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Discussione: Anglica catholica

  1. #241
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    [Il mercoledì di Padre Brown] “L’uomo dalle due barbe”: di santi e di assassini



    di Luca Fumagalli

    Continua con questo nuovo articolo la rubrica infrasettimanale di Radio Spada dedicata all’approfondimento e al commento dei racconti di Padre Brown, il celebre sacerdote detective nato dalla penna di G. K. Chesterton, tra i più grandi intellettuali cattolici del Novecento. I racconti, a metà strada tra investigazione e apologetica, hanno per protagonista il buffo e goffo Padre Brown, interessato sia a risolvere i crimini che a salvare le anime dei colpevoli.

    Per una disamina introduttiva sulla figura di Padre Brown – protagonista pure di vari film, opere teatrali, sceneggiati per la televisione e, addirittura, fumetti – si veda il breve articolo a questo link.

    Per le precedenti puntate… da “L’innocenza di Padre Brown” (1911): 1. La Croce azzurra / 2. Il giardino segreto / 3. Il passo strano / 4. Le stelle volanti / 5. L’uomo invisibile / 6. L’onore di Israel Gow / 7. La forma errata / 8. Le colpe del Principe Saradine / 9. Il martello di Dio / 10. L’occhio di Apollo / 11. All’insegna della spada spezzata / 12. I tre strumenti di morte. Da “La saggezza di Padre Brown” (1914): 1. L’assenza del Signor Glass / 2. Il paradiso dei ladri / 3. Il duello del dottor Hirsch / 4. L’uomo nel passaggio / 5. L’errore della macchina / 6. La testa di Cesare / 7. La parrucca violacea / 8. La fine dei Pendragon / 9. Il Dio dei Gong / 10. L’insalata del Colonnello Cray / 11. Lo strano delitto di John Boulnois / 12. La fiaba di Padre Brown. Da “L’incredulità di Padre Brown” (1926): 1. La resurrezione di Padre Brown / 2. La freccia del cielo / 3. L’oracolo del cane / 4. Il miracolo della Mezzaluna / 5. La maledizione della croce d’oro / 6. Il pugnale alato / 7. Il destino dei Darnaways / 8. Lo spettro di Gideon Wise. Da “Il segreto di Padre Brown” (1927): 1. Il segreto di Padre Brown / 2. Lo specchio del magistrato

    Fulminante nella sua brevità, ma pure attraversato da un’ironia raffinatissima e da tocchi inquietanti, L’uomo dalle due barbe (The Man With Two Beards) è uno dei migliori racconti della raccolta Il segreto di Padre Brown (1927), la quarta in cui sono narrate le mirabolanti indagini del famoso sacerdote investigatore, sempre umile e capace. In esso il piglio graffiante di Chesterton e i suoi inimitabili paradossi si mischiano senza soluzione di continuità al grottesco e al macabro. Vi è tuttavia spazio anche per una profonda riflessione sul valore della conversione nonché per un paio di frecciatine rivolte tanto alla miopia del positivismo laico quanto al capitalismo selvaggio. Soprattutto, L’uomo dalle due barbe dimostra che «qualsiasi tipo d’uomo può essere un santo» e che, allo stesso tempo, «qualsiasi tipo d’uomo può essere un assassino».

    La vicenda, che prende la forma di una storia riferita da Padre Brown al professor Crake, un eminente criminologo, ruota attorno a un singolare caso di furto con delitto di cui il sacerdote è stato testimone. L’occasione che dà il la alla narrazione è un vivace scambio di vedute tra i due sull’agiologia e la criminologia. Secondo Padre Brown, infatti, quest’ultima soffre di diversi limiti, in particolare di una mania di catalogazione che non tiene conto della complessità dei comportamenti umani; il prete si concede poi il lusso di una notazione beffarda: «L’età dell’oscurantismo cercò di creare una scienza che studiasse la gente buona, e la nostra epoca illuminata si interessa soltanto di una scienza che studia i malvagi».

    Tutto ha inizio quando la stampa riporta la notizia del recente rilascio, dopo lunga incarcerazione, di Michael Moonshine, un ladro gentiluomo conosciuto in Inghilterra per le sue imprese criminali (si tratta, in altre parole, di un tipo del tutto simile a Flambeu): «Lo stesso giornale forniva un riassunto di alcune delle sue imprese e fughe più famose e più audaci; infatti è caratteristico di quel genere di giornali, intesi per quel genere di pubblico, partire dalla premessa che i lettori manchino completamente di memoria. Mentre i contadini ricordano un fuorilegge come Robin Hood o Rob Roy per secoli, gli impiegati cittadini ricordano a malapena il nome di un criminale di cui hanno discusso nel tram e nella ferrovia sotterranea due anni prima». Stando alle ultime indiscrezioni, l’uomo avrebbe trovato casa nel sobborgo di Chisham, lo stesso in cui vive l’agiata famiglia Bankes, i cui figli non sfigurerebbero in un romanzo satirico sulla upper class britannica: Opal si attribuisce capacità medianiche ed è perciò presa in giro dai fratelli, Philip è un agente di cambio che ama i bei vestiti, mentre John si occupa solamente di automobili. La notizia, naturalmente, non può che causare un misto di preoccupazione ed eccitamento: «I rustici villici fanno chiacchiere, vere e false, sui loro vicini, ma la bizzarra cultura del moderno sobborgo è pronta a credere qualunque cosa racconti il giornale sulla perfidia del Papa o sul martirio del Re delle Isole dei Cannibali e, nell’entusiasmo per quegli argomenti, non sa neppure quello che accade nella casa accanto. […] Il quartiere era nominato nel loro giornale favorito, e parve loro di avere una nuova prova della propria esistenza, quando videro quel nome stampato».

    Daniel Devine, amico dei Bankes, è deciso a fare luce sulla questione e, insieme a John, si reca alla fattoria di Smith, situata lì vicino, dove ha recentemente preso alloggio uno strano individuo, un certo Carver, che passa tutto il giorno a gironzolare attorno agli alveari del padrone di casa. Giunti sul posto e fatta la conoscenza di Padre Brown, confessore di Smith, John finisce per caricare in automobile quest’ultimo con la promessa di accompagnarlo a visitare la sorella, mentre Carver fa di tutto per congedare rapidamente i visitatori, alimentando in Devine il sospetto che voglia avere la casa tutta per sé per un qualche fine oscuro.

    Durante la notte la famiglia Bankes è svegliata da Padre Brown, che bussa con insistenza alla loro porta: qualcuno ha rubato i gioielli dei Pulman, i vicini di casa, e ne ha pure ucciso il segretario. Ad accogliere il prete è Opal, come sempre ben disposta nei suoi confronti: «Lo aveva conosciuto superficialmente, ma le piaceva. Non l’aveva incoraggiata nelle sue visioni psichiche, anzi; ma le aveva combattute come se esse fossero importanti e non come se fossero ridicole. Non che egli non simpatizzasse con le sue opinioni, ma pur simpatizzando, non le favoriva». La ragazza confida a Padre Brown di aver appena scorto alla finestra il volto inquietante di un uomo dalla lunga barba rossa (è il tipico travestimento di Moonshine, la stessa figura intravista dalla domestica dei Pulman). Nel frattempo sopraggiungono Devine e gli altri membri della famiglia, compreso John, appena rincasato dopo che Smith, approfittando di una gomma a terra, lo ha abbandonato senza una spiegazione. A loro, poco dopo, si unisce anche Carver, in verità poliziotto sotto copertura, che rivela di aver ritrovato alla fattoria la finta barba di Moonshine e un taccuino in cui sono segnati tutti gli oggetti di valore posseduti dalle famiglie della zona. Quando si scopre che pure il diadema di Lady Banks è sparito, John si precipita in giardino armato di pistola e uccide quello che tutti, nonostante la finta barba, riconoscono come Smith.

    Padre Brown non sa ancora cosa pensare, ma è certo che Smith-Moonshine non possa essere il colpevole: «Io conoscevo molto bene quest’uomo che giace morto; ero il suo confessore, e il suo amico. Per quanto è dato a un uomo conoscere l’animo di un altro, io conoscevo il suo quando è uscito oggi da quel giardino: era come un alveare di vetro colmo di api dorate. È dir poco dire che la sua conversione era stata sincera: lui era uno di quei grandi penitenti che riescono a far fruttare di più il pentimento che gli altri la virtù. Ho detto che ero il suo confessore, ma in realtà ero io che andavo da lui per riceverne conforto: mi faceva bene essere vicino a un uomo così buono. E, quando l’ho visto lì morto nel giardino, mi è parso come se certe strane parole che furono pronunciate tanto tempo fa, fossero ora dette per lui e risuonassero forte al mio orecchio. E potrebbe anche essere: perché, se mai un uomo andò diritto in cielo, questo sarebbe il suo caso». Del resto, «soltanto un ladro confesso ha ricevuto in questo mondo l’assicurazione: “Stasera tu sarai con me in Paradiso”». Va aggiunto pure il fatto che Moonshine si faceva vanto di non aver mai ucciso un uomo: «Mi sembrò strano che quando egli era diventato una specie di santo avesse cambiato le sue abitudini al punto di commettere il peccato che aveva sdegnato quando era peccatore». Anche il ritrovamento di ben due barbe ha poco senso.

    L’indomani, dopo la rocambolesca fuga di John, il vero colpevole, Padre Brown si ritrova a conversare con Devine: «Amico mio, non ci sono professioni o tipi sociali buoni o cattivi; qualunque uomo può essere un assassino, come quel povero John, e qualunque uomo, anche lo stesso, può essere un santo come il povero Michael. Ma se c’è un tipo che a volte ha la tendenza a essere più disperatamente empio di un altro, è proprio quel tipo piuttosto brutale di uomo d’affari: lui non ha nessun ideale sociale, non parliamo poi di religione, né ha le tradizioni di un gentiluomo né il leale spirito di classe di un lavoratore. Tutte le sue vanterie di buoni affari erano in realtà vanterie di truffe. Il suo disprezzo per le povere aspirazioni mistiche di sua sorella era detestabile; il misticismo di lei era una sciocchezza, ma lui odiava lo spiritismo soltanto perché era spirituale». John ha dunque brutalmente assassinato Smith e usato il suo cadavere alla stregua di una marionetta, facendolo comparire alle finestre delle abitazioni e lasciando ovunque orme e impronte digitali per depistare la polizia: «Infine, non gli restò che gettare il cadavere sul prato, sparare un colpo […], ed ecco fatto».

    In ultimo, rimane solo da chiarire come mai Smith-Moonshinse continuasse a conservare il suo vecchio travestimento: «Tutto il suo atteggiamento era come quella sua parrucca. I suoi travestimenti non erano travestimenti. Lui non voleva più l’antico travestimento, ma non ne aveva paura; avrebbe considerato un gesto sbagliato distruggere la falsa barba. Sarebbe stato come nascondersi: e lui non si nascondeva, Non si nascondeva da Dio, non si nascondeva da se stesso, ma viveva in piena luce. Se l’avessero di nuovo messo in prigione, avrebbe continuato a essere felice. Non era un sepolcro imbiancato, era un’anima bianca e luminosa per la sua purificazione. C’era qualcosa di molto strano in lui, quasi strano come la danza macabra in cui fu trascinato dopo morto. Quando passeggiava tra questi alveari, anche allora, in un senso più radioso e splendente, era morto; era fuori del giudizio di questo mondo».

  2. #242
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    “Daphne Adeane”: love and faith in a magnificent novel by Maurice Baring



    Luca Fumagalli

    Maurice Baring is one of those writers who, celebrated in life, quickly fell into oblivion after their demise. The Englishman, a close friend of Chesterton and Belloc, in addition to being one of the most brilliant Catholic authors of the early twentieth century, was widely appreciated by the public and critics both for his novels and for his essays. Recently however, after years of oblivion, his best works are being reprinted again.

    Daphne Adeane is undoubtedly one of Baring’s most significant novels. The book, first published in 1926, appears to be a sentimental drama, but it also has a strong religious core that emerges in the spiritual quest of the female protagonist.

    Despite some flaws, the formula manifested by Daphne Adeane, which echoes that of the best works of Ford Madox Ford, was later taken up, with some innovations, by other Catholic writers such as Evelyn Waugh in Brideshead Revisited and in the Sword of Honor trilogy, and Graham Greene in The End of the Affair.

    The story, set around the time of the First World War, opens on the young parliamentarian Michael Choyce who, after the painful conclusion of his clandestine relationship with Hyacinth Wake, decides to marry Fanny Weston, the charming daughter of a diplomat. If at first all seems to go well between the two, over time the young woman realizes that her husband does not really love her: Michael still dwells on the memory of Hyacinth and not even the birth of two children is sufficient to put things right. In the second part of the novel the roles are reversed and this time it is Fanny, disillusioned with the marriage, who no longer feels anything for Michael; the latter, in the meantime, realizing the serious mistake made, feels for the first time a sincere affection for his wife. The barrier of silence that is created between the two only further weakens a bond on the verge of collapse. Thus, between ups and downs, the story continues until the unexpected happy ending, marked by a miraculous conversion and an unforeseen reconciliation.

