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    Predefinito Le ceneri di Gramsci (1977)




    di Ernesto Galli della Loggia – “Mondoperaio”, gennaio 1977, pp. 48-57.


    La “semplificazione” politica del pensiero di Gramsci da parte di Massimo L. Salvadori, a cui i testi dànno ragione, rischia di lasciare in ombra altre applicazioni che il PCI ha fatto e continua a fare del concetto di egemonia. Applicazioni che finiscono con il muoversi, di nuovo, in senso contrario alla linea democratica e pluralistica, che è ora quella del partito: principalmente riguardo al settore della cultura e degli intellettuali.

    Gramsci definisce e analizza il ruolo dell’intellettuale, impoverendone enormemente i contenuti, quasi esclusivamente nella prospettiva del generale progetto educativo che gli sta a cuore. Che questo progetto educativo sia intimamente autoritario e antidemocratico, non c’è dubbio: del resto, come potrebbe essere diversamente se esso deve mirare all’egemonia? Ma quel che più conta, forse, è che esso è antidemocratico, “totalitario”, in un senso tecnico: intellettuali individuali, scuola, partito, e infine Stato fanno corpo tutt’uno e devono fare corpo tutt’uno per poterlo portare a compimento.


    Che le convinzioni ideologiche e le conseguenti proposte politico-strategiche di Antonio Gramsci possano esser fatte rientrare, o per lo meno adattate, agli schemi della democrazia parlamentare contemporanea è un’idea che, a dispetto degli sforzi sommi prodigati in sede teorica dal Partito comunista negli ultimi venti anni, si rivela di ben scarsa consistenza non appena si vadano a leggere (o a rileggere) i testi con la mente sgombra. Proprio tale lettura, o rilettura, ha fatto Massimo L. Salvadori[1] e le sue conclusioni mi sembrano su questo punto inoppugnabili: lo prova, del resto, la risposta elusiva e divagatoria che Luciano Gruppi gli ha dato dalle colonne di Rinascita[2], dove ancora una volta si vede quale impresa difficile sia, per gli uomini come per i partiti, l’uccisione dei propri padri.
    Gramsci dunque, è assodato, tutto era tranne quello che noi chiameremmo un democratico, e di democratico e pluralista ben poco ha la sua concezione dell’egemonia come strada maestra della rivoluzione socialista. Essa, scrive Salvadori, non è altro che la leniniana dittatura del proletariato, ma in una versione che tiene conto del fatto che, specialmente nelle condizioni dell’Europa occidentale, uno stabile dominio politico può aversi solo se ad esso si accompagna un’adeguata capacità di direzione culturale intellettuale e morale su tutta la società. Ma la sostanza politica quella è e quella rimane, e con la concezione dello Stato di matrice liberal-parlamentare che il PCI ha oggi fatto propria non ha niente a che spartire[3].
    Detto questo, a me pare, tuttavia, che lo scritto di Salvadori, sebbene pienamente giustificato in quanto mira a capovolgere l’interpretazione che del pensiero di Gramsci sono andati fornendo i comunisti con una disinvoltura filologica degna di miglior causa – pienamente giustificato cioè su di un piano politico, di fronte all’uso politico che del fondatore del PCI fanno i suoi successori – lasci però nell’ombra molte cose e molti problemi, e trascuri eccessivamente la ricchezza di significati che nel concetto di egemonia Gramsci racchiude. In altre parole, di fronte a una operazione politica quale quella compiuta da Togliatti, Gruppi e compagni, Salvadori compie un’analoga operazione di segno contrario, ma pur sempre politica. Naturalmente con una differenza non trascurabile: che i testi dànno ragione a lui e non ai comunisti. Ma resta il fatto che da questa “semplificazione” politica il pensiero di Gramsci esce comunque indebitamente impoverito. Ora non solo ciò contrasta con “l’esatta determinazione del significato della teoria gramsciana, dei ‘segni’ suoi propri, della natura e degli scopi ad essa inerenti”[4], ma, quel che più importa, ciò rischia di lasciare in ombra altre applicazioni non immediatamente politiche che il PCI ha fatto e continua a fare del concetto di egemonia in settori importanti della vita sociale. Applicazioni che finiscono con il muoversi, di nuovo, in senso contrario alla linea democratica e pluralistica che è ora quella del partito. Mi riferisco principalmente al settore della cultura e degli intellettuali, del quale vorrei appunto trattare nelle pagine che seguono.

    (...)


    [1] Cfr. Massimo L. Salvadori, Gramsci e il PCI: due concezioni dell’egemonia, in “Mondoperaio”, novembre 1976.

    [2] Cfr. Luciano Gruppi, L’esigenza di una nuova guida, in “Rinascita”, n. 50, 17 dicembre 1976.

    [3] Cfr. Massimo L. Salvadori, art. cit., p. 64.

