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Discussione: Anglica catholica

  1. #261
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    Hugh Ross Williamson: un laico inglese contro il “Novus Ordo”



    «Il forte è stato tradito persino da coloro che dovevano difenderlo»

    (San John Fisher)

    Ripubblicati nel 2021 dalla canadese Arouca Press in un unico volumetto intitolato The Great Betrayal. Thoughts on the Destruction of the Mass, gli opuscoli The Modern Mass e The Great Betrayal – entrambi critici nei confronti del Novus Ordo montiniano – videro la luce rispettivamente nel 1969 e nel 1970. Il loro autore, Hugh Ross Williamson (1901-1978), era un convertito al cattolicesimo, storico ed ex prelato anglicano, uno di quegli inglesi alla Evelyn Waugh o alla Michael Davies che mal sopportava le riforme liturgiche partorite dal Concilio Vaticano II. Nel 1964 il suo nome figura tra quello dei fondatori della Latin Mass Society, di cui fu il primo vice-presidente, e da allora si spese fino alla fine dei suoi giorni in difesa della Messa di sempre.

    Il primo dei due libelli, The Modern Mass, è una disamina in otto capitoletti dei mutamenti liturgici operati da Thomas Cranmer, Arcivescovo di Canterbury durante i regni di Enrico VIII ed Edoardo VI. Cranmer, che fu l’esponente di punta dell’anglicanesimo nel periodo compreso tra il 1547 e il 1553, puntò a una radicale riforma della Messa che rigettasse «la dottrina papista della transustanziazione» allo scopo di diffondere più facilmente tra il popolo inglese le idee protestanti. L’Arcivescovo era un sostenitore della giustificazione per sola Fede e, di conseguenza, negava all’Eucaristia qualsiasi valore sacramentale, considerandola un mero simbolo.

    Per completare la sua rivoluzione, Cranmer si mosse allora in tre direzioni: introdusse nella liturgia il volgare in sostituzione del latino con l’intenzione di cancellare l’idea di Messa quale sacrificio e di esaltare, all’opposto, il concetto di cena memoriale («Fate questo in memoria di me»); all’altare venne poi preferito un semplice tavolo e il Canone fu smembrato in diverse parti, tra l’altro eliminando ogni riferimento all’oblazione, al Papa, ai Santi e persino alla Madonna. Tra interpolazioni e omissioni – a volte il silenzio vale davvero più di molte parole – l’Arcivescovo riuscì infine a raggiungere il suo scopo: pervertì la coscienza di un’intera nazione, anche se non mancarono episodi di resistenza e opposizione.



    Il testo, dopo una parentesi dedicata al Concilio di Trento, termina con un avvertimento nei confronti del Novus Ordo: «La Messa tridentina, forgiata come un’arma perenne contro l’eresia, sta per essere abbandonata in favore di una nuova forma che è fin troppo simile alle eresie di Cranmer e di quelli come lui».

    The Great Betrayal, dedicato ai vescovi dell’Inghilterra e del Galles, raccoglie invece una serie di riflessioni intorno all’ipotesi dell’invalidità del nuovo messale. Meno sistematico rispetto al contributo precedente, il pamphlet è inteso da Ross Williamson non come un giudizio definitivo sulla questione, ma semplicemente come un personalissimo contributo al dibattito che si era aperto solo qualche mese prima con il Breve esame critico del Novus Ordo Missae dei Cardinali Bacci e Ottaviani.

    A partire dalla constatazione che da sempre la principale battaglia tra il cattolicesimo e le forze della sovversione si è combattuta sul terreno della Messa, l’autore, seguendo un percorso storico-teologico, mette innanzitutto alla berlina il culto della “Chiesa primitiva” tanto caro ai protestanti del passato quanto ai novatori del Concilio; questi ultimi, infatti, hanno spinto sull’acceleratore delle riforme proprio in nome del ritorno a una presunta purezza originaria: «Oltre a essere evidentemente stupida […], una simile teoria era pure palesemente disonesta. Non comportava che la pratica primitiva venisse seguita in ogni dettaglio. Comportava solamente che dalla pratica primitiva venissero selezionati quei dettagli che risultavano utili a screditare gli usi contemporanei».



    In seconda battura Ross Williamson se la prende con l’alterazione del Canone e, in particolare, con la nuova formula della consacrazione del vino: «Il Sangue di Cristo versato per tutti» in sostituzione del tradizionale «per molti» stona per la sua evidente eresia. Queste e altre storture generate dall’approccio ecumenico dell’architetto delle riforme liturgiche, il Cardinale Annibale Bugnini, sono ciò che rendono il Novus Ordo di Paolo VI invalido.

    Nonostante occasionali refusi e argomentazioni non sempre condivisibili – difficile, ad esempio, sostenere che la riforma della Messa non abbia nulla a che spartire con l’infallibilità del Papa oppure che l’eterodossia del Canone II del nuovo rito invalidi automaticamente gli altri –, i due scritti di Ross Williamson meritano ancora oggi di essere letti e meditati, se non altro per la straordinaria lucidità con cui delineano il problema fondamentale del Novus Ordo, ovvero quello di una Messa che pare studiata per nascondere con imbarazzo ciò che la Chiesa ha insegnato in due millenni di storia. La medesima preoccupazione venne espressa nel 1967 pure da Jacques Maritain, un incendiario divenuto nel frattempo pompiere, quando scrisse che «i cristiani sono in ginocchio davanti al mondo». Con il senno di poi, difficile non dare loro ragione.

  2. #262
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    [Il mercoledì di Padre Brown] “Il segreto di Flambeau”: il perbenista e il cristiano



    Continua con questo nuovo articolo la rubrica infrasettimanale di Radio Spada dedicata all’approfondimento e al commento dei racconti di Padre Brown, il celebre sacerdote detective nato dalla penna di G. K. Chesterton, tra i più grandi intellettuali cattolici del Novecento. I racconti, a metà strada tra investigazione e apologetica, hanno per protagonista il buffo e goffo Padre Brown, interessato sia a risolvere i crimini che a salvare le anime dei colpevoli.

    Per una disamina introduttiva sulla figura di Padre Brown – protagonista pure di vari film, opere teatrali, sceneggiati per la televisione e, addirittura, fumetti – si veda il breve articolo a questo link.

    Per le precedenti puntate… da “L’innocenza di Padre Brown” (1911): 1. La Croce azzurra / 2. Il giardino segreto / 3. Il passo strano / 4. Le stelle volanti / 5. L’uomo invisibile / 6. L’onore di Israel Gow / 7. La forma errata / 8. Le colpe del Principe Saradine / 9. Il martello di Dio / 10. L’occhio di Apollo / 11. All’insegna della spada spezzata / 12. I tre strumenti di morte. Da “La saggezza di Padre Brown” (1914): 1. L’assenza del Signor Glass / 2. Il paradiso dei ladri / 3. Il duello del dottor Hirsch / 4. L’uomo nel passaggio / 5. L’errore della macchina / 6. La testa di Cesare / 7. La parrucca violacea / 8. La fine dei Pendragon / 9. Il Dio dei Gong / 10. L’insalata del Colonnello Cray / 11. Lo strano delitto di John Boulnois / 12. La fiaba di Padre Brown. Da “L’incredulità di Padre Brown” (1926): 1. La resurrezione di Padre Brown / 2. La freccia del cielo / 3. L’oracolo del cane / 4. Il miracolo della Mezzaluna / 5. La maledizione della croce d’oro / 6. Il pugnale alato / 7. Il destino dei Darnaways / 8. Lo spettro di Gideon Wise. Da “Il segreto di Padre Brown” (1927): 1. Il segreto di Padre Brown / 2. Lo specchio del magistrato / 3. L’uomo dalle due barbe / 4. La canzone dei pesci volanti / 5. L’alibi degli attori / 6. La sparizione di Vaudrey / 7. Il peggior delitto del mondo / 8. La Luna Rossa di Meru / 9. Il lutto del signore di Marne

    Il segreto di Flambeau (The Secret of Flambeau), epilogo della raccolta Il segreto di Padre Brown (1927), riprende esattamente da dove si era interrotto il primo racconto del volume, quello che ne dà il titolo, costituendo con esso una sorta di dittico a cornice delle altre storie. Ancora una volta non si ha a che fare con un’indagine vera e propria; si tratta piuttosto di una riflessione sulla psicologia del criminale e sul male.