    Around the couple there are numerous friends and acquaintances, but it is above all the memory of a certain Daphne Adeane, deceased wife of a City tycoon, that exerts on them – in particular on Fanny, who resembles the woman – a strange but significant influence. The story of Daphne, a deeply Catholic Creole who lived with her family in the splendid Seyton mansion, is revealed to the protagonist and to the reader little by little through the testimonies of the writer Leo Dettrick, of the doctor Francis Greene and of the many who have had the opportunity to know her in life and to appreciate her extraordinary gifts. Although her name already appears in the first chapter, it is only from the middle of the novel that the ghost of the woman acquires consistency, and that the reminiscences about her begin to juxtapose to form a clear image (destined in any case to remain contradictory, the inevitable outcome of stories that are not always perfectly in agreement). The mysterious presence of Daphne then becomes an instrument of divine grace capable of influencing the choices of a resigned Fanny.

    In the end, in fact, the young woman is unfaithful to Michael, giving herself to a man she loves and by whom she is loved with equal intensity. Just when all seems lost, following a conversation with a priest, Father Rendall, she converts to that Catholic Church that she had always rejected.

    Her story, amidst unexpected and sudden changes of course, confirms what Baring argued in the very first lines of the novel, when it is emphasized that, between the drama of life and that of the stage, there is the profound difference that in the first the decisive details acquire importance only after a long time. The painting depicting Daphne, observed casually during the exhibition in which she meets Michael, thus becomes for Fanny the most evident sign of a God who has love as a law and who would never abandon his child in hopeless pain.

  3. #243
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    Il discreto fascino del peccato: leggendo “L’angelo oscuro”, la poesia più famosa di Lionel Johnson



    di Luca Fumagalli

    Sfibrato nel corpo e nell’anima, Lionel Johnson diede addio a questo mondo all’improvviso, nel 1902, quando aveva solamente trentacinque anni. Se furono in pochi a piangere la sua scomparsa, pure oggi gli estimatori di questo poeta elusivo, incline alla reclusione e attaccato alla fede almeno tanto quanto lo era alla bottiglia, continuano a costituire un circolo ristretto. Il suo nome lo si incontra più spesso sfogliando una biografia di Oscar Wilde, essendo lui il giovane che presentò allo scrittore irlandese il fatale Lord Alfred Douglas.

    In verità Johnson, membro del Rhymer’s Club, fu un versificatore di talento, apprezzato, tra gli altri, da Walter Pater, da W. B. Yeats, da T. S. Eliot e da Ezra Pound, nonché da critici del calibro di Ian Fletcher. George Santayana lo definì «un ribelle spirituale […]. In parte Shelley, in parte Rimbaud, disprezzava il mondo e adorava l’irreale». Tuttavia non godette mai di quel successo che forse avrebbe meritato: le sue raccolte poetiche vendettero poco o nulla, costringendolo a guadagnarsi da vivere con il giornalismo e con la saggistica (fu autore del primo lavoro approfondito dedicato a Thomas Hardy).

    Al termine degli studi universitari Johnson aveva rinunciato a quel sincretismo paganeggiante di gran voga tra i dandies del tempo per farsi cattolico, accolto nella Chiesa dal padre rosminiano William Lockhart, ex membro del Movimento di Oxford. Per lui, scrive Nina Antonia, «come per Oscar Wilde, il cattolicesimo aveva un fascino estetico affine al decadentismo. A differenza di Wilde, però, Johnson non era solo interessato allo spettacolo mistico della fede cattolica in epoca vittoriana, ma era un autentico credente». Sulla scia della conversione prese a occuparsi di teologia e scrisse alcuni dei componimenti religiosi più belli del tardo Ottocento, in cui si incontrano, in un felice sodalizio, la modernità di Gerard Manley Hopkins, le atmosfere di Ernest Dowson e le espressioni ricercate di John Gray.

    Dai tormenti dell’ultimo decennio di vita – oltre a essere un alcolista, Johnson soffriva di insonnia e di allucinazioni – prese corpo “L’angelo oscuro” (“The Dark Angel”), la sua poesia più famosa. Si tratta di una lirica singolarmente potente, scritta nel 1893, un incubo ad occhi aperti in cui l’autore è costretto faccia a faccia con il proprio demone tentatore. Qualche critico, come Brian Reade, ha voluto vedere nell’essere diabolico descritto nel componimento un riflesso dell’alcolismo di Johnson o della sua (presunta) omosessualità, ma è più probabile che l’autore volesse riferirsi al peccato in quanto tale, raccontato in tutte le sue manifestazioni. “L’angelo oscuro”, nel suo approccio apofatico, è quindi la storia del conflitto tra bene e male che attraversa l’anima di ogni uomo, una battaglia che non può essere vinta senza l’aiuto divino.

    Ecco, di seguito, il testo della poesia in traduzione italiana:

    1 Angelo oscuro, con la tua dolente lussuria

    2 per sbarazzare il mondo dalla penitenza:

    3 angelo malizioso, che ancora eserciti

    4 sulla mia anima una violenza tanto sottile!



    5 Per tua volontà niente, pensiero o cosa,

    6 rimane per me inviolato:

    7 angelo oscuro, sempre in volo,

    8 che non mi raggiungi mai troppo tardi!



    9 Quando la musica suona, tu muti allora

    10 l’argenteo suo in un fuoco soffocante:

    11 né permetterà il tuo cuore invidioso

    12 un piacere non segnato dalla tortura del desiderio.



    13 Per tuo tramite, si volgono le muse gentili

    14 in furie, o mio nemico!

    15 E tutto ciò che è bello brucia

    16 con fiamme di malvagia estasi.



    17 Per colpa tua, la terra dei sogni

    18 diventa un ritrovo di paure:

    19 fino a quando il sonno tormentato appare

    20 un impeto travolgente di lacrime inutili.



    21 Quando la luce del sole splende sui fiori,

    22 o increspa il mare danzante:

    23 tu, con la tua schiera di poteri ammalianti,

    24 mi assedi, mi confondi.



    25 Nel respiro dei boschi autunnali,

    26 dentro i silenzi invernali:

    27 il tuo spirito velenoso si agita e cova,

    28 O Signore delle empietà!



    29 L’ardore della fiamma rossa è tuo,

    30 e tua è l’anima d’acciaio del ghiaccio:

    31 tu avveleni il giusto disegno

    32 della natura con stratagemma ingiusto.



    33 Mele di cenere, luminescenza dorata;

    34 acque amare, che dolcezza!

    35 o banchetto di turpe delizia,

    36 preparato da te, Paraclito oscuro!



    37 Sei il sussurro nel buio,

    38 il tono allusivo, la risata ossessiva:

    39 sei colui che adorna la mia tomba,

    40 il menestrello del mio epitaffio.



    41 Ti combatto, nel Santo Nome!

    42 Eppure, ciò che fai, è ciò che Dio dice:

    43 tentatore! se dovessi sfuggire alla tua fiamma,

    44 avrai salvato la mia anima dalla morte:



    45 La seconda morte, che non muore mai,

    46 che non può morire, quando il tempo è morto:

    47 Morte viva, in cui piange l’anima perduta,

    48 eternamente tormentata.



    49 Angelo oscuro, con la tua dolente lussuria!

    50 Di due sconfitte, di due disperazioni:

    51 Meno terrore, un cambiamento in polvere alla deriva,

    52 rispetto alla tua eternità di cure.



    53 Fai quello che vuoi, non lo farai,

    54 Angelo oscuro! trionfa su di me:

    55 solo, vado verso il Solo;

    56 divino, alla Divinità.

    Perfetto esempio dell’uso creativo che Johnson seppe sempre fare di materiale proveniente da fonti diverse, “L’angelo oscuro” dimostra pure come il poeta inglese fosse altrettanto abile a dare poi al tutto una forma organica e coerente, di taglio personalissimo. In questo caso i riferimenti vanno dal rito dell’esorcismo a San Paolo, dal Libro di Giobbe a Sant’Agostino, da Plotino a Lucrezio. Gli elementi fondamentali della poesia sono invece ricavati dalla liturgia cattolica e, in particolare, la sua struttura a stanze e il metro devono parecchio al Veni creator spiritus, dove si fa riferimento a quello Spirito Santo di cui Johnson offre un’inquietante inversione («Paraclito oscuro!», v. 36).

    L’angelo oscuro della lirica, un impeto di lussuria che non conosce rinuncia (vv. 1-2), è Satana, cioè il tentatore per eccellenza (vv. 3-4). Il suo «cuore invidioso» (v. 11) perverte ogni cosa, anche la migliore: «Per tua volontà niente, pensiero o cosa, / rimane per me inviolato (vv. 5-6); «Tu avveleni il giusto disegno / della natura con stratagemma ingiusto (vv. 31-32). Così, ad esempio, il suono argenteo della musica diventa un fuoco soffocante (vv. 9-10), le muse si tramutano in furie (vv. 13-14) e ciò che prima era bello prende ad ardere di malvagità (vv. 15-16); i sogni si fanno paure (vv. 17-18) e il sonno una sofferenza senza fine (vv. 19-20). Naturalmente pure il poeta, al pari di ogni uomo, non è immune al potere corruttore dell’angelo (vv. 7-8), da cui, tra l’altro, è impossibile sfuggire (vv. 25-28; 37-40). Il componimento prosegue quindi con una successione ossimorica – ripresa poi ai vv. 53-54 – intesa a sottolineare le mille e più contraddizione di uno spirito in lotta (come ricorda Ellis Hanson, Johnson, «al pari dei francesi suoi contemporanei, era particolarmente versato in una poesia della vergogna»). Il culmine lo si raggiunge con il «banchetto di turpe delizia» (v. 35), una riuscita descrizione del piacere effimero offerto dal peccato, un attimo d’estasi dietro il quale si cela lo spettro della dannazione eterna.

    Il v. 40 apre l’ultima sezione della poesia con un’invocazione a Dio, l’unico in grado di sopraffare l’angelo oscuro (in tal senso il v. 41, piuttosto ambiguo, costituirebbe un rimando all’«Abi immunde spiritus»). Nel finale, echi dell’Inferno dantesco (vv. 45-48) lasciano il passo a un’ipotesi di redenzione, a una trasfigurazione dell’anima che avviene, con imprevisto capovolgimento dei toni, per intercessione divina. Ecco allora che i tormenti del poeta si sovrappongono a quelli di Cristo in croce e, ieri come oggi, la sconfitta si tramuta miracolosamente in vittoria: «Solo, vado verso il Solo; / divino, alla Divinità» (vv. 55-56).

    In conclusione, oltre a ringraziare Robert Asch, curatore del recentissimo Lionel Johnson: Poetry and Prose, per aver condiviso i suoi appunti, è doveroso ribadire che molte opere degli autori di quella che Yeats ribattezzò “la generazione tragica” meriterebbero davvero una maggiore considerazione da parte degli studiosi di formazione e cultura cattolica, il cui compito, in simili casi, dovrebbe essere innanzitutto quello di separare la verità dalle mistificazioni che, col tempo, sono andate purtroppo consolidandosi in leggende senza alcun fondamento (ovviamente un simile discorso non riguarda solo Johnson). Ne vale di certo la pena anche perché, come dimostra “L’angelo oscuro”, vi sono ancora numerose perle nascoste della letteratura che attendono, con fremente impazienza, di essere dissotterrate.

  4. #244
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    [Il mercoledì di Padre Brown] “La canzone dei pesci volanti”: quel pericolo chiamato donna



    di Luca Fumagalli

    Continua con questo nuovo articolo la rubrica infrasettimanale di Radio Spada dedicata all’approfondimento e al commento dei racconti di Padre Brown, il celebre sacerdote detective nato dalla penna di G. K. Chesterton, tra i più grandi intellettuali cattolici del Novecento. I racconti, a metà strada tra investigazione e apologetica, hanno per protagonista il buffo e goffo Padre Brown, interessato sia a risolvere i crimini che a salvare le anime dei colpevoli.

    Per una disamina introduttiva sulla figura di Padre Brown – protagonista pure di vari film, opere teatrali, sceneggiati per la televisione e, addirittura, fumetti – si veda il breve articolo a questo link.

    Per le precedenti puntate… da “L’innocenza di Padre Brown” (1911): 1. La Croce azzurra / 2. Il giardino segreto / 3. Il passo strano / 4. Le stelle volanti / 5. L’uomo invisibile / 6. L’onore di Israel Gow / 7. La forma errata / 8. Le colpe del Principe Saradine / 9. Il martello di Dio / 10. L’occhio di Apollo / 11. All’insegna della spada spezzata / 12. I tre strumenti di morte. Da “La saggezza di Padre Brown” (1914): 1. L’assenza del Signor Glass / 2. Il paradiso dei ladri / 3. Il duello del dottor Hirsch / 4. L’uomo nel passaggio / 5. L’errore della macchina / 6. La testa di Cesare / 7. La parrucca violacea / 8. La fine dei Pendragon / 9. Il Dio dei Gong / 10. L’insalata del Colonnello Cray / 11. Lo strano delitto di John Boulnois / 12. La fiaba di Padre Brown. Da “L’incredulità di Padre Brown” (1926): 1. La resurrezione di Padre Brown / 2. La freccia del cielo / 3. L’oracolo del cane / 4. Il miracolo della Mezzaluna / 5. La maledizione della croce d’oro / 6. Il pugnale alato / 7. Il destino dei Darnaways / 8. Lo spettro di Gideon Wise. Da “Il segreto di Padre Brown” (1927): 1. Il segreto di Padre Brown / 2. Lo specchio del magistrato / 3. L’uomo dalle due barbe

    «Vi è una verità da ricordare. […] Una cosa può talvolta essere troppo vicina per essere vista, come, per esempio, un uomo non può vedere se stesso». È questa, in parole povere, la morale de La canzone dei pesci volanti (The Song of the Flying Fish), quarto racconto della raccolta Il segreto di Padre Brown (1927).