    [4] Cfr. Ibidem, p. 60.
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    Predefinito Re: Le ceneri di Gramsci (1977)

    Due accezioni dell’egemonia

    In Gramsci il concetto di egemonia presenta un certo margine di ambiguità. Non saprei dire se tale margine di ambiguità derivi dal carattere, chiamiamolo così, disordinato che è proprio di una stesura di note e di appunti quali i Quaderni in sostanza sono, o se invece ambigui fossero proprio nella mente di Gramsci il termine stesso e la sua latitudine di significati. Nei Quaderni appaiono coesistere e sovrapporsi almeno due accezioni di egemonia: la prima, che chiamerei di direzione strategica, e che mi pare trovi la sua più importante applicazione interpretativa nella celebre analisi del rapporto tra moderati e Partito d’azione durante il Risorgimento nonché della parte avuta dai giacobini nella Rivoluzione francese; e la seconda, che Gramsci chiama “politica”, di contenuto intellettuale ed etico, il cui ambito d’elezione è la società civile, e che può comprendere, ma non necessariamente si identifica con la prima.
    Perché questa duplice accezione? Probabilmente essa è il frutto di una duplicità d’interessi e di piani su cui il pensiero di Gramsci si muoveva: da una parte, il tentativo di capire le ragioni del successo in certe congiunture di crisi rivoluzionaria di alcune invece che di altre soluzioni strategiche e ad opera di un partito più che di un altro; dall’altra parte, il tentativo di definire le fasi e i modi del mutamento sociale e la natura delle mentalità collettive che a un determinato ordinamento fanno da supporto o che provocano il suo rovesciamento. Superfluo osservare che, essendo Gramsci un rivoluzionario, fu questo piano che maggiormente finì per prenderlo, anche perché, come ho già detto, molto spesso esso comprendeva pure il primo. Ma nei Quaderni questo tuttavia esiste, con una sua autonomia che a me pare lo renda diverso dall’altro. I suoi due massimi campi d’applicazione (la politica dei giacobini e dei moderati italiani) valgono a chiarire dove sta la differenza. L’azione dei giacobini e dei moderati è esaminata da Gramsci all’interno della loro rispettiva classe di appartenenza, cioè la borghesia. Gli uni e gli altri rappresentano una frazione soltanto di quella classe, un gruppo che si contrappone ad altri gruppi e per l’appunto li egemonizza. Beninteso, anche tale egemonia poggia su una base “intellettuale e morale”, ma il suo senso proprio è quello di incarnare gli interessi complessivi di tutta la classe in una serie di determinati atti di direzione e di strategia politica “nel senso dello sviluppo storico reale”, ottenendo il favore degli altri gruppi con le buone o con le cattive, o con entrambe.
    Alle prese con tutt’altri spessori veniamo invece a trovarci quando Gramsci comincia a delineare una sorta di vera e propria filosofia della storia e introduce il concetto di “fase egemonica” che poi lo condurrà alle indicazioni di strategia rivoluzionaria per i paesi dell’Occidente il cui risvolto più immediatamente politico ha indotto Salvadori a prendere la penna in mano.
    In questo caso Gramsci ha gli occhi rivolti non già a momenti singoli di direzione strategica da parte di un gruppo sulla propria classe che in quel momento rappresenta lo sviluppo storico reale, bensì abbraccia con lo sguardo nulla di meno che l’intero processo di formazione dello Stato europeo moderno dall’età dei Comuni fino ai giorni nostri (o, per meglio dire, ai giorni suoi) allo scopo di ricavarne una vera e propria teoria dello sviluppo della formazioni sociali.
    In tale sviluppo egli distingue tre momenti che, sebbene possano essere anche sincronici, nella storia dell’Occidente tuttavia si distendono su un arco secolare: 1) il momento del rapporto delle forze sociali; 2) il momento del rapporti delle forze politiche; 3) il momento del rapporto delle forze militari. Per spiegare sommariamente, potremmo dire che, mentre è nell’ambito del primo momento che di volta in volta nascono e crescono le classi destinate e prendere la guida del movimento storico, così come è sempre in questo ambito che si trovano le basi strutturali della classe che in un momento dato ha effettivamente quella guida; mentre è nell’ambito del terzo che immediatamente si decide il cambio della guida da una classe all’altra, è nel secondo ambito che si sviluppano l’autocoscienza che una classe ha di se stessa e quindi la sua omogeneità, e perciò è in questo ambito che si sviluppano le “superstrutture complesse” e si stabilisce, si deve stabilire, l’egemonia ideologica di quella stessa classe su tutta la società.