    Prosegue il confronto tra il prete detective, lo scettico Grandison Chace e Duroc (alias Flambeau). Padre Brown torna sul proprio originalissimo metodo investigativo, quasi un esercizio spirituale, che consiste nel mettersi nei panni – ma forse sarebbe meglio dire nell’anima – del colpevole: «La verità è che qualcun altro ha recitato la parte dell’assassino prima di me e mi ha privato della vera esperienza. Ero una specie di sostituto: sempre in uno stato tale da essere pronto a impersonare l’assassino. Comunque, è sempre stata mia cura conoscere perfettamente la parte. Ciò che voglio dire è che, quando cercavo di immaginare lo stato mentale in cui sarebbe stata compiuta una cosa simile, mi rendevo conto che l’avrei compiuta solo in determinate condizioni mentali. A questo punto, ovviamente, sapevo chi l’aveva realmente compiuta, e generalmente non si trattava della persona più ovvia».

    Secondo il sacerdote, infatti, non è l’idealista o il rivoluzionario, «ma è l’uomo rispettabile che commette ogni sorta di crimini per salvare la propria rispettabilità» (come dimostra il caso descritto nel racconto Lo specchio del Magistrato). Il pragmatico, «che vive davvero solo per questo mondo e non crede in nient’altro, il cui successo e piacere terreno sono tutte le cose che è davvero in grado di cogliere dal nulla, quello è l’uomo che davvero farebbe qualunque cosa quando si trova in pericolo di perdere l’intero mondo e di non poter salvare nulla».

    Ecco perché chi commette un delitto generalmente è una persona misera, con così poca fantasia da tramutare un particolare della vita in un tutto da ottenere a qualsiasi costo: «Voglio dire crimini banali come il furto di gioielli, come quella faccenda della collana di smeraldi o del Rubino di Meru, o del pesce rosso artificiale. La difficoltà in quei casi è che è necessario rendere meschina la propria mente. I grandi impostori, che sviluppano le grandi idee, non fanno cose così ovvie. […] Per capire, è necessario rendere meschina la mente. È estremamente difficile farlo: è come mettere a fuoco un dettaglio sempre più piccolo e importante con una macchina fotografica traballante. […] Nel momento in cui mi rendo conto delle intenzioni di una mente ristretta, so già dove cercare il colpevole. […] I criminali dalle menti ristrette sono sempre piuttosto convenzionali. Diventano criminali per pura convenzione. Ci vuole parecchio tempo per provare simili rozzi sentimenti. Ci vuole un notevole sforzo d’immaginazione per essere tanto convenzionali. Per desiderare tanto un piccolo oggetto insignificante come quello. Però puoi farlo… puoi avvicinarti sempre più. Cominci, pensando di essere un bambino avido, a come potresti rubare un dolce nel negozio, al fatto che c’è un dolce particolare che desideri… Poi bisogna eliminare la poetica fanciullesca, spegnere le luci fiabesche che brillano sul negozio di dolci, e immaginare di conoscere veramente il mondo e il valore di mercato dei dolci… contrarre la propria mente come la messa a fuoco di una macchina fotografica: quindi la cosa prende forma e diventa più chiara… e poi, improvvisamente, appare!»

    A questo punto Chace, tanto affascinato quanto inquietato dai ragionamenti di Padre Brown, domanda se, con l’approccio da lui predicato, non vi sia il rischio di diventare troppo tolleranti con i criminali. La risposta, naturalmente, non può che essere negativa: «Io so che, invece, è proprio l’opposto. Ciò risolve l’intero problema del peccato, ed anticipa all’uomo il suo rimorso». Il sacerdote continua sottolineando la distanza siderale che separa il perbenismo del bacchettone di turno, solo indignazione e livore, dal sano realismo del cristiano, che sa cos’è il male e, allo stesso tempo, riconosce che nessuno è esente dalla tentazione di commetterlo: «Vi sono due metodi per respingere il diavolo, e la differenza fra i due è forse la più profonda frattura nella religione moderna. L’uno è di avere orrore perché è così lontano, l’altro è di averne orrore perché è così vicino. E vizio e virtù non sono così divisi quanto queste due virtù […]. Voi potete pensare che un delitto è orribile perché non potreste mai commetterlo. Io, invece, lo penso orribile, appunto perché potrei commetterlo».

    Quando l’americano tenta di ribattere, sostenendo che nessun criminale «potrebbe venir corretto con questo metodo», Duroc, fino a quel momento silenzioso, si alza in piedi e rivela all’ospite di essere il famoso ladro Flambeau, ancora ricercato dalla polizia di mezzo mondo. Egli è la dimostrazione di come il modus operandi di Padre Brown sia tutt’altro che infruttuoso: «Non ho forse ascoltato i sermoni dei giusti e visto il freddo sguardo delle persone rispettabili? Non sono forse stato catechizzato con quello stile elevato e distaccato, non mi è stato forse chiesto come fosse possibile per qualcuno cadere così in basso, e farmi dire che nessuna persona decente avrebbe mai potuto nemmeno sognare una simile depravazione? Credete che tutto ciò che mi hanno fatto non mi abbia causato altro che riso? Solo il mio amico qui mi disse che sapeva esattamente perché rubavo, e da allora non l’ho più fatto».

  3. #263
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    Hugh Ross Williamson: an English Layman against the New Mass

    Luca Fumagalli

    Reprinted in 2021 by Arouca Press in a single volume entitled The Great Betrayal. Thoughts on the Destruction of the Mass, the pamphlets The Modern Mass and The Great Betrayal – both critical of Montini’s Novus Ordo – saw the light of day in 1969 and 1970 respectively. Their author, Hugh Ross Williamson (1901-1978), was a convert to Catholicism, historian and former Anglican clergyman, one of those English Catholics like Evelyn Waugh or Michael Davies who disapproved of the liturgical reforms of the Second Vatican Council. In 1964 he was one of the founders of the Latin Mass Society, of which he was the first vice-president, and from then on he always defended the traditional Mass.

    The first of the two pamphlets, The Modern Mass, is an examination of the liturgical changes made by Thomas Cranmer, Archbishop of Canterbury during the reigns of Henry VIII and Edward VI. Cranmer, who was the leading exponent of Anglicanism in the period between 1547 and 1553, wanted to create a Mass that rejected «the papist doctrine of transubstantiation» in order to spread Protestant ideas more easily among the English people. The Archbishop was a supporter of justification by faith alone and, consequently, considered the Eucharist a mere symbol.

    To complete his revolution, Cranmer made three reforms: he introduced the vernacular in the liturgy to replace Latin in order to uproot the idea of Mass as a sacrifice and to exalt the concept of memorial supper; a simple table was then preferred to the altar and the Canon was dismembered in various places, eliminating any reference to the Oblation, to the Pope, to the Saints or even to Our Lady. Between interpolations and omissions – sometimes silence is really worth more than many words – the Archbishop finally managed to achieve his purpose: he perverted the conscience of an entire nation, even if there were episodes of resistance and opposition.

    The text, after a parenthesis dedicated to the Council of Trent, ends with a warning against the Novus Ordo: according to Ross Williamson, the Tridentine Mass, forged as a perennial weapon against heresy, is about to be abandoned in favour of a new form that is all too similar to the heresies of Cranmer and those like him.

    The Great Betrayal, dedicated to the bishops of England and Wales, by contrast presents a series of reflections on the hypothesis of the invalidity of the new Missal. Less systematic than the previous pamphlet, this one is intended by Ross Williamson not as a definitive judgment on the question, but simply as a very personal contribution to the debate that had opened only a few months earlier with the public attack against Novus Ordo by Cardinals Bacci and Ottaviani.

