggi di una giustizia più alta di cui io non conosco nulla. Non ho nulla da dire tranne che non ne so nulla. Tuttavia, se le preghiere del povero irlandese e la pistola possono essere ascoltate in un mondo più alto, il mondo più alto potrebbe aver agito in un modo che a noi sembra strano. Ora voi mi chiedete di non credere ai fatti di questo mondo così come appaiono ai miei cinque sensi. Secondo voi, un’intera processione di Irlandesi armati di schioppi sarebbe potuta entrare in quella stanza mentre noi stavamo parlando, purché si fossero presi la briga di sfruttare i punti ciechi delle nostre menti. I miracoli di tipo monacale come materializzare un coccodrillo o appendere un mantello a un raggio di sole, sembrano piuttosto ragionevoli se paragonati ai vostri».

    Qualche giorno dopo, Fenner, Vandan, Alboin e Padre Brown si danno appuntamento all’appartamento di Wynd per fare finalmente luce sul caso. Ormai tutti sono convinti della veridicità del miracolo, tutti tranne il sacerdote: «Il mentire potrà forse servire alla religione; ma sono sicuro che non serve a Dio». Assurdo anche parlare di maledizione: «Dite che il fatto è stato opera di poteri spirituali. Quali poteri spirituali? Non crederete che degli angeli lo abbiano preso e poi impiccato all’albero di un giardino, vero? E per quanto riguarda gli angeli dannati… no, no, no! Gli uomini che hanno compiuto questo fatto hanno commesso un atto malvagio, ma non sono andati aldilà della loro malvagità: non erano malvagi a sufficienza da trattare con dei poteri spirituali. Conosco qualcosa sul Satanismo, purtroppo; sono stato costretto a informarmi al riguardo. So cosa è, cosa praticamente è da sempre. È orgoglioso e infido. Adora essere superiore; ama terrorizzare gli innocenti con cose in parte incomprensibili, e fare accapponare la pelle dei bambini. Ecco perché è così amante dei misteri, delle iniziazioni, delle società segrete e di tutto il resto. I suoi occhi sono rivolti all’interno e, per quanto grande e serio possa sembrare, nasconde sempre un piccolo sorriso folle».

    Vittime del paradosso dell’ateo, il quale, perdendo Dio, comincia a credere a tutto – «Voi avete giurato che eravate dei materialisti induriti, ed era quindi naturale che foste in bilico al limite di una fede; eravate al punto di poter credere quasi a qualunque cosa» – i compagni di Padre Brown hanno commesso l’errore di appellarsi troppo presto al soprannaturale senza considerare prima tutte le possibilità naturali. Secondo il sacerdote, infatti, Wynd è stato ucciso da «tre vagabondi che una volta si erano presentati da lui e che egli aveva assegnato rapidamente a destra e a sinistra, chi a un posto e chi a un altro; come se per loro non ci fossero da osservare le forme della cortesia, né esistessero valori intimi, né la possibilità di un offerta amichevole. E vent’anni non erano bastati a consumare l’indignazione nata da quell’incommensurabile insulto». I tre, tra cui figura anche il cameriere Wilson, hanno agito d’accordo per inscenare un suicidio: mentre Wynd era affacciato alla finestra, allarmato dal rumore provocato dal colpo di pistola sparato dall’irlandese, Wilson, che si trovava al piano superiore, lo ha catturato con un cappio al collo. Successivamente, attraverso la finestra sul lato opposto della stanza, ha calato il corpo al terzo complice che ha infine provveduto a legarlo all’albero.

    A Padre Brown, una volta chiarito il mistero, non resta che pregare per tutti gli sventurati coinvolti nel caso, «anche per uno come Warren Wynd».

  3. #223
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    Harold Acton: Memoirs of a Catholic Aesthete



    uca Fumagalli

    Just outside Florence, on the sides of the via Bolognese that climbs gently through the hills, splendid villas have sprung up over the centuries. The gates still guard the secrets of that distant past of aristocratic opulence, when the city had not yet invaded the neighbouring countryside.

    At number 120 there is Villa La Pietra, a splendid estate reached by way of a tree-lined path. The building, of Renaissance foundation, is surrounded by lush Italian gardens.

    Harold Acton was born in one of the rooms of the house, scion of a rich Anglo-Italian family of Catholic tradition, art collector and writer of rare erudition. His death in 1994 at the age of eighty-nine was the disappearance of the last representative of that British colony which, in the first half of the twentieth century, had animated the cultural life of the Tuscan capital.

    It was not uncommon to see the young Acton walking through the streets of Florence with Norman Douglas and Reggie Turner or engaging in heated conversations with Ronald Firbank. He also frequented those fashionable places where Russian nobles gathered, forced into exile by the communist revolution, and never missed an opportunity to exchange a few words with the bibliophile Pino Orioli or with the art historian Bernard Berenson.

    Acton, who was educated in Eton and then in Oxford, lived in England during his first years of adulthood, the era of the “Bright Young Things”, characterized by jazz and pharaonic parties.

    Meanwhile he cultivated poetic ambitions and met Gertrud Stein, the Sitwell brothers, Robert Byron and Evelyn Waugh, of whom he was a lifelong friend (the two met during a G. K. Chesterton lecture at the Newman Society). Waugh dedicated his first novel, Decline and Fall, to him, and Acton wanted to return the favour by steering the writer towards the Catholic Church. Apparently, the character of Anthony Blanche, the homosexual dandy of Brideshead Revisited who stutters and recites poetry with a megaphone, was based – at least in part – on Acton.

    England was only a parenthesis in latter’s life and he never stopped considering Florence as his real home. He loved the Italy of small homelands and universal values, of the Renaissance and of the Faith, which he presented and praised in the books dedicated to the Medici and the Bourbons as well as in his autobiography, Memoirs of an Aesthete, published in 1948. Inclined to delicate and floriferous phrases, Acton did not hold back even when it was time to openly denounce the arrogance of the fascists, in reaction to which he was led to enlist in the RAF during the Second World War.

    He was also a tireless traveller. After university he tried, unsuccessfully, to live as a writer in Paris, after which he moved to China.. From 1932 to 1939 he lived in Beijing, where he learned to appreciate oriental culture, becoming one of the leading experts in Europe. Later he visited Southeast Asia and it was only with the outbreak of the Sino-Japanese war that he decided, albeit reluctantly, to go home.

    In 1971, taking refuge in the tranquillity of Florence, he became the protagonist of the ecclesiastical chronicles since his signature appeared at the bottom of the appeal that would lead to the so-called “Agatha Christie Indult”: following the liturgical reforms promoted by the Second Vatican Council, some English intellectuals , including the famous author of detective stories, had signed a petition to ask for the preservation of the Tridentine rite in England. Paul VI, unable to ignore a request that came from such important names, resigned himself to accepting it.

    In addition to Villa La Pietra – now owned by the University of New York – to Acton’s long career remain several historical and artistic essays, three novels, some collections of short stories and four volumes of poems.

    Although a “minor” among British Catholic writers, he was nevertheless a fascinating figure, a proudly modern man who nonetheless never ceased to feel that he was the orphan of a mythical past characterised by order, chivalry and holiness.

  4. #224
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    Hugh Ross Williamson: la storia dimenticata di un grande “tradizionalista” inglese



    di Luca Fumagalli

    «Così, tra le mura, ho trovato ancora una volta la libertà, la sicurezza e la felicità del giardino»[1]. È con queste parole che si chiude The Walled Garden (1956), l’autobiografia che Hugh Ross Wlliamson scrisse all’indomani del suo ingresso nella Chiesa di Roma, dopo aver servito per svariati anni come ministro anglicano. Romanziere, saggista, drammaturgo, teologo, giornalista, storico, politico e presentatore televisivo, Ross Williamson fu uno dei convertiti più illustri del suo tempo, destinato a lasciare il segno, in terra inglese, su più di una generazione di cattolici. Inoltre si dimostrò un abile apologeta, tra i pochi che osò ribellarsi ai cambiamenti liturgici e dottrinali introdotti con il Concilio Vaticano II.