    (...)
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    Predefinito Re: Le ceneri di Gramsci (1977)

    La politica come autocoscienza

    Scrive Gramsci che “lo sviluppo storico oscilla continuamente tra il primo e il terzo momento, con la mediazione del secondo”[1]. Egli aggiunge poi che è possibile scindere questo momento di composizione mediatrice a sua volta in tre momenti “che corrispondono ai diversi gradi della coscienza politica, così come si sono finora manifestati nella storia”[2] (sottolineatura mia): il momento “economico primitivo” in cui si ha la coscienza del “gruppo professionale”; il momento “economico-politico” in cui si afferma la coscienza del “raggruppamento sociale, ma ancora nel campo puramente economico”; e infine un terzo momento “in cui si raggiunge la coscienza che i propri interessi ‘corporativi’, di raggruppamento economico, cioè, e possono e debbono divenire gli interessi di altri raggruppamenti subordinati; questa è la fase più schiettamente ‘politica’ che segna il netto passaggio della pura struttura alle superstrutture complesse, è la fase in cui le ideologie germinate precedentemente vengono a contatto ed entrano in contrasto fino a che una sola di esse, o almeno una sola combinazione di esse, tende a prevalere, a imporsi su tutta l’area determinando oltre che l’unità economica e politica anche l’unità intellettuale e morale, su un piano non corporativo, ma universale, di egemonia di un raggruppamento sociale fondamentale sui raggruppamenti subordinati[3] (sottolineature mie).
    Questa armonica, troppo armonica, costruzione triadica ci mette di fronte a due punti capitali nel pensiero. Il primo è che la politica è, non può non essere, la coscienza: nel duplice senso di consapevolezza, autocoscienza, e di eticità; al suo punto massimo la politica, scrive Gramsci, si identifica con la coscienza morale[4]. Si stabilisce in tal modo l’equiparazione Egemonia = Politica = Coscienza = Direzione, in base alla quale egli può affermare a ragione che il principio dell’egemonia è in sostanza un principio etico-politico divenuto ideologia collettiva perché ideologia di un blocco storico “in cui contenuto economico-sociale e forma etico-politica si identificano”[5]. Il contenuto economico-sociale impedisce di considerare la politica così intesa come un fatto di pura “passione” (al modo per esempio in cui Croce la considerava) e le garantisce la razionalità; d’altra parte, la forma etica di “unità intellettuale e morale non corporativa ma universale” assicura per l’appunto a quel contenuto la capacità egemonica e, diciamo così, la sua dignità storica da un punto di vista generale.
    Ed eccoci al secondo punto: poste così le cose, è ovvio che in un dato momento storico che non sia ovviamente di crisi generale non vi può che essere una e soltanto una egemonia che informa di sé il corpo sociale. Ma proprio perché l’egemonia più che intendere un mero fatto ideologico allude, starei per dire, a un’assenza antropologica, evoca l’ideal-tipo centrale di una fase storica[6], con essa non può esser fatta questione di pluralismo (e quindi di democrazia). Parlando di egemonia, Gramsci parla di caratteri storico-sociali dell’epoca e non già del meccanismo di un sistema politico (formazione della volontà, designazione dei governanti, meccanismi di controllo, ecc.); parla, per intenderci, come di queste cose parla Hegel, e a nessuno verrebbe certo in mente di accusare solo per questo Hegel di essere un nemico dei diritti civili e delle libertà politiche[7].

    (...)


    [1] Cfr. Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Torino 1975, p. 458.

    [2] Ibidem, p. 457.

    [3] Ibidem, pp. 457-58.

    [4] Ibidem, p. 1223, dove Gramsci definisce la propria concezione “concezione Stato-egemonia-coscienza morale”.

    [5] Ibidem, p. 1236.

    [6] L’egemonia, in sostanza, è l’autocoscienza “universale” di una classe (cioè di un contenuto economico) che si pome come “classe generale”, la quale autocoscienza diviene carne, sangue e anima, “ideologia”, dell’individuo ideal-tipico di una epoca fino ad essere vissuta, nelle forme più intime e diffuse come “religione popolare”.

    [7] Se la nostra analisi del concetto gramsciano di egemonia è giusta, appare allora evidente che l’accezione politica cui tanto i comunisti che i loro avversari (Salvadori) piegano i contenuti di quel concetto, gli uni per immaginarne esiti verso forme di governo democratico, gli altri, viceversa, per illustrarne i contenuti “totalitari”, è fuorviante. Ai comunisti si può rispondere che il concetto, così come per Gramsci lo adopera (ed egli lo adopera tanto per la borghesia come per il proletariato) lascia assolutamente impregiudicato il problema delle specifiche forme politiche; ai loro avversari si può obiettare che se il concetto gramsciano di egemonia ha contenuti “totalitari” ciò è vero nello stesso senso in cui sarebbe “totalitario” parlare ad esempio di un’ “età della borghesia”. Chi come Salvadori giudica, appiattendolo politicamente, “totalitario” il concetto di egemonia, dovrebbe per logica conseguenza concludere che la borghesia, compiendo la sua costruzione dello Stato modellando la società a sua immagine, ha fatto opera “totalitaria” e antidemocratica.
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    Predefinito Re: Le ceneri di Gramsci (1977)