    Starting from the observation that the main battle between Catholicism and the forces of subversion has always been fought with regard to the Mass, the author, following a historical-theological path, ridicules the cult of the “primitive Church”, so dear to the Protestants of the past, and likewise to the innovators of the Council. Secondly, Ross Williamson criticizes the alteration of the Canon and, in particular, the new formula of the consecration of wine: “The Blood of Christ poured out for all” to replace the traditional “for many” jars on account of its evident heresy. These and other distortions generated by the ecumenical approach of the architect of the liturgical reforms, Cardinal Annibale Bugnini, are what make Paul VI’s Novus Ordo invalid.

    Despite occasional mistakes and arguments not always acceptable – it is difficult, for example, to argue that the reform of the Mass has nothing to do with the infallibility of the Pope or that the heterodoxy of Canon II of the new rite automatically invalidates the others – the two pamphlets by Ross Williamson still deserve to be read today for the extraordinary clarity with which they outline the fundamental problem of the Novus Ordo, namely that of a Mass that seems to have been designed to hide with embarrassment what the Church has taught for two thousand years. The same concern was also expressed in 1967 by Jacques Maritain, when he wrote that «Christians are on their knees before the world». In hindsight, it’s hard not to agree with them.

  4. #264
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    Il destino tragico di uno scrittore: magia ed esoterismo nella vita di Oscar Wilde



    «… la nota di sventura che, come un filo viola,

    percorre la trama del Dorian Gray»

    (Oscar Wilde, De Profundis)

    Nina Antonia, saggista e scrittrice, è una dei tanti amatori che compongono la folta schiera dei cultori del decadentismo britannico. Del resto, proprio perché generalmente snobbati dagli accademici, gli autori dell’universo fin de siècle hanno spesso trovato i loro interpreti migliori al di fuori delle università.

    Negli ultimi anni pure svariati saggisti cattolici hanno mostrato un crescente interesse per questi scrittori, sovente inteso a esaltare la dimensione spirituale delle loro biografie e dei loro lavori di contro a interpretazioni ideologiche purtroppo difficili da scalfire (emblematico, in tal senso, è il saggio The Unmasking of Oscar Wilde di Joseph Pearce che, smontando ogni presupposto per fare di Wilde un’icona LGBT, svela i retroscena del diuturno legame tra lo scrittore irlandese e la Chiesa). Si tratta, in altri termini, di una fuga dallo stereotipo e dagli aneddoti macchiettistici per tentare di restituire una visione a tutto tondo di carriere che, nella maggior parte dei casi, furono segnate da tremende contraddizioni.

    Naturalmente quest’opera meritoria non è prerogativa esclusiva dei cattolici, ma riguarda, per così dire, tutti gli studiosi di buona volontà. Proprio in quest’ultima categoria si colloca Nina Antonia che nel 2018 ha dato alle stampe Incurable, un buon saggio, sebbene non esente da difetti, dedicato a Lionel Johnson, in grado di gettare nuova luce su alcuni aspetti controversi della biografia del poeta (il libro è stato eclissato solo di recente dal migliore Lionel Johnson. Poetry and Prose dell’amico e apologeta cattolico Robert Asch).

    Tre le altre pubblicazioni della Antonia a tema decadentismo spicca un curioso libretto di una trentina di pagine, intitolato A Purple Thread: The Supernatural Doom of Oscar Wilde (2020), impreziosito dalle illustrazioni di Nathaniel Winter-Hébert.

    Come da sottotitolo, A Purple Thread racconta in estrema sintesi la sfortunata vita di Wilde secondo una prospettiva “soprannaturale”, ovvero mettendone in risalto gli aspetti legati alla magia, al folklore, al mistero e all’esoterico in accordo con quelli che sono gli interessi della casa editrice della plaquette, legata alla rivista “Fiddler’s Green”. Ne scaturisce una narrazione di sicura presa, tanto breve quanto godibile, che tratta alcuni aspetti dell’esistenza dello scrittore irlandese normalmente poco considerati. Quantunque la chiave di lettura sia evidentemente parziale – perché nell’etichetta “soprannaturale” l’autrice non comprenda il cattolicesimo rimane un arcano – e non possa bastare, da sola, a esaurire la complessità di quello che fu, ed è ancora, uno degli uomini più controversi nella storia della letteratura occidentale, A Purple Thread offre comunque del materiale utile per contribuire a ridare tridimensionalità a Wilde, sia come uomo che come artista.



    Sia William, il padre dello scrittore, che la madre, Lady Jane Francesca Agnes – che si firmava Speranza – furono studiosi del folklore irlandese e pubblicarono svariate opere sull’argomento. Non a caso il loro figlio venne battezzato Oscar Fingal O’Flahertie Wills Wilde: i primi due nomi, Oscar e Fingal, erano stati presi direttamente dai Canti di Ossian di Macpherson, un’opera nata dalla rielaborazione delle antiche liriche gaeliche.

    Anche la dimora estiva della famiglia era legata, in qualche modo, alle leggende. Era situata a Moytura, sulle sponde del Lough Corrib, dove, secondo la mitologia irlandese, si trovava Tír na nÓg, la terra dell’eterna giovinezza, e dove il popolo dei Tuatha De Danann, guidati dal loro eroe Lugh, si scontrò con i fomoriani, il cui campione, il gigante Balor, possedeva un “occhio malefico” in grado di annientare le persone con semplice sguardo.

    L’infanzia del piccolo Oscar fu dunque caratterizzata da un forte sostrato celtico che si mantenne intatto anche negli anni successivi, quando la sua immaginazione poetica si riorientò verso i più assolati lidi della Grecia e dell’Italia. Una dimostrazione sono i racconti dedicati ai giovani lettori, vere e proprie parabole di redenzione.

    Nella famiglia Wilde non mancava nemmeno un lato più “gotico”: Lady Speranza aveva scritto un romanzo nero intitolato Sidonia the Sorceress e un prozio di Oscar, Charles Maturin, era l’autore del famoso Melmoth the Wanderer, l’inquietante storia di un uomo che vende la propria anima al demonio in cambio di 150 anni di piacere. Il libro è una delle fonti a cui Wilde attinse per Il ritratto di Dorian Gray, quasi una premonizione della sua stessa rovina, e dopo la scarcerazione, esiliato in Francia, adottò lo pseudonimo di Sebastian Melmoth, un’allusione al santo e al peccatore.

    Pure tra i frequentatori di casa Wilde a Dublino vi erano cultori del “gotico” tra cui Sheridan Le Fanu, creatore dell’affascinante Carmilla, un vampiro al femminile che spianò la strada al Dracula di Stoker.



    Sul versante della massoneria, Wilde attraversò una breve fase di fascinazione ai tempi dell’università divenendo membro dell’Apollo University Lodge di Oxford. Constance Lloyd, la moglie, nutriva invece una profonda passione per l’occulto, un interesse che la portò ad avvicinarsi all’Hermetic Order of the Golden Dawn e alla Theosofic Society. Entrambi ebbero inoltre modo di consultare a più riprese la popolare indovina Mrs. Robinson, che Oscar aveva simpaticamente ribattezzato «la Sibilla di Mortimer Street».

    Per lo scrittore irlandese il proverbiale inizio della fine coincise con l’incontro con quello che sarebbe diventato il suo amante più celebre, Lord Alfred Douglas, detto “Bosie”, ultimo rampollo di una famiglia aristocratica funestata da suicidi e da episodi di follia brutale (per ironia della sorte in quel periodo Wilde prese l’abitudine di indossare un anello a forma di scarabeo, in stile egiziano, simbolo di creazione di resurrezione).

    Nel 1893, invitato a una festa in cui era presente il famoso astrologo Cherio, si fece leggere da quest’ultimo il palmo delle mani ed ebbe così il primo indizio del tragico destino che lo attendeva: la mano sinistra profetizzava successo, mentre la destra era quella di «un re che sarebbe stato esiliato». Anche Mrs. Robinson – che più tardi gli avrebbe predetto «un lungo viaggio» nonché il trionfo nel processo contro il Marchese di Queensberry, padre di Douglas – almeno in un’occasione non lo tranquillizzò affatto: «Vedo una vita brillante fino a un certo punto. Poi scorgo un muro, e dietro di esso il nulla».