    Nato tre settimane prima della scomparsa della regina Vittoria, il 2 gennaio 1901, Ross Williamson era figlio del ministro congregazionalista della piccola comunità di Romsey, nell’Hampshire. Nelle sue vene scorreva sangue scozzese – la famiglia del padre era originaria delle Highlands – mentre la nonna materna era una Pole, discendente dell’omonimo cardinale che, nel XVI scolo, fu l’ultimo arcivescovo cattolico di Canterbury.



    A casa la situazione economica era tutt’altro che rosea. Le offerte dei fedeli erano sufficienti per vivere dignitosamente ma nulla più, e i Ross Williamson, ora in cinque con l’arrivo di altri due figli, furono costretti a trasferirsi prima a Trowbridge, nel Wilsthire, e infine a Hove. Il piccolo Hugh, dotato di una non comune vivacità intellettuale, imparò presto a leggere e a scrivere, cimentandosi pure col latino. A scuola fu un alunno brillante e col tempo prese a interessarsi anche di teologia, distanziandosi dal nonconformismo del genitore per avvicinarsi sempre più alle posizioni anglicane e, in particolare, a quelle anglo-cattoliche (nel suo primo libro, The Poetry of T. S. Eliot, del 1932, avrebbe scritto: «Il protestantesimo è una via di mezzo in cui trova rifugio chi non vuole meditare intorno a una questione sino alla sua conclusione. Solo i cattolici e gli agnostici osano raggiungere la fine dei loro viaggi»)[2]. Non sopportava il relativismo dogmatico e le discussioni inconcludenti, ed era altresì convinto che l’Eucarestia fosse davvero il corpo di Cristo e non un mero simbolo.

    Lo scoppio della Grande Guerra non ebbe grosse ripercussioni sulla sua vita dal momento che un problema al piede, per cui si era già sottoposto a un’operazione nel 1915, gli valse l’esonero dal servizio militare (diversamente, durante il Secondo conflitto mondiale, per evitare di finire dietro a una scrivania, fu costretto a ricorrere all’obiezione di coscienza, sostenendo che lo scontro in atto non fosse cristianamente giustificabile). Si dedicò allora all’insegnamento, racimolando i soldi necessari per completare gli studi con una laurea in storia.

    Quando fu il momento di seguire le orme paterne e di diventare anch’egli un ministro, Ross Williamson non si sentì pronto a compiere il grande passo. Troppi dubbi ne tormentavano la coscienza. Nella sua autobiografia racconta che un giorno gli venne detto che «i giovani hanno tre buoni motivi per darsi alla carriera ecclesiastica. Vorrebbero parlare o agire o scrivere, ma hanno troppa poca confidenza nelle proprie capacità da tentare di entrare in parlamento, in teatro o nel mondo delle letteratura. […] Era così vicino a ciò che sentivo che cominciai a pensare che fosse necessario fare esperienza di questi tre mondi prima di entrare nel quarto»[3].



    u così che dal 1925 al 1943 Ross Williamson intraprese la carriera giornalistica – lavorò allo «Yorkshire Post» per poi diventare direttore del «The Bookman» e dello «Strand Magazine» –, ottenne una discreta fama come drammaturgo e fu a un soffio dall’essere eletto in parlamento tra le file del Partito laburista. Da quest’ultimo venne espulso in malo modo nel 1940, dopo che l’anno precedente aveva pubblicato un libello polemico, intitolato Who Is For Liberty?, in cui denunciava lo strapotere dei sindacati all’interno dell’organizzazione. Alla base della sua insofferenza vi era probabilmente anche quel disprezzo viscerale per il capitalismo e per il comunismo – «in lotta tra loro per il denaro che entrambi amano con la medesima intensità»[4] – che era andato maturando a contatto con le idee distributiste di Padre John O’Connor, il modello del Padre Brown di G. K. Chesterton. Ross Williamson ebbe modo di incontrarlo in varie occasione quando si trovava a Leeds: «Mi abbeverai alla sua saggezza, conobbi il suo amato Claudel (che stava traducendo), guardai le stazioni della Via Crucis fatte da Eric Gill per la chiesa di St Cuthbert (che sono molto più belle di quelle della cattedrale di Westminster) e, poiché me lo permetteva, ogni tanto provavo a litigarci»[5].

    Dopo il libro su Eliot, il primo in assoluto dedicato al poeta, Ross Williamson continuò a pubblicare romanzi e saggi, soprattutto opere biografiche sulle principali figure del XVII secolo (la sua ammirazione per gli Stuart era cosa nota)[6]. Nel 1941, anno del suo matrimonio, scrisse invece un trattato religioso, A.D. 33, che, come ricorda la figlia Julia, ottenne addirittura il plauso di E. M. Forster[7].

    Più in generale, da avido lettore qual era, subì l’influenza sia di autori anglicani come Dorothy L. Sayers e C. S. Lewis, che di scrittori cattolici quali mons. Ronald Knox, David Jones, Evelyn Waugh, Edith Sitwell e Sigfried Sassoon. Tra le opere di Chesterton la sua preferita era Ortodossia – del resto il titolo della sua autobiografia, The Walled Garden, è una citazione tratta proprio dal libro del famoso polemista inglese –, mentre si servì dei romanzi storici di mons. R. H. Benson come modello per i propri[8].



    Nel 1943 divenne ministro anglicano facendosi un nome come teologo e predicatore, esponente di spicco della minoranza anglo-cattolica: «Era mia convinzione che l’Inghilterra sarebbe tornata alla fede solamente tramite la Chiesa d’Inghilterra»[9]. Per dodici anni fu legato alla parrocchia di St Cyprian, in Regent’s Park, e a quella di St Thomas, in Regent Street, ma ciò non gli impedì di far sentire la sua voce anche da altri pulpiti, sempre pronto ad accogliere gli inviti che gli giungevano da ogni parte del Paese.

    Al di là delle diuturne diatribe teologiche in seno alla Chiesa inglese e dei molti che lo accusavano di voler imitare i “papisti”, fu soprattutto lo studio della storia a scuotere la coscienza anglicana di Ross Williamson (ecco perché dedicò buona parte delle sue energie a scrivere opere di taglio revisionistico, compreso un interessante saggio basato sull’ipotesi che Shakespeare fosse cattolico). Rimase costernato dalla scoperta di come il “cattolicesimo” di Lancleot Andrewes, uno dei suoi eroi, fosse più presunto che reale e di come la congiura delle polveri, sebbene molti particolari rimangano ancora oscuri, fosse in buona sostanza una macchinazione del governo. Al tema dedicò anche un saggio, The Gunpowder Plot (1951), che non mancò di suscitare numerose polemiche. L’indignazione degli anglicani raggiunse il culmine con lo spettacolo teatrale His Eminence of England, messo in scena nel 1953 per il Canterbury Festival. La pièce, incentrata sulla vita del cardinale Reginald Pole, celebre per essersi opposto alla politica di Enrico VIII e per aver servito fedelmente la regina Maria all’epoca delle persecuzioni anti-protestanti, era decisamente poco adatta per la più importante manifestazione della Chiesa d’Inghilterra, tanto che pure l’arcivescovo di Canterbury, Geoffrey Fisher, si rifiutò di assistere allo spettacolo[10].

    Ciononostante fu necessario attendere ancora un paio d’anni prima che Ross Williamson decidesse di abbandonare finalmente l’anglicanesimo per farsi cattolico: «Lasciai la Chiesa d’Inghilterra perché, nel luglio del 1955, gli arcivescovi, i vescovi e i suoi rappresentanti riconobbero ufficialmente la validità degli ordini della Chiesa dell’India meridionale e così proclamavano che non vi era alcuna differenza tra quello che io, un prete anglicano, facevo alla Santa Comunione e quello che mio padre, un ministro congregazionalista, faceva; in altre parole, che il suo presiedere a una cena memoriale fosse la stessa cosa della mia celebrazione dell’Eucarestia e che ogni cristiano poteva prendere parte indistintamente sia all’una che all’altra»[11]. La conseguenza logica era che «gli ordini della Chiesa d’Inghilterra erano stati dichiarati invalidi dai suoi stessi rappresentanti»[12].