    Il ruolo degli intellettuali organici

    Avendo definito la politica come la sfera dell’autocoscienza teorica e della formazione-affermazione delle concezioni del mondo, e dunque come la sfera della direzione intellettuale e morale (cioè dell’egemonia), era inevitabile che Gramsci ponesse al centro delle sue riflessioni la figura e il ruolo degli intellettuali.
    “L’autocoscienza – egli scrive – storicamente significa creazione di un’avanguardia di intellettuali: una massa non si ‘distingue’ e non diventa ‘indipendente’ senza organizzarsi e non c’è organizzazione senza intellettuali, cioè senza organizzatori e dirigenti”[1].
    Per uscire dall’angustia dell’economismo e assurgere alla sfera dell’autocoscienza, per essere cioè in grado di fare politica in senso proprio – cioè di muoversi nella direzione dell’egemonia e dell’edificazione dello Stato[2] - e arrivare preparati, se necessario, alla prova decisiva delle armi, è indispensabile che ogni classe sappia formarsi gli intellettuali ad essa “organici”: gli intellettuali, vale a dire, che elaborino e diffondano la sua concezione del mondo. Anzi (possiamo immaginare avrebbe detto Gramsci) finché non si realizza questa operazione intellettuale non si può neppure parlare di una classe vera e propria ma solo di “raggruppamento economico”.
    Attività politica e attività intellettuale sono una cosa sola, tanto più che “ogni atto storico non può non essere compiuto dall’ ‘uomo collettivo’ [e ciò] presuppone il raggiungimento di una unità culturale-sociale per cui una molteplicità di voleri disgregati, con eterogeneità di fini, si saldano insieme per uno stesso fine, sulla base di una uguale e comune concezione del mondo”[3]. Ecco perché Gramsci afferma che lo sviluppo politico del concetto di egemonia realizza l’unità tra teoria e prassi e rappresenta dunque un elemento centrale del marxismo.
    Come farà la classe operaia a rovesciare la condizione di ovvia subalternità in cui essa di trova rispetto alla classe borghese sul terreno della costruzione di un’egemonia? È nota la risposta di Gramsci: attraverso il partito. Per la classe operaia “il partito politico è niente altro che il modo proprio di elaborare la propria categoria di intellettuali organici”[4], non importa di quale livello. Tanto più il proletariato ha bisogno del partito in quanto, a differenza della borghesia che ha alle spalle il vasto retroterra della società civile, esso è invece caratterizzato da una notevole povertà di “energie private”. Questa diversità di posizione sociale e la diversa epoca storica in cui avviene l’ascesa del proletariato rispetto a quella della borghesia, osserva sempre Gramsci, ha l’importante conseguenza che mentre “l’intellettuale immediato del capitalismo era ‘l’industriale’ organizzatore della produzione”, date le nuove condizioni dell’economia di massa la funzione subalterna del proletariato nel processo produttivo, ora la “selezione individuale avviene nel campo intellettuale e non in quello economico”[5]; perciò, oltre che per le condizioni di formazione, di vita e di sviluppo della classe operaia, i suoi intellettuali organici sono destinati a formarsi “direttamente nel campo politico e filosofico e non già nel campo della tecnica produttiva”[6].

    (...)


    [1] Cfr. Antonio Gramsci, op. cit., p. 1042.

    [2] Scrive Gramci: “La fondazione di una classe dirigente (cioè di uno Stato) equivale alla creazione di una Weltanschauung” (sottolineatura mia), Ibidem, p. 881.

    [3] Ibidem, pp. 1330-31.

    [4] Ibidem, p. 1552.

    [5] Ibidem, p. 1042.

    [6] Ibidem, p. 1522. In questa e nelle precedenti affermazioni si compendiano i motivi che spingono Gramsci a opporsi recisamente all’idea di un partito modellato sull’esempio laburista, un partito cioè in cui l’adesione e la milizia avvengono all’insegna dell’organizzazione sindacale, cioè all’insegna di un contenuto economico-corporativo. Con il laburismo la politica della classe operaio può essere una politica di “interessi” ma giammai una politica elaboratrice di una concezione del mondo, cioè egemonica.
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    Predefinito Re: Le ceneri di Gramsci (1977)