    La storia, un divertente gioco di travestimenti che dà il la a quello che avrebbe tutta l’apparenza di un furto soprannaturale, ricorda da vicino esempi simili firmati da Wilkie Collins. Il contorno, per così dire, è forse un po’ troppo esuberante rispetto al caso trattato, per quanto la vicenda offra comunque a Chesterton occasione per ironizzare sul duplice errore dello spiritualismo e del materialismo e per dare corpo a qualcuna delle sue proverbiali stoccate. Non mancano nemmeno brani dallo schietto spirito distributista, come quando Padre Brown riflette sul senso – o meglio, non senso – di un moderno terreno comunale: «Suppongo che la gente possa farvi pascolare i porci e le oche; così com’è, sembra non nutrire nessuno, tranne ortiche e cardi; che peccato che ciò che doveva essere una specie di grande prato, sia stato trasformato in un piccolo e insignificante deserto incolto».

    In una piccola cittadina vive Peregrine Smart un collezionista che possiede un curioso gingillo, comprato chissà dove, probabilmente «fatto per soddisfare il capriccio di un ricco principe orientale». Si tratta di «un enorme vaso di magnifico vetro soffiato di Venezia, sottilissimo e delicatamente variegato si tenui colori iridescenti, nel cui crepuscolo colorato pendevano dei grotteschi pesci d’oro i cui occhi erano grossi rubini». Smart va naturalmente molto orgoglioso dell’oggetto e, nonostante in genere badi poco alla sicurezza della sua abitazione – addirittura non chiude nemmeno a chiave la porta di casa –, lo conserva con molta cura in una stanza vicino alla sua camera da letto, dove dorme sempre con una pistola carica sotto il cuscino, in caso di emergenza. Alle sue dipendenze, oltre la governante e il domestico, vi sono il nuovo segretario, Francis Boyle – «irlandese, e come tale alquanto spericolato» –, e Jameson, il capo degli impiegati.

    Padre Brown, parroco di una chiesa lì vicino, conosce molto bene Smart e i suoi amici, un vivace circolo che comprende, tra gli altri, il dottor Burdock, un biologo, evoluzionaista incallito, e il conte Yvon De Lara, un brillante viaggiatore e studioso dell’Oriente che non perde mai occasione per intrattenere i suoi interlocutori con mirabolanti narrazioni a proposito di eventi soprannaturali e di uomini dai misteriosi poteri. Ogni volta, quando Padre Brown ascolta simili storie, fatica a trattenersi dal manifestare il suo scetticismo (all’accusa di essere un borghese replica: «Un filisteo non è che un uomo che ha ragione senza saperne il perché»).

    Una notte, dopo aver discusso con gli amici di casi di teletrasporto, Smart si reca a Londra e affida la custodia dei pesci a Jameson e a Boyle. Svegliato alle prime luci dell’alba, quest’ultimo trova Jameson affacciato alla finestra: a quanto pare in strada c’è un tipo losco. Mentre il capo degli impiegati corre a chiudere la porta di casa – Boyle ode distintamente il rumore delle sbarre –, il segretario guarda dalla finestra e vede una curiosa figura di arabo, avvolta in un lungo turbante che, accompagnato da uno strumento musicale simile a un violino, intona una melodia sul ritorno a casa dei pesci d’oro. Quando Jameson risale le scale, pochi attimi dopo, si scopre che nell’altra stanza la boccia di vetro è rotta e i pesci sono spariti.

    Come sempre la polizia brancola nel buio e ad aiutare Boyle a dare un senso all’intera vicenda ci pensa ancora una volta Padre Brown. L’autore del furto non è altri che Jameson (il quale, nel frattempo, si è dato alla fuga). Maestro del travestimento, il capo degli impiegati è stato abile sia nello sfruttare le suggestioni causate dai racconti del conte, sia nel darsi quel contegno grigio e apatico necessario per passare inosservato: «Guardatevi dall’uomo di cui vi dimenticate. Egli è l’unico uomo che ha un vero vantaggio su di voi». Del resto impronte per strada non ce ne sono e, tenendo conto del terreno lì vicino, l’unico modo perché ciò potesse accadere è che il colpevole fosse arrivato direttamente dalla casa di Smart; inoltre il rumore delle sbarre della porta si può sentire dal primo piano solamente quando si tolgono, non quando si mettono.

    A chiudere la porta – e dunque a confermare la colpevolezza di Jameson – è stata la governante di Smart, stanca della noncuranza del padrone («Guardatevi dalla donna che dimenticate, ed a maggior ragione»). Il capo degli impiegati, commenta Padre Brown rivolgendosi a Boyle, «non si aspettava che l’ingresso fosse sbarrato. Sapeva che uomini distratti come voi […] avrebbero continuato per giorni interi a ripetere che si sarebbe dovuto fare qualcosa o che si sarebbe potuto usare qualche rimedio. Ma se voi dite a una donna che si dovrebbe fare qualcosa, c’è sempre il grave pericolo che lei improvvisamente lo faccia».

  5. #245
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    Mgr. R. H. Benson’s “The Dawn of All”: a sort of Catholic utopia



    Luca Fumagalli

    Troubled by the complaints of some readers who did not like the gloomy atmosphere of The Lord of the World, Mgr. Robert Hugh Benson wanted to please them and in 1911 published The Dawn of All, a sort of utopian novel.

    The novel takes the reader into a hypothetical future, when Mgr. Masterman, chaplain of Cardinal Bellairs, wakes up after a long coma and discovers a profoundly changed world in which the Church has become the undisputed guide of humanity. Divorce has been declared illegal, Catholicism is the state religion in many countries, and there is no longer any conflict between science and faith. Disoriented at first, Masterman, through significant encounters and experiences, gradually discovers the profound justice that animates the new reality, no longer built on selfishness and sin but on Christian faith. In the end, after a trip to Europe in the company of Father Jarvis in search of answers to his past, the protagonist – an apt representation of modern man – returns to England, happy that the social kingdom of Christ has become a reality.

    The real strength of The Dawn of All is the author’s prophetic intuition which is captured both in the description of socialism and its inevitable failure, and in the hypothesis of a future large-scale war and yet another ecumenical council.

    On the other hand, the overtly apologetic intent of the text undermines the coherence of the plot which in several places gives the annoying impression of disappearing, of sinking under the weight of often exorbitant theological dissertations. In an attempt to give a systematic exposition of his critical judgement on modernity, Benson fails to capture the reader’s attention and the book appears more like an essay in disguise than a work of fiction. Even the unsettling denouement, which concludes the whole story too hastily, is a further indication of a never entirely convincing story.

    Conceived as a provocative representation of all that Edwardian society professed to hate, The Dawn of All nevertheless offers an interesting socio-political analysis, especially regarding the role of monasteries in the economy or the debate on the legitimacy of the Pope’s temporal power (in the future described by Benson, a hierarchy has been created between Church and State that overcomes and goes beyond any possible conflict). The novel, like The Lord of the World, is the brilliant testimony of a passionate Catholic of the early twentieth century, certainly far removed from contemporary sensibility, but none the less fascinating.

  6. #246
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    C.S. Lewis e il male a Narnia



    di Luca Fumagalli

    Una cosa è certa: C. S. Lewis sembrava la persona meno adatta a scrivere libri per ragazzi. Non solo non si era mai sposato e non aveva figli, ma anche i volumi che aveva pubblicato erano tutti intellettualmente raffinati, rivolti al lettore maturo. Era inoltre un docente universitario, tra i più rispettati della facoltà d’inglese di Oxford, e il poco tempo libero dagli impegni accademici lo spendeva nella difesa della causa cristiana con articoli e conferenze. Per di più non fu mai un appassionato di letteratura per i giovani, tant’è che nel 1962, un anno prima di morire, ammise candidamente che la sua conoscenza in materia era «davvero molto scarsa», limitandosi alle sole opere di «Macdonald, Tolkien, E. Nesbit e Kenneth Grahame».

    Se è vero che già dai sedici anni gli frullava in testa la strana immagine di un fauno in un bosco innevato, con tanto di ombrello e pacchi sottobraccio, fu solo da adulto che si decise ad abbozzarci sopra un racconto, a dare corpo a quella che sarebbe diventata col tempo la saga di Narnia.

    A spronarlo non vi furono programmi o manifesti ideologici, quanto semplicemente il desiderio di raccontare storie vere e belle, un po’ come aveva fatto a suo tempo G. K. Chesterton, il quale, nel saggio Ortodossia, aveva scritto che «la Terra delle Fate non è altro che l’assolato paese del Buon Senso». Contro i falsi idoli dell’epoca dello scetticismo, Lewis non trovò un alleato nei romanzi realistici – dove tutto è costruito per far passare valori spesso discutibili – ma nella saggezza antica delle fiabe, riscoprendo in esse un serbatoio di virtù che valeva la pena mostrare non solo ai giovani ma anche agli adulti.

    Si mise alacremente al lavoro e dopo Il leone, la strega e l’armadio (1950), vennero, con un ritmo di uno all’anno, Il principe Caspian (1951), Il viaggio del veliero (1952), La sedia d’argento (1953) e Il cavallo e il ragazzo (1954), collocato nell’edizione finale al terzo posto. Nel 1955 fu dato alle stampe Il nipote del mago – il prequel che narra della creazione di Narnia – mentre il 1956 fu l’anno de L’ultima battaglia, il capitolo conclusivo della saga. I sette volumi che alla fine andarono a formare Le Cronache di Narnia contribuirono a rendere famoso il nome di Lewis in tutto il mondo, venendo successivamente tradotti in svariate lingue. Ebbero inoltre il merito di rinnovare la narrativa fantastica per ragazzi e furono fonte d’ispirazione per diversi autori tra cui Loyd Alexander, Susan Cooper, Madeleine L’Engle e J. K. Rowling



    Dopo un adattamento televisivo e una versione animata de Il leone, la strega e l’armadio, risalenti rispettivamente al 1967 e al 1979, tra il 1988 e il 1990 la BBC ricavò dai primi quattro volumi delle Cronache una serie in tre stagioni. Per l’arrivo della saga sul grande schermo fu invece necessario attendere fino al 2005, quando nelle sale uscì Il leone, la strega e l’armadio del regista Andrew Adamson. Il 2008 fu il turno de Il principe Caspian e il 2010 quello de Il viaggio del veliero (questa volta alla regia c’era Michael Apted). Le pellicole ebbero l’indiscusso merito di riaccendere l’interesse per il mondo di Narnia, ma furono poco apprezzate sia dal pubblico che dalla critica. Tra l’altro vennero ulteriormente svantaggiate dall’impietoso confronto con la splendida trilogia cinematografica de Il Signore degli Anelli, precedente solo di qualche anno. Oltre alla cornice narrativa un po’ troppo infantile, c’è da credere che pure i rimandi scoperti al cristianesimo siano stati mal digeriti dalla maggioranza degli spettatori.

    La religione è infatti un ingrediente fondamentale delle storie di Lewis. Questi, tentando di immaginare che cosa sarebbe accaduto se la Seconda Persona della Trinità si fosse rivelata in un mondo abitato da creature fantastiche, creò con Le Cronache di Narnia un “Vangelo per i piccoli” di grande presa, le cui pagine sono in costante dialogo con una presenza divina che si muove al contempo dentro e oltre la storia e che nei libri ha il volto del leone Aslan. In effetti il ciclo, che vede protagonisti i fratelli Pevensie e i loro amici, ricalca nell’invenzione mitopoietica il racconto biblico, aprendosi con la creazione di Narnia e terminando, dopo la venuta di una specie di Anticristo, con la sua dissoluzione e il giudizio divino. Per quanto sia un pastiche mitologico che mischia figure e personaggi presi da diverse tradizioni e bestiari – fauni, ninfe, centauri, animali parlanti e addirittura Babbo Natale – è dunque pensato e scritto come una grande allegoria cristiana finalizzata a riflettere la saggezza e la bellezza eterna.

