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Discussione: Anglica catholica

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    Predefinito Anglica catholica


  2. #2
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    La trama dell’Adriano VII, divertente romanzo fantastorico di Frederick Rolfe (1860-1913), pubblicato nel 1904, ruota intorno alla figura di George Arthur Rose, un giovane scrittore estetizzante che vive come affittuario in un ostello londinese. Il carattere scontroso di Rose gli ha alienato moltissime amicizie e causato qualche debito. Fervente cattolico, una ventina di anni prima aveva aspirato al sacerdozio, ma era stato ingiustamente scacciato dal seminario romano che frequentava. Da allora vive come un recluso, circondato da oggetti preziosi, attento all’alimentazione e al mantenimento di un fisico sano grazie all’esercizio costante. Sentendosi tradito da quella che lui chiama “la macchina romana”, Rose è desideroso di completare il suo ultimo libro, guadagnare i soldi necessari per ripianare tutti i suoi debiti e tentare finalmente di diventare sacerdote.

    Una mattina giunge inaspettata la proposta del cardinale Courtleigh di fare di Rose un prete e nominarlo suo segretario particolare. Dopo aver ricevuto gli ordini minori, non abbisognando di studi teologici particolarmente intensi vista la sua grande cultura, viene immediatamente ordinato sacerdote.

    Dopo la morte di Leone XIII, nell’estate del 1903, la Chiesa è in subbuglio: non solo in Russia e in Francia i socialisti hanno preso il potere, minacciando il resto del continente, ma lo stesso conclave è diviso e non si riesce ad eleggere il nuovo Papa. Sette votazioni terminano con un nulla di fatto e, giunti ormai nei primi mesi del 1904, su proposta di Courtleigh, Rose viene nominato a sorpresa Sommo Pontefice con il nome di Adriano VII (in memoria di Adriano IV, l’unico Papa inglese della storia).

    Il suo pontificato si mostra innovativo, soprattutto sul piano politico. Sprona la Chiesa alla povertà evangelica e al suo ruolo missionario, pur di tentare una collaborazione con il re e una cattolicizzazione della penisola italiana rinuncia al potere temporale, si dimostra affabile con tutti e, in particolare, tesse una tela di relazioni internazionali grazie ad una serie di epistole indirizzate a varie nazioni in cui dimostra una grande conoscenza del cuore dell’uomo. Sotto l’impulso della sua opera pastorale i sovrani europei avviano una sistematica lotta al socialismo e alla rivoluzione proletaria. L’unico serio rischio per la sua credibilità sono le calunnie diffuse a mezzo stampa del socialista inglese Sant e della complice, la signora Crowe, ex affittuaria di Rose, innamorata di lui ma più volte respinta. Le loro accuse sono facilmente smontate e Adriano VII ne esce con una credibilità rinnovata e sempre più solida. Intanto i re europei, riuniti a Windsor per discutere del futuro assetto politico della terra una volta sconfitto il germe rivoluzionario, chiedono al Papa di intervenire in qualità di arbitro imparziale. Un suo documento, pubblicato nel marzo del 1905, viene sottoscritto dalle potenze, determinando così ufficialmente la nascita di un nuovo ordine mondiale. L’Europa è divisa sostanzialmente in due Imperi, quello del nord che comprende Germania, Austria, Belgio, Olanda, Francia e Russia e quello del sud che accorpa Italia, Spagna, Portogallo, Montenegro e Albania. Agli Stati Uniti spetta il controllo dell’intero continente americano ad eccezione del Canada che con l’Africa, l’Oceania e l’Asia diventa parte dell’impero britannico. Al Giappone è assegnata la Siberia e l’Impero ottomano si ritira dall’Europa per autoconfinarsi in medio oriente. Alla Grecia spettano i territori turchi e bulgari mentre i paesi scandinavi si trasformano in repubbliche.

    In occasione del 23 aprile 1905, il primo anniversario della elezione di Rose al soglio pontificio, i più importanti sovrani e politici del mondo si incontrano in Vaticano per la cerimonia. Tutta Roma è affollata, pronta a festeggiare l’amato Pontefice. Adriano cammina con il re Vittorio Emanuele per le vie della città ma, improvvisamente, un colpo di pistola sparato da Sant lo ferisce a morte mentre la polizia cattura l’assassino. Anche alla fine della vicenda non c’è spazio per l’odio nel cuore del Papa: morente, perdona il suo aguzzino, riceve l’estrema unzione e, con uno sforzo estremo, benedice per l’ultima volta la folla.

    Risulta piuttosto chiaro come dietro alla figura del Papa Adriano VII si celi in realtà quella dello stesso scrittore; del resto, a livello biografico, le analogie sono davvero molte: la cacciata dal seminario, la latente omosessualità, l’uso di molti pseudonimi letterari, il lavoro di scrittore e la critica feroce nei confronti della gerarchia curiale che non ha mai colto il fiore di un’autentica vocazione. Adriano VII dipinge con una punta di ironia e presunzione quello che sarebbe potuta diventare la vita di Rolfe se solo non fosse stato allontanato dal seminario. Tra l’altro il libro fu scritto mentre l’autore si trovava affittavolo a Londra, come il suo protagonista. In queste pagine è come se volesse darsi una seconda possibilità, quella che non ebbe più nella sua vita e che fu causa di grande sconforto e depressione. La sua è un’ucronia riferita alla propria vita, un gioco letterario, immaginandosi una carriera nei panni non solo di un semplice sacerdote, ma addirittura in quelli del Vicario di Cristo in terra. Lo stesso Rose, nelle prime pagine del libro, invoca dolorosamente solo un’ultima occasione per riscattare la propria vita: «Dio mio, se mai mi hai voluto bene, ascoltami, ascoltami. De profundis ad Te, ad Te clamavi. Forse che non desidero essere buono, e puro, e felice? Quale desiderio ho accarezzato fin da quando ero ragazzo, se non quello di servirTi, tra i Tuoi mistici?»[1].