    Il 15 ottobre Ross Williamson e la moglie vennero quindi accolti nella Chiesa cattolica dal gesuita Basil Fitz-Gibbon presso la parrocchia di Farm Street. La scelta fu però pagata a caro prezzo ed ebbe immediate ripercussioni su tutta la famiglia che si ritrovò improvvisamente senza un soldo. Non solo Ross Williamson non poté più contare sullo stipendio da vicario, ma la conversione finì pure per costargli il posto di conduttore della trasmissione televisiva “Brains Trust” della BBC: «Mio padre», ricorda Julia, «protestò dicendo che era il 1955 e non il 1555, ma Mrs Greene gli ribatté che un prelato anglicano alla moda andava bene ma un convertito al cattolicesimo no»[13]. Pur tra mille difficoltà, riuscì comunque ad andare avanti grazie alle vendite dei libri e lavorando come giornalista freelance.

    Uno spirito pugnace del tutto simile a quello di Hilaire Belloc[14] lo convinse poi a dedicarsi all’apologetica con rinnovata passione. Nel 1957 diede alle stampe il saggio The Beginning of the English Reformation, mentre l’anno successivo fu la volta di The Challange of Bernadette e di due spettacoli – uno per la televisione e uno per il teatro – intesi a commemorare il centenario delle apparizioni di Lourdes (per l’occasione il gesuita C. C. Martindale gli indirizzò un paio di lettere elogiative). Pubblicò libri agiografici per i più piccoli e nel 1961 mise in scena una pièce dedicata a Santa Teresa d’Avila che riscosse un enorme successo. Ross Williamson, celato sotto lo pseudonimo di Ian Rossiter, si improvvisò attore e la cosa dovette piacergli molto se continuò a recitare, seppur occasionalmente, anche negli anni successivi.

    A gettare un’ombra oscura sull’ultima parte della sua esistenza terrena ci pensò il Concilio Vaticano II. In Inghilterra, ad eccezione di Waugh, Ross Williamson fu probabilmente il più veemente tra gli oppositori delle riforme conciliari. Tra il 1969 e il 1970 pubblicò due pamphlet, The Modern Mass: A Reversion to the Reforms of Cranmer e The Great Betrayal, in cui venivano contestati tutti quegli “aggiornamenti” che avevano portato alla sostituzione della Messa tridentina. I due scritti «non erano solo una protesta, di più, erano un vero e proprio attacco alla gerarchia, quasi una dichiarazione di guerra»[15]. Ross Williamson «non era un sedevacantista, ma pensava che il Papa si sbagliasse enormemente e fosse troppo influenzato dall’arcivescovo Bugnini e dalla sua folla di complici, che considerava i veri cattivi. Nell’arcivescovo Marcel Lefebvre vedeva l’unico con il coraggio di resistere all’eresia protestante ormai dilagante (come la considerava lui) e lo paragonò a San Giovanni Fisher, il vescovo che in Inghilterra si oppose al protestantesimo, motivo per il quale venne poi martirizzato»[16].



    A causa del rapido deteriorarsi della salute, Ross Williamson fu infine costretto a vivere confinato nella propria casa di Bayswater, dopo aver subito l’amputazione della gamba malata. Tuttavia, come racconta Julia, il padre, che morì il 13 gennaio 1978, non rinunciò mai all’amata liturgia tradizionale: «Il sacerdote veniva da noi e celebrava Messa per lui, in latino. Era molto arrabbiato a causa del Concilio Vaticano II. Scrisse due o tre libretti sul tema. Fu uno dei fondatori della Latin Mass Society. Non volle mai andare alla “Nuova Messa” ed era d’accordo con la divertente lettera che Evelyn Waugh aveva scritto al “Times”. […] Credeva che i cambiamenti riecheggiassero tutto quanto era stato fatto con la Riforma. In quanto storico, provava la sgradevole sensazione che i martiri di allora fossero morti per nulla, e che tutto ciò che aveva scritto sul tema, come aveva fatto Waugh con il suo libro su Edmund Campion, fosse ormai sorpassato»[17].

    [1] H. ROSS WILLIAMSON, The Walled Garden, Michael Joseph, Londra, 1956, p. 185.

    [2] Cit. in ivi, p. 45

    [3] Ivi, p. 55.

    [4] Ivi, p. 29.

    [5] Ibid.

    [6] Cfr. ivi, p. 33.

    [7] Cfr. intervista a Julia Ashenden cit. in J. PEARCE, Literary Converts, HarperCollins, Londra, 2000, p. 287.

    [8] Cfr. ivi, pp. 287-289.

    [9] ROSS WILLIAMSON, The Walled Garden, p. 109.

    [10] Cfr. PEARCE, Literary Converts, p. 283.

    [11] ROSS WILLIAMSON, The Walled Garden, pp. 118-119.

    [12] Ivi, p. 183.

    [13] Intervista a Julia Ashenden… p. 290.

    [14] Cfr. PEARCE, Literary Converts, pp. 285, 352.

    [15] Ivi, p. 359.

    [16] Messaggio di Julia Ashenden all’autore (30 settembre 2021).

    [17] Intervista a Julia Ashenden… p. 360.

  5. #225
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    [IL MERCOLEDÌ DI PADRE BROWN] “La maledizione della croce d’oro”: il medioevo, il soprannaturale e altre verità negate



    di Luca Fumagalli

    Continua con questo nuovo articolo la rubrica infrasettimanale di Radio Spada dedicata all’approfondimento e al commento dei racconti di Padre Brown, il celebre sacerdote detective nato dalla penna di G. K. Chesterton, tra i più grandi intellettuali cattolici del Novecento. I racconti, a metà strada tra investigazione e apologetica, hanno per protagonista il buffo e goffo Padre Brown, interessato sia a risolvere i crimini che a salvare le anime dei colpevoli.

    Per una disamina introduttiva sulla figura di Padre Brown – protagonista pure di vari film, sceneggiati per la televisione e, addirittura, fumetti – si veda il breve articolo a questo link.

    Per le precedenti puntate… da “L’innocenza di Padre Brown” (1911): 1. La Croce azzurra / 2. Il giardino segreto / 3. Il passo strano / 4. Le stelle volanti / 5. L’uomo invisibile / 6. L’onore di Israel Gow / 7. La forma errata / 8. Le colpe del Principe Saradine / 9. Il martello di Dio / 10. L’occhio di Apollo / 11. All’insegna della spada spezzata / 12. I tre strumenti di morte. Da “La saggezza di Padre Brown” (1914): 1. L’assenza del Signor Glass / 2. Il paradiso dei ladri / 3. Il duello del dottor Hirsch / 4. L’uomo nel passaggio / 5. L’errore della macchina / 6. La testa di Cesare / 7. La parrucca violacea / 8. La fine dei Pendragon / 9. Il Dio dei Gong / 10. L’insalata del Colonnello Cray / 11. Lo strano delitto di John Boulnois / 12. La fiaba di Padre Brown. Da “L’incredulità di Padre Brown” (1926): 1. La resurrezione di Padre Brown / 2. La freccia del cielo / 3. L’oracolo del cane / 4. Il miracolo della Mezzaluna

    La maledizione della croce d’oro (The Curse of the Golden Cross), quinto racconto della raccolta L’incredulità di Padre Brown (1926), è una di quelle storie chestertoniane che, sebbene non perfette dal punto di vista della scrittura, risultano in un godibilissimo distillato delle migliori doti apologetiche dello scrittore inglese. Al di là della classica stoccata ai reporter d’assalto – «Non credo in nessuna cosa; sono un giornalista» – e, di conseguenza, a certa superficialità moderna, La maledizione della Croce d’oro contiene alcuni dei brani più belli che Chesterton abbia mai scritto sullo spirito medievale e sulle catacombe, nonché una fugace riflessione sul rapporto tra razionalità e soprannaturale.

    La vicenda, divisa in quattro grandi sequenze, prende il via sul “Moravia”, un transatlantico che sta viaggiando dall’America all’Inghilterra. Attorno a un tavolo si trovano sedute sei persone, tra cui il Prof. Smaill, «un’autorità in fatto di certi studi sul tardo Impero Bizantino», e Padre Brown: «Il più insignificante personaggio era un piccolo prete inglese. […] Ascoltava i discorsi della compagnia con rispettosa attenzione». I commensali stanno parlando del recente ritrovamento, in una località dell’Sussex chiamata Dulham, della tomba di un vescovo medievale il cui corpo pare sia stato imbalsamato in una maniera peculiare, in uso presso i greci e gli egiziani, ma sconosciuta in occidente. Tra i tesori riportati alla luce e scrupolosamente catalogati dal vicario locale, il reverendo Walters, vi è anche una catena con una croce, con l’effigie di un pesce, del tutto simile a un’altra di cui è in possesso Smaill, ritrovata durante una spedizione archeologica in una catacomba cristiana a Creta (al mondo esistono solo questi due esemplari).