    Mentre si trovava nel carcere di Reading, la notte in cui la madre morì Wilde ebbe uno strano sogno premonitore: la donna entrava nella sua cella, ma si non voleva togliere né il cappotto né il cappello. Frattanto Douglas, al sicuro in Francia, veniva a sapere dalla nonna Fanny, reduce da una seduta spiritica, che secondo il medium suo nipote «era circondato da potenti nemici», ma che, al contempo, «aveva buoni amici nel mondo spirituale».

    Dopo la liberazione dello scrittore, non passò molto tempo prima che lui e Douglas tornassero a frequentarsi. Per un periodo risiedettero insieme a Napoli, vivendo in affitto a Villa Giudice. Per liberarsi dai ratti che infestavano la casa, un problema diventato insopportabile, arrivarono all’estremo di convocare una strega, a detta di Wilde «una sacerdotessa meravigliosa e potente».



    A Parigi, il 7 aprile 1898, lo scrittore sognò Constance e capì che era morta. Quando, due anni dopo, anche per lui venne il momento di rendere l’anima al Creatore, un Wilde in stato di semi-coscienza confidò di essersi visto mentre banchettava con i morti. L’amico Reggie Turner, al suo capezzale, prontamente ribatté: «Sono sicuro che tu eri l’anima della festa».

    Dopo la scomparsa di Wilde la sua “maledizione” sembrò trasferirsi su Lord Douglas che, fino alla fine dei suoi giorni, venne perseguitato dal fantasma dell’amante. Indipendentemente da quello che Bosie fece per rifarsi una vita – la conversione al cattolicesimo, il matrimonio, il figlio e la direzione di due periodici – ancora oggi è ricordato esclusivamente per essere stato la causa principale della tragedia della rovina irlandese (due dei suoi più virulenti critici del tempo furono lo scrittore Arthur Machen e il tristemente noto Aleister Crowlay, entrambi ex membri della Golden Dawn).

    Ed è così, con un accenno al mito immortale di Wilde e al silenzio che, di contro, circonda l’umile tomba di Lord Douglas, che si chiude A Purple Thread.

  5. #265
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    [Il mercoledì di Padre Brown] “Lo scandalo di Padre Brown”: un idillio familiare che termina in gloria



    di Luca Fumagalli

    Continua con questo nuovo articolo la rubrica infrasettimanale di Radio Spada dedicata all’approfondimento e al commento dei racconti di Padre Brown, il celebre sacerdote detective nato dalla penna di G. K. Chesterton, tra i più grandi intellettuali cattolici del Novecento. I racconti, a metà strada tra investigazione e apologetica, hanno per protagonista il buffo e goffo Padre Brown, interessato sia a risolvere i crimini che a salvare le anime dei colpevoli.

    Per una disamina introduttiva sulla figura di Padre Brown – protagonista pure di vari film, opere teatrali, sceneggiati per la televisione e, addirittura, fumetti – si veda il breve articolo a questo link.

    Per le precedenti puntate… da “L’innocenza di Padre Brown” (1911): 1. La Croce azzurra / 2. Il giardino segreto / 3. Il passo strano / 4. Le stelle volanti / 5. L’uomo invisibile / 6. L’onore di Israel Gow / 7. La forma errata / 8. Le colpe del Principe Saradine / 9. Il martello di Dio / 10. L’occhio di Apollo / 11. All’insegna della spada spezzata / 12. I tre strumenti di morte. Da “La saggezza di Padre Brown” (1914): 1. L’assenza del Signor Glass / 2. Il paradiso dei ladri / 3. Il duello del dottor Hirsch / 4. L’uomo nel passaggio / 5. L’errore della macchina / 6. La testa di Cesare / 7. La parrucca violacea / 8. La fine dei Pendragon / 9. Il Dio dei Gong / 10. L’insalata del Colonnello Cray / 11. Lo strano delitto di John Boulnois / 12. La fiaba di Padre Brown. Da “L’incredulità di Padre Brown” (1926): 1. La resurrezione di Padre Brown / 2. La freccia del cielo / 3. L’oracolo del cane / 4. Il miracolo della Mezzaluna / 5. La maledizione della croce d’oro / 6. Il pugnale alato / 7. Il destino dei Darnaways / 8. Lo spettro di Gideon Wise. Da “Il segreto di Padre Brown” (1927): 1. Il segreto di Padre Brown / 2. Lo specchio del magistrato / 3. L’uomo dalle due barbe / 4. La canzone dei pesci volanti / 5. L’alibi degli attori / 6. La sparizione di Vaudrey / 7. Il peggior delitto del mondo / 8. La Luna Rossa di Meru / 9. Il lutto del signore di Marne / 10. Il segreto di Flambeau

    Lo scandalo di Padre Brown (The Scandal of Father Brown) è il racconto d’apertura dell’omonima raccolta, la quinta e ultima dedicata alle avventure del sacerdote investigatore, che vide la luce nel 1935, un anno prima della scomparsa di G. K. Chesterton.

    Ancora una volta il lettore si trova davanti a una storia ben scritta, surreale e strampalata al punto giusto. Alcuni passaggi, come quello dedicato al confronto tra un uomo con un bastone e uno con un ombrello, vengono deformati dalla penna dell’autore fino a raggiungere vette di puro lirismo (testimoniate pure nel finale). Del resto la satira chestertoniana non è mai svilimento grottesco e presuntuoso, ma, all’opposto, è esaltazione di quella epicità gaia che è possibile scorgere, quasi «a miracol mostrare», persino dietro i fatti più banali e dietro i personaggi più sbiaditi e ordinari.

    Il primo a dimostrarlo è lo stesso Padre Brown, le cui straordinarie abilità sono ben nascoste dietro un aspetto insignificante. Anche in questo racconto Chesterton non perde occasione per ribadirlo: «Guardò la stanza e non vi scorse alcun segno di una vita meno vegetale degli alberi d’arancio, tranne una specie di grosso fungo nero, che riconobbe per il cappello di un qualche prete locale, che fumava stolidamente un sigaro, e aveva per il resto l’aspetto altrettanto stagnante di un qualunque vegetale. Osservò per un momento quei lineamenti rozzi e privi d’espressione, notando la grossolanità di quel tipo contadino da cui i preti provengono così spesso nei paesi latini, e specialmente nell’America Latina, e abbassò un poco la voce, ridendo». In un altro passaggio, poi, si sottolinea come «l’ombrello nuovo e strettamente arrotolato» di uno dei protagonisti non abbia nulla a che spartire con quello del sacerdote, vecchio e logoro. Infine Padre Brown svela pure una certa simpatia per il “distributismo” – quella filosofia economica alternativa al capitalismo e al comunismo, cara a Chesterton e all’amico Belloc, che teorizzava la ripartizione dei mezzi di produzione nel modo più ampio possibile fra la popolazione – quando rivela al suo interlocutore di stare leggendo un volume intitolato L’economia dell’usura.

    A difettare ne Lo scandalo di Padre Brown è piuttosto la dimensione investigativa, tanto che il caso trattato offre al lettore decisamente pochi brividi. L’incipit confuso apre le porte a una trama insipida, non priva di acuti, ma nell’insieme poco riuscita. La sensazione è che Chesterton si sia limitato a costruire uno sfondo narrativo per mandare in scena un attacco contro la scarsa affidabilità dei giornalisti – la storia, a partire dal titolo, si occupa di una di quelle che oggi si chiamerebbero fake news – e contro i pregiudizi di certi anglosassoni che considerano la loro cultura quella superiore e che guardano con disprezzo ai popoli del sud.