    Il romanzo è dunque una straordinaria occasione per indagare il cuore e i pensieri dello stravagante scrittore dalla vita tanto irregolare. Si scopre così che, al di là dei plateali eccessi, Rolfe – soprannominato Baron Corvo – conservò con estrema lucidità e convinzione un amore per il cattolicesimo profondo e straordinario. Il castello della sua artificiosa esistenza crolla miseramente nelle dichiarazioni di un’autobiografia così intima e luminosa. Il paradosso è dietro l’angolo. La possibilità di pensare ad una vita alternativa, apre il cuore di Rolfe alla conversione totalizzante, quella in grado di allontanare dalla sua anima, una volta per tutte, le lusinghe del mondo. Ad esempio la sua tipica posa estetizzante viene messa sotto esplicita accusa da Rose, così come il suo atteggiarsi a sapiente ed erudito, un modo di fare che gli causò parecchie antipatie: «Voglio dire che mi piace stupire gli altri, mostrando di essere un monumento di erudizione, mentre, in realtà, sono un semplice assai sciocco»[2]. Si accusa poi innanzi a Dio di vano amore per il bello, mettendo in discussione con sincero radicalismo la moda culturale dell’epoca: «Confesso di aver peccato contro me stesso; per esempio non ho evitato gli agi e il lusso. Sono stato felicissimo di goderne, quando ho potuto. Sono stato meticoloso nella mia persona, nei miei gusti, nel vestire; e mi è piaciuto affettare abitudini, simpatie e antipatie delicate»[3]. Ancora, qualche pagina più avanti: «Non pongo nessun freno alla vista, all’udito, al gusto, al tatto, all’olfatto; se non per quanto mi dilettano le mie naturali simpatie e antipatie. Li coltivo, li raffino e li acuisco, ma non li mortifico mai. Di rado mi sacrifico. E, se lo faccio, mi colgo a trarre elementi di godimento estetico dal mio sacrificio»[4].

    Degna di interessante è anche l’azione politica di Adriano VII, un Papa molto contrastato nei primi mesi dall’elezione ma che, con il suo carisma, poco alla volta, riesce a farsi accettare e amare dal mondo intero. Il programma del papato di Rose, accuratamente meditato nei vent’anni trascorsi fuori dal seminario, si mostra complesso e variegato. Quel «Pontefice che diceva “Domani”»[5] non è una macchietta progressista, ma un uomo di Fede che opera per la salvezza delle anime e per la gloria di Cristo. Agisce come un’individualità pensante, è fermo e risoluto, convinto della bontà del suo progetto, freddo, sicuro, ma pur sempre sincero e umano. In un mondo minacciato dalla temperie socialista – con una Parigi che inaugurava la seconda comune – Adriano si impone con quell’autorità che è propria di Pietro e richiama la Chiesa non solo alla sobrietà o alla fuga dalla tentazione del potere, ma soprattutto alla vocazione missionaria. La cifra del suo pontificato è quindi la carità, lo sguardo rivolto agli altri, la generosità disinteressata: solo così è possibile sconfiggere il male e guadagnare anime a Cristo, come puntualmente accade alla fine del romanzo. La sua è, in definitiva, una Chiesa autenticamente militante; «egli non desiderava la gloria mondana, ma il combattimento: perché il riposo è tanto più dolce, dopo la lotta»[6].

    La chiave del suo successo risiede nella duplice capacità di considerare la realtà nel suo complesso, in tutti i suoi elementi costitutivi, e di parlare agli individui più che alle masse. In uno dei suoi primi documenti Adriano esalta infatti l’individuo e il valore della diversità. L’utopia egualitarista è condannata come falsa e, ancora più grave, rischia di deresponsabilizzare gli uomini, annacquandone la personalità. Al contrario il cattolicesimo richiama tutti ad un impegno serio nei confronti della realtà, ad essere protagonisti. Rose guarda ai suoi figli non con le categorie dell’homo economicus impiegate dai socialisti, ma come creature desiderose di felicità e salvezza. Tutto questo ha una ricaduta sociale e politica rilevante, tanto da cambiare la faccia dell’intero pianeta: «Debbo dirvi la differenza tra il Santo Padre e noi? Noi vediamo le cose da un unico punto di vista. Egli le vede da parecchi. Noi decidiamo che la cosa sia come la vediamo. Ma egli l’ha veduta in un altro modo, e la presenta come un insieme più o meno complesso delle sue qualità»[7]. Con un Papa con queste qualità, disposto anche all’estremo gesto del martirio pur di salvaguardare il suo gregge, la Chiesa non può che trionfare.



    Luca Fumagalli



    Il libro: F. ROLFE, Adriano VII, Milano, Beat, 2013



    [1] F. ROLFE, Adriano VII, Parma, Guanda, 1989, p. 24.

    [2] Ivi, p. 62

    [3] Ibid.

    [4] Ivi, pp. 64-65.

    [5] Ivi, p. 108.

    [6] Ivi, p. 119.

    [7] Ivi, p. 370.

    fONTE: https://www.radiospada.org/2015/04/s...ventasse-papa/

  3. #3
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    «L’autore non scrive col semplice intento di “riabilitare” la famiglia Borgia; essendo presentemente la sua opinione che tutti gli uomini son vili al di là dell’esprimibile in parole».

    (F. ROLFE, Cronache di casa Borgia)

    di Luca Fumagalli

    Quando si termina la lettura delle Cronache di casa Borgia si è sopraffatti dalla triste sensazione di essere giunti alla fine di un viaggio emozionante. È come se quel mondo rinascimentale così sapientemente evocato dalla penna di Frederick Rolfe crollasse improvvisamente, rivelando la sua natura di colto artificio. Ma chi si è avventurato con passione tra le pagine di un saggio storico così profondo e arguto non resta con l’amaro in bocca; al contrario, il suo cuore è attraversato da una vaga nostalgia, dal desiderio di poter vivere veramente − fosse anche solo per una manciata di minuti − quegli incredibili anni, tra il 1455 e il 1572, in cui i Borgia balzarono sul piedistallo della fama.