    Nelle braccia di Hegel

    Il lettore mi perdonerà se finora non ho fatto altro che riassumere le linee generali di un pensiero che gli è largamente noto; ma ciò mi è parso necessario per tentare di affrontare con chiarezza il merito del significato che oggi hanno per noi alcune elaborazioni fondamentali di Gramsci. Le quali, per continuare ad essere chiari, portano secondo me alle seguenti conclusioni: a) il tema dell’egemonia sorge e si muove, in Gramsci, su un terreno storico-interpretativo che è difficilmente proponibile per le società contemporanee; b) l’elaborazione che lo stesso Gramsci fa di tale tema, se applicata oggi, porterebbe di conseguenza a esiti regressivi; c) fintanto che il PCI dice di fare proprio il senso (si badi: il senso, non già le conclusioni) del pensiero di Gramsci in proposito, o mistifica questo pensiero, ovvero, pur senza rendersene conto, avalla comportamenti individuali e modelli di pensiero anch’essi regressivi.
    È mia opinione che, grazie e tramite il concetto di egemonia, Gramsci abbia voluto tracciare, e di fatto abbia tracciato, un abbozzo di scienza storica della politica. Ora, è importante notare come, per condurre questo studio e nel trarne le conclusioni del caso, Gramsci sia rimasto condizionato in modo decisivo, e direi quasi affascinato, da due elementi, che poi a ben guardare sono uno solo: il primo, di natura fattuale, e cioè il caso storico dell’ascesa della borghesia e della costruzione del suo dominio, il secondo, di natura teoretica, rappresentato dell’interpretazione che di quel caso ebbe a dare Hegel costruendovi sopra e intorno la sua filosofia della storia.
    Senza fornire alcuna prova circa la plausibilità dell’operazione cui si appresta, Gramsci innalza il caso storico della borghesia a ideal-tipo, a modello euristico di validità generale e quindi indicativo di quelli che saranno e/o dovranno essere le forme e i modi della futura ascesa del proletariato. La storia diviene nelle sue pagine magistra politicae della classe operaia. Gramsci, insomma, sembra ben lontano dal credere che, nel processo storico di formazione e di avvicendamento al potere delle classi, le cose non si ripetono mai alla stessa maniera, e che dunque un conto sono stati i modi e le forme del passaggio da una società d’ancien régime, gerarchizzata, a base contadina, con una fortissima presenza di ideali e valori collettivi, a una società industriale, di spiccata mobilità sociale, individualistica, e tutt’altro conto è presumibile che sia il passaggio da questa alla futura società a direzione operaia.
    Non solo, ma, come dicevo, questo ricalco della storia presente e futura su quella passata viene condotto e dedotto entro uno spesso involucro hegeliano. Si può affermare, del resto, che fosse difficile per Gramsci evitare un trabocchetto del genere. Dal momento, infatti, che egli si dice convinto della presenza nel marxismo di una teoria della politica ma non è in grado, come nessuno lo è, di rinvenirne qualche traccia consistente in Marx, è quasi fatale che, data la sua formazione (e, cosa forse ancora più importante, dato il suo punto di osservazione, e cioè l’Italia, vale a dire un paese debolmente industrializzato e capitalistico), egli si trovi nelle braccia di Hegel.
    Su questo punto vorrei richiamare l’attenzione. Si è ripetuto e si ripete di continuo che, elaborando la sua teoria dell’egemonia, Gramsci avrebbe riempito un vuoto di Marx e che in questo modo egli avrebbe contribuito ad aprire la via della rivoluzione in Occidente, da una parte completando il marxismo di una teoria della politica, dall’altra, e perciò stesso, rendendolo praticabile alle condizioni storiche dei nostri tempi e delle nostre contrade. Nulla, a mio giudizio, di più discutibile. È vero, infatti, che Gramsci ha riempito il vuoto di Marx, ma lo ha riempito con Hegel, vale a dire con qualcosa non solo che potrebbe dirsi essenzialmente pre e anti-marxista (ciò che a noi che poco ci curiamo di eresie e ortodossie importerebbe quasi nulla) ma, quel che più conta, con qualcosa del tutto inadatto a rendere conto proprio della condizioni storiche dei nostri tempi e delle nostre contrade.
    Per Gramsci, lo si è visto, la politica è in sostanza la conquista dell’egemonia e questa, a sua volta, è l’affermazione sociale di una concezione del mondo a opera di un’avanguardia che abbia raggiunto l’autocoscienza, cioè di un’avanguardia di intellettuali (intendendo il termine nella sua più vasta accezione). Per Gramsci, coerentemente con l’ispirazione hegeliana che lo anima, non vi è dubbio che ad ogni fase del processo storico corrisponde una determinata concezione del mondo, come tale autosufficiente, costitutiva di quella fase e in essa dominante; ma, soprattutto, egli non ha dubbi sul fatto che ogni concezione del mondo sia il frutto di un processo di nascita e di allargamento della coscienza. È vero, infatti, che egli afferma che il fondamento dell’egemonia è sempre economico, ma resta che l’economismo, per l’appunto, non fa storia, perché esso non è capace di fare politica e quindi di conquistarsi l’egemonia. Ne deriva che la storia del mondo nasce e può nascere solo dalle concezioni del mondo in quanto manifestazioni di adeguata consapevolezza critica. Ma poiché tra i due termini (situazione economica e concezione del mondo) non vi è alcun rapporto di causalità necessaria, è lecito chiedersi: adeguata a che cosa? Hegel avrebbe risposto: alla realizzazione storica dell’Idea. Ovviamente Gramsci non dà questa risposta, ma lascia scoperto questo tassello, non irrilevante, del suo mosaico. Insomma, l’introduzione di un elemento coscienziale-qualitativo e volontaristico (quale per forza è ogni politica e ogni teoria della politica) in una costruzione razionale-finalistico-quantitativa (quale indubbiamente è il marxismo) provoca un corto circuito teorico.