    Lo scandalo di Padre Brown ruota attorno alla sconsiderata avventura galante di Hypatia Potter, un’affascinante americana, una «di quegli esseri che irradiava la sua personalità». A quanto pare la Potter, fino a quel momento fedele al marito, un rispettabilissimo uomo d’affari, sta portando avanti una relazione clandestina con il losco poeta Rudel Romanes, noto al grande pubblico per la sua spregiudicata condotta di vita: «Lui era tipo da essere paragonato a una cometa, essendo chiomato e ardente; la prima cosa risultava dai suoi ritratti, la seconda dalla sua poesia. Era anche distruttivo: la coda della cometa era rappresentata da una serie di divorzi, che alcuni chiamavano il suo successo come innamorato, e altri il suo ripetuto fallimento come marito». Un giornalista, Agar P. Rock, mosso dall’indignazione «per gli atteggiamenti affettati con i quali il giornalismo moderno e il pettegolezzo tentavano di confondere il giusto con l’erroneo», decide di partire alla volta del Messico, dove i Potter hanno preso alloggio in un albergo, nel tentativo di convincere la bella Hypatia a stare lontana da Romanes. Lì incontra Padre Brown, e quando scopre che il prete ha prestato la propria stanza da letto alla Potter per fuggire con l’amante, per telefono detta alla redazione un pezzo infuocato, imbastendo una storia da romanzo gotico fatta di passioni esplosive e di preti votati al male. Peccato, però, che le cose non stiano così: l’uomo aitante con cui la Potter è fuggita è in verità sua marito, mentre l’insignificante e collerico ometto che Rock aveva scambiato per Mr. Potter non è altri che Romanes (si tratta perciò di un vero «idillio familiare che termina in gloria»). Al giornalista non resta che rettificare quanto dettato alla redazione, ma ormai è troppo tardi e la notizia ha già fatto il giro del mondo: «La verità è sempre in ritardo di mezz’ora rispetto alla calunnia e nessuno può sapere dove e quando la raggiungerà». Per troppi Padre Brown è, e sempre sarà, «il prete rovina famiglie».

    Al di là della falsa notizia, come aveva fatto il sacerdote a capire immediatamente la vera identità di Romanes e di Mr. Potter? «La verità è che io non sono un romantico», dice il sacerdote rivolgendosi a Rock, «e lei lo è. Per esempio, vede qualcuno che ha un aspetto poetico, e stabilisce che è un poeta. Sa che aspetto ha la maggioranza dei poeti? Che tremenda confusione fu creata dalla coincidenza di tre aristocratici dai bei lineamenti al principio dell’Ottocento: Byron, Goethe e Shelley! Mi dia retta: generalmente un uomo può scrivere “La bellezza ha posato le sue labbra fiammeggianti sulle mie”, o quant’altro ha scritto quel signore, senza essere dotato di una particolare bellezza. Inoltre, si rende conto di come in genere dev’essere “vecchio” un uomo quando la sua fama ha girato il mondo? Watts dipinse Swinburne con un’aureola di capelli, ma Swinburne era già calvo prima che la maggior parte dei suoi ultimi ammiratori americani o australiani avesse sentito parlare dei suoi riccioli neri. Lo stesso dicasi per D’Annunzio. Romanes ha veramente ancora una bella testa, come vedrà se la guarderà da vicino; ha l’aspetto di un intellettuale, e lo è. Disgraziatamente, come molti altri intellettuali, è uno sciocco. Si è lasciato rovinare dall’egoismo e dalle preoccupazioni per la sua digestione. Cosicché l’ambiziosa americana, che pensava che fuggire con un poeta sarebbe stato come assurgere all’Olimpo con le Nove Muse, trovò che un giorno o due di questa vita le era bastato. E quando il marito venne a cercarla e mise l’assedio all’albergo, fu ben contenta di tornare da lui».

    Più avanti Padre Brown rincara la dose: «Lei maledice le stelle del cinema e mi dice che odia le fantasie romantiche. Crede che la stella del cinema che si sposa per la quinta volta, sia indotta in errore da un sentimento romantico? Quella gente è molto pratica: più pratica di lei. Dice che ammira il semplice, solido uomo d’affari. Crede che Rudel Romanes non sia un uomo d’affari? Non capisce che lui sapeva, come lo sapeva lei, i vantaggi reclamistici di quest’ultima grande avventura con una famosa bellezza? Sapeva molto bene che la sua presa non era molto sicura […]. Ma quello che voglio dire, e ripetere, è che ci sarebbero molto meno scandali se la gente non idealizzasse il peccato e non posasse da peccatore. Questi poveri Messicani può darsi che a volte vivano come bestie, o meglio pecchino come uomini, ma non sbandierano gli Ideali».

    Un altro difetto di Rock è quello di credere che i popoli latini siano tutti invariabilmente molli e corrotti, almeno fino a quando Padre Brown gli fa educatamente notare che l’Inghilterra deve tutto a Roma: «Bene, ci fu un meridionale, di nome Giulio Cesare. Finì ucciso in un tafferuglio; come sa, questi meridionali usano sempre il coltello. E ce ne fu un altro di nome Agostino, che portò il cristianesimo nella nostra piccola isola; e veramente non credo che avremmo avuto molta civiltà senza quei due».

    Nell’epilogo, al netto delle calunnie che stanno circolando sul suo conto, il sacerdote detective è brillantemente immortalato mentre «continua a camminare con il suo passo pesante e il suo ombrello sdrucito lungo le vie della vita, apprezzando la maggior parte della gente, accettando il mondo come compagno di viaggio, ma mai come giudice».

  6. #266
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    A Chesterton Admirer named Graham Greene



    Luca Fumagalli

    Although Graham Greene never hid the deep love he had for the works of G. K. Chesterton, it is undeniable that there are enormous differences between the two writers.

    Chesterton belonged to the group of English intellectuals who, at the beginning of the 20th century, found in the Church of Rome an effective barrier to rampant nihilism. His apologetic spirit was based on a strong faith, the exact opposite of Greene’s “agnostic” Catholicism. However, there is no lack of important analogies between the two: Greene, for example, was a relative on his mother’s side of Robert Louis Stevenson – to whom Chesterton devoted a biographical essay – and in some ways it can be said that his novels are just a cross between Stevenson’s taste and Chesterton’s, where adventure, exoticism and paradox abound.

    Certainly there is a deeper psychological reason that justifies Greene’s attraction to Chesterton. In an interview for The Observer, published in the issue of March 12, 1978, describing Chesterton as «another underestimated poet», Greene even compared him to T. S. Eliot. Nothing like the joy and innocence of Chestertonian poetry contrasts so dramatically with the works of Greene. Perhaps the latter interpreted it almost as an antidote to his visceral pessimism. Probably reading Chesterton was, for him, also a way of observing the world from an alternative and enriching point of view.

    Among other things, it should be noted that Greene converted to Catholicism only after meeting Vivien, his future wife, who herself had recently been received into the Church thanks to the reading of the works of Chesterton, which are fascinating and full of good humor (Chesterton, who was a family friend, wrote an introduction to The Little Wings, a collection of poetry and prose Vivien had published when she was only fifteen).

    In life, the place of the possible, certain seemingly unlikely affinities can arise. The one between Graham Greene and G. K. Chesterton, between the cantor of dissolution and the lover of existence, is certainly one of these.

  7. #267
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    Un arazzo delle Orcadi: l’anima delle isole, tra tradizione e fede, in un libro di George Mackay Brown



    di Luca Fumagalli

    Continua con questo articolo l’approfondimento sulla vita e le opere dello scrittore scozzese George Mackay Brown (1921-1996), tra gli autori più interessanti e originali del panorama letterario cattolico del Novecento.

    Per i contributi precedenti:

    Il bardo delle Orcadi: le opere e i giorni di George Mackay Brown
    «Una bellezza e una verità senza prezzo»: la conversione di George Mackay Brown, tra i più grandi autori scozzesi del XX secolo
    Un canto per le Orcadi: sfogliando l’autobiografia di George Mackay Brown, poeta del radicamento
    La comunità tradizionale e la lunga ombra del progresso nichilista: leggendo “Greenvoe”, il primo romanzo di George Mackay Brown
    “Magnus” di George Mackay Brown: note a margine di un capolavoro della letteratura cattolica scozzese
    “Vinland, l’ultimo viaggio” di George Mackay Brown: la conversione dei vichinghi in un romanzo di navi e di fede
    “Lungo l’oceano del tempo”: il ritorno al reale in un romanzo dello scozzese George Mackay Brown
    “The Tarn and the Rosary”: la poesia e la fede in un racconto di George Mackay Brown
    Un racconto d’inverno: il mistero del Natale secondo George Mackay Brown
    “In quella grotta” di George Mackay Brown: le radici e la memoria in uno splendido romanzo per ragazzi

    An Orkney Tapestry è un libro seminale, un punto di svolta nella carriera di George Mackay Brown (1921-1996), dove trovano una prima elaborazioni temi quali l’eroismo norreno, il cattolicesimo pre-riforma, il calvinismo e la critica al mito del progresso, che varranno ampiamente ripresi e sviluppati dallo scozzese nelle sue opere successive.