    Due papi e un santo in poco più di un secolo sono le perle più brillanti che decorano la corona di una famiglia che annoverò figli illustri anche nelle epoche successive, come il cardinale Stefano Borgia, pregevole figura di ecclesiastico erudito, morto nel 1804 dopo essere stato a un passo dal soglio petrino. Spagnoli d’origine e italiani d’adozione, i de Borja, come il toro rosso che campeggia sullo stemma della casata, furono una singolare sintesi di mansuetudine e virulenza. Spesso sorpresi a brucare l’erba con sguardo sognante, si dimostrarono altrettanto efficaci nel trafiggere gli avversari con clamorose incornate. Questi episodi contribuirono ad alimentare quella “leggenda nera” che iniziò a circolare durante il pontificato di Alessandro VI e che ancora oggi fornisce ampio materiale per le sceneggiature di serie televisive di successo.

    Le ragioni per cui Rolfe pubblicò nel 1901 il fortunato lavoro sono da ricercare principalmente nella tormentata biografia dell’autore. Il Baron Corvo della letteratura inglese, eccentrica sintesi di cattolicesimo ed estetismo, condusse la sua breve e triste esistenza tra le laceranti contraddizioni della carne e dello spirito. La fervente devozione, alimentata da una conversione sincera, si scontrò frequentemente con i limiti di un uomo la cui vita disordinata terminò prematuramente tra i vicoli angusti della Venezia di inizio ‘900. Questo “angelo decaduto” dovette registrare una certa somiglianza tra l’infame nomea dei Borgia e il proprio onore perduto, divelto nel corso degli anni a colpi di inganni, bugie e tradimenti. Assolvere in tutto o in parte i delitti della celebre famiglia spagnola significava, in qualche misura, compiere un’opera di autoassoluzione. Ma l’esito, lontano dallo stereotipo, è un libro singolarmente brillante che unisce al rigore dello storico la frizzante vivacità di un romanziere consumato. Rolfe non cade nella trappola dell’equazione umana, quella tendenza perniciosa che porta a confondere l’oggettività della documentazione scientifica con le passioni personali dello studioso. Confeziona invece un testo fresco, brillante, che muove dalla consapevolezza che l’umanità è un impasto di miseria e grandezza, e che anche la verità per quanto riguarda i Borgia doveva trovarsi a metà strada tra la rettitudine e le copiose accuse di dissolutezza.

    La serietà del lavoro di ricerca che impegnò Rolfe per diversi mesi è attestata dal primo biografo dello scrittore inglese, A. J. A. Symons, che nel suo divertente libro, oltre a dedicare un intero capitolo alle Cronache, cita diverse epistole dove Baron Corvo si lamenta con l’editore per le diciotto ore giornaliere di lavoro e per le lunghe sedute di studio trascorse tra gli insalubri e impolverati scaffali del British Museum. Il successo di pubblico e critica, che elogiò parimenti lo stile e l’erudizione dello studio, sono un’ulteriore testimonianza della bontà di un’opera che, nonostante il riscontro positivo in termini di vendite, non risollevò il proprio autore dalle misere condizioni in cui versava.

    La storia dei Borgia muove i primi e timidi passi nel Rinascimento, a pochi anni dall’esaurimento del grande Scisma d’Occidente. Rolfe, nel suo dichiarato intento di restituire un’immagine viva e dinamica del passato, dipinge con singolare maestria i fasti di un’epoca che lui stesso amava, e a cui, in qualche misura, si sentiva idealmente di appartenere. Lo sviluppo della letteratura e delle arti, l’invasione islamica, l’invenzione della stampa e le grandi scoperte geografiche fanno dunque da sfondo alle vicende biografiche di Callisto III e di Alessandro VI, narrate con fugaci pennellate, alla maniera impressionista, ma sature dell’aroma onirico di un tempo ormai perduto. Alle descrizioni, sontuosamente decadenti nel gusto per lo stupore e abbellite da un lessico prezioso e ricercato, si accompagnano innumerevoli digressioni che, oltre a restituire tridimensionalità alla narrazione, fungono anche da parentesi personalissime in cui l’autore si abbandona ad approfondimenti e giudizi. A invettive contro la parzialità degli storici e dei cronisti, seguono slanci esaltanti che elogiano le virtù del papato o lo splendore artistico e intellettuale dell’Italia rinascimentale. Non mancano poi impietosi confronti con la grigia attualità del ‘900: «È così facile per il XX secolo, col suo fisico logoro e il suo raffinato cervello, e la grandiosa prospettiva di mezzo millennio, capire i motivi che muovevano il XV, fisicamente forte e intellettualmente semplice, quando il mondo […] era più giovane e fresco di cinque secoli; quando il colore era vivido, la luce una vampa, virtù e vizi spinti all’estremo, la passione primitiva e ardente, la vita violenta, la giovinezza intensa e sovrana; e la mediocrità rispettabile, sentenziosa e pedante, esangue e senile non contava né punto né poco».

    Rolfe si considerava un contemporaneo di Cellini e soffriva di una nostalgia del passato del tutto peculiare che, almeno dal punto di vista della ricerca storica, fu la sua salvezza. Da innamorato, come un cavaliere errante, si prodigò in ogni modo per sconfiggere i tanti luoghi comuni legati ai Borgia, una casata verso cui provava un’inconfessabile ammirazione. Pur affermando di non voler lavare le loro colpe, l’autore rifiuta la condanna esplicita e, lungo le pagine del suo lavoro, affastella con spregiudicatezza elaborate inferenze e documenti inediti che, nell’insieme, compongono un mosaico mai così profondo e complesso. Non si tratta di indulgenza d’accatto quanto di ribaltare una prospettiva distorta e falsificata per troppo tempo. Un esempio di questo atteggiamento è il brillante capitolo dedicato alla “leggenda del veleno” dove Rolfe dimostra oltre ogni ragionevole dubbio l’infondatezza delle accuse sull’utilizzo della Cantarella come strumento d’omicidio politico, un’illazione che anche Dumas aveva contribuito a diffondere.

    È così che Rodrigo Borgia, a dispetto delle manovre politiche e dei suoi molti bastardi, appare come «un uomo forte, la cui sola colpa era di non nascondere nessuna delle sue debolezze», e che «aveva saputo far sentire ai malfattori la frusta che, come Osiride, maneggiava insieme al pastorale». Cesare diventa un uomo di stato la cui giustizia e l’infaticabile energia mostrano tratti sovrumani. A lui si deve soprattutto il rafforzamento dello stato pontificio che, durante gli anni precedenti, caratterizzati da malgoverno e lotte intestine tra famiglie rivali, era caduto vittima del particolarismo dei vassalli. La sua opera di sistematica riconquista fu determinante per preservare quel patrimonio petrino che durò pressoché inalterato fino al 1870. Quanto a Lucrezia, era «una perla fra le donne» che «si era guadagnata grande fama per la sua bontà verso le ragazze da marito alle quali regalava la dote per invogliarle a restar pure col miraggio di un buon matrimonio».