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    Predefinito Re: Le ceneri di Gramsci (1977)

    Il divorzio tra ideologia e politica

    Non di questo mi preme comunque parlare, e neppure starò a discutere se effettivamente nell’ascesa della borghesia tra XII e XIX secolo le cose siano effettivamente andate secondo lo schema triadico e con i modi e le forme dell’egemonia indicati da Gramsci. Quello che conta maggiormente è il fatto che nelle democrazie capitalistiche di massa sembra del tutto irreale immaginare di volgere in pratica una siffatta teoria della politica. Dovrebbe ormai essere chiaro a tutti che nelle nostre società l’ideologia è qualcosa che ha a che fare pochissimo, se non addirittura nulla, con la “coscienza”. Diremmo, anzi, che oggi nell’Occidente capitalistico l’egemonia, il cemento culturale che tiene insieme il corpo sociale, non è rappresentata da alcuna ideologia (nel senso classico e degno del termine), bensì da un impasto di stili di vita, di comportamenti, di desideri, se si vuole anche di nevrosi, che hanno la loro origine e il loro fine nel mondo delle merci, nella loro produzione e nel loro consumo, e quindi nella loro distribuzione[1]. Ciò produce un effetto di omogeneità tale da far apparire pressoché impossibile quell’opera di “separazione” e di “distinzione” all’interno della società che Gramsci identificava con l’acquisizione da parte della classe operaia di un’identità teorico-politica sua propria, “inaccessibile al campo avversario”.
    Se è vero che ogni concezione del mondo presuppone dei valori, sembra assai arduo sostenere che nel nostro mondo vi siano valori di autocoscienza, di consapevolezza critica nell’accezione che intendeva Gramsci, cioè di misura e spessore tali da costituire una qualche Weltanschauung. Ugualmente assai arduo sarebbe sostenere che la lotta politica – ciò di cui Gramsci era invece fermamente convinto – sia una lotta di Weltanschauungen, o trovare qualcuno a cui venga in mente che tale debba essere. Certo non al Partito comunista.
    Il PCI sa bene – e si fa anzi un vanto di fondare proprio su questa base la sua strategia – che tra democristiani e comunisti, tra credenti e non credenti, non ci può né ci deve essere alcuna distinzione e tanto meno alcuna lotta di Weltanschauungen, perché ai fini politici che al partito stanno a cuore, e che stanno a cuore a questi credenti o non credenti, le “concezioni del mondo” (con le virgolette appunto perché tali non sono, ma qualcosa di molto più semplice) sono pressoché identiche. E tali debbono restare. Ma ciò si spiega: da un punto di vista storico generale, infatti, non sarebbe illecito sostenere che i regimi industrial-democratici di massa sono resi possibili, e non precipitano alla prima congiuntura difficile in crisi irrimediabili, proprio perché nella società si è attuata o si va attuando una generale dissoluzione delle concezioni del mondo in quanto forze dotate di una loro vitalità e capaci dunque di produrre effetti di qualche rilievo. Proprio in quanto il PCI è un partito democratico, o vuole esserlo, esso non è portatore di alcuna concezione del mondo e tanto meno, quindi, è in grado (almeno stando a Gramsci, e non alle interpretazioni che se ne fanno) di concepire neppure lontanamente alcun disegno egemonico, neppure nel senso “buono” del termine. Senso “buono” che era in Gramsci un senso rivoluzionario.
    Questo è il punto, e non già se l’egemonia gramsciana sia o no compatibile con il rispetto degli ordinamenti democratici. Certo che non lo è; non lo è perché essa esprime e si nutre di un proposito, detto e gridato, di rivoluzione sociale, e chiunque è mosso da propositi del genere non può che farli scaturire da una Weltanschauung inconciliabile con quella vigente. Gramsci dunque non era antidemocratico perché ha parlato di egemonia e la sua egemonia aveva contenuti “dittatoriali”; era antidemocratico semplicemente perché era un rivoluzionario. Che si sappia, nell’Europa dell’età contemporanea non si è ancora visto nessun rivoluzionario che si sia detto o sia stato democratico, perché altrimenti, con buona pace dei suoi interpreti, non si capisce che razza di rivoluzionario avrebbe potuto essere. Alla luce di queste considerazioni cadono, o per meglio dire si rivelano per quello che sono – costruzioni retoriche, compiacimento encomiastico, velleità teoretiche mal riposte – tutti i discorsi che gli intellettuali comunisti (sempre più gli intellettuali, ma sempre meno il partito) sono soliti fare a proposito di egemonia e annessi e derivati (di alcuni dei quali più avanti).
    La migliore critica a questi discorsi che da venti anni si fanno è data, come dicevo, dalla politica stessa del PCI. Mai come oggi appare chiaro che il Partito comunista non ha da proporre (non sa e non vuole) nulla di radicalmente alternativo, nulla che appartenga ad una specifica concezione del mondo. Di fronte alla più grave crisi che l’apparato produttivo capitalistico del paese abbia conosciuto da trent’anni a questa parte, il PCI, per fare politica, non sa pensare a niente di meglio (e secondo me saggiamente) che a rimettere in funzione quello esistente con alcune non sostanziali modifiche (su quali modifiche ci sarebbe invece da discutere). Cedendo per un momento solo alla tentazione del sarcasmo, potremmo chiedere a Luciano Gruppi o a qualcuno dei suoi compagni intellettuali di spiegarci chi è che in questo caso è o tende a essere egemone: la concezione del mondo del PCI (che come ho già detto non esiste perché il PCI è un partito che ha scelto la logica democratica) o quella del capitalismo?