    Dentro un simile quadro si muovono come sinistre presenze i tipici antagonisti da fiaba, perlopiù streghe e tiranni, che, ciononostante, riescono a non scadere mai nello stereotipo. Anche se l’approccio narrativo scelto da Lewis, come ovvio, non concede spazio a una caratterizzazione psicologica troppo raffinata, i “cattivi” che infestano Narnia risultano credibili tanto nel movente delle loro azioni malvagie – la sete di potere, il desiderio satanico di non soggiacere a nessuna autorità – quanto nei metodi impiegati per raggiungere i loro scopi, che comprendono l’inganno, la violenza e le arti oscure, ovvero la magia e la scienza. A proposito dell’identità sostanziale di queste ultime, richiamando Bacone, Lewis osservava: «C’è qualcosa che unisce la magia e le scienze applicate separandole entrambe dalla saggezza delle epoche precedenti». Per esse «il problema è come conformare la realtà ai desideri dell’uomo: la soluzione è una tecnica, ed entrambe, nella pratica di tale tecnica, sono disposte a fare cose che prima erano ritenute empie e disgustose, come dissotterrare e mutilare i cadaveri».

    Al seguito dei villain vi è un codazzo di scagnozzi senza scrupoli e di animali crudeli, una loro versione in sedicesimo, ancora più gretta e meschina. Ad esempio il lupo Maugrim, capitano della polizia segreta della Regina Bianca, è la quintessenza della ferinità brutale, solo istinto e cattiveria, mentre i lord Sopespian e Glozelle non si fanno troppi scrupoli a seguire l’usurpatore Miraz per poi tradirlo e ucciderlo. Tra i vari gregari figurano pure minotauri, orsi, giganti, nani neri e persino qualcuno che decide coraggiosamente di abbandonare la vecchia strada per seguire la via del Bene, come lo zio Andrew o l’asino Enigma, dimostrazione che in Lewis non vi è manicheismo di sorta.



    Secondo lo scrittore, infatti, il male è una scorciatoia, una via poco impegnativa, che non richiede rinunce o sacrifici, ma che col tempo finisce immancabilmente per annientare l’individuo, rendendolo schiavo dei propri egoismi. Il suo potente fascino risiede nel facile guadagno che promette e anche il principe Caspian, in difficoltà nello scontro che lo vede opposto allo zio, arriva ad accarezzare, sebbene solo per un momento, la possibilità di evocare in suo aiuto la Strega Bianca. L’episodio, uno dei più emblematici dei libri di Narnia, ha origine da una provocazione del nano Nikabrik: «È venuto qualcosa di buono dai re e dai loro regni? Crollarono, sparirono. Ma con la Strega le cose sono andate diversamente. Si dice che abbia regnato per centinaia di anni, anni in cui era sempre inverno. Questo è potere, signori, che vi piaccia o no». Ai singoli – protagonisti compresi – tocca quindi mettere in gioco la libertà, compiendo una scelta di campo: nelle Cronache «vi sono [sovente] momenti di tentazione a cui i vari personaggi sono sottoposti e ai quali a volte soccombono, ma questo non è importante, fa parte […] della vita, ciò che conta davvero è l’affezione ad Aslan».

    Nel primo libro della saga, Il nipote del mago, fa la sua comparsa Jadis, forse l’antagonista più iconica dell’intero ciclo, che torna anche ne Il leone, la strega e l’armadio. Essa è la grande usurpatrice, così come Sauron lo era in Tolkien e Mordred nei racconti arturiani. Il Diavolo stesso, in fondo, non è altro che un usurpatore, qualcuno che vuole il posto di Dio, ciò che gli spetta, e non potendolo fare di diritto cerca di farlo con l’inganno. Figlia di un Gigante e di Lilith, un demone della mitologia ebraica che sarebbe stata la prima moglie di Adamo, precedendo Eva, la Strega Bianca è una donna attraente, dallo sguardo fiero, più alta rispetto a qualsiasi essere umano. Vanta inoltre una forza non comune e grazie alle potenti arti magiche, acquisite a prezzo della propria anima, ha già distrutto il suo mondo natale, Charn, trasformandone gli abitanti in statue, e ha condannato Narnia a un inverno perenne: «Jadis decide che [il mondo di Narnia] sarà suo, […] decide […] con cieca determinazione (il male è sempre terribilmente e insistentemente cocciuto) che si stabilirà per sempre in quella terra, che se non potrà essere sua, sarà allora destinata alla corruzione e alla rovina» . Tuttavia tra lei e Aslan non vi è parità: «in una prospettiva squisitamente biblica […] il leone è più potente e anche più saggio della Strega Bianca», la quale, “loica” come il Satana dantesco, non contempla nemmeno la possibilità dell’amicizia e del sacrificio, un errore che le sarà fatale.

    Nel terzo volume delle Cronache, Il cavallo e il ragazzo, il principe Rabadash, erede al trono di Calormen, «un essere sanguinario, crudele, orgoglioso, dedito alla lussuria e tiranno presuntuoso», muove guerra a Narnia sia per vendetta, perché rifiutato da Susan, che per smania di sottomettere quegli stati che ancora sfuggono al controllo del vasto regno che un giorno sarà suo, uno stato cha ha tutti i connotati del dispotismo orientale: «A Calormen uomini e animali esistono solo per essere sottomessi e sfruttati mentre il sovrano e i suoi sodali abusano del loro potere e sfoggiano un lusso fine a se stesso. […] La differenza tra Narnia e Calormen non è semplicemente culturale, ma sta nei valori del cristianesimo presenti a Narnia. […] La regalità di Aslan in qualche modo si riflette anche in ogni essere umano, difatti a Narnia l’uomo è trattato con grande rispetto e viene chiamato figlio d’Adamo e di Eva». Dal padre, il potente Tirsoc, Rabadash ottiene allora un piccolo contingente per attaccare la Terra di Archen e quindi impossessarsi del castello di Cair Paravel. Fortunatamente i suoi piani falliscono e dopo la sconfitta, per punirne l’arroganza, Aslan lo trasforma temporaneamente in asino. La fine tragicomica di Rabadash, simile a quella dello zio Andrew, esalta di riflesso la misericordia del leone, una caratteristica aliena ai rancorosi “cattivi” di Narnia.

    Anche il re Miraz de Il principe Caspian è privo di scrupoli e governa come un despota. Anni addietro ha ucciso il padre di Caspian e ora vorrebbe eliminare lo scomodo nipote prima che questi possa raggiungere la maggiore età e rappresentare un pericolo. La sua spietatezza, che lo ha reso inviso pure ai nobili a lui sottoposti – il peccato d’orgoglio e la solitudine vanno inevitabilmente a braccetto – «sta mettendo in pericolo la stessa civiltà di Narnia, la tranquilla floridezza che era seguita alla sconfitta della Strega Bianca». Ma il male genera altro male e Miraz finisce così per morire scioccamente durante un duello con Peter.




    Se Il viaggio del veliero, forse a ricordare come in fondo ognuno sia il più pericoloso nemico di se stesso, si distingue per l’assenza di un villain carismatico – tanto che nella versione cinematografica si è tentato in qualche modo di sopperire dando particolare risalto alle apparizioni a Edmund del fantasma di Jadis – ne La sedia d’argento torna la magia diabolica, questa volta incarnata dalla Strega Verde, per molti versi simile a quella Bianca: oltre al fascino e alle finte buone maniere grazie alle quali ha sedotto Rilian, figlio di Caspian, pure lei è sovrana di un mondo, situato sottoterra, dove si respira un’aria pesante e una profonda tristezza: «Molti sono coloro che cadono nelle viscere del Regno delle Tenebre, pochi coloro che tornano nel Mondodisopra scaldato dal sole» . Quando le sue manovre per ingannare Jill ed Eustachio non approdano a nulla, la Strega si trasforma in un enorme serpente, venendo però uccisa dal principe.

    Per il trionfo definitivo del bene è necessario arrivare al settimo volume della saga, l’apocalittico L’ultima battaglia. Nel momento in cui le forze del male sembrano avere la meglio, si assiste a un ribaltamento positivo, a una vera e propria “eucatastrofe” che vede la fine di Narnia e l’apertura delle porte del Paradiso per i meritevoli protagonisti: «Ora, finalmente, comincia il Primo Capitolo di un libro fantastico che sulla terra nessuno ha mai letto. Il libro che narra la Storia Eterna e che, di pagina in pagina, si fa sempre più avvincente e straordinario». Tash, la divinità che richiede sacrifici umani e che viene spacciata per Aslan dallo scimmione Cambio e dall’asino Enigma – allegorie del falso profeta e dell’Anticristo – altro non è se non quel nulla che rimane in mano a chi si oppone alla volontà del grande leone (come impareranno a loro spese il gatto Rosso e il capitano Rishda di Calormen). L’aspetto da mostro con la testa d’avvoltoio, che instilla paura e crudeltà negli animi del popolo, è il correlativo oggettivo di una perversione che trasforma l’uomo in animale, solo ego smisurato e bramosia di sangue. La via del male, detto altrimenti, è la via della cenere, dell’ombra, della riduzione a impalpabile fantasma.

    La storia fantastica di Narnia si chiude così con un lieto fine che lascia «ai lettori la sensazione del bello, lascia la speranza che la giustizia possa trionfare, e lascia il gusto buono della gioia, di quella gioia bambina che Lewis aveva descritto con passione, cercando di tenere i suoi lettori svegli e lucidi, liberi dal sopore indotto dalla fredda volgarità del mondo moderno».

  7. #247
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    [LIETO EVENTO] Il Presidente, il Direttivo, la Redazione, gli autori e gli amici di Radio Spada hanno il piacere di annunciare che oggi 26 novembre 2021 è venuta alla luce Clotilde Fumagalli, figlia di Luca Fumagalli, cofondatore, già membro del direttivo e scrittore di RS e della gentilissima Soraya.
    Radio Spada ha quindi una piccola amica in più: alla piccina i nostri più affettuosi auguri e ai carissimi genitori le nostre più vive felicitazioni e le nostre preghiere. Beata Maria Virgo a Sacra Numismate, ora pro nobis.

    Ps: i post riprenderanno domenica 5 dicembre 2021


  8. #248
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    [Il mercoledì di Padre Brown] “L’alibi degli attori”: l’egoista e quelle sciocchezze che possono dannare



    di Luca Fumagalli

    Continua con questo nuovo articolo la rubrica infrasettimanale di Radio Spada dedicata all’approfondimento e al commento dei racconti di Padre Brown, il celebre sacerdote detective nato dalla penna di G. K. Chesterton, tra i più grandi intellettuali cattolici del Novecento. I racconti, a metà strada tra investigazione e apologetica, hanno per protagonista il buffo e goffo Padre Brown, interessato sia a risolvere i crimini che a salvare le anime dei colpevoli.

    Per una disamina introduttiva sulla figura di Padre Brown – protagonista pure di vari film, opere teatrali, sceneggiati per la televisione e, addirittura, fumetti – si veda il breve articolo a questo link.

    Per le precedenti puntate… da “L’innocenza di Padre Brown” (1911): 1. La Croce azzurra / 2. Il giardino segreto / 3. Il passo strano / 4. Le stelle volanti / 5. L’uomo invisibile / 6. L’onore di Israel Gow / 7. La forma errata / 8. Le colpe del Principe Saradine / 9. Il martello di Dio / 10. L’occhio di Apollo / 11. All’insegna della spada spezzata / 12. I tre strumenti di morte. Da “La saggezza di Padre Brown” (1914): 1. L’assenza del Signor Glass / 2. Il paradiso dei ladri / 3. Il duello del dottor Hirsch / 4. L’uomo nel passaggio / 5. L’errore della macchina / 6. La testa di Cesare / 7. La parrucca violacea / 8. La fine dei Pendragon / 9. Il Dio dei Gong / 10. L’insalata del Colonnello Cray / 11. Lo strano delitto di John Boulnois / 12. La fiaba di Padre Brown. Da “L’incredulità di Padre Brown” (1926): 1. La resurrezione di Padre Brown / 2. La freccia del cielo / 3. L’oracolo del cane / 4. Il miracolo della Mezzaluna / 5. La maledizione della croce d’oro / 6. Il pugnale alato / 7. Il destino dei Darnaways / 8. Lo spettro di Gideon Wise. Da “Il segreto di Padre Brown” (1927): 1. Il segreto di Padre Brown / 2. Lo specchio del magistrato / 3. L’uomo dalle due barbe / 4. La canzone dei pesci volanti

    L’alibi degli attori (The Actor and the Alibi) è il quinto racconto della raccolta Il Segreto di Padre Brown (1927). Nell’insieme si tratta di una storia un po’ troppo cervellotica e macchinosa, ma che tuttavia, dopo un’iniziale nota sulla nostalgia dell’innocenza – «Quella dolce sensazione che tutti noi dovremmo provare quando ci tuffiamo nel mondo meraviglioso e fantastico della nostra infanzia» –, consegna al lettore un’affascinante disamina del tipo umano dell’egoista, cioè «il tipo di persona che si guarda allo specchio prima di guardare dalla finestra, e questa è la peggiore calamità della vita».