    Ma questo sagace affresco non sarebbe compiuto se qua e là nel testo non affiorassero brevi testimonianze del sincero affetto che legava l’autore alla Chiesa e alla dottrina cattolica. Sempre schierato dalla parte della Roma papale, Rolfe spende non poche parole di biasimo per il sovversivo Savonarola e per l’arroganza di numerosi sovrani che, come Carlo V, osarono minacciare il pontefice con i loro eserciti. Nonostante sia circondata da molti nemici che si arrabattano nel fango del mondo, la cattolicità illumina la via ai suoi figli, sempre disposta a perdonarli e ad abbracciarli con il tenero affetto di una madre. È la Chiesa dei santi e dei peccatori, è quell’istituzione che, nonostante le bassezze dell’umanità, dura da millenni e che continua a essere un punto di riferimento insostituibile per centinaia di migliaia di uomini e donne sparsi in ogni angolo della terra.


    Ecco che allora anche l’epopea dei Borgia si colora di una tinta inedita e appare come un’ulteriore testimonianza della provvidenzialità divina che anima la storia. Del resto, come sottolinea Baron Corvo, ogni speculazione umana a tal proposito risulterebbe nulla più che vuota fraseologia: «Qualcuno li vuol giudicare? Papi, e Re, e amanti, e uomini d’intelletto, e uomini di guerra, non possono essere giudicati col codice ristretto, col metro ottuso del giornalista e dell’affittacamere, dello stagnino e del bottegaio. Un proposito così indecentemente iniquo non può nascere se non in chi speri di guadagnare al paragone».

    Il libro: F. ROLFE, Cronache di casa Borgia, Roma, Castelvecchi, 2014, pp. 331.

    fONTE: https://www.radiospada.org/2015/10/q...onta-i-borgia/

  4. #4
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    Frederick Rolfe, in arte Baron Corvo, nutriva per il Rinascimento una passione viscerale. Epoca di contraddizioni, di santi e peccatori, per lo scrittore inglese costituiva l’esempio più eclatante di un mondo ancora vitale, energico, pronto all’azione e alla preghiera; nulla a che vedere, dunque, con il grigio piattume dell’Inghilterra edoardiana, tutta buone maniere e banalità preconfezionate. Corvo aveva espresso questa sua visione in un poderoso saggio, Cronache di casa Borgia (1901), un lavoro dedicato alla ben nota famiglia spagnola che, seppur storicamente non molto accurato, rivelava la grande inventiva di una penna d’eccezione.

    Il florilegio narrativo del libro sui Borgia trovò in Don Tarquinio un naturale esito. Dedicato al fratello Herbert e pubblicato nel maggio del 1905 per i tipi della Chatto & Windus, l’agile romanzo – il più breve della bibliografia rolfiana – propone una trama lineare e compatta. Il registro impiegato è antiquato, manieristicamente maccheronico, punteggiato da latinismi e grecismi forgiati dalla penna di un colto dilettante (e fu forse questo aspetto, più di altri, a decretarne il fallimento commerciale).

    La vicenda, pretesa trascrizione di un olografo – databile tra il 1523 e il 1527 – di don Tarquinio Drakontoletes Poplicola di Santacroce al figlio Prospero, è la relazione di una giornata del 1495 in cui il protagonista eponimo, all’epoca quindicenne, riesce in ventiquattro ore a compiere un’importante missione per conto di Cesare Borgia, a far revocare il bando che costringe la sua famiglia lontano da Roma e a sposare la bella Hersilia, damigella al seguito di Lucrezia. Intorno a Tarquinio si muovono i protagonisti della politica dell’Italia rinascimentale, su tutti Alessandro VI e Carlo VIII, fino a giungere al cardinale Ippolito d’Este e a Gioffredo Borgia, principe di Squillace, amici leali del giovane Santacroce.

    Deprecando le falsità di Guicciardini e Giovio, don Tarquinio narra la sua straordinaria giornata a Prospero per dimostrare al figlio come si scriva seriamente di storia. Il curioso sottotitolo del libro, A Kataleptic Phantasmatic Romance, indica il metodo di lavoro seguito, alludendo all’evidenza come criterio veritativo ultimo, secondo la dottrina stoica ripresa anche dal Pater: «La verità è ciò che ogni uomo può acquistare grazie alla natura ricettiva di sensi perfettissimimanete coltivati o, come disse lo stoico Zenone, la prova della verità è il Fantasma Catalettico». La forma memorialistica, di conseguenza, è la più opportuna per operare questa riduzione ai puri caratteri umani, smarcando al contempo i personaggi da ogni possibile verifica obiettiva.

    Nel prologo, stilato sottoforma di epistola indirizzata a Herbert, Baron Corvo racconta l’origine del libro, frutto della rielaborazione di un articolo che gli era stato commissionato e poi rifiutato da un editore, in cui avrebbe dovuto descrivere la giornata di un gentiluomo sul finire del XV secolo. Don Tarquinio fu frutto indiretto, per così dire, degli appunti ricavati dalle ricerche condotte per il libro sui Borgia (nonché dalla personale biografia dell’autore). Diversi brani ripropongono tesi già presenti nel volume del 1901, come l’attacco alla parzialità degli storici, la protezione accordata da Rodrigo agli ebrei capitolini o la dubbia paternità di Cesare: il Papa «è generoso con noi; ma non è paterno. Né noi stessi crediamo … no, non lo crediamo».

    Il clima generale che si respira sfogliando le pagine di Don Tarquinio è quello di un’immersione in un passato credibile, descritto con verosimiglianza. Gli pseudonimi latineggianti con cui i personaggi si chiamano tra loro, ricalcando la moda rinascimentale, sono una delle tante possibili esemplificazioni del labor limae di Corvo che, tra l’altro, spesso si sofferma con mania fotografica a dettagliare i preziosi oggetti presenti in scena o a imitare le dissertazioni filosofiche diffuse nell’ambiente cortigiano.