    (...)


    [1] Nel termine “merce” e nel termine “consumo”, beninteso, vanno inclusi anche fatti come il sesso, il divertimento, ecc., solo che si tenga presente il modo in cui questi sono vissuti e sentiti nell’ideologia dominante in Occidente.
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    Predefinito Re: Le ceneri di Gramsci (1977)

    L’incomprensione della democrazia di massa

    Ma un’altra e più importante e significativa prova si può addurre del carattere irreale, e quindi fallace, nelle condizioni storiche attuali, della concezione gramsciana a proposito dell’egemonia e del modo di intendere la politica. Questa seconda prova riguarda i gravi fraintendimenti a cui porta la suddetta concezione se la si applica, come Gramsci l’applica, a intendere le trasformazioni delle società contemporanee.
    A noi oggi è ben chiaro che la I guerra mondiale, dal punto di vista del dominio sociale esercitato dalla “borghesia”, segnò una svolta. Essa corrispose al venir meno di ogni concezione del mondo da parte della borghesia, e all’instaurazione della nuova egemonia non ideologica di cui si diceva sopra, con relativa nascita dei regimi democratici di massa. Gramsci non si rese affatto conto di questa svolta qualitativa dell’egemonia, tutto chiuso com’era nella concezione “hegeliana” di essa.
    L’attenzione di Gramsci è attratta da quello che egli chiama “il distacco tra ‘spirituale’ e ‘temporale’” nella società del dopoguerra. Di fronte ai nuovi fenomeni legati all’emergere degli strati piccolo-borghesi, i grandi intellettuali tradizionali della borghesia (leggi per tutti Benedetto Croce) sarebbero stati spinti, infatti, a vedere in tali fenomeni null’altro che il dispiegarsi dell’ “irrazionalità”, ad allontanarsi quindi sdegnati dalla sfera sociale, e a concepire se stessi come una “internazionale” a se stante e al di sopra delle parti. Ma questa “crisi di autorità” dell’ambito della scienza e dell’alta cultura sulla società significa, osserva Gramsci, che “i raggruppamenti sociali regressivi e conservativi (cioè la borghesia) si riducono sempre più alla loro fase iniziale economico-corporativa”. Quest’insieme di fatti, egli aggiunge, “segnano e sanzionano la crisi statale nella sua forma decisiva”, significano un “processo di disintegrazione dello Stato moderno” “molto più catastrofico del processo storico medievale che era disintegrativo e integrativo nello stesso tempo” (sottolineature mie)[1]. E in un altro passo, sempre con palese riferimento alla crisi del primo dopoguerra, Gramsci scrive che “ogni cultura ha il suo momento speculativo o religioso che (…) forse coincide proprio col momento in cui l’egemonia reale si disgrega alla base, molecolarmente, ma il sistema di pensiero, appunto perciò (per reagire alla disgregazione) si perfeziona dogmaticamente, diventa una ‘fede’ trascendentale: perciò si osserva che ogni epoca così detta di decadenza (in cui avviene una disgregazione del vecchio mondo) è caratterizzata da un pensiero raffinato e altamente ‘speculativo’”[2].
    Ecco il senso dell’analisi di Gramsci: l’abbandono della sfera sociale da parte dei “grandi intellettuali tradizionali”, il fatto che essi non si riconoscano più in tale sfera, e che perciò la loro cultura diventi “raffinata” e “speculativa” (noi diremmo “dissolvente”, “decadente” o termini consimili), significa che la borghesia, e quindi lo Stato borghese (si noti la sostanziale coincidenza dei due termini, riprova dell’incapacità da parte dell’autore dei Quaderni di considerare cose diverse la concezione del mondo di una classe e i meccanismi di dominio, anche ideologico, propri dei suoi rapporti di produzione) non è più in grado di esercitare alcuna egemonia e che, di conseguenza, l’una e l’altro sono destinati alla “disgregazione”. Questa analisi indica come Gramsci non sapesse immaginare che all’egemonia intellettuale di vecchio stampo sette-ottocentesco se ne andasse sostituendo un’altra, e che proprio la fase “economico-corporativa” aprisse la strada a un’egemonia molto più vasta e capillare della precedente. Gramsci non sapeva pensare ad altra stabile integrazione sociale che non fosse quella di un’egemonia ideologica sostanzialmente gestita da intellettuali. Non meravigli dunque che il suo discorso si chiuda con questa affermazione per noi sorprendente: “L’America non ha ancora superato la fase economico-corporativa, attraversata dagli Europei nel Medio Evo, cioè non ha ancora creato una concezione del mondo e un gruppo di grandi intellettuali che dirigono il popolo nell’ambito della società civile: in questo senso è vero che l’America è sotto l’influsso europeo, della storia europea” (sottolineatura mia)[3]. Per l’hegelismo, che le concezioni del mondo si possano surrogare con i frigoriferi e gli apparecchi televisivi rappresenta una mostruosità oltre i limiti del pensabile.