    Nel 1967, quando la casa editrice londinese Victor Gollancz commissionò a Brown un libro sulle Orcadi, il poeta di Stromness accolse di buon cuore la proposta: aveva già dato alle stampe un paio di raccolte poetiche e due volumi di racconti, ma era ancora alla ricerca della consacrazione presso il grande pubblico. Si mise quindi al lavoro, e in una delle diverse lettere che all’epoca indirizzò allo scrittore Charles Senior e alla moglie Carol – i dedicatari di An Orkney Tapestry – confidò loro di essere alla ricerca di un «modo valido e originale per affrontare il progetto», volendo evitare a tutti i costi di compilare una banale guida turistica o, peggio, un pamphlet elogiativo delle isole.

    Attingendo a piene mani da svariate fonti, come la Orkneyinga Saga e i saggi sugli usi e i costumi delle Orcadi, Brown cominciò a scrivere i primi brani di quello che sarebbe risultato un curioso esperimento letterario in cui prosa e poesia, narrativa e saggistica, si alternano senza soluzione di continuità. Anche i capitoli non seguono uno sviluppo cronologico, procedendo piuttosto secondo uno schema tematico, frutto di giustapposizioni significative, come le diverse scene dell’arazzo evocato dal titolo (e non c’è da dubitare che nelle mani di un autore meno capace il rischio dell’arlecchinata, del patchwork colorito ma confusionario, sarebbe stato difficile da evitare).

    Nella prefazione del volume, corredato dalle illustrazioni di Sylvia Wishart, Brown giustifica la propria scelta chiamando in causa la distinzione elaborata nella sua autobiografia da Edwin Muir – altro famoso poeta cattolico delle Orcadi – tra la “Story”, ovvero la storia in senso proprio, con la sua sequela di date e di accadimenti, e la “Fable”, quell’essenza di inesauribile mistero che si cela dietro a essa. A Brown è proprio la “Fable” a interessare maggiormente, tanto che il suo obiettivo dichiarato non è quello di consegnare al lettore, per così dire, l’esteriorità delle Orcadi, ciò che può benissimo cogliere un occhio scientifico, quanto la loro anima. Ecco perché in An Orkney Tapestry la suggestione, l’allusione, vince sempre sulla fredda precisione del dato.




    Nel 1969, anno della pubblicazione del libro, una simile impostazione non mancò di contrariare più di un critico. Altri, pur riconoscendo allo stile dei Brown il ruolo di fattore unificante del testo, accusarono lo scrittore di aver dato troppo spazio al passato delle Orcadi a scapito del loro presente.

    An Orkney Tapestry si rivelò comunque un libro di successo. In poche settimane vendette circa 3000 copie e l’edizione economica continuò a circolare fino alla fine degli anni Settanta (da allora il volume non è stato più stampato; solo nel 2021, in occasione delle celebrazioni per il centenario della nascita di Brown, la Polygon ne ha preparato una nuova edizione annotata). Tra gli ammiratori illustri dell’opera si segnalano il compositore Peter Maxwell Davis, che la definì «la più straordinaria evocazione poetica di un luogo in cui mi sia mai imbattuto», e il premio Nobel Seamus Heaney, secondo cui An Orkney Tapestry è «una storia sociale condensata in immagini, che a loro volta si espandono in una fantasticheria elegiaca».

    Dopo un capitolo introduttivo sulle Orcadi e i suoi abitanti, intitolato “Islands and People”, in cui Brown critica aspramente quella modernizzazione disumana che sta inghiottendo pure le sue amate isole, nella seconda parte, “Rackwick”, la baia del titolo si trasforma in un teatro per inscenare la storia di un popolo, dai tempi antichi fino a un presunto conflitto atomico del futuro. La prosa è alternata da alcuni stralci poetici che vennero riutilizzati in seguito dallo scrittore nel ciclo Fishermen with Ploughs (1971).

    “Vikings: The Transfixed Dragon”, come da titolo, narra della dominazione norrena della Orcadi, anticipando le atmosfere del romanzo Vinland (1992). Nel capitolo si traccia la parabola redentiva dei vichinghi, che passano dalla barbarie alla Fede, dalla violenza indiscriminata all’ordine, grazie soprattutto al martirio di San Magnus, conte delle Orcadi. Qui Brown offre la prima versione di un episodio destinato a diventare fondamentale nella sua futura produzione letteraria, rielaborato sia in forma di romanzo – La svastica e la croce (1973) – che in forma poetica e teatrale. Non a caso il sacrificio di Magnus Erlendsson, che rinuncia alla vita pur di riportare la giustizia nelle isole, è collocato al centro di An Orkney Tapestry, a rimarcare la realtà di quella provvidenza divina che guida le scelte degli uomini.



    Se “Lore”, il capitolo successivo, rievoca le tradizioni popolari legate all’estate e all’inverno – offrendo a Brown il destro per criticare l’autoreferenzialità della maggior parte dell’arte contemporanea -, “Poets” è la brillante contrapposizione tra il brutale calvinismo, che nega ogni valore alle tradizioni e all’arte, e lo spirito libero di uno scrittore che ama la propria terra. Ecco allora che dalla corte dell’Earl Patrick Stewart, nel XVI secolo, si fa un balzo in avanti nel tempo per incontrare Robert Rendall, uno dei poeti dialettali preferiti di Brown, scomparso giusto un paio d’anni prima della pubblicazione di An Orkney Tapestry.

    Chiude il volume “The Watcher. A Play”, un breve testo teatrale ispirato al racconto Cosa fa vivere gli uomini di Tolstoy. La vicenda dell’angelo inviato sulla terra da Dio per comprendere cosa significhi davvero amare, diventa nelle mani di Brown un modo per meglio illustrare quel fondo di autentica carità che anima la comunità delle Orcadi, dove gli abitanti condividono le fortune e le sfortune della quotidianità con ammirevole tenacia.

    An Orkney Tapestry termina dunque quando il lettore ha idealmente raggiunto il cuore delle isole. Le Orcadi, con le loro tradizioni e la loro fede, con tutto ciò che contengono di vero e di bello, somigliano a quel proverbiale seme che si nasconde sotto la neve di una modernità meschina e nichilistica, un seme che si spera, un giorno, possa finalmente tornare a germogliare.

  8. #268
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    [Il mercoledì di Padre Brown] “Lo svelto”: Noi contiamo qualcosa per Dio… Dio solo sa perché



    di Luca Fumagalli

    Continua con questo nuovo articolo la rubrica infrasettimanale di Radio Spada dedicata all’approfondimento e al commento dei racconti di Padre Brown, il celebre sacerdote detective nato dalla penna di G. K. Chesterton, tra i più grandi intellettuali cattolici del Novecento. I racconti, a metà strada tra investigazione e apologetica, hanno per protagonista il buffo e goffo Padre Brown, interessato sia a risolvere i crimini che a salvare le anime dei colpevoli.

    Per una disamina introduttiva sulla figura di Padre Brown – protagonista pure di vari film, opere teatrali, sceneggiati per la televisione e, addirittura, fumetti – si veda il breve articolo a questo link.