    I Borgia, autoproiezione di Rolfe nel passato, come gli altri eroi del libro, vivono il dinamismo prodotto da un aneddoto elevato a romanzo; l’autore li cattura in una perenne azione dove i loro gesti hanno proporzioni gigantesche, innaturali e sono per lo più grandiose in senso barbaro, disumano.

    Tra il sangue e la preghiera, tra la spada e l’aspersorio, il contesto è ancora una volta quello di un’epoca ideale, che depreca le mezze misure, «quando gli uomini (essendo esseri ragionevoli) credevano in Dio, il quale li aveva creati a Sua Immagine», e il Papa, avversario dei potenti, era ancora il maestoso «Governatore del mondo, Padre di principi e re, il Vicario terreno di Gesù Cristo nostro Salvatore».

    PS Don Tarquinio è stato pubblicato in Italia nel 1963 dalla casa editrice Longanesi. Qualche copia è ancora possibile trovarla online a cifre accessibili. In inglese sono invece disponibili moltissime edizioni, anche recenti, ugualmente valide e facilmente reperibili.

    fONTE: https://www.radiospada.org/2018/01/d...nti-avventure/

  5. #5
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    Nota di Radio Spada: in vista della pubblicazione di una biografia del scrittore cattolico inglese William Rolfe nella collana “L’osteria volante” prevista per il dicembre 2016, vengono pubblicate alcune traduzioni inedite di poesie rolfiane a cura di Luca Fumagalli, redattore di Radio Spada.

    Il poema “La ballata della Regina di Maggio”, a firma di Frederick William Rolfe, fu pubblicato sulla rivista «The Month» nel maggio 1889, alle pagine 72-73. Il componimento, strutturato in tre strofe più congedo, esemplifica lo stile ubertoso ma ancora acerbo del primo Baron Corvo, rintracciabile tanto nelle ardite descrizioni quanto nella grafica anticheggiante delle parole, adottata nel tentativo di imitare le sonorità dell’inglese tardo-medievale. Poesia più di descrizione che di azione, “La ballata” presenta la Madonna come benevola Regina del Paradiso, circondata da schiere adoranti di santi e angeli. A lei, madre del Salvatore, è rivolta la supplica del poeta.



    “Ballade of the Queen of May”

    Beyond the Sky there lies a Land, bedight,

    With bursting Bloom in Honour of the Spring,

    The Sun doth gild those flower-flushed Fields with Light,

    Amidst green Boughs a Quire of Birds doth sing,

    A Throne is set beneath the o’ershadowing

    And budding Branches of a Hawthorn Tree,

    Where the Queen keeps her royal State,

    and She A starry Diadem wears, and bright Array,

    A blue Robe sown with silver Fleurs-de-Lys,

    For Marye Maiden is the Queen of May.

    Around Her Throne waits many a noble Knight,

    A Body-guard of Warriors tried and ding,

    Saint George the Martyr, England’s Hero hight,

    Martin, Sebastian, Olaf the King,

    And Forty of the Legion Thundering:

    Before Her Footstool many Kings there be,

    Edmund, Edward, and Kenelm, fair to see,

    And in that gracious Presence stand alway

    A countless Host of high and low degree,

    For Marye Maiden is the Queen of May.

    Her Maids of Honour arrayed in Robes of white,

    Agnes, and Cecily, and Audrey, sing,

    Mildred, and Margaret, stand in Her Sight,

    And all about, of Angels many a Wing

    Whiter than Pearls are, softly fluttering,

    Michael, and Gabriel, and Raphael, three

    Princes who lead the Angelic Minstrelsy,

    And the bright Courtiers answer, blithe and gay,

    In Antiphons of gladsome Melody,

    For Marye Maiden is the Queen of May.

    Queen! see Me here upon my bended Knee,

    I nothing have meet for Thy Majesty;

    But this poor song, and this white Hawthorn Spray,

    And all My heart, I’ll gladly give to Thee,

    O Marye, Mother, Maid, and Queen of May!

    Traduzione:

    Al di là del cielo si trova una terra, / con una maestosa fioritura in onore della primavera, / il sole indora con la sua luce i campi colorati, / in mezzo a rami verdi un gruppo di uccelli canta / e un trono è situato sotto le ombre / dei rami gemmati di un biancospino / da dove la Regina governa il suo regno; / indossa un diadema stellato, un vestiario luminoso, / un manto azzurro decorato da gigli d’argento, / per la Vergine Maria, la regina di Maggio. /



    Intorno al suo trono si trova più di un nobile cavaliere, / una guardia del corpo di fieri guerrieri, / San Giorgio martire, eroe d’Inghilterra, / Martino, Sebastiano, il re Olaf, / e altri quaranta della legione luminosa: / davanti al suo poggiapiedi si trovano diversi re, / tra gli altri, Edmondo, Edoardo, Kenelm, / e in quella graziosa presenza attende sempre puntuale / una schiera innumerevole di ogni rango, / per la Vergine Maria, la regina di Maggio. /



    Le sue damigelle d’onore vestite di bianco, / Agnese, Cecilia ed Eteldreda, cantano, / Mildred e Margherita stanno innanzi a lei, / con loro si trovano tutti gli angeli, come un’ala / più bianca delle perle volano dolcemente / Michele, Gabriele e Raffaele, tre / principi che guidano le milizie celesti, / e i cortigiani luminosi rispondono con giubilo / nelle antifone di una lieta melodia / per la Vergine Maria, la regina di Maggio. /



    Regina, guardami in ginocchio al tuo cospetto / non ho nulla da offrire a Sua Maestà; / ma questa povera canzone, questo ramo di biancospino / e tutto il mio cuore io li dono felice a Te, / o Vergine Maria, Madre e Regina di Maggio!

    fONTE: https://www.radiospada.org/2016/05/b...ina-di-maggio/

  6. #6
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    La storia dimenticata del gesuita Gerard Manley Hopkins, genio della poesia

    Gerard Manley Hopkins (1844-1889) è un poeta fuori dal tempo. Passato praticamente inosservato durante la vita, divenne in seguito una delle figure di riferimento per la poesia inglese del XX secolo. Nonostante Hopkins scrisse la maggior parte dei suoi componimenti tra il 1876 e il 1889, fu solo nel 1918, quasi trent’anni dopo la morte, che l’amico Robert Bridges pubblicò finalmente un’edizione completa dei suoi versi, Poems of Gerard Manley Hopkins. Appena il volume raggiunse gli scaffali delle librerie, il successo fu immediato.