    Quando gli altri ospiti si dileguano, il professore decide di raccontare al sacerdote ciò che lo tormenta: «”Vedete, vi considero quasi il più saggio e candido uomo che abbia mai conosciuto”. Padre Brown era molto inglese e provava tutto il solito nazionale imbarazzo davanti a un serio complimento sincero, fattogli sul viso alla maniera americana». Smaill rivela che, dall’epoca degli scavi a Creta, qualcuno lo sta minacciando di morte se non rinuncia alla croce, minacce che sono andate aumentando con la scoperta della tomba nel Sussex. Nonostante non abbia la minima idea di chi possa essere l’uomo, almeno di una cosa è certo: «Non sembra che abbia nessun sentimento religioso e nessun fanatismo in questo senso; sembra che non abbia altra passione che quella dei collezionisti di curiosità. Questa è una delle cose che me lo fanno ritenere un occidentale piuttosto che un orientale». Si fa quindi promettere dal prete di aiutarlo a fare luce sullo strano caso.

    Una volta rientrati in Inghilterra, Smaill e Padre Brown si recano quindi nel Sussex. Con stupore, a Dulham, ritrovano anche gli altri quattro commensali del “Moravia” e tutti insieme, accompagnati dal vicario, fanno visita alla tomba, una grande stanza sotterranea con una bara aperta al centro. Stando alla leggenda riportata dal reverendo Walters, sul luogo graverebbe una terribile maledizione risalente al medioevo, destinata a colpire chiunque osi profanare la tomba e rubarne i tesori. Il professore, però, che ha occhi solo per la croce, allunga la mano per afferrarla: appena sfiora l’oggetto, la lastra di pietra della bara cade improvvidamente procurandogli una grave ferita alla testa.

    Mentre viene trasportato al vicino albergo per essere curato da un dottore, Padre Brown cerca di dare un senso a ciò di cui è stato testimone. Del resto nessuno dei compagni d’esplorazione ha un motivo per volere la morte di Smaill; si tratta di individui bizzarri ma non per questo pericolosi (tra loro vi è pure una coppia di amanti «impegnati in uno di quei fluttuanti corteggiamenti dell’alta società che sono tanto più imprudenti per il fatto che sono semi intellettuali»). La situazione, poi, è resa ancora più oscura dall’improvvista sparizione di Walters i cui vestiti, ritrovati su una rupe sporgente dalla spiaggia, fanno pensare al suicidio.

    Il gruppo inizia a ipotizzare che la maledizione sia reale, tutti tranne il sacerdote il quale, dopo lungo penare, è folgorato dalla «luce di una terribile intuizione»: «“Non è della parte soprannaturale che dubito, ma della parte naturale. Io sono esattamente nella posizione di colui che diceva: posso credere l’impossibile, ma non l’improbabile”. “Questo è quel che si dice un paradosso, non è vero?”, domandò il suo interlocutore. “È quello che io chiamo buon senso, inteso giustamente”, rispose Padre Brown. “È davvero più naturale credere a una storia soprannaturale che tratti di cose che non comprendiamo, che una storia naturale che contraddica le cose che comprendiamo. Raccontatemi che il grande Gladstone nelle sue ultime ore fu tormentato dallo spettro di Parnell, e io sarò agnostico. Ma ditemi che Gladstone, quando fu presentato alla Regina Vittoria, non si tolse il cappello, le diede un colpetto sulla schiena e le offrì un sigaro, e io non sarò affatto agnostico. Ciò non è impossibile: è soltanto incredibile, ma sono ben più certo che questo non avvenne che non del fatto che non sia apparso lo spettro di Parnell, perché viola le leggi del mondo che io comprendo. Lo stesso accade per la storia della maledizione. Non è la leggenda che mi lascia incredulo… è la parte storica”».

    A insospettire il prete è infatti il racconto del reverendo Walters, una vicenda di religiosi fanatici e di ebrei arsi vivi che poco ha a che fare con quello che è veramente stato il medioevo cristiano: «Se si trattasse di Tutankamen e di una serie di Africani disseccati e conservati – il cielo sa perché – all’altro capo del mondo, se si trattasse di Babilonia o della Cina, o di qualche popolo remoto e misterioso come l’Uomo della Luna, i giornali vi avrebbero raccontato tutto, fino all’ultima scoperta di uno spazzolino da denti o di un bottone da colletto. Ma degli uomini che hanno costruito le nostre chiese, e dato il nome alle nostre città, e ai mestieri, e alle stesse strade per cui camminiamo… di quelli non vi è mai venuto in mente di apprendere qualcosa. Io non pretendo di saperne molto, ma ne so abbastanza per capire che quella storia è un mucchio di sciocchezze dal principio alla fine. […] Quella gente aveva i suoi vizi e le sue tragedie, e qualche volta torturava e bruciava le persone; ma quest’idea di un uomo che, senza Dio o speranza al mondo, se ne striscia via a morire perché a nessuno importa ch’egli viva o muoia… questa non è un’idea medievale: è il prodotto della nostra scienza economica e del progresso». All’obiezione che, al tempo, gli ebrei fossero comunque perseguitati, Padre Brown prosegue senza esitare: «Sarebbe più vicino alla verità dire che erano le sole persone che non fossero perseguitate nel medioevo. Se vuol fare una satira del medioevo, può dire con più verisimiglianza che un povero cristiano poteva essere bruciato vivo per qualche errore sull’essenza della Trinità, mentre un ricco ebreo poteva passeggiare per la strada irridendo apertamente al Cristo e alla Madre di Dio».

    Sebbene l’identità del colpevole rimanga avvolta nel mistero, il sacerdote detective ha ormai compreso la dinamica del tentato omicidio, un piano orchestrato nei minimi particolari, ad eccezione della leggenda, improvvisata su due piedi per motivi di tempo. Il folle collezionista che stava minacciando il professore ha prima ucciso il reverendo – il cui corpo è quello nella tomba, mentre il cadavere del vescovo medievale deve essersi ridotto in polvere già da secoli – per poi indossarne i panni. La croce che il morto aveva al collo era un semplice rosario la cui estremità era stata legata a uno dei paletti che reggevano la lastra di pieta della barra, e ciò basta a spiegata la dinamica dell’incidente occorso a Smaill. Il colpevole ora è probabilmente lontano, fuggito via da Dulham dopo essersi cambiato d’abito.

    Nel cambio di scena dell’epilogo Padre Brown si trova al capezzale del professore che, per fortuna, si sta lentamente riprendendo. I due discorrono di sogni e visioni, fino a quando, tra le chiacchiere, fanno capolino le catacombe e l’immagine del pesce: «L’uomo che disegnò negli antri oscuri il segreto simbolo di Dio, fu perseguitato in un modo ben diverso dal mio. Era lui il solitario pazzo; l’intera società della gente si era unita, non per salvarlo, ma per trucidarlo». La replica del sacerdote è lesta: «Il Pesce potrà ancora essere trascinato sotto terra, ma tornerà su alla luce, nuovamente. Come osserva umoristicamente Sant’Antonio da Padova, “sono soltanto i pesci che sopravvivono a un diluvio”».

  6. #226
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    Ernest Dowson: Religious Poetry at the Time of the “Tragic Generation”



    Luca Fumagalli

    Ernest Christopher Dowson is one of the many forgotten poets of that decadent milieu that W. B. Yeats renamed “the tragic generation”.

    Born on 2 August 1867, after leaving Oxford without a degree, he worked for a period at his father’s factory while frequenting the artistic world of London. He was a friend of Oscar Wilde and a fervent admirer of Verlaine and the French Symbolists, and therefore lived several years in Paris.