    Per le precedenti puntate… da “L’innocenza di Padre Brown” (1911): 1. La Croce azzurra / 2. Il giardino segreto / 3. Il passo strano / 4. Le stelle volanti / 5. L’uomo invisibile / 6. L’onore di Israel Gow / 7. La forma errata / 8. Le colpe del Principe Saradine / 9. Il martello di Dio / 10. L’occhio di Apollo / 11. All’insegna della spada spezzata / 12. I tre strumenti di morte. Da “La saggezza di Padre Brown” (1914): 1. L’assenza del Signor Glass / 2. Il paradiso dei ladri / 3. Il duello del dottor Hirsch / 4. L’uomo nel passaggio / 5. L’errore della macchina / 6. La testa di Cesare / 7. La parrucca violacea / 8. La fine dei Pendragon / 9. Il Dio dei Gong / 10. L’insalata del Colonnello Cray / 11. Lo strano delitto di John Boulnois / 12. La fiaba di Padre Brown. Da “L’incredulità di Padre Brown” (1926): 1. La resurrezione di Padre Brown / 2. La freccia del cielo / 3. L’oracolo del cane / 4. Il miracolo della Mezzaluna / 5. La maledizione della croce d’oro / 6. Il pugnale alato / 7. Il destino dei Darnaways / 8. Lo spettro di Gideon Wise. Da “Il segreto di Padre Brown” (1927): 1. Il segreto di Padre Brown / 2. Lo specchio del magistrato / 3. L’uomo dalle due barbe / 4. La canzone dei pesci volanti / 5. L’alibi degli attori / 6. La sparizione di Vaudrey / 7. Il peggior delitto del mondo / 8. La Luna Rossa di Meru / 9. Il lutto del signore di Marne / 10. Il segreto di Flambeau. Da “Lo scandalo di Padre Brown” (1935): 1. Lo scandalo di Padre Brown

    Godibile e davvero ben scritto, Lo “svelto” (The Quick One) è uno dei racconti migliori della raccolta Lo scandalo di Padre Brown (1935), in cui, tra l’altro, trovano felice sintesi alcune suggestioni già presenti in altri lavori di Chesterton. Nella prima parte della storia, ad esempio, l’astinenza dall’alcol predicata da uno dei personaggi, con tanto di islamico al seguito, ricorda da vicino la trama del romanzo L’osteria volante (1914), mentre il richiamo allo spirito anti-scozzese di Johnson e Cobbet – nemici del movimento mercantile liberale – ricalca quanto già letto nei rispettivi profili biografici firmati dallo scrittore inglese. Ne Lo “svelto” non manca nemmeno una certa autoironia diffusa, tanto che viene fatto cortesemente notare a Padre Brown come abbia avuto a che fare con assai più delitti di quanti sarebbe lecito aspettarsi. Ritornano pure le solite, scanzonate, riflessioni chestertoniane, che vanno dal «Noi contiamo qualcosa per Dio… Dio solo sa perché» (concetto definito «Il punto più arduo della teologia») alla considerazione di come i delinquenti siano sempre abilissimi nel nascondere le loro tracce: «L’igiene l’hanno inventata i criminali. O. forse, sono stati gli igienisti a inventare il crimine».

    Il racconto, suddiviso in tre macro-sequenze, si apre su Padre Brown – «un omettino insignificante» – e l’ispettore di polizia Greenwood mentre stanno bevendo qualcosa al bar di un albergo in via di ristrutturazione sulla costa del Sussex. Oltre a una compagnia di commessi viaggiatori capitanati dal gioviale e rumoroso Mr. Jukes, in sala vi è anche «il Catone del luogo», il bizzarro John Raggley, «il genere d’uomo che scrive ai giornali lettere, che generalmente non sono pubblicate, ma che successivamente fanno la loro comparsa sotto forma di libelli – stampati o malstampati a proprie spese – destinati quindi a finire in un centinaio di cestini per la carta straccia. Aveva litigato sia con i conservatori che con il Consiglio di contea radicale; odiava gli ebrei, e disprezzava quasi ogni cosa venduta nei negozi e perfino negli hotel. Ma dietro le sue manie c’era il sostegno dei fatti. Conosceva ogni angolo della contea, sapeva ogni particolare curioso, ed era un attento osservatore».

    A disturbare gli avventori ci pensa il reverendo non conformista David Pryce-Jones, noto per le sue prediche sulla spiaggia e per essere alfiere di una diuturna crociata contro l’alcol. Al suo seguito vi è un silenzioso arabo col turbante: al reverendo, infatti, «gli era venuta un’idea che molto prima dovevano già aver avuto i proibizionisti. Era la semplice idea che, se la proibizione è giusta, si deve qualche onore al profeta che forse fu il primo proibizionista. Aveva corrisposto con i capi del pensiero religioso maomettano e infine aveva persuaso un distinto maomettano, che tra i vari nomi aveva anche quello di Akbar mentre il resto era solo un ululato irripetibile di Allah con attributi, a venire a tenere lezioni in Inghilterra sull’antico veto maomettano di bere vino». Pryce-Jones ordina al bancone un bicchiere di latte e i commessi viaggiatori – che operano nel settore degli alcolici – iniziano a canzonarlo benevolmente. Ne nasce una disputa e Mr. Raggley finisce per attaccare l’islam: «Che pretendete? Che gli inglesi non bevano birra perché in un accidenti di deserto il vino è stato proibito da quello sporco impostore di Maometto?». A quelle parole Akbar, il cui contegno è stato fino a quel momento impeccabile, afferra uno dei coltelli appesi alla parete e lo scaglia contro il vecchio eccentrico: se non fosse intervenuto Greenwood a deviare il colpo, Raggley sarebbe certamente morto. Quest’ultimo, tuttavia, lungi da prendersela con l’arabo, scoppia in una fragorosa risata. A suo dire quello di Akbar è stato un gesto da vero uomo, merce sempre più rara: «Vorrei che tutti voi, bestie, aveste il fegato di uccidere un uomo, non dico per un insulto alla vostra religione, perché di religione non ne avete, ma per un insulto di qualunque genere, foss’anche alla vostra birra».

    Il giorno dopo il sacerdote rinviene nella sala grande dell’albergo il cadavere di Raggley, con un coltello conficcato nella schiena. Già a un primo esame della scena del delitto il prete e l’ispettore convengono che l’uomo è morto avvelenato e che il coltello è stato piantato quando il corpo era già freddo da ore per far ricadere la colpa su Akbar (si scoprirà in seguito che l’artefice del depistaggio è Mr. Willis, il direttore dell’hotel, che ha agito d’istinto appena ha scoperto il cadavere per paura che fosse lui ad essere accusato del delitto). Le indagini non portano a nulla fino a quando si scopre che sul bancone, la sera prima, vi era un bicchiere in più che non apparteneva a nessuno degli avventori, almeno a nessuno di coloro che erano in sala con Padre Brown e Greenwood. Uno degli inservienti sostiene di aver visto di sfuggita un uomo con un berretto scozzese che, entrato nell’albergo quando il bar era vuoto, ha consumato qualcosa al bancone per poi uscirsene rapidamente, dicendo di doversi recare a Edimburgo. Di lui, però, il barista non ha memoria.

    Spronata da Padre Brown, la polizia dà il via a una caccia all’uomo che, dopo diversi giorni, porta alla cattura di colui che è stato ribattezzato lo “svelto” (il suo nome, in realtà, è James Grant). Grazie alla sua testimonianza si scopre che il vero assassino è Mr. Jukes: giunto al bar prima degli altri, notando la stanza vuota, ha sostituito la bottiglia di cherry-brandy – un liquore che beveva solo Mr. Raggley – con quella avvelenata. Quando Grant è entrato, cogliendolo alla sprovvista, si è dovuto improvvisare barman. Il movente? Padre Brown non fa fatica a intuirlo: «Raggley affermò nel bar che avrebbe svelato uno scandalo riguardante la gestione degli alberghi. E questo scandalo consiste nell’accordo abbastanza comune tra proprietari di alberghi e un commerciante che prendeva e dava provvigioni sottomano per avere il monopolio di tutte le bevande che si vendono sul posto».

    Del resto il prete ha sempre nutrito dei sospetti su Mr. Jukes: «Aveva un’aria troppo ricca. […] Mi sono chiesto come mai costui poteva avere una voce così disgustosamente ricca, mentre tutti i suoi onesti colleghi l’avevano abbastanza povera». E poi indossava una spilla luccicante assolutamente autentica…

  9. #269
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    Chesterton and Waugh: resounding, unforgettable laughter



    Luca Fumagalli

    With the exception of being converts to Catholicism G. K. Chesterton to Evelyn Waugh seem to have nothing in common: in addition to being born in different periods, each had a unique and unmistakable style.

    Yet a profound bond exists between the two, starting with some shared biographical details such as a passion for drawing and the journey towards religion undertaken only after having toyed with the idea of suicide.