    Quando la signorina Maroni, una promettente attrice di origini italiane, si chiude nel proprio camerino e si rifiuta di interpretare il ruolo che le è stato assegnato nello spettacolo della serata, al produttore Mundon Mandeville non resta che far convocare il confessore della ragazza, padre Brown, la cui parrocchia si trova proprio vicino al teatro. Giunto sul posto, tra il rumore di vetri in frantumi il sacerdote rassicura tutti che la signorina Maroni non ha alcuna seria intenzione di suicidarsi; basterà attendere un paio d’ore e lei ritornerà sul palco di sua spontanea volontà: «Se fosse una nostalgica tedesca, che meditasse in silenzio sulla metafisica, io sarei senz’altro dell’avviso di abbattere la porta. Questi italiani non muoiono così facilmente e non vi è pericolo che si uccidano in un momento di rabbia». Per sicurezza viene comunque messa di guardia al camerino la signora Sands, cameriera personale della moglie di Mandeville, mentre quest’ultima, attrice di livello, decide di proseguire le prove con il resto della compagnia.

    Padre Brown si intrattiene allora con Ashton Jarvis, «colui che lo aveva chiamato, e che era in verità un amico della sua stessa fede, il che non è raro fra gli attori». Tra una chiacchiera e l’altra il discorso cade sui Mandeville e sul loro matrimonio: tutti concordano nel sostenere che Mundon sia un tipo rozzo e volgare, mentre la sua consorte una donna amabile e paziente, che certo meriterebbe di meglio (pure per la sua carriera). Del resto sembra che l’uomo nasconda un qualche inconfessabile segreto e lo stesso Jarvis, in un paio di occasioni, ha notato una misteriosa figura femminile entrare di soppiatto nel suo studio per minacciarlo.

    All’improvviso i loro ragionamenti sono interrotti da «un colpo sordo ma violento che veniva da oltre la porta chiusa dell’ufficio privato di Mundon Mandeville». Quando accorrono sul posto, scoprono il cadavere del produttore immerso in una pozza di sangue. Accanto al corpo vi è uno dei pugnali usati in scena dagli attori, di proprietà del teatro.

    Le indagini sono rese particolarmente complicati dall’esistenza di quello che Jarvis definisce un “alibi collettivo”: «Non succede spesso che un’intera compagnia abbia praticamente un alibi così evidente come quello che hanno i miei compagni, un alibi dato dal palcoscenico illuminato e dalle testimonianze reciproche». Nemmeno la signorina Maroni può essere accusata di nulla dal momento che non ha mai aperto la porta del suo camerino e, anzi, ha preferito tornarsene a casa passando attraverso il vetro rotto di un lucernario.

    Ancora una volta viene in aiuto a Padre Brown la sua straordinaria capacità di penetrare nelle coscienze altrui, di sapersi mettere – con abilità molto più che attoriale – nei panni del prossimo: «Padre Brown stava fissando nel vuoto con un’espressione vacue, quasi da idiota. Gli capitava sempre di apparire stupidissimo nell’istante nel quale era invece più intelligente».

    Il prete si rende improvvisamente conto che la colpevole è la moglie di Mandeville, nel frattempo datasi alla fuga col promettente attore Norman Knight. Non solo la parte che la donna sosteneva di aver benignamente concesso alla Maroni, in verità, non valeva tanto quanto la sua, ma pure le ambiguità del suo carattere sono così evidenti che è perfettamente possibile ipotizzare che quella figura misteriosa che ogni tanto minacciava Mundon Mandeville non fosse altri che lei. Se, a differenza del marito, la sua classe è palese – «Ma», ricorda Padre Brown, «non sono sicuro che San Pietro si baserà solo su ciò per concedere l’ingresso in Paradiso –, allo stesso tempo nel suo cuore alberga un’ombra inquietante di cui il povero Mandeville è stato solo una vittima: «Sentii parlare molto dell’indegnità di lui, ma si trattava sempre della sua indegnità in rapporto a lei, e sono certo che questa idea proveniva indirettamente dalla donna. E, anche così, era rivelatrice. Ovviamente, da quel che ognuno diceva, aveva confidato ad ogni uomo che le stava intorno la sua maledetta solitudine intellettuale. Lei stesso ha detto che non si lamentava mai; e poi ha detto come il suo silenzio senza lamenti le rafforzasse l’anima. E questo è proprio il tono, lo stile inconfondibile. Le persone che si lamentano sono dei bravi, umani seccatori: non ho nulla contro di loro. Ma le persone che si lamentano di non lamentarsi, sono diaboliche. Anzi sono veri diavoli: quell’ostentazione di stoicismo non è proprio il centro del culto byroniano di Satana? Sentii dire tutto questo ma, sulla mia vita, non udii niente di concreto di cui lei potesse lamentarsi. Nessuno diceva che il marito bevesse, o la battesse, o la lasciasse senza denaro, o neppure che le fosse infedele, finché non ci fu la diceria degli incontri segreti, che erano dovuti semplicemente alla sua melodrammatica abitudine di andare a tormentarlo nell’ufficio con dei discorsi melodrammatici. E quando si guardava ai fatti, indipendentemente dalla generale atmosfera di martirio che lei trovava modo di diffondere, i fatti erano proprio il contrario. Mandeville smise di far denaro con le pantomime per farle piacere; incominciò a perdere denaro con i drammi classici per farle piacere».

    Vi è poi un ulteriore indizio da non sottovalutare: «Se l’italiana era una prima attrice cui era stata promessa una parte da prima attrice, c’era davvero qualche scusa o almeno qualche ragione, per la sua furia. In genere c’è una ragione per le furie degli Italiani: i latini sono logici e hanno ragione quando si comportano da pazzi. Ma questo particolare fece luce per me sul significato della presunta magnanimità [della signora Mandeville]. E c’era un’altra cosa, già allora. Lei ha riso quando ho detto che l’aspetto fosco della signora Sands era uno studio di carattere, ma non del carattere della signora Sands. Però era vero. Se vuol sapere com’è veramente una donna, non osservi lei: infatti può essere troppo intelligente per lasciarlo capire; e non osservi gli uomini intorno a lei, perché possono essere troppo infatuati. Ma osservi qualche altra donna vicino a lei, e specialmente alle sue dipendenze. Vedrà come in uno specchio il suo vero volto, e il volto che si specchiava nella signora era molto brutto».

    Infine non c’è da sperare troppo neppure nella love story tra Knight e la signora Mandeville (almeno, secondo Padre Brown, sarebbe «la più umana delle scuse» per un omicidio). L’attore, da tempo innamorato della donna, è probabilmente solo una pedina che l’assassina sta impiegando per raggiungere il suo vero scopo, ovvero quello di «far carriera nelle vesti della brillante moglie di un brillante attore».

    Nell’epilogo, ormai chiarita la dinamica del delitto, il sacerdote mette in guardia Jarvis a proposito della scarsa caratura morale dei sedicenti maître à penser che calcano i palcoscenici: «”Lei parla di questi intellettualoidi che vogliono un’arte più elevata e un teatro più filosofico, ma pensi che cos’è gran parte di quella filosofia! Pensi alla condotta che quegli intellettualoidi spesso propongono come sublime! Sempre la Volontà di Potenza, il Diritto alla Vita, e il Diritto all’Esperienza… dannate sciocchezze o peggio… sciocchezze che possono dannare”. Padre Brown era accigliato, il che gli accadeva molto di rado; e la sua fronte era ancora rannuvolata quando si mise il cappello e uscì nella notte».

  9. #249
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    The mischievous biographer who ruined forever Cardinal Manning’s reputation



    di Luca Fumagalli

    Several inaccuracies continue to circulate regarding Cardinal Henry Edward Manning (1808-1892), the great Archbishop of Westminster who defended papal infallibility during the Vatican Council and who was among the inspirers of modern Catholic social doctrine. Due to the rivalry with the more celebrated Newman, Manning, when not ignored, is stereotyped as a careerist cardinal, solely interested in power. Obviously, this is a grotesque deformation of reality, at the origin of which there is the work of a biographer animated by the worst intentions.

    After Manning’s funeral, the task of producing an official biography was claimed by Edmund Sheridan Purcell, who, according to his own account, had been commissioned by the cardinal himself. It was not a lie but it was not a truth either.

    Purcell had been the founder and editor of «The Westminster Gazzette», a Catholic periodical that Manning had helped finance. At the time he was a supporter of the cardinal. However, he gradually distanced himself from Manning and in 1879, when the newspaper was forced to close, he had to resign himself to finding employment with other publishers.

    However, in 1886 he found himself involved in projects – later abandoned – to reconstitute a new Catholic newspaper. Manning, as a consolation, then decided to offer him the opportunity to write a first biographical volume about him. Despite this, the cardinal refused to grant him interviews and also denied him access to his private correspondence. The reason for such an attitude, manifestly contradictory, is soon said: Manning, in truth, rather wished that his friend JEC Bodley, Sir Charles Dilke’s private secretary, would publish an official book on his life (among other things he had already started to assist him in the onerous task). Since Bodley was not a Catholic, he also arranged for a priest, Father Butler, to work alongside him as an aid in dealing with matters relating to doctrine.

    However, the cardinal made the mistake of allowing Purcell not only to consult his 1848 diary – which contained an account of his stay in Rome – but also to read portions of other documents and make a copy. The latter interpreted it as a further seal of the official nature of his position, considering himself authorized to snoop around. Manning, of course, had no intention of giving him such freedom, and when he learned that the journalist had one of his diaries with him, he wrote to him in order to retrieve the precious notebook. Why, at this point, he did not put a final stop to Purcell’s aspirations remains a mystery: most likely he believed he was sufficiently safe after the agreement with Bodley.

    Purcell, for his part, had no intention of abandoning the project, so much so that after the cardinal’s death he cleverly convinced everyone that he was his official biographer (although there was no mention of him in Manning’s will). It was only when a good half of Manning’s papers had been stolen that the subterfuge came to light.

    Purcell’s two-volume biography entitled Life of Cardinal Manning, Archbishop of Westminster, was published in 1895 and was an instant best-seller. Although the book was patchy and full of inaccuracies, the immediacy of the prose conquered readers. The real problem was that Purcell portrayed the cardinal as an ambitious, unscrupulous man eager to impose his ideas in every way.

    If the enthusiasm with which the Protestants received the biography was predictable, the timid reaction of most Catholic intellectuals was not (with hindsight it is possible to explain what happened in the light of the fact that many of them were disciples of Newman and therefore they did not have a high regard for Manning’s views and actions). Only Herbert Vaughan, the new Archbishop of Westminster, dared to criticize Purcell and his work.

    The reputation of the late cardinal was definitively ruined in 1918 with the publication of Eminent Victorians. The biographical essay on Manning, the first and longest of the four that make up the volume, had in fact been compiled by Lytton Strachey, mixing various passages from Purcell’s biography, all characterized with the poisonous irony typical of the Bloomsbury Group.

    Since the release, in 1921, of Cardinal Manning: His Life and Labor, an excellent apologetic work by Shane Leslie, several texts were printed with the desire to restore the truth about the life and works of the cardinal. These efforts, however, were evidently not sufficient, since even today the figure of Manning continues to be wrapped in a cloak of prejudice and slander.

  10. #250
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    “Il destino degli eredi”: William Golding e quell’evoluzione che sa di involuzione



    di Luca Fumagalli

    C’era una volta

    Il destino degli eredi (The Inheritors) costituì una sfida impegnativa per William Golding. Sebbene ancora lontano dal successo che, negli anni successivi, avrebbe investito il suo primo romanzo, Il Signore delle Mosche, fino a elevarlo a icona generazionale e a valergli il Nobel, lo scrittore inglese si trovava comunque nella difficile situazione di dover confermare le brillanti doti narrative ampiamente dimostrate con l’opera d’esordio. Dopo mesi di duro lavoro venne quindi alla luce, nel 1955, quello che lui stesso considerò sempre il suo romanzo prediletto, un lavoro che non mancò di attirare su di sé molte critiche, ma che, al contempo, consacrò Golding come uno dei nomi più innovativi del panorama letterario britannico.

    La testimonianza, sofferta e radicale, dell’ansia e della crisi d’identità del Novecento si sposa, da questo momento, con una struttura narrativa calata in una griglia mitica e simbolica che, dalla linearità favolistica de Il Signore delle Mosche, si andò sempre più complicando nelle involute e cerebrali oscurità delle prove successive. Il nuovo stile che, ad esclusione di sparute eccezioni, rimase una costante negli anni, era sicuramente più congeniale all’autore, più vicino alla sua sensibilità, al suo gusto per l’allusione e per il mistero. Tuttavia, se nessuno dei suoi lavori bissò mai il successo de Il Signore delle Mosche, uno dei motivi principali è di imputare proprio alla diffusa oscurità che ostacola il lettore poco avvezzo a un’opera meno immediata e dalle vaste implicazioni filosofiche e teologiche.



    Il destino degli eredi è forse l’esempio più calzante in tal senso e testimonia la sua peculiarità già a partire dalla trama, curiosa e ardita. Nel romanzo si racconta infatti la storia di un gruppo di uomini di Neanderthal che vengono sconfitti e cancellati dalla storia quando nel luogo in cui abitano giunge una tribù di Homo Sapiens. Più evoluti, intelligenti e spietati, i nuovi arrivati hanno facilmente ragione dei neandertaliani, imponendosi così come ulteriore gradino nella scala evolutiva.