    In 1892 he was received into the Catholic Church, after which he wrote various poems with religious themes. Like nearly all converts of the fin de siècle, Dowson was particularly drawn to the aesthetic beauty of Catholic ritual, but this does not necessarily mean his spiritual intentions were not serious. In the poem “Extreme Unction”, inspired by a scene by Madame Bovary, the priest’s gestures are narrated with extreme precision and the poet’s gaze does not fail to linger on the sick man’s eyes, lips and feet, marked with sacred oil.

    Nun and monks as well exercised a mixture of fascination and admiration for Dowson for their courageous choice to dedicate their lives to God, renouncing the allurements of the world (the poems “Nuns of the Perpetual Adoration” and “Carthusians” demonstrate this). Faith was for him an oasis of peace, an interlude of happiness in an existence dominated by sin.

    Dowson was considered, along with Lionel Johnson and John Davidson, one of the most talented members of the Rhymers’ Club, a group of poets founded by W.B. Yeats and Ernest Rhys in 1890. He was also a very prolific author and besides the volumes Verses (1896) and Decorations in Verse and Prose (1899), published a play in poetry, The Pierrot of the Minute (1897), and two novels, Comedy of Masks (1893) and Adrian Rome (1899), both written in collaboration with Arthur Moore. Unfortunately, however, his Christian lyrics cannot compete, for quality, with the rest of his output, which continued to be highly regarded until his death on 23 February 1900.

    However, there is a composition, “Benedictio Domini”, which emerges, as an exception, for the singular beauty that avoids the usual triteness of Catholic verbal aestheticism: in a badly lit church – perhaps Notre Dame de France, near Leicester Square, where the author usually went to Mass – an old priest blesses the crowd with a fearful hand, while an indistinct shouting outside describes the indifference of a humanity that has renounced Christ.

  7. #227
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    Yeats esoterico: qualche nota sull’affiliazione alla Golden Dawn del famoso poeta irlandese



    di Luca Fumagalli

    L’irlandese William Butler Yeats (1865-1939) fu uno dei poeti più celebrati a cavallo tra XIX e XX secolo sebbene una delle principali fonti di ispirazioni delle sue opere, ovvero l’invisibile mondo del soprannaturale, non abbia mancato di suscitare più di un imbarazzo nell’establishment letterario britannico.

    Sin dalla gioventù, durante le vacanze estive trascorse a Sligo, Yeats imparò ad amare il folklore celtico e il suo universo fatato, popolato da spiriti di ogni sorta. Gli abitanti del luogo gli giuravano di essere stati testimoni dei più strani eventi, e lui stesso raccontò che una volta, dopo aver notato una luce volteggiare sull’acqua di un fiume, scalò la collina di Knocknarea a velocità sorprendente. Verso i vent’anni, condotto a una seduta spiritica dalla scrittrice Katharine Tynan, dichiarò di essere stato vittima dell’attacco di un forza malvagia e di aver accidentalmente distrutto un tavolo nella lotta per liberarsene.

    Incapace di spiegare razionalmente gli eventi a cui aveva assistito, Yeats cominciò a dedicarsi alla magia, convinto che fosse il mezzo più facile per avere accesso al mondo dello spirito. Ciò lo portò all’età di ventitré anni, nel dicembre del 1888, ad aderire alla Theosophical Society, un gruppo dedito allo studio delle scienze esoteriche. In The Trembling of the Veil (1922) Yeats descrive la sua fondatrice, la russa Helena Blavatsky, come «una specie di contadina irlandese dall’aria divertente e del potere audace». Stando al poeta, strane cose accadevano in sua presenza: la prima volta che mise piede nell’appartamento di lei l’orologio a cucù prese a suonare all’impazzata, quasi a volerlo assalire.



    Nel 1890, dopo aspre polemiche, lo scrittore lasciò la Theosophical Society per entrare, nel marzo dello stesso anno, in una nuova organizzazione fondata dal massone William Wynn Westcott, cioè l’Hermetic Order of the Golden Dawn (o “The Hermetic Students”, come viene chiamata da Yeats nelle sue memorie). A convincerlo era stato l’occultista Samuel Liddell Mathers, figura di spicco della Golden Dawn e autore dei suoi elaborati rituali basati sul simbolismo dei rosacroce, sulla cabala e sulla magia egizia. Yeats venne iniziato in Fitzroy Street, presso lo studio artistico di Mina Bergson, sorella del celebre filosofo Henri e destinata, di lì a poco, a sposare Mathers. Il poeta fece voto di mantenere il più stretto riserbo sulle attività dell’organizzazione, un voto che dovette avere in mente pure quando scrisse Autobiographies (1926), in cui quasi nulla è rivelato.

    Scelto un nome da iniziato – il suo era Demon est Deus Inversus (Il diavolo è l’opposto di Dio) –, Yeats si gettò a capofitto nello studio delle arti magiche, della divinazione, dell’alchimia, della numerologia e dei tarocchi, scalando rapidamente i ranghi dell’Outer Order. Imparò anche a creare talismani e a meditare sui simboli disegnati da Mathers, che avevano la facoltà di procurargli strane visioni. Una di queste, un deserto e un titano nero che si erge da antiche macerie, venne poi inserita in The Second Coming, uno dei suoi componimenti più famosi. Nel gennaio del 1893, visti i rapidi progressi, Yeats venne ammesso al Second Order, e ciò nonostante la brutta figuraccia rimediata un paio d’anni prima a causa di Maud Gonne, attrice e patriota irlandese di cui era innamorato. Il poeta era riuscito a convincerla ad aderire alla Golden Dawn, ma la donna aveva disertato l’organizzazione quasi subito dal momento che, per i suoi gusti, puzzava troppo di massoneria, quintessenza dell’imperialismo britannico.

    Nel frattempo Yeats era impegnato in oscuri esperimenti sulla telepatia con lo zio George Pollexfen, astrologo, cabalista e massone, la cui domestica, secondo loro, possedeva doti di chiaroveggenza. Tra viaggi nell’inconscio e manifestazioni soprannaturali, i simboli della croce, della rosa, del sole e della luna finirono così per essere integrati nella produzione del poeta come riflesso della bellezza e del mistero dell’esistenza nonché del suo sogno di una rinascita mistica in Irlanda.



    Poco alla volta, però, iniziò a prendere le distanze dalla Golden Dawn e da Mathers, i cui atteggiamenti paranoici lo infastidivano terribilmente. Quest’ultimo, infatti, si era ribattezzato MacGregor Mathers e girava per le strade di Parigi atteggiandosi a uomo della Highland. La sua incostanza determinò una lotta per il potere all’interno dell’organizzazione che, alla lunga, ne decretò la scomparsa (qualcosa di analogo accade anche nel racconto di Yeats Rosa Alchemica, parte del volume Secret Rose del 1897).

    La faida prese il via quando ad Aleister Crowley, allora giovane adepto, venne impedito l’accesso al Second Order a causa della sua già pessima reputazione. Yeats, che lo detestava, per l’occasione rimarcò che la Golden Dawn era una società magica, non un riformatorio. Ne seguì un lungo contenzioso che, tra le altre cose, portò il poeta irlandese a ricoprire il ruolo di Imperator per qualche mese, prima di dimettersi in perda alla frustrazione. Sebbene rimase membro della Stella Matutina – uno dei due rami ricostituiti dell’organizzazione – fino agli anni Venti, da quel momento preferì continuare i suoi studi magici in forma privata, coadiuvato dalla moglie.

    Nel 1925, in segno di pacificazione, Yeats dedicò a Mina Bergson il volume A Vision, da molti considerato il suo capolavoro filosofico. Nell’epilogo si evoca in termini affettuosi anche l’ombra di MacGregor Mathers, morto nel 1918, a cui l’autore porge infine le sue scuse.

  8. #228
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    [Il mercoledì di Padre Brown] “Il pugnale alato”: la magia (bianca) del Natale



    di Luca Fumagalli

    Continua con questo nuovo articolo la rubrica infrasettimanale di Radio Spada dedicata all’approfondimento e al commento dei racconti di Padre Brown, il celebre sacerdote detective nato dalla penna di G. K. Chesterton, tra i più grandi intellettuali cattolici del Novecento. I racconti, a metà strada tra investigazione e apologetica, hanno per protagonista il buffo e goffo Padre Brown, interessato sia a risolvere i crimini che a salvare le anime dei colpevoli.