    Hopkins, che proveniva da una famiglia anglicana, sin dalla giovane età diede prova di doti non comuni. Frequentò con ottimi risultati il Balliol College di Oxford ed ebbe come insegnante, tra gli altri, quel Walter Pater che fu maestro di Wilde e di tutta la generazione degli scrittori decadenti. Influenzato dal Movimento di Oxford e dalle posizioni del cosiddetto partito “ritualista”, sorprese tutti quando nel 1866 si convertì al cattolicesimo; fu il noto teologo e futuro cardinale John Henry Newman ad accoglierlo ufficialmente nella Chiesa di Roma. Insegnò poi alla scuola dell’Oratorio di Birmingham fino al 1868, anno in cui maturò la decisione di diventare sacerdote gesuita. Per ribadire la serietà delle sue intenzioni, bruciò tutte le poesie che aveva scritto sino a quel momento: la letteratura era un passatempo profano, non adatto a un futuro uomo di Dio.

    Hopkins trascorse l’ultimo periodo della sua formazione da seminarista, tra il 1874 e il 1877, al St Beuno’s College, nel Galles del nord. Mentre si trovava lì, imparò il gallese ed ebbe modo di apprezzare le liriche medievali di quella terra misteriose ed evocativa. Il risultato fu una folgorazione. Non senza esitazioni prese di nuovo la penna in mano e nel 1875 stese quella che sarebbe diventata la sua composizione più famosa: Il naufragio del “Deutschland” (The Wreck of the “Deutschland”). La poesia, ispirata a un fatto di cronaca – il naufragio di una nave che stava trasportando un gruppo di suore esiliate dalla Germania a causa alle nuove leggi penali -, venne definita dall’artista cattolico David Jones «una delle opere più affascinanti mai scritte in lingua inglese».

    Hopkins continuò a coltivare la sua passione, alternando la letteratura ai molti impegni che gli derivavano dal duplice ruolo di sacerdote e insegnante. Nel 1884 divenne professore di latino e greco presso la Royal University of Ireland di Dublino. In realtà il soggiorno nell’isola di smeraldo, al netto del prestigio derivatogli dall’incarico, fu tutt’altro che appagante; le carte del periodo, non a caso, sono attraversate da un senso di cupo sconforto, al limite dell’angoscia.

    Nel 1889 il tifo spezzò prematuramente la vita di un talento che avrebbe potuto dare una contributo decisivo allo sviluppo di una marcata sensibilità “papista” all’interno del panorama culturale britannico. D’altro canto il controverso rapporto con il proprio genio avrebbe quasi certamente convinto Hopkins a continuare con la politica di non pubblicare ciò che scriveva, ancora considerato, malgrado gli ottimi risultati ottenuti, qualcosa di poco dignitoso per un sacerdote (e questo nonostante la testimonianza di illustri confratelli del passato come Robert Southwell, poeta e martire sotto il regno di Elisabetta).

    I lavori del gesuita, quando vennero finalmente dati alle stampe nel 1918, ebbero l’effetto di un piccolo terremoto. Non solo Hopkins dimostrava di voler abbandonare le forme tradizionali, ma, attingendo a piene mani dal mondo greco e da quello ebraico dei Salmi, puntava più sull’effetto ritmico piuttosto che sulla metrica. La musicalità era garantita dai rimandi alla liturgia cristiana e alla poesia medievale, nonché dalla sapiente cesellatura di allitterazioni, assonanze e onomatopee.

    Nei poemi la natura suggerisce all’uomo l’esistenza di verità profonde, generate da allusioni simboliche. Il cattolicesimo di Hopkins, sul modello di quello medievale di Duns Scoto, si rivela soprattutto nel costante rimando a Dio, un mistero che tutto pervade. Semplicità e complessità convivono brillantemente. Così, per esempio, quelli che potrebbero apparire come semplici descrizioni o bozzetti paesaggistici, si rivelano infine per quello che sono: indizi di una Presenza più grande che travalica il dato sensibile. Tale certezza, tuttavia, non toglie ai fedeli la fatica di dover dimostrarsi ogni giorno all’altezza dell’ideale cristiano; l’errore e la disperazione, in questo senso, sono nemici sempre in agguato.

    Oltre alle poesie mariane e a quelle caratterizzate da contenuti più “laici”, Hopkins scrisse molte altre liriche che contengono spunti tratti direttamente dall’immaginario cattolico. Tra le più interessanti si segnalano La grandezza di Dio (God’s Grandeur), Variopinta bellezza (Pied Beauty), I pioppi di Binsey (Binsey Poplars), Primavera e autunno (Spring and Fall) e Scritto sulle foglie della Sibilla (Spelt from Sybil’s Leaves).

    Nel 1975 una lapide dedicata alla memoria del grande gesuita venne posta nel famoso Poets’ Corner dell’Abbazia di Westminster, accanto a quella dei nomi più illustri della cultura inglese. Con questo gesto si voleva ricordare la storia dimenticata di un poeta straordinario, un poeta che in Italia, ad eccezione di una manciata di monografie e di vecchie edizioni mai più ristampate, è stato colpevolmente ignorato, e oggi più che mai merita di essere riscoperto.

    fONTE: https://www.radiospada.org/2017/07/l...-della-poesia/

  7. #7
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    “La notte stellata”: una poesia di Gerard Manley Hopkins

    L’inglese Gerard Manley Hopkins (1844-1889), di cui proponiamo un breve ma significativo componimento, è uno degli scrittori cattolici più importanti del XIX secolo. Gesuita e professore universitario, visse un rapporto controverso con il proprio talento artistico, tanto che la maggior parte delle sue poesie venne pubblicata solo dopo la morte. Il travaglio esistenziale e la fredda introspezione degli anni della maturità non trovano spazio nei toni pacati de “La notte stellata” in cui alla celebrazione romantica della natura si sostituisce all’ultimo, con guizzo fulminante, il tema religioso.