    Seppur distante da Il Signore delle Mosche per personaggi e ambientazioni, esiste però un forte legame tra i due libri: secondo Carey, «Entrambi parlano dell’incontro tra civiltà e ferocia e suggeriscono nuovi modi per interpretare i due termini. Entrambi narrano dell’omicidio di un innocente». Golding esplora dunque l’origine della colpa e lo sviluppo della violenza in concomitanza con l’apparire sulla terra di una nuova umanità. Traccia volontariamente una sorta di mitopoiesi, una mitologia fantastica che, sempre senza prescindere dal retrogusto favolistico, fonde Darwin con la Genesi. In un paesaggio lontano e isolato, un microcosmo simile a quello dell’isola di Jack, Ralph, Piggy e Simon, si compie un nuovo dramma che, questa volta, assume la caratura di un sovvertimento storico universale, un escalation di violenza che muta per sempre il destino del mondo e di cui anche noi siamo eredi diretti, come ricorda il titolo originale del libro (The Inheritors significa appunto “gli eredi”).

    Anche se l’ambiente descritto appare distante, come se si trattasse di un universo con le proprie leggi e dinamiche, costruito dall’autore più attraverso la parola che l’azione, il lettore si immerge nelle pagine del romanzo come in uno specchio, e in quegli antenati non può non scorgere una scintilla di sé. Così lontani eppure così vicini: è forse questo il più grande miracolo che compie Il destino degli eredi, quello appunto di rendere prossimo il remoto, in un confronto complesso ma autentico e appassionante. Ed esattamente come ne Il Signore delle Mosche, chi legge si trova a sperimentare un’inquietudine che muove, porta a riflettere e a mettere in discussione ogni preconcetto. Il dibattito tra due poli opposti – ma, almeno in una certa misura, complementari – alimenta il libro e ricorda i celebri componimenti poetici di Blake; si potrebbe parlare, in ultima istanza, di una sorta di sfida tra innocenza ed esperienza, uno scontro che ha come conseguenze immediate la morte e il decadimento morale degli uomini. Il nuovo titolo scelto per l’ultima edizione italiana, targata Mondadori e datata 2021, a differenza del precedente, Uomini nudi, sembra quindi puntare su questo secondo aspetto. Si mostra la capacità dell’autore di smascherare l’uomo, descrivendo senza ipocrisia i suoi limiti e il male che è in grado di commettere: ogni retaggio di puerile ottimismo progressista è nuovamente il bersaglio di un attacco sistematico condotto da Golding con il metodo della narrativa.

    In una gabbia strutturale che si muove per punti essenziali, in cui tutto ciò che è superficiale o secondario è eroso, la storia procede in modo rigorosamente lineare per quello che concerne anche i toni e il clima generale. Chi legge è invitato e entrare in un mondo che gli è fondamentalmente estraneo, tutto intessuto di immagini simboliche, spesso addirittura incomplete.

    Ma ciò che più di altro contribuisce a rendere complessa una trama di per sé piuttosto semplice è il peculiare punto di vista adottato. La storia, pur raccontata da un narratore esterno, viene, in realtà, descritta attraverso gli occhi e le azioni di Lok, il protagonista neandertaliano, investito dalla matriarca della responsabilità di comandare la sua piccola tribù e, in senso lato, di farsi portavoce della tradizione degli sconfitti: «Ora c’è Lok!».

    Nel tentativo di avvicinare il lettore all’esperienza cognitiva dei primi uomini, Golding tratta i fatti descritti vestendo i panni del Neanderthal, il quale sperimenta un rapporto con la realtà solo di tipo percettivo e non sempre è in grado di comprendere tutte le implicazioni connesse a quanto sta accadendo. I neandertaliani vivono attraverso i sensi, il loro grado di inferenza è minimo ed è per loro impossibile elaborare ragionamenti complessi o stabilire sistemi di pensiero. Lok è come un bambino, i suoi occhi sono privi di consapevolezza, sospetti o paure. Quando, ad esempio, uno dei nuovi uomini scaglia una freccia avvelenata contro di lui, nel tentativo d’ucciderlo, e Lok «aveva l’idea confusa che qualcuno stava cercando di fargli un regalo», chi legge assapora l’amaro calice di uno scacco disperante, venendo chiamato, in seconda istanza, alla grande scommessa di arrendersi all’immaginazione per sospendere il giudizio fino al termine della vicenda. Il narratore, tecnicamente onnisciente, lascia dunque ampio spazio allo sguardo del protagonista che propone una serie infinita di fatti inspiegabili, resi ancora più difficili da una scissione – che è momento di crescita – tra un Lok animato da puri sentimenti, e uno preda della paura e della confusione generata da una realtà in costante trasformazione.

    Non manca inoltre un voluto effetto ironico che, pagina dopo pagina, fa apparire Lok come un osservatore sempre meno credibile e lo trasforma in una sorta di clown o in un fantasioso pittore dalla mente semplice. Il riso che segue naturalmente le goffe incomprensioni lascia presto spazio alla disperazione quando la leggerezza di una visione idilliaca viene messa in discussione dalla malvagità dei Sapiens: tale inadeguatezza sarà pagata da Lok e dai suoi con la vita.

    La difficile riconciliazione tra i due poli tematici dell’innocenza e dell’esperienza avviene anche a livello di trama. Alla prima parte, inerente ai neandertaliani, si sostituisce la sezione conclusiva in cui i protagonisti diventano gli uomini nuovi e il ruolo di voce narrante passa a Tuami, l’alter ego di Lok. Artista e sciamano, membro della tribù dei Sapiens, a lui tocca vestire anche gli scomodi panni dell’antagonista. Progressivamente si viene così a conoscenza delle due tribù e il sapore della narrazione perde la naturale purezza per avvicinarsi allo spirito malevolo dei nuovi venuti. Lo stesso movimento, almeno implicitamente, anima il lettore. Come scrive McCarron, «normalmente, quando leggiamo un racconto, siamo compiaciuti della nostra abilità di comprenderlo […]. Il destino degli eredi non ci offre invece questo senso di superiorità sul testo […] perché siamo manipolati verso una posizione di complicità con la colpa». Anche se naturalmente si è portati a simpatizzare per Lok e la sua gente, lo scrittore conduce e sviluppa il racconto in modo tale da costringere chi legge a riconoscersi soprattutto nei Sapiens e a fare memoria del legame malvagio che lo unisce ad essi.

    Il destino degli eredi, secondo una costante che attraversa tutta l’opera di Golding, si risolve quindi in un tentativo di pacificazione che invita all’integrazione degli opposti come acqua e fuoco, luce e tenebre, foresta e pianura, inclusione ed esclusione, anche alienazione e unità. Solamente alla fine del libro, quando scopre l’analogia, Lok acquisisce l’abilità di comprendere la realtà quale un tutto omogeneo. Quel “come” costituisce un raccordo tra i particolari, un principio che anche Tuami adotta quando, proprio in chiusura, scolpisce la sua arma dotandola di una forma nuova e innocua.

    Il mutamento che il protagonista vive è qualcosa di scioccante. Nel corso della vicenda Lok si avvicina sempre di più al modello di pensiero espresso dai Sapiens. Ancora una volta, però, è complicato capire se si tratti di un’evoluzione o piuttosto di un’involuzione. Infatti, dopo che Lok, in una vampata d’entusiasmo, si lancia in una serie di analogie espresse ad alta voce, con tono compiaciuto, una convulsione improvvisa lo riporta alla realtà: «Giunse una confusione nella sua testa, un’oscurità; e poi fu nuovamente [lui]». Un piccolo indizio che anticipa il finale, in cui la visione globale in grado di abbracciare un orizzonte ampio e profondo verrà conquistata solamente a caro prezzo.

    Ricordando La tempesta di Shakespeare, si potrebbe affermare che l’autore esalta il punto di vista di Calibano prima dell’arrivo di Prospero, trattando i neandertaliani come possessori di una felicità che i loro eredi non potranno mai assaporare». Se Dante loda il linguaggio come capacità degli uomini di elevarsi oltre la bestialità per occupare una posizione di poco inferiore a quella degli angeli, i primitivi de Il destino degli eredi posseggono invece una comunicazione intuitiva raffinata, che non necessita di parole, anch’esse ritenute un segno della colpa che ha contaminato il cuore dell’uomo minandone irrimediabilmente i fraterni legami spirituali.

    La complessità del romanzo si mostra, più in generale, anche negli intenti che si prefigge. Da un lato può essere visto come una risposta ai lavori di H. G. Wells sugli uomini primitivi, contraddistinto pure da una certa accuratezza dal punto di vista archeologico e antropologico – come testimoniato, ad esempio, dalla precisa descrizione della sepoltura di Mal, la vecchia guida dei neandertaliani –, dall’altro Il destino degli eredi può essere trattato più semplicemente come un’appassionante avventura in un mondo selvaggio e pericoloso, con ampio margine per l’invenzione e la licenza poetica.

    A questi due livelli interpretativi si assomma quello allegorico che vuole i Neanderthal come una figurazione dell’innocenza, uomini non solo senza alcuna traccia di male, ma incapaci addirittura di comprenderlo quando si imbattono in esso: così corrono incontro ai loro carnefici con leggerezza e amore, ignari della distruzione che incombe. In questo caso, come ne Il Signore delle Mosche, il soggetto dominante sarebbe nuovamente quello della caduta adamitica, un viaggio dall’Eden verso il naturale epilogo della colpa.

    La critica a Wells, la dimensione dell’avventura e il tema della caduta sono chiavi di lettura che possono offrire un quadro complessivo e fedele dell’opera solamente a patto che vengano integrate tra loro.

    Come sempre in Golding la modalità di lettura più efficace è quella della scoperta; ma non si tratta solamente di vedere cose nuove, quanto di vedere in modo nuovo. Il confronto tra gli uomini moderni e i Neanderthal, nonostante i limiti, appare impietoso: le loro capacità di percezione sono così tanto più ricche delle nostre che il contrasto non può essere semplicemente quello tra “meglio” o “peggio” così come è intrinseco in Wells. La provocazione che l’autore lancia al razionalismo ottocentesco è quella di immaginarsi all’interno di uno stile di vita alieno, approccio che manca nella riduzione macchiettistica dei neandertaliani operata in Outline of History, in cui sono dipinti alla stregua di creature inferiori, probabilmente la fonte dell’orco mitologico delle storie popolari.

    Nel dipanarsi della trama, Golding stesso è chiamato a una continua sfida, quella di rinunciare alle analisi, ai commenti e alla maggior parte delle opzioni di dialogo. Solo nelle descrizioni – assecondando la sensibilità unica dei personaggi – è concesso spazio alle ricche prolusioni che illustrano il mondo con frequenti antropomorfismi, il segno paradossale di un’esperienza viva, concretissima. È il volto della realtà di chi, più che capirla, ne percepisce la forza vitale che fluisce in essa.

    I dialoghi, ovviamente, sono l’elemento narrativo più sacrificato. Le parole di Lok superano di poco lo stadio dei rumori e il loro uso serve solamente ad accompagnare i gesti. La lingua però, lungi dall’essere qualcosa di statico, si evolve nel corso della trama e diviene più complessa mano a mano che le circostanze lo richiedono, come quando Lok e la sua amica Fa si trovano costretti ad affrontare i nuovi arrivati e la ragazza mostra un’inedita capacità di elaborazione del pensiero. La distanza tra Dante e Golding si misura anche in questo richiamo alla Genesi in cui la donna parla per prima e ha come interlocutore il diavolo.

    Forse l’intuizione più brillante dell’intero romanzo si situa proprio a questo livello. Spinto dal desiderio di una narrazione che tenga conto della capacità dei Neanderthal e, al contempo, delle loro caratteristiche di purezza e benevolenza, Golding inventa, se così si può dire, lo strumento narrativo dell’ “immagine”. I membri del gruppo di Lok comunicano infatti condividendo immagini, cioè visualizzazioni e non concettualizzazioni, istantanee telepatiche non di un’idea ma di un evento intero. Una condizione difficile da descrivere perché, nella mitopoiesi dell’autore, si tratta di una facoltà ormai perduta, al pari dell’acutezza dei sensi: «Quindi perlustrò la foresta con le orecchie e il naso in cerca di intrusi». Per Lok anche il più piccolo elemento è accompagnato da un’immagine, «una sorta di presenza vivente ma qualificata», e la gestualità si carica di empatia, marchio della natura che racconta un amore istintivo.

    A metà tra la percezione e il vaticinio, l’immagine è l’anima che lega l’intero gruppo e ne costituisce il patrimonio collettivo. È una straordinaria dote, ma anche il segno più evidente di un pensiero astratto ancora lontano da quello moderno. Ci si trova così a fronteggiare una caotica lista di figure senza alcuna connessione, ma, al contempo, si è inconsciamente preparati alla confusione che alberga in Lok quando, da lontano, nota il fumo prodotto dai Sapiens.

    Antropologie

    Il destino degli eredi, come anticipato, valorizza e arricchisce le conclusioni a cui Golding era giunto con Il Signore delle Mosche, libro in cui, a partire dallo studio della natura del peccato, vengono messe in discussione le miopi asserzioni dell’ottimismo liberale.