    Per una disamina introduttiva sulla figura di Padre Brown – protagonista pure di vari film, sceneggiati per la televisione e, addirittura, fumetti – si veda il breve articolo a questo link.

    Per le precedenti puntate… da “L’innocenza di Padre Brown” (1911): 1. La Croce azzurra / 2. Il giardino segreto / 3. Il passo strano / 4. Le stelle volanti / 5. L’uomo invisibile / 6. L’onore di Israel Gow / 7. La forma errata / 8. Le colpe del Principe Saradine / 9. Il martello di Dio / 10. L’occhio di Apollo / 11. All’insegna della spada spezzata / 12. I tre strumenti di morte. Da “La saggezza di Padre Brown” (1914): 1. L’assenza del Signor Glass / 2. Il paradiso dei ladri / 3. Il duello del dottor Hirsch / 4. L’uomo nel passaggio / 5. L’errore della macchina / 6. La testa di Cesare / 7. La parrucca violacea / 8. La fine dei Pendragon / 9. Il Dio dei Gong / 10. L’insalata del Colonnello Cray / 11. Lo strano delitto di John Boulnois / 12. La fiaba di Padre Brown. Da “L’incredulità di Padre Brown” (1926): 1. La resurrezione di Padre Brown / 2. La freccia del cielo / 3. L’oracolo del cane / 4. Il miracolo della Mezzaluna / 5. La maledizione della croce d’oro

    Ne Il pugnale alato (The Dagger with Wings), sesto racconto della raccolta L’incredulità di Padre Brown (1926), il sacerdote investigatore è nuovamente presentato da Chesterton nei panni dello scettico. Questa volta a non convincerlo sono le chiacchiere a proposito di magia nera e strani simboli cabalistici, cose che l’esperienza nel confessionale gli ha insegnato a ritenere tanto sciocche quanto pericolose.

    La storia ha inizio un mattino di dicembre particolarmente rigido, quando il dottr Boyne, ufficiale medico addetto alle forze di polizia, convoca nel suo ufficio Padre Brown per chiedere all’amico il favore di fare visita all’ultimo degli Aylmer, un certo Arnold, che vive isolato nella sua casa in collina poco fuori dal paese. Boyne, «un irlandese […] di quelli che parleranno di scetticismo, di materialismo e di cinismo scientifici in lungo e in largo, ma che non sogneranno mai di riferire qualcosa relativo al rito religioso se non nella religione tradizionale della loro Patria», spera che Padre Brown possa fare luce sugli strani incidenti che hanno portato alla morte dei fratelli maggiori di Aylmer, incidenti che la polizia ha archiviato come tali ma su cui il dottore nutre ancora qualche dubbio. Allo stesso modo anche Arnold Aylmer non si dà pace ed è convinto che i fratelli siano stati assassinati da John Strake, un trovatello che il loro padre aveva adottato prima di sposarsi e che, vistosi privato dell’eredità, è ora in cerca di vendetta. Pare che Strake sia un esperto delle arti oscure nonché un mentitore particolarmente abile, e Aylmer – che i servitori hanno abbandonato credendolo uscito di senno – teme per la sua stessa vita; d’altronde pure lui, come i fratelli, ha ricevuto uno strano biglietto intimidatorio con il simbolo del pugnale alato. «Insomma», conclude Boyne rivolgendosi a Padre Brown, «mi ci vuole qualcuno di buon senso. […] Voi sapete distinguere un uomo che tenta di ingannare da quello che dice la verità».

    Il prete accetta l’incarico e raggiunge l’abitazione di Aylmer, una grande dimora che ha conosciuto tempi migliori: «Entrò in un giardino che aveva quel genere di desolazione propria del disordine, quando sovverte le cose abitualmente ordinarie». Dato che ogni ingresso è sbarrato e nessuno pare voler rispondere al campanello, Padre Brown è costretto a entrare in casa arrampicandosi su un balcone. Arnold Aylmer è colto alla sprovvista, ma dopo i chiarimenti di rito invita il sacerdote ad accomodarsi su una sedia. L’uomo, vestito in abito da camera, ha gli occhi allarmati di chi è «invecchiato anzitempo sotto l’ombra della dissimulazione o del pericolo»; ciononostante è contento di avere qualcuno a cui poter confessare le proprie angosce e inizia a narrare a Padre Brown la sua versione delle recenti tragedie accadute ai fratelli (se la sua storia fosse confermata, Strake, con i suoi oscuri poteri magici, sarebbe un tipico esempio di «malvagio mistico», ossia «il tipo umano peggiore che il mondo conosca»). Per precauzione il sacerdote, rimasto un momento solo, contatta la polizia per poi invitare Aylmer a essere saldo: «Simili demoni tentano sempre di renderci indifesi, col toglierci la speranza». Quest’ultimo, «convinto che l’antidoto della magia nera non [sia] il materialismo bruto o la sapienza del mondo, ma la magia bianca», carica la sua pistola con un proiettile d’argento con il quale, attirato in giardino da una folata di vento, ferisce a morte Starke.



    Tuttavia c’è qualcosa che non torna, e infine Brown fa arrestare Aylmer il quale, in verità, altri non è se non il famigerato Strake. Questi aveva appena finito di uccidere il fratellastro quando il prete era entrato in casa dal balcone; dunque, preso alla sprovvista, si era trovato costretto a improvvisare, indossando i panni del povero Arnold e facendo passare il cadavere per il suo. Certamente avrebbe potuto uccidere Padre Brown con grande facilità, ma un simile gesto non è nelle corde di un monomaniaco come lui.

    A detta del prete, il più grande errore che Aylmer ha commesso, e che ha fatto saltare il suo travestimento, è stato quello «di scegliere una storia soprannaturale; aveva l’idea che, essendo sacerdote, avrei creduto a qualunque cosa. Molte persone hanno queste idee». Difatti, quando si parla di fattucchiere, incantesimi e mondi fatati, Padre Brown è il più riottoso degli scettici, sebbene sia consapevole che «tutto il male ha la stessa origine» e che a vendere l’anima al Diavolo non sono «spadaccini spaccamontagne» ma uomini tranquilli, istruiti e raffinati proprio come Strake. Il potere del sedicente stregone, però, non ha nulla a che fare con le formule magiche: «Padre Brown stava fissando nel vuoto con i suoi grandi occhi grigi, i quali, quando non erano offuscati dallo strabuzzare, erano l’unica cosa che si poteva notare nel suo volto. Continuò a parlare con semplicità e seriamente: “Tutte le cose provengono da Dio; la ragione, l’immaginazione e i grandi doni della mente sopra ogni cosa. Essi, di per se stessi, sono buoni, e noi non dobbiamo mai dimenticare la loro origine, persino nella loro perversione. Ora, quest’uomo pervertì un potere assai nobile che possedeva dentro di sé: il potere di narrare storie. Era un grande cantastorie; solo che aveva distorto il suo potere narrativo a fini pratici e malvagi: ingannava gli uomini con cose false invece che con narrazioni vere. Iniziò con l’ingannare il vecchio Aylmer con scuse elaborate e menzogne ingegnosamente dettagliate; però persino queste cose sarebbero potute essere, inizialmente, poco più che le storielle e le fiabe dei bambini che dicono allo stesso modo di aver visto il Re d’Inghilterra o il Re delle Fate. In quell’uomo crebbe forte quel vizio da cui discendono tutti i vizi, l’orgoglio; divenne sempre più orgoglioso della sua prontezza nel creare storie e della sua sottigliezza nello svilupparle. Questo è quanto volevano dire i giovani Aylmer quando asserivano che lui era sempre capace di lanciare un incantesimo sul loro padre: ed era vero! Era il tipo di incantesimo che il cantastorie lancia sul tiranno delle Mille e una notte. E, alla fine, Strake si mosse nel mondo con l’orgoglio di un poeta e con il falso, ma insondabile, coraggio di un grande bugiardo. Avrebbe potuto sempre creare altre Mille e una notte se mai il suo collo fosse stato in pericolo. E quel giorno il suo collo era in pericolo. Però sono certo – come dico – che ha apprezzato questa situazione sia come invenzione fantastica che come congiura. Ha cercato di raccontare la verità dalla parte opposta: trattando il morto come vivo e il vivo come morto. Si era già calato nei panni di Aylmer: continuò a calarsi nel corpo e nell’anima di Aylmer”».