    La notte stellata

    Guarda le stelle! Guarda lassù quei cieli!

    Oh guarda la gente del fuoco che siede su nell’aria!

    I borghi brillanti, le città delle mura lassù!

    Giù nel cupo dei boschi le cave di diamanti! gli occhi degli elfi!

    I grigi prati freddi dove oro, dove oro vivo giace!

    Bianco sorbo battuto dal vento, aerei pioppi bianchi di fiamma ardenti!

    Candide colombe che spaurite frullano via dall’aia! —

    Ma sì! è pur tutto un acquisto, tutto è un premio.

    Si compri dunque! s’offra! — Cosa? — Preghiera, pazienza, elemosina, voti.

    Guarda, guarda: una fiorita di maggio, come sui rami d’un frutteto!

    Guarda! fioritura di marzo, come su salici appena schizzati di giallo!

    Questi son di fatto il granaio, dentro ha riposti

    I covoni. Questa palizzata d’un unico splendore racchiude il focolare di Cristo sposo,

    Cristo, la madre e tutti i santi suoi.

    The Starlight Night

    Look at the stars! look, look up at the skies!

    Look at all the fire-folk sitting in the air!

    The bright boroughs, the circle-citadels there!

    Down in dim woods the diamond delves! the elves’-eyes!

    The grey lawns cold where gold, where quickgold lies!

    Wind-beat whitebeam! airy abeles set on a flare!

    Flake-doves sent floating forth at a farmyard scare! —

    Ah well! it is all a purchase, all is a prize.

    Buy then! bid then! — What? — Prayer, patience, alms, vows.

    Look, look: a May-mess, like on orchard boughs!

    Look! March-bloom, like on mealed-with-yellow sallows!

    These are indeed the barn; withindoors house

    The shocks. This piece-bright paling shuts the spouse

    Christ home, Christ and his mother and all his hallows.

    a cura di Luca Fumagalli

    Fonte: https://www.radiospada.org/2016/05/l...anley-hopkins/

  8. #8
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    Coventry Patmore (1823-1896), che in vita fu una figura di riferimento presso i circoli cattolici britannici, oggi è quasi completamente dimenticato. Sopravvive limitatamente in Francia, grazie all’eccellente traduzione che Paul Claudel fece di alcune delle sue poesie, ancora lette dagli ammiratori dello scrittore francese.

    Prima della conversione, avvenuta nel 1864, due anni dopo la morte della moglie, Patmore aveva già scritto molto. Nel 1844 aveva pubblicato un volume intitolato semplicemente Poems, e tra il 1854 e il 1856 aveva prodotto una lunga serie di poemi, The Angel in the House, che elogiavano l’amore coniugale. Il pubblico vittoriano ne fu entusiasta. L’opera di Patmore venne celebrata per la grande capacità di catturare l’immaginazione del lettore presentando uno spaccato domestico fatto d’affetto e tenerezza.
    “The Unknown Eros” (Forgotten Books, 2018)

    Al contrario, To The Unknown Eros (1877-1878), la raccolta successiva alla conversione, difficilmente avrebbe potuto incontrare il favore dei contemporanei. Grazie ad essa, comunque, Patmore divenne uno dei “papisti” più in vista del tempo. Conobbe i poeti Francis Thompson e Alice Meynell con i quali strinse una lunga e duratura amicizia (tra l’altro la Meynell fu, almeno in parte, la responsabile del suo successo). Patmore, che era ossessionato dal raggiungimento di una perfezione stilistica e speculativa, verso gli anni Ottanta entrò in contatto pure col gesuita Gerard Manley Hopkins che seppe fornirgli preziosi consigli.

    To The Unknown Eros vanta componimenti di grande serietà, scritti in versi liberi, che anticipano la poesia del Novecento. Le tematiche legate al cattolicesimo riguardano, in particolare, l’amore umano e quello divino, trattati secondo una prospettiva che esercitò un’ampia influenza su Claudel.

    Uno dei poemi più corti, Vesica Piscis, è un buon esempio dell’arte di Patmore. Riecheggia la storia di uno dei miracoli del Cristo, quando questi ordina ai pescatori, che non hanno catturato nessun pesce in tutta la notte, di gettare di nuovo le reti in mare. L’autore rielabora la vicenda, e alla fine il pescatore ottiene il suo premio: il riconoscimento della divinità nascosta.
    Coventry Patmore

    La poesia più famosa di To The Unknown Eros è The Toys. In essa il poeta, che ha severamente rimproverato il figlio, va nella stanza di quest’ultimo e lo trova circondato dai suoi giocattoli favoriti, «per confortare il suo cuore triste». Davanti a questa visione Patmore non può che pregare: quando morirà vorrà ricordarsi «di quali giocattoli sono fatte le nostre gioie» e di quanto sia lento l’uomo a capire la volontà di Dio. Nonostante il sentimentalismo, i versi riescono ad illustrare efficacemente l’umiltà cristiana e la misericordia divina.

    Coventry Patmore, con il suo lavoro, contribuì al revival della poesia religiosa inglese nella seconda metà dell’Ottocento. Grazie a lui, a Lionel Johnson, a Thompson, alla Meynell e a Hopkins nacque un nuovo modo di concepire la lirica cattolica, moderno e struggente, destinato a influenzare le generazioni successive.



  9. #9
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    Lionel Johnson: Oscar Wilde, l’alcolismo e la poesia cattolica

    Nell’Inghilterra di fine Ottocento, in contrasto con il dilettantismo estetizzante tipico di alcuni dei letterati cattolici che gravitavano intorno a Oscar Wilde, si poté assistere a un vero e proprio revival della poesia religiosa di qualità. Determinante per questo sviluppo fu Lionel Johnson (1867-1902) che, accanto a Francis Thompson e Alice Meynell, produsse alcuni dei componimenti più significativi dell’epoca.