    Il Ballantyne di questo secondo romanzo, l’autore da confutare e sovvertire, è il famoso H. G. Wells. Tra i principali esponenti dello scientismo d’inizio novecento, nel saggio Outline of History, nei capitoli otto e nove, Wells descrive il presunto sterminio degli uomini di Neanderthal da parte dell’Homo Sapiens. I neandertaliani sono rappresentati come cannibali, esseri mostruosi, rozzi e feroci, e la scelta operata da Golding di porre un estratto del testo come epigrafe iniziale del romanzo è un’aperta dichiarazione di intenti, un atto di sfida nei confronti di quella mentalità che, nonostante le devastazioni prodotte dai totalitarismi e dalle due guerre mondiali, continuava a riporre fiducia nella ragione e nel progresso: «Possiamo dire, quindi, che Golding e Wells sono principalmente opposti nella visione che essi hanno dell’ “orco”; Wells, il razionalista, vuole separare questa figura terrificante dall’Homo Sapinese posizionarla in un corpo peloso, che suscita repulsione […]; Golding sostiene che l’orco è dentro di noi» (così Hynes). Sebbene Wells, verso la fine della sua vita, dopo la Seconda guerra mondiale, assunse una posizione ancora più radicalmente pessimista rispetto a quella dell’autore de Il destino degli eredi, è però indubbio che il giovane storico di Outline of History fosse erede di quella folgorazione vittoriana per cui il passaggio del tempo e il processo educativo sarebbero stati in grado, da soli, di condurre l’umanità al progressivo perfezionamento.

    Nel breve racconto The Grisly Folk Wells descrive invece le avventure di un gruppo di nostri antenati, pacifici raccoglitori e cacciatori. Questa tribù, però, si vede rapire uno dei suoi bambini dal popolo pre-umano del titolo, una formazione più riconducibile al mondo animale che a quello degli esseri umani. Si tratta degli stessi neandertaliani di Outline of History, una genia che non si incrociò con il vero uomo.

    Golding inverte sistematicamente il pensiero di Wells e in Il destino degli eredi è l’Homo Sapiens a rapire un piccolo neandertaliano e a portare la violenza e il cannibalismo sulla terra. Sono i nuovi uomini, quelli esaltati dal positivismo di ritorno, che, nel romanzo, vengono associati alla distruzione e alla morte; rispetto a Il Signore delle Mosche, dove è assente un modello di autentica purezza, il loro portato malvagio è ancora più evidente se confrontato all’immacolata pacatezza di Lok e dei suoi. L’assunto evangelico implicito nel titolo, «Beati i miti, perché avranno in eredità la terra» (Mt, 5, 5), viene anch’esso sovvertito: a ereditare il mondo non saranno i pacifici neandertaliani, ma il violento Homo Sapiens.

    Nuovamente interessato all’esternazione del male, Golding propone quindi un viaggio nel passato, in una realtà a metà tra storia, mito e favola, in cui fondare una personale visione della caduta dell’uomo nell’oscurità e nella sofferenza. Il tentativo è accompagnato dalla messa in discussione di ogni pregiudizio allo scopo di ridestare un interrogativo sulla natura dei viventi, un punto di vista diverso che accomuna la critica alle teorie evolutive classiche alla contestazione del colonialismo. Infatti, nella partica coloniale – specialmente nel caso della Gran Bretagna – è implicito l’assunto che chi si trova sul gradino più alto nella scala evolutiva non abbia alcun obbligo morale nei confronti degli inferiori, nemmeno quello di rispettare i loro diritti e le loro vite. Molti romanzieri britannici hanno scritto al riguardo, e forse, con Il destino degli eredi, a questi nomi andrebbe aggiunto anche quello di Golding. Il libro, che mostra il popolo di Lok come colonizzato dai nuovi uomini, può dunque essere visto come un suggerimento dei modi in cui le costruzioni narrative, in particolare, siano suscettibili di una varietà di approcci diversi.

    Se i lavori di Wells costituiscono la fonte primaria del romanzo – in abbinamento a testi sacri come la Genesi e l’Apocalisse – l’universo narrativo è così magmatico e vario che mostra un ampio ventaglio di allusioni intertestuali tratte da autori piuttosto eterogenei: si va dal re del bosco ne Il ramo d’oro di James Frazer alla quercia del mito scandinavo di Balder, dal Beowulf al Tennyson degli Idilli del re (quest’ultimo soprattutto per quanto riguarda i nomi di alcuni protagonisti). Una gran messe di testi che cooperano a un disegno intricato e complesso che, come sempre, scatenò un acceso dibattito tra la critica.

    Molti furono disturbati dal cambio di prospettiva finale, accusato di rompere inutilmente l’unità della trama, mentre la maggior parte dei commentatori si concentrò piuttosto sulla tecnica operata da Golding per descrivere il punto di vista di Lok. Se, soprattutto tra i primi recensori, fioccarono critiche per un lavoro troppo ambiguo – spesso etichettato come pessima antropologia o, al meglio, un sottogenere di fantastoria – al contrario, negli anni successivi, tanti furono positivamente colpiti dall’innovazione strutturale e linguistica promossa dal romanzo che, come conseguenza diretta, favorì l’elaborazione di diversi studi dedicati a tale novità.

    Anche gli antropologi, generalmente poco ricettivi rispetto a romanzi come Il destino degli eredi, mostrarono un discreto interesse iniziale per l’opera, sebbene fosse chiaro come a Golding non interessasse affatto ricostruire con precisione archeologica l’epoca preistorica. L’ambientazione, del resto, era solo un pretesto per mettere in scena una nuova allegoria della vita. Nonostante sia generalmente corretta, la rappresentazione dell’uomo di Neanderthal che emerge dal testo, al pari della descrizione di Wells, non ha però alcuna reale corrispondenza con le più recenti acquisizioni della paleontologia (ad esempio non vi è parere unanime sulla capacità di parlare o meno dei neandertaliani) e, certamente, sarebbe sbagliato indicare il volume come un’immagine completa della vita dell’uomo primitivo sulla terra. La discussione fu breve e si esaurì rapidamente; l’impatto del libro in ambito scientifico fu, tutto sommato, trascurabile. D’altronde certe libertà narrative prese dall’autore allo scopo di vivacizzare la trama erano esplicite nella loro antistoricità: i neandertaliani di Golding non hanno ancora imparato a levigare le pietre che usano come strumenti, mentre i Sapiens sono in grado di creare vasi di creta, strumenti d’osso e canoe. Lo scrittore ha quindi voluto rappresentare i Neanderthal più primitivi, e gli Homo Sapiens più evoluti, così da enfatizzare il divario intellettuale e culturale tra le due specie e rendere ancora più esplicita le tesi di fondo del romanzo.

    La suggestione di un’evoluzione dell’umanità che corrisponda a una sua involuzione morale catturò nuovamente l’attenzione di quanti avevano apprezzato l’analogo meccanismo ne Il Signore delle Mosche. L’iniziale impossibilità di collocare la realtà in uno schema unitario, segno dell’innocenza, della possibilità, cioè, di godere della vita in un mondo di fatti accettati, soccombe innanzi alla colpa che, come nel racconto biblico, associa il peccato alla conoscenza. Di queste prospettive, destinate in seguito a fondersi, sono testimonianza le due civiltà che abitano nel mondo de Il destino degli eredi.

    La trama del romanzo è strutturata in due parti distinte: nella prima, che va dal primo al decimo capitolo, Lok descrive i fatti principali che hanno per protagonista il suo popolo, mentre negli ultimi due capitoli, dopo un passaggio di raccordo, il ruolo di narratore passa a Tuami che riesamina retrospettivamente quanto accaduto.

    Sin dalle prime pagine si viene introdotti nel luogo in cui, come su un palcoscenico, è rappresentata la tragedia. Concepito come una sorta di correlativo oggettivo del dolore e dell’ansia che attraversano i protagonisti, l’ambiente naturale è dominato dalla figura della cascata. L’acqua che scorre impetuosa, quasi feroce, in un vortice fragoroso che rompe costantemente il silenzio del mondo circostante, è il simbolo centrale de Il destino degli eredi e corrisponde all’oggetto stesso del libro, quella caduta adamitica che, in un certo senso, è causa della nostra fragile umanità. Un’isola boscosa circondata da un fiume, una foresta, due cascate, una sporgenza, un terrazzamento, un paio di sentieri, vegetazione lussureggiante e animali feroci sono tutto ciò che compone la preistoria mitica di Golding. Pochi riferimenti, spesso percepiti vagamente solo attraverso le lacunose e imprecise descrizioni di Lok, sono tratteggiati dallo scrittore con afflato impressionistico non tanto allo scopo di dotare l’azione di una geografia precisa o riconducibile al dato reale, quanto di creare un pretesto, un nuovo piccolo mondo in cui ambientare l’origine mitica del male e la sua evoluzione. Proprio in questo luogo, dopo un lungo viaggio, giunge la tribù dei neandertaliani, fiduciosamente convinta di poter trovare un posto sicuro per trascorrere la primavera. Ma le cose non andranno esattamente per il verso giusto e presto quell’Eden ancora intatto verrà macchiato dal sangue che, lavando la cortina dell’ignoranza, rivelerà un universo più simile all’Inferno che al Paradiso.

    Nei capitoli iniziali i neandertaliani sono una comunità solida e stabile, incapace di proporre individualità spiccate; sono piuttosto un organismo complesso che, nonostante le differenze, si muove all’unisono, secondo le indicazioni dei capi: «C’era dell’empatia tra loro». Per tutto il libro sono indicati semplicemente come “il popolo”, un ulteriore indizio di questa stretta comunanza. La loro esistenza non mostra alcuna dimensione privata, ma tutto è pubblico e collettivo: con i loro corpi offrono riparo e protezione ai membri più deboli del gruppo – come quando Mal, il saggio anziano, cade nell’acqua gelata – e il neonato non è figlio di nessuno, ma è semplicemente chiamato “il nuovo”. La frugale esistenza che conducono è divisa tra il sostentamento fisico e la dimostrazione degli affetti, mentre la promiscuità sessuale è un termine che rivela soprattutto il pregiudizio moderno: «Dobbiamo trovare del cibo […] e dobbiamo fare l’amore». Il desiderio è semplice e naturale come la fame, e anche l’accoppiamento è descritto come il gioco tra due fanciulli e non come un rapporto ferino.

    Nel luogo in cui il popolo è emigrato dopo l’inverno trascorso lungo la costa, si conduce una vita serena, essenzialmente statica, senza imprevisti. È, a tutti gli effetti, la loro casa e non vi è spazio per alcuna eccitazione a meno che non sia provocata da un agente esterno come un disastro naturale o un attacco da parte di animali feroci. Da alcune annotazioni si scopre che i membri rimasti della tribù sono i pochi sopravvissuti a un grande fuoco, un incendio dagli echi biblici che, come nel precedente romanzo, ha completamente devastato la foresta. Tra loro non vi è rancore o insofferenza, tutto il male che hanno subìto è sempre derivato da qualcosa di alieno e, fino all’arrivo dei nuovi uomini, la loro routine quotidiana non rivela alcun vero interesse dal punto di vista narrativo.

    Il gruppo, composto da Lok, Fa, Liku, Ha, Nil e il nuovo nato, è guidato da Mal, l’indiscusso e anziano leader, che è anche il custode della tradizione. Pur rappresentando la mente più brillante della tribù, al contempo costituisce il segno evidente della loro intrinseca fragilità: «Iniziarono inoltre ad accorgersi della sua debolezza, anche se non si erano ancora resi conto di quanto fosse profonda». In lui è presente una natura paradossale, l’ombra della grandezza passata che lascia spazio a evidenti limiti dalle conseguenze nefaste.

    Accanto a lui, in qualità di guida, vi è la vecchia donna, guardiana del fuoco – un elemento attorniato da un alone di preziosità e mistero – e sacerdotessa di Oa, la divinità che rappresenta la madre terra. L’idea più profonda che il popolo conserva della vita è che sia una continua creazione femminile, così come la memoria del disastro passato non è legata ad alcuna colpa, ma la perdita è vissuta come pura conseguenza di un fenomeno naturale. Oa è una madre benigna che ha partorito la terra dal suo ventre e, allargando le braccia e facendo rinascere nuovamente la natura dopo il letargo invernale, predispone tutto per i suoi protetti, regalando ai neandertaliani l’impressione che «tutto abbia aspettato loro, che Oa li abbia aspettati».

    Se il governo assume una dimensione patriarcale, la religione dei neandertaliani è eminentemente matriarcale e la visione animista della natura è in stretta connessione con il lento e calmo scorrere della vita nel mondo, la casa del popolo, e in loro stessi. Nel tentativo di trasferire una storia precristiana in termini etici riferibili al cristianesimo, Golding capovolge l’assunto del Dio paterno della Bibbia, consapevole che la donna nella condizione primitiva era fondamentale per continuare la linea genetica: «Fino a quando c’era una donna c’era la vita». Nel nome scelto per la divinità si scorge la volontaria inversione del classico epiteto del Cristo, l’Alpha e l’Omega: poiché il popolo non ha chiara coscienza dello trascorrere del tempo e della causalità, Oa diviene la fine dell’inizio, l’Omega e l’Alpha.