    Secondo Padre Brown, astrologia, divinazioni et similia sono l’unica fede possibile per un delinquente: «Sapevo che alla fine stava cercando di ipnotizzarmi, di dominarmi con la tenebrosa arte dei suoi occhi usati come talismani e la voce come un incantesimo. Quello, senza dubbio, era quanto era solito fare con il vecchio Aylmer. Però non fu solo il modo con cui lo disse, fu cosa disse. Era la religione, la filosofia del discorso. […] Sapete che io so che esistono tutti i tipi di religione; uomini buoni in religioni cattive e uomini cattivi in religioni buone. Però c’è solo un piccolo fatto che ho appreso semplicemente come uomo pragmatico, un punto interamente pragmatico che ho raccolto con l’esperienza, come gli esercizi compiuti dagli uomini o l’etichetta di un buon vino. Raramente ho incontrato un criminale che non filosofeggiasse, che non filosofeggiasse lungo quelle linee di orientalismo, come le ricorrenze e le reincarnazioni, la ruota del destino, o il serpente che si morde la coda. In pratica ho semplicemente scoperto che esiste una maledizione sui servitori del serpente: devono strisciare sulla pancia e devono mangiare la polvere; e non ci fu mai un disonesto o un depravato nato che non fosse in grado di parlare di quella sorta di spiritualità. Può non essere così nella sua reale origine religiosa, però qui, nel nostro mondo operoso, è la religione dei furfanti; e seppi che quell’uomo che stava parlando era un furfante».

    Il finale, che mostra Padre Brown immerso in uno scenario innevato, assume i connotati di una «misteriosa festa della Purificazione», una parentesi di pace e serenità dopo i terribili eventi della giornata («pareva che il disordine e il male fossero stati lasciati indietro, o spazzati via»). Il sacerdote sta tornando a casa e la sua mente è occupata sia dal pensiero di Strike – un vero genio del crimine – che da quello del Natale, ormai imminente: «Eppure, forse, ha ragione a dire che c’è una magia bianca… Se sapesse soltanto dove cercarla».

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    Predefinito Re: Anglica catholica

    Olive Custance: Life and Works of a Forgotten Poetess



    Luca Fumagalli

    Four volumes of poetry and a famous husband were not enough to guarantee Olive Custance the recognition she deserved. Still today. Even today her name remains confined in the footnotes of English “fin de siècle” literature, only arousing the interest of collectors of late Victorian volumes. Even the more substantial writings about her can be counted on the fingers of one hand: in addition to the short monograph Olive Custance: Her Life and Work (1975) by Father Brocard Sewell – also editor of an anthology entitled The Selected Poems of Olive Custance (1995) – the most important are the preface to the 2015 reissue of The Inn of Dreams, by Edwin James King, and the biographical article by Jad Adams entitled Olive Custance: A Poet Crossing Boundaries (2018).

    Yet Custance, who lived in the shadow of Lord Alfred Douglas, was one of the best poetesses of her time, comparable in talent to Dollie Radford and Alice Meynell. She was one of the authors linked to John Lane’s The Bodley Head publishing house and she wrote contributions for such popular magazines as “The Yellow Book” and “The Savoy”. Aubrey Beardsley paid homage to her with an Ex libris designed by him, and writer Natalie Barney, a friend of hers, amply praised the evocative beauty of her poetry.

    Born on 7 February 1874 and daughter of an army colonel, Olive Custance began writing her first verses when she was still young, soon earning the admiration of the cultural circles of the capital. To the countryside around Norwich, where her family lived, she much preferred the bustle of London, full of new artistic ferments that came from the continent like a breath of fresh air. Her volumes of poems – Opals (1897), Rainbows (1902), The Blue Bird (1905) and The Inn of Dreams (1911) – are a journey into the inexhaustible mystery of the human being described according to the canons of Symbolism. Nor are religious compositions lacking, the number of which gradually increased over the years, especially after her conversion to the Church of Rome.

    Before meeting her future husband, Olive Custance’s love was all for John Gray, a young and attractive poet, friend of Oscar Wilde, whom a consolidated tradition indicates as the model of the almost homonymous protagonist of The Picture of Dorian Gray. The boy, twenty-five at the time, later abandoned the vice-ridden bohemian undergrowth to become a Catholic priest, and maintained a long correspondence with Olive, full of affection and very useful literary advice.

    In June 1901, when “Wild Olive” – as Custance was wont to sign herself – met Lord Alfred “Bosie” Douglas for the first time, it was love at first sight for both of them. Douglas, born in 1870, and himself a worthy poet, had just escaped the stormy relationship that had led Oscar Wilde to his grave and was eager to rebuild his life. The money inherited from his father, however, had been squandered almost immediately and with it the hopes of being able to start afresh had evaporated.

    In the autumn, while Douglas was in America to find a rich heiress to marry, Olive, aware that the marriage with the sweet Bosie would be impossible, officially became engaged to George Montagu, a member of parliament, destined to inherit a noble title and an immense fortune. When Alfred Douglas returned to England alone, he strove to regain the woman he loved. The latter, after an initial resistance, broke off her engagement with Montagu and the two were able to get married in March 1902, albeit without the consent of the Custance family.

    Their married life was an alternation of dramatic ups and downs. If Bosie was able to make peace with his in-laws, the stress that came from his involvement in numerous processes related to Wilde’s literary legacy contributed to the spread of tension in his home. Deceiving himself that he could find some respite, he allowed himself to pursue other women, such as Doris Edwards and the painter Romaine Brooks, while Olive dealt alone with the schizophrenia of their only son, Raymond, who would spend most of his short life in a psychiatric hospital.

    The real annus horribilis for the couple was 1911: Lord Alfred Douglas’s conversion to Catholicism – the natural culmination of the conservative positions he had developed since, in 1907, he became director of “The Academy” – dug a very deep furrow between him and the proudly Protestant Custances. The relationship with Olive, who did not convert until 1917, was definitively wrecked; there was no divorce, but from 1913 the two began to lead separate lives. Thus they lost custody of their son, who passed to Colonel Custance.

    Their love, stormy but sincere, was rekindled only in 1932, when Olive decided to move to Hove, near Brighton, occupying a house close to her husband’s. From that moment until her death on 12 February 1944, the two began to see each other again almost every day.

    In the Thirties, having found serenity, “Wild Olive” had started writing again. New poems appeared in various newspapers, putting an end to the long silence that had lasted since 1911. It was a “second spring” which, although stylistically not reaching the levels of the first works, confirmed the direction that her poetic idiom had taken some time ago. A Rimbaud’s “inquiétude de Dieu” recalled, in the constant dialogue between the sacred and the profane, the luminous moments of her youth.

    Catholicism, which Olive had ceased to practise only a few months after her conversion, came back and knocked on her soul’s door during the last days of her life. In her bed, with tears in her eyes, she regretted putting herself and literature before religion. Like the opal that she venerated so much – “Opal” was in fact another of her nicknames – she had led a multicolored existence, full of contradictions and sins. Hope, however, never failed. Perhaps, before dying, she thought for one last time of “Beauty”, that poem she had written in a moment of rare happiness, a heartfelt prayer to Our Lady: Heaven could truly seduce more than flesh.

  10. #230
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    A proposito di Santi e di poeti (decadenti): San Stanislao Kostka in un sonetto di Eric Stenbock



    di Luca Fumagalli

    Come spesso accade per i tipi stravaganti che, in Inghilterra, bazzicarono le periferie del panorama culturale fin de siècle, la verità e le leggende sul loro conto si confondo a tal punto da renderle indistinguibili. Questo è anche il caso del conte Eric Stenbock (1860-1895), i cui eccessi, oltre ad averne minato la creatività, sono diventati col tempo più popolari delle sue stesse opere, numericamente poche e liquidate sovente con parole squalificanti.