    Chesterton and Waugh are, so to speak, the alpha and omega of the first period of English Catholic literature of the twentieth century, the one that draws heavily from the theological-cultural tradition of Newman and Manning, and that ends with Vatican II (harshly criticized by Waugh) and with a new generation of more progressive Catholic authors.

    Waugh, moreover, admired Chesterton’s work, in particular The Everlasting Man and the ballad Lepanto, an exciting lyrical gallop in the footsteps of John of Austria and the Christian fleet that defeated the Turkish one in 1571. Waugh also dedicated an entire cycle of lectures to Chesterton, whom he had the opportunity to meet in person. During a meeting held in 1949 at the American Notre Dame University, the former also recited the first lines of Chesterton’s poem The Song of Right and Wrong from memory.

    But what binds the two writers the most is that nostalgia and that humorous outlook that find ample space in their best works. Chesterton and Waugh felt they lived in a world that was foreign to them. Behind the most popular ideologies they could not fail to discern the seeds of future tragedies, and they worked hard to oppose it through literature or the press. What was most important to them was to remember that it was still possible to believe in that Truth that only the Catholic Church had had the courage to keep intact over the course of two millennia of history.

    Consequently their writings are imbued with the nostalgia of Eden, of that celestial Ithaca which is the homeland of every man. Ulysses and his metaphorical homeward journey are evoked by Chesterton in the opening pages of The Flying Inn, where the Greek island becomes the symbol of resistance to the Islamic invasion, or to what is most anti-human. Waugh, for his part, preferred an architectural rather than a geographical analogy: in Brideshead Revisited the ancient stately home that gives the novel its title is a symbol in stone of the protagonists’ mental landscape, a place that preserves everything that is beautiful and good.

    This is why the “Contra mundum” shouted at the top of their voices by Charles and Sebastian, far from being the motto of a ridiculous post-adolescent rebellion, is the banner under which both Waugh and Chesterton found themselves in the heat of battle, a challenge to Anglican conformity and to irreligion. And both, to face a declining universe, chose the weapon of laughter, paradox, delicate irony – though also of biting satire.

  10. #270
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    “L’ultima parola”: la fine della Chiesa in un racconto distopico di Graham Greene



    di Luca Fumagalli

    Apparso per la prima volta sulle colonne dell’«Indipendent» nel 1988, L’ultima parola (The Last Word) è il racconto d’apertura dell’omonima raccolta di Graham Greene, pubblicata due anni più tardi.

    La storia ruota attorno all’ultimo Papa, Giovanni XXIX, deposto più di vent’anni prima in concomitanza con l’instaurazione di un governo mondiale anticlericale guidato dal Generale Megrim (nel frattempo scomparso). Il Papa è ora un vecchio fragile, che vive agli arresti domiciliari in un’unica camera, con cucinetta e bagno, ignorato dai vicini e tenuto costantemente sotto controllo. Oltre a pochi vestiti, le uniche cose che possiede sono un vecchio crocifisso con un braccio spezzato – a cui spesso si rivolge come a un confidente – e una Bibbia, entrambi opportunamente nascosti perché non gli è permesso tenere con sé oggetti religiosi. A causa di una memoria sempre più vacillante ha ormai dimenticato gran parte del proprio passato, tuttavia non ne è troppo turbato, anzi, ne è quasi sollevato, come se un tempo «avesse dovuto sopportare un fardello troppo pesante del quale adesso era liberato».

    Quando il Papa venne rovesciato, Megrim tentò, senza successo, di ucciderlo. Per evitare di farne un martire per i pochi cristiani ancora rimasti, si preferì optare per gli arresti domiciliari, e da allora l’anziano trascorre le sue giornate sempre allo stesso modo, passato sotto silenzio anche dalla stampa.

    Un giorno Giovanni è fatto salire su un aereo per un incontro formale con il nuovo Generale, il primo tra loro due, ampiamente pubblicizzato da tutti i media. Per l’occasione al Papa sono restituite le sue vesti bianche e persino l’anello piscatorio, prelevati dal Museo Mondiale dei Miti.

    Viene poi condotto dal Generale, accolto nel suo palazzo con tutti gli onori riservati a un capo di stato. Il militare spiega al Papa – «l’ultimo Papa, ma pur sempre un Papa» – che il mondo è ormai in pace, unito in un unico super-stato, e che anche i metodi brutali di Megrim sono stati abbandonati poiché pure i cattolici si sono estinti: «Gli altri si erano arresi senza troppe difficoltà. Che strana sfilza di nomi… Testimoni di Geova, Luterani, Calvinisti, Anglicani. A uno a uno con gli anni si sono estinti tutti. I vostri si chiamano Cattolici come se avessero sostenuto di rappresentare tutti gli altri anche mentre li combattevano. Storicamente, immagino che siete stati i primi a organizzarvi e a sostenere di seguire quel mitico falegname ebreo».



    Alla fine il Generale rivela il vero scopo di quell’incontro posando una pistola sulla scrivania: «Voglio che lei muoia con dignità. L’ultimo cristiano. Questo è un momento storico». Dopo tanti anni di isolamento il Papa accoglie la notizia quasi con sollievo. Prima di venire ucciso, il Generale offre a Giovanni un calice di vino che questi beve mentre pronuncia le sue ultime parole: «Corpus Domini Nostri…» Solo allora il militare fa fuoco: «Fra la pressione del grilletto e l’esplosione del proiettile uno strano e terrificante dubbio gli attraversò la mente: era possibile che fosse vero ciò in cui quell’uomo credeva?».

    Pure in un racconto della tarda maturità come L’ultima parola – Greene sarebbe infatti morto nella primavera del 1991 – l’autore inglese mostra di non voler rinunciare al brio spiazzante che caratterizza i suoi migliori romanzi a tema religioso, Il potere e la gloria per primo. D’altronde la sua stessa parabola biografia fu caratterizzata da un rapporto conflittuale con la Fede alla quale si era convertito per amore della futura moglie, in seguito tradita e abbandonata. Ottima testimonianza del suo spirito contraddittorio è data dall’entusiasmo con cui firmò il celebre “Indulto di Agatha Christie” in difesa della Messa in latino, e questo nonostante le sue simpatie politiche e teologiche fossero tutte per il campo progressista. Un simile spirito finì, come detto, per riversarsi naturalmente nella sua produzione narrativa a contenuto cattolico, che fa dello scardinamento di certi luoghi comuni dell’apologetica tradizionale, del camminare in bilico lungo il crinale tra redenzione e dannazione, il suo marchio distintivo. Il lettore in cerca di facile rassicurazioni non può che rimanerne spiazzato e affascinato al contempo, sebbene non tutte le intuizioni di Greene siano valide allo stesso modo.

    In L’ultima parola l’autore presenta un totalitarismo “dal volto umano” calato in un contesto distopico, un nuovo ordine mondiale che, pur a prezzo di molti morti, è riuscito infine a portare la pace sulla terra e ad abbattere ogni forma di violenza. Il governo mondiale controlla ogni cosa, dall’economia all’informazione, ma sembra non esserci alcun segnale di malcontento tra i cittadini e nemmeno l’ombra di un qualche subbuglio che ne tormenti le coscienze. Tutto appare calmo, tranquillo, quasi anestetizzato, un’atmosfera decisamente lontana da quella di odio brutale che si respira sfogliando le pagine di esperimenti letterari analoghi quali, ad esempio, Il Padrone del Mondo di mons. R. H. Benson.

    In una simile atmosfera, segnata dall’inevitabile fine del cattolicesimo, nell’epilogo si compie il miracolo: quando l’ultimo Papa viene ucciso, quando sembra essere calato il sipario sulla millenaria storia della Chiesa, ecco che il dubbio si insinua nella mente del Generale. Al pari del suo divino fondatore, il cristianesimo risorge dalla morte sotto forma di interrogativo esistenziale, tant’è che pure un ateo radicale come il militare non può liberarsi fino in fondo dall’ipotesi di Dio. Paradossalmente, suggerisce Greene, è proprio lo scetticismo moderno, ciò che sta distruggendo la Fede, la più grande speranza perché quest’ultima possa continuare a vivere.

 

 
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