    Connesso al tema della natura è anche l’episodio della morte e della sepoltura di Mal, colto da febbri e tremori dopo essere caduto nell’acqua gelata del fiume. L’evento è accettato da tutti come qualcosa di naturale e, dunque, di intimamente positivo, non legato ad alcun peccato o colpa. Lo scomparso torna nel grembo della divinità, nella «calda terra presso il fuoco», e i bambini che giocano felici vicino alla tomba sono segno di un’innocenza che, anche nel confronto con la morte, non viene meno.

    L’unica idea di male che il popolo possiede è associata alla violenza. I neandertaliani sono naturalmente non belligeranti e mangiano carne solamente se l’animale è stato ucciso per cause naturali o se vittima dell’attacco di un altro predatore. Quando i protagonisti entrano in conflitto con i Sapiens percepiscono una sensazione strana, innaturale e anche il linguaggio si carica di sgomento. La loro fame non è la violenta brama di sangue dei cacciatori de Il Signore delle Mosche, ma è solamente un istinto, un bisogno: «Il popolo era magro per la fame e loro dovevano mangiare. Non amavano il sapore della carne ma dovevano mangiare».

    I neandertaliani godono dunque di una stabilità paradisiaca, di un’armonia senza tempo che induce Fa ad esclamare: «Oggi è come ieri e domani». La sentenza, un aforisma che racchiude la loro filosofia esistenziale e che rimanda a un forte senso di protezione, è anche un sarcastico presagio dell’imminente fine del popolo per mano dei nuovi arrivati.

    La caduta

    La descrizione dell’uomo naturale scaturita dalla penna di Golding è sicuramente affascinante, ma ancora più coinvolgente è il racconto del processo che porta alla disgregazione e all’annientamento della tribù dei Neanderthal.

    Già nelle prime battute del romanzo si scopre che i neandertaliani, su errato consiglio di Mal, sono emigrati troppo presto nell’entroterra e i ghiacci non si sono ancora sciolti. Le stagioni stanno dunque mutando e anche loro, a prescindere dall’arrivo dei Sapiens, iniziano a cambiare maturando i primi segni d’intelligenza; ad esempio, Fa ha una prima chiara intuizione del processo agricolo: «Ho un’immagine. Il cibo buono sta crescendo». Naturalmente «on la nostra coscienza moderna siamo dalla parte di Fa, dalla parte del progresso, avversi al conservatorismo di Lok che, se paragonato alla ragazza, denuncia una certa lentezza d’intuito: la sua è ancora la solarità di chi vive costantemente nel presente. La vecchia donna, consapevole che l’innocenza dipende dai limiti della coscienza, non vede di buon occhio quel cambiamento di cui, acutamente, scorge i primi segni, così come nota con dispiacere gli indizi di una crescente instabilità delle relazioni tra i membri del gruppo.

    Golding, con singolare intuizione, decide di sospendere, ancora per qualche capitolo, l’incontro tra i neandertaliani e i nuovi uomini. L’azione tragica è posta fuori scena e l’improvvisa sparizione di Ha è solo il primo passo verso la dissoluzione della tribù. Sebbene Lok percepisca la presenza di qualcun altro, per il momento non vi è alcun contatto, ma solo osservazione a distanza: «C’era del fumo sull’isola, c’era un altro uomo sull’isola». Chi legge inizia a comprendere che qualcosa di terribile è accaduto, ma non è ancora in grado di decifrare appieno le parole colme di ansia e paura di Fa: è la chiara indicazione della determinazione di Golding di prevenire un giudizio del lettore fino a che l’esperienza dei due tipi umani sia conclusa, fino a quando non si conosca tutto ciò che è necessario per un giudizio totalmente compassionevole.

    Nuovi segni inquietanti sconvolgono i neandertaliani, e il tronco che usano come ponte per attraversare il fiume viene distrutto dai Sapiens per ben due volte. Poi, all’improvviso, la situazione precipita. Mentre Lok è lontano dal gruppo per procacciarsi del cibo, i nuovi uomini attaccano i Neanderthal e li sterminano. Liku, una giovane ragazza, e il neonato vengono invece rapiti e portati all’accampamento degli aggressori sull’isola. Fa è l’unica sopravvissuta e, dopo essersi congiunta con Lok, i due decidono di seguire le orme dei prigionieri per andare a liberarli. Nelle tracce, un misto di latte e sangue, ritorna nuovamente il tema della perdita della purezza e del sopraggiungere del male. Lo stupore che prova Lok quando gli viene scagliata contro una freccia ricorda poi l’impossibilità per l’innocente di sperare nella continuità: ormai la caccia è aperta e l’adattamento è l’unica strategia per sopravvivere. L’incubo si fa definitivamente largo quando Lok e Fa scorgono il cadavere della vecchia donna nei pressi del fiume – la saggezza antica che soccombe al male moderno – e, colti dalla paura, non trovano altra soluzione che osservare i nuovi uomini nascosti sulla cima di un albero morto che già di per sé rappresenta un simbolo teologico “realistico”.

    L’ingresso dell’omicidio nel mondo è il punto di svolta, ciò che toglie dai loro occhi ogni traccia residua di inconsapevolezza. La cascata, l’acqua fredda e profonda del fiume e il fuoco sono infatti segni di una distruttività irreversibile che è giunta nella realtà come le iene che, nel frattempo, dissacrano la tomba di Mal. L’unità e il senso di comunità appartengono ormai al passato, sono lo spettro di un’umanità che non esiste più. Anche Lok, in un certo senso, non è più lo stesso e, nonostante quanto accaduto, mostra addirittura una sorta di combattuta attrazione nei confronti dei Sapiens: «Le altre persone con le loro molte immagini erano come l’acqua che incute timore ma, allo stesso tempo, sfida e invita l’uomo ad avvicinarsi. Era oscuramente consapevole di questa ammirazione indefinibile».

    Solo dopo aver narrato lo sconforto dei neandertaliani, Golding passa alla descrizione dei Sapiens. La scena, che occupa quasi un quarto del romanzo, è quella a cui assistono Lok e Fa dal loro nascondiglio. Lo spettacolo che si mostra ai loro occhi è paragonabile a un girone dantesco in cui si alternano grotteschi esempi di ogni vizio umano come lussuria, crudeltà e cannibalismo, un’amara dimostrazione dei benefici di un’intelligenza simile alla nostra.

    A differenza dai Neanderthal, i Sapiens indossano dei vestiti – segno di una natura percepita come estranea e da cui bisogna difendersi – e il taglio dei capelli mostra un’individualità spiccata, il desiderio di distinguersi dagli altri. Allo stesso modo gli occhi piccoli e scuri, le orecchie minute e le narici strette sono indicatori di sensi meno sviluppati, e i denti, che ricordano quelli del lupo, contribuiscono a gettare su di loro un’ombra sinistra. I nuovi arrivati, intelligenti e inventivi, costruiscono ripari contro il mondo, creano una staccionata come fortificazione, hanno delle sentinelle armate e usano manufatti offensivi come lance e coltelli. Il loro individualismo li rende spaventati, avari e orgogliosi; l’oro con cui i neandertaliani giocano incuranti viene impiegato dai Sapiens come ornamento e ad esso si accompagna un forte senso di proprietà.

    Il quadro d’insieme potrebbe portare il lettore alla convinzione che i nuovi uomini possano costituire una comunità sul modello di quella estinta dei Neanderthal, ma le differenze tra i due gruppi sono troppo profonde: Tuami, l’intellettuale, si considera migliore degli altri, così come l’intera società è governata dagli uomini, mentre le donne sono reputate inferiori. La sessualità, violenta e animale, fa il paio con il liquore e con l’ebrezza di cui, più avanti, cadono preda anche Lok e Fa. La ragazza, spettatrice di tale dissoluzione, sempre più consapevole della differenza antropologica che li divide dai nuovi arrivati, commenta perentoriamente: «Oa non li ha generati dal suo ventre».

    Anche la religione dei Sapiens è distante da quella dei neandertaliani poiché non più fondata sulla natura e la concordia, ma sulla paura e la politica della forza; è così diversa da apparire quasi una perversione della fede semplice in Oa. Marlan, lo sciamano del culto totemico del dio-cervo, il cui nome evoca il Merlino arturiano, è in grado di imporre la propria volontà solamente perché la sua figura incute timore. L’insubordinazione è infatti dietro l’angolo e quando i cacciatori tornano all’accampamento a mani vuote, nonostante gli incantesimi di Marlan, l’uomo tenta di addossare le colpe a Lok e Fa, dipinti come diavoli e orchi, nel tentativo di scongiurare la propria morte che, comunque, sembra essere solo posticipata di poco.

    Nel confronto con l’uomo nuovo i protagonisti soccombono progressivamente. Non si tratta solamente della morte fisica, ma del graduale cambiamento che ha luogo in loro. La difficile situazione in cui sono incappati – con tanto di fallimentare piano per far evadere i prigionieri – li ha trasformati, resi simili ai Sapiens: «All’improvviso Lok scoprì in lui la forza del nuovo popolo. Lui era uno di loro, non c’era niente che avrebbe potuto fare». Ma Lok e Fa, anche se mangeranno il loro cibo e berranno il loro liquore, non diventeranno mai come i Sapiens e, proprio per questo, incapaci di cogliere le sfumature di un mondo in costante cambiamento, alla fine periranno.

    Ma in questa sconfitta germina una coscienza che può essere considerata come lo scarto decisivo del romanzo, un riscatto in extremis per i neandertaliani. Lok coniuga il progresso con la pietà per lo stesso, ma al contempo, pur sinceramente dispiaciuto per il male portato nel mondo dai Sapiens, è consapevole che quella malattia è diventata anche la sua.

    Dopo la morte di Fa e la scoperta raccapricciante che il corpo di Liku è stato mangiato durante un’orgia cannibalesca, al protagonista non rimane che rassegnarsi e accettare la sconfitta. Nel mondo moderno non c’è più spazio per uno come lui e, mestamente, dopo aver cercato di entrare nella tomba di Mal, si abbandona a terra per lasciarsi morire, accovacciato in posizione fetale: Oa, come lo ha partorito, ora è pronta a riaccoglierlo come un figlio.

    L’ultimo capitolo, con una chiusa imprevedibile degna de Il Signore delle Mosche, getta una nuova luce su quanto narrato nelle precedenti pagine. Abbandonando i panni di Lok, lo sguardo del lettore segue quello del narratore in una distanza che può cogliere l’orrore di una sconvolgente rivelazione. La dinamica cacciatore-preda viene infatti sgretolata mostrando l’amara verità che anche i Sapiens stanno fuggendo da un’altra tribù a cui Marlan aveva in precedenza sottratto una bellissima fanciulla. È l’estremo e disperato tentativo di allontanare da loro il male, di scappare dai peccati commessi e dai sensi di colpa che li perseguitano: «Liku! […] Quello è il nome del demone». Lontano, all’orizzonte, tutto ciò che rimane è un’inquietante linea d’ombra di cui non si scorge la fine.

    In un delicato gioco di trame e riferimenti, di azioni e personaggi, Il destino degli eredi si sviluppa attorno all’asserzione di fondo che la crescita è diminuzione.

    Inoltre, tra le righe, compaiono echi del Conrad di Cuore di tenebra, in particolare nella denuncia spietata di una pretesa superiorità dell’uomo nuovo. Parimenti le Baccanti di Euripide è una tragedia che offre allo scrittore inglese indicazioni preziose per narrare la sconfitta della società a partire dalla sconfitta della natura umana.

    Ciononostante il libro che più fedelmente rispecchia la filosofia de Il destino degli eredi è forse I diavoli di Loudun di Aldous Huxley dove, in un passaggio, si sostiene: «Noi siamo nati con il peccato originale; ma siamo nati anche con la virtù originale, con una capacità di Grazia, […] una scintilla, un punto fine dell’anima, un frammento di coscienza non ancora caduto, che sopravvive dallo stato di primaria innocenza». Nella visione complessiva del romanzo di Golding, con netto margine rispetto alla prova precedente, il peccato – che si accompagna alla satira della moderna concezione del progresso – è trattato non come qualcosa di esclusivo e totalizzante, ma, al contrario, è possibile intravedere una traccia positiva simboleggiata da quel neonato che i Sapiens rapiscono e che, verosimilmente, cresceranno come un membro del loro gruppo. Golding non considera la condizione moderna senza speranza, ma nel puntare l’indice contro gli aspetti più nefasti e inquietanti dell’umanità lascia la porta aperta a una possibile via di fuga, quella salvezza che è mancata ai giovani naufraghi de Il Signore delle Mosche. Al di là della facile tentazione di interpretare il puer in un senso troppo marcatamente cristiano per la sensibilità dello scrittore inglese, più in generale simili considerazioni in relazione al processo evolutivo e alle possibilità a esso connesse mostrano punti di contatto con la teologia di Teilhard de Chardin.

    Il destino degli eredi, paradossalmente, è dunque soprattutto un libro sulla speranza, una storia che, oltre il peccato, il male e la violenza di cui gli esseri umani sono capaci, coglie per primo quella riconciliazione degli opposti che diventò, almeno per i romanzi immediatamente successivi, il termine principale della ricerca narrativa di Golding. Oltre il buio che avvolge il mondo, forse una luce esiste.

 

 
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