    Pur provenendo anche lui dal circolo di Wilde, la poesia di Johnson vanta una qualità che si eleva di molto rispetto al sentimentalismo d’accatto e al manierismo che caratterizzava la maggior parte dei contemporanei. W. B. Yeats lo considerava una maestro – ne apprezzava, in particolare, l’anelito alla santità e il senso del peccato espresso nei suoi lavori – ed Ezra Pound scrisse una splendida introduzione all’antologia poetica pubblicata nel 1915.
    “Poems” (1895)

    Mentre era studente al New College di Oxford, fu proprio Johnson a presentare a Oscar Wilde suo cugino, Lord Alfred Douglas, quel “Bosie” che avrebbe trascinato l’amante in un disastroso processo causandone la rovina. Comunque, dopo la conversione alla Chiesa di Roma, avvenuta nel 1892, Johnson si allontanò per sempre da Wilde e dalla sua sinistra influenza (narrata con toni accesi nel poema The Destroyer of a Soul). Pubblicò in seguito due libri di versi, Poems (1895) e Ireland and Other Poems (1897), qualche anno prima di morire a causa di una caduta per strada. Dato che Johnson conduceva una vita solitaria a Londra e che negli ultimi tempi era diventato un alcolizzato, qualcuno arrivò addirittura a ipotizzare che la sua morte fosse stata causata da una ferita riportata dopo un capitombolo dallo sgabello di un bar.

    Alcuni dei versi cattolici di Johnson ricordano l’eleganza di un Ernest Dowson, per quanto siano privi della medesima intensità. In Our Lady of France, per esempio, è descritta l’atmosfera che si respira in una piccola chiesa presso Leicester Square in toni simili a quelli impiegati da Dowson in Benediction. Anche The Church of a Dream – il racconto di un vecchio sacerdote che celebra Messa – vanta analoghi riferimenti. L’utilizzo di parole ricercate e di certe espressioni molli e zuccherose del decadentismo rimandano anche allo stile di John Gray.
    “The Religious Poems of Lionel Johnson” (1916)

    La maggior parte della poesia di Johnson, tuttavia, è di ottima fattura. To a Passionist è una vivida rappresentazione del contrasto tra i desideri umani e la felice gravità di un Passionista. Anche A Burden of Easter Vigil è qualcosa di rimarchevole: il poeta si dipinge accanto agli apostoli dopo la crocifissione e prima della resurrezione, restituendo brillantemente il clima di incertezza e paura che aleggia su di loro (lo stesso tema torna nella poesia capolavoro The Dark Angel).

    Nel miglior Johnson il complesso punto di vista va di pari passo con la grande modernità tematica, quel tormentato miscuglio di dubbio e fede che fu del gesuita Gerard Manley Hopkins e che sarà la cifra distintiva della poesia cattolica inglese nella seconda metà del Novecento.

    Fonte: https://www.radiospada.org/2018/06/l...sia-cattolica/

  10. #10
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    Qualche appunto sul poeta Francis Thompson, il fumatore d’oppio che sognava il Regno di Dio

    Dopo il gesuita Gerard Manley Hopkins, Francis Thompson (1859-1907) fu senza dubbio il miglior poeta cattolico inglese di fine Ottocento.

    Originario di una famiglia “recusant” del Lancashire, da sempre fedele alla Chiesa di Roma, in gioventù Thompson tentò di entrare in seminario; fu però respinto a causa di un carattere fragile, troppo incline alla timidezza e alla solitudine. Sulla spinta del padre, che era medico, intraprese allora gli studi di medicina, ma fallì nell’esame per ottenere la qualifica. Nel 1885, dopo essere stato dichiarato inabile al servizio militare, lasciò la casa e andò a Londra, dove finì per tirare a campare alla bell’e meglio, senza fissa dimora, diventando presto un accanito fumatore d’oppio. Due anni più tardi, nel febbraio del 1887, sull’orlo della disperazione mandò alcuni dei suoi poemi, incluso The Passion of Mary, all’editore cattolico Wilfrid Meynell (a cui, più tardi, avrebbe chiesto aiuto anche lo scrittore Frederick Rolfe, conosciuto con lo pseudonimo di Baron Corvo). Wilfrid pubblicò gli scritti di Thompson e con la moglie Alice – anch’essa poetessa di grande talento – si prese cura di lui, salvandolo dal degrado e riportandolo sulla retta via. Lo scrittore Coventry Patmore lo invitò a non sprecare il suo grande talento letterario, e così, tra il 1893 e il 1897, Francis Thompson firmò tre antologie poetiche che ottennero un buon successo di pubblico e critica. Purtroppo, nonostante tutti gli sforzi, la dipendenza dall’oppio non fu mai del tutto estirpata. Il fisico di Thompson, minato dal vizio, fu facile preda della tubercolosi che lo condusse alla morte non ancora cinquantenne.
    “The Hound of Heaven” (edizione con prefazione di G. K Chesterton)

    Nei migliori versi di Thompson c’è una forza tale da renderli inconfondibili. La sua creazione più famosa, il lungo poema The Hound of Heaven, “Il mastino del Cielo”, rappresenta, secondo una prospettiva agostiniana, il tentativo del poeta di sfuggire alla chiamata di Dio. Per quanto lo stile sia il più delle volte imperfetto, poco levigato, la profondità dell’esperienza religiosa e il modo originale di narrarla sono i due grandi punti di forza della poesia di Thompson. Ne è un esempio The Kingdom of God, in cui si dimostra come il Regno di Dio non sia, in realtà, qualcosa di lontano e irraggiungibile; al contrario è parte delle vita quotidiana, bisogna solo accorgersene. Dio è dappertutto, pure nei sudici sobborghi che una volta Thompson frequentava, tra droghe e prostitute, dove abita quel dolore e quella sofferenza che avvicinano l’uomo a Cristo.

    In Inghilterra Francis Thompson esercitò una profonda influenza sugli scrittori cattolici delle generazioni future. La lettura del romanzo di Antonia White, Frost in May (1933), testimonia il grande consenso di cui il poeta godette presso i giovani del periodo tra le due guerre mondiali: per la prima volta un versificatore “papista” parlava al cuore di coloro che erano alla ricerca di Dio.

    Fonte: https://www.radiospada.org/2018/06/q...-regno-di-dio/

 

 
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