    Stenbock era l’ultimo esponente di una famiglia aristocratica russo-scandinava la cui dimora principale era la bellissima magione di Kolga, in Estonia. Trasferitosi a Brighton dopo la morte del padre, si iscrisse al Balliol College di Oxford. La sua esperienza universitaria fu breve e fallimentare, caratterizzata non solo da eccessi di ogni sorta ma pure dalla conversione al cattolicesimo. Al suo nome decise allora di aggiungere quello di Stanislaus, in onore di San Stanislao Kostka, un novizio gesuita del XVI secolo, figlio di una nobile e potente famiglia polacca, morto a soli 17 anni per una grave malattia (a San Stanislao, di cui vi è una splendida statua nella Chiesa romana di Sant’Andrea al Quirinale, è dedicata la Cattedrale di Łódź). Vale la pena notare che i libri che Stenbock pubblicò in vita sono tutti firmati con il nuovo nome, in forma estesa, ovvero Stanislaus Eric Stenbock.



    Sulle ragioni della conversione, non avendo documenti di prima mano al riguardo, è possibile solamente avanzare delle ipotesi. Se è vero che l’amicizia del conte con i gesuiti e, in particolare, con padre Edward Ignatius Purbrick, fu così solida da far preoccupare persino la sua famiglia, e se è altrettanto vero che Arthur Symons lo descrisse nel mezzo di una processione, mentre «portava con sincera riverenza dei rami di palma», tuttavia pare che Stenbock abbia sempre vissuto la propria Fede con eccessiva leggerezza, non facendosi troppi scrupoli a contaminarla con elementi pagani e orientali (secondo John Adlard, «Eric, con il suo oppio, con la sua religione sincretista e i suoi vestiti stravaganti, fu naturalmente un tipo abbastanza tipico della generazione decadente»). Stando alla testimonianza di Ernest Rhys, nella sua abitazione il conte conservava un altare colmo di immagini sacre, candele e piume di pavone. Su di esso vi era pure un busto di Shelley e una piccola scultura di legno raffigurante Budda. Si narra che Oscar Wilde abbia acceso una sigaretta a questo altare, e che un simile atto blasfemo abbia provocato lo svenimento del padrone di casa. Al pari di altri artisti coevi, ciò che spinse Stenbock verso la Chiesa di Roma fu, con molta probabilità, la semplice voglia di atteggiarsi ad anticonformista, unita a un’attrazione per i fasti della liturgia. Di sicuro intravedeva nella religione una qualche verità, altrimenti nelle sue prove letterarie non sarebbe tornato così insistentemente sul tema – a volte persino con intuizioni per nulla disprezzabili –, ma questa non fu forte a sufficienza da allontanarlo dal mondo e dalle sue tentazioni.

    Anche il suo terzo e ultimo volume di poesie, The Shadow of Death (1893), pubblicato per i tipi della Leadenhall Prefs un paio d’anni prima della sua prematura scomparsa, fu definito della «Pall Mall Gazette» una parodia dello stile fin de siècle, «un ridicolo miscuglio di neopaganesimo e cattolicesimo, di Verlaine e della Vulgata». Ciononostante, nelle sue infinite contaminazioni e contraddizioni, The Shadow of Death risulta al fondo una raccolta crepuscolare, in un certo senso più sincera delle precedenti, in cui Stenbock apre con maggior convinzione il proprio cuore al lettore per rivelare quell’intrico di rose e spine – non a caso immagine di copertina – che è la sua anima. Data la vicinanza del conte agli ambienti preraffaeliti, è poi possibile che il titolo della raccolta non sia (solo) la trita riproposizione di uno stereotipo decadente, ma una velata allusione all’omonimo quadro del pittore William Holman Hunt, risalente a circa vent’anni prima, in cui un giovane Gesù, ritratto nelle vesti dell’umile falegname, allarga le braccia proiettando sulla parete della stanza l’ombra inquietante della croce.

    Ecco perché tra i componimenti di The Shadow of Death si notano alcune prove, come il “Sonnet XIV” dedicato a San Stanislao Kostka, che spiccano sul resto, se non per qualità letteraria, almeno per quell’ipotesi di sincera conversione che paiono adombrare (va comunque sottolineato, a proposito di infinite contraddizioni, che il “Sonnet” è preceduto da una lirica omoerotica e seguita da una traduzione di Saffo e da una di Meleagro del medesimo tenore).



    Di seguito il testo del sonetto, per la prima volta proposto in italiano:

    1 Oh! Ci sono gigli eletti nella casa di Dio;

    2 Le onde si dividono innanzi ad essi, quando con piedi lucenti

    3 Camminano sulla loro strada sereni e dolci.

    4 La luce del Divino incornicia il loro sguardo,

    5 Non hanno visto o conosciuto il seme della ribellione;

    6 Né le loro orecchie potevano sopportare nulla che non fosse dolce,

    7 Erano la stessa cosa, il chiostro o la strada;

    8 Per loro il serpente non era un pericolo.

    9 Oh Santo! Mio Santo! Oh grandemente e divinamente giusto!

    10 Come oserò rivolgermi al tuo volto puro?

    11 Si dice che il tuo aspetto avesse una volta una tale Grazia,

    12 che gli uomini che lo guardavano erano spinti a una profonda devozione.

    13 Oh, facci sentire, noi deboli e pieni di paure,

    14 La gloria e la bellezza delle tue lacrime.

    Al netto di un effetto un po’ troppo enfatico determinato dall’uso sovrabbondante dell’interiezione “Oh” – con il conseguente pericolo di franare nel mieloso e nello stucchevole –, il sonetto trae la sua forza dal sapiente tessuto di immagini evangeliche – a partire dai gigli del primo verso, un rimando a Mt 6, 28 – che Stenbock riesce a intrecciare con sufficiente abilità. Nelle quartine (vv. 1-8) il Santo è descritto come un pellegrino il cui cammino verso Dio non conosce ostacoli anche perché la strada percorsa fino a quel momento, con tutto il carico di fatiche e imprevisti, lo ha ormai condotto a una perfezione morale estranea al resto dell’umanità, una perfezione verso cui l’io lirico nutre una genuina ammirazione (irresistibile una proposta di accostamento ai versi montaliani: «Ah l’uomo che se ne va sicuro, / agli altri ed a se stesso amico»). Nelle terzine (vv. 9-14) si passa invece all’invocazione diretta di San Stanislao, capace, al solo sguardo, di suscitare la devozione di un penitente che è insicuro e tremante al suo cospetto (un’eco di Mt, 8, 8: «Signore, io non son degno che tu entri sotto il mio tetto, di’ soltanto una parola e il mio servo sarà guarito»). L’esaltazione dello spirito saldo del giovane – «grandemente e divinamente giusto» (v. 9) – che, al contrario, la malattia ha reso fisicamente fragile, guida alla paradossale conclusione, in cui sono proprio le lacrime belle e gloriose di un San Stanislao in fin di vita, imago Christi, a ridonare forza e coraggio a coloro che si professano «deboli e pieni di paure» (v. 13). Il sonetto termina col contrasto salute fisica/salute spirituale in un gioco al capovolgimento dove a contare è solamente il bene dell’anima e dove il dolore di un’esistenza conflittuale può finalmente trovare senso e riscatto nella certezza della redenzione (che ogni cosa sia ricondotta allo spirito è avvallato anche dal fatto che, a differenza di un ambiguo topos decadente, nulla è detto a proposito degli attributi fisici del Santo, la cui età, tra l’altro, nella lirica non è mai esplicitata).




    Le opere di Stenbock, al pari di quelle di molti altri autori della cosiddetta “generazione tragica” – la definizione è di W. B. Yeats –, meriterebbero dunque una maggiore attenzione da parte degli studiosi, anche di quelli di formazione e cultura cattolica, il cui compito, in simili casi, dovrebbe essere innanzitutto quello di separare il grano dal loglio (sebbene sia un lavoro difficile e frutto di una grande pazienza). Una maggiore perizia contribuirebbe inoltre a valorizzare la specificità del singolo autore e a offrire un’immagine meno stereotipata o ideologica di un periodo storico e culturale, come quello degli anni Noventa dell’Ottocento, particolarmente aggrovigliato, al crinale di quel “secolo lungo” che terminò tragicamente tra le trincee della Grande guerra. Ne vale davvero la pena anche perché – ne è proprio un esempio il “Sonnet XIV” – vi sono ancora molte perle nascoste che attendono solamente di essere dissotterrate.

 

 
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