    (...)


    [1] Cfr. Antonio Gramsci, op. cit., p. 690-92.

    [2] Ibidem, p. 1482.

    [3] Ibidem, p. 692.
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    Predefinito Re: Le ceneri di Gramsci (1977)

    L’intellettuale “disorganico”

    In Gramsci il tema dell’egemonia fa corpo e tutt’uno con quello degli intellettuali. A me pare che anche su questo argomento nei Quaderni vi sia un’evidente e non suffragabile estrapolazione dall’ieri all’oggi, sì che noi c’imbattiamo in essi in un insieme di posizioni affatto estranee al modo in cui il problema degli intellettuali si pone per le società contemporanee dell’Occidente. Ne deriva che chiunque volesse oggi applicare quelle indicazioni finirebbe per oscillare di continuo tra la menzogna e atteggiamenti regressivi. A tale proposito, mi pare importante notare come il Partito comunista, mentre nella sua azione ha di fatto posto in soffitta l’idea gramsciana di egemonia, viceversa si ostina a crederne e a divulgarne come tuttora valida l’appendice che riguarda gli intellettuali. Anche se è da dire che in questo campo specialmente sono soprattutto gli intellettuali gravitanti intorno al partito, piuttosto che il partito stesso, a mantenere in piedi e ad alimentare polverose e codine mitologie.
    Accettando l’impostazione gramsciana del problema degli intellettuali e la loro centralità nella costituzione dell’egemonia (nonché la centralità dell’egemonia per l’esistenza di una classe dirigente e di uno Stato) non si può sfuggire alla conseguenza, cui difatti Gramsci non sfugge, di ritenere inconcepibile l’esistenza di uno strato di grandi intellettuali (ma forse si direbbe meglio di un’alta cultura) permanentemente “disorganici”. È singolare che tale inconcepibilità Gramsci implicitamente teorizzi nel momento in cui proprio questo è però il destino che si schiude (o che si è già schiuso da qualche decennio) davanti all’alta cultura e ai grandi intellettuali dell’Occidente capitalistico. Così come non si accorse che la società “borghese” poteva fare a meno di un’egemonia intellettuale e morale fondata sulla coscienza (perché quella società poteva forse fare addirittura a meno della stessa borghesia come lui la intendeva), allo stesso modo, e per conseguenza, Gramsci non si accorse dell’effetto capitale che ciò si apprestava a produrre nel campo della cultura, vale a dire di spezzarne l’antica unità. Sicché d’ora in poi ci sarebbero stati da una parte gli intellettuali funzionari totalmente immersi nel “sociale”, al completo servizio del dominio e dei suoi meccanismi di controllo e di giustificazione; dall’altra i grandi intellettuali e l’alta cultura, socialmente distaccati, sì, ma perché proprio in tale distacco stava il nuovo pegno della coscienza, e proprio per questo “astratti” e “raffinati”, ma di un’astrattezza e di una raffinatezza che null’altro erano e sarebbero stati se non il modo unico per cogliere, nella quotidiana e obbligatoria disperazione del rifiuto, le varie e non troppo gradevoli novità sorgenti nella sfera sociale e nella mente degli uomini, o per opporre ad esse l’irriducibilità creatrice della fantasia. Deriva da tutto ciò il fatto, fin quasi ovvio, che nelle vicende della cultura contemporanea (di quella che conta), se di Weltanschauungen si può mai parlare, si tratta regolarmente di Weltanschauungen di segno negativo, e solo negativo[1].
    Gramsci non comprese – o meglio scambiò per il sintomo di un’imminente catastrofe socio-statuale – questa situazione nuova. Ancora sull’esempio di quello che gli sembrava essere stato il rapporto concezione del mondo-intellettuali-società nella fase di ascesa e d’incontrastato domino della borghesia, egli adoperò un’accezione del termine intellettuale che, abbracciando nella stessa categoria Francesco De Sanctis e la maestrina dalla penna rossa, Eugenio Sue e Victor Hugo, doveva rivelarsi inadatta a cogliere i nuovi termini del problema. Trattando degli intellettuali, infatti, egli scrive che non bisogna farsi guidare da un “critico intrinseco”, bensì “vedere chi effettivamente svolga una funzione sociale di intellettuale”, funzione che è “propria tanto dei massimi creatori della varie scienze, della filosofia, dell’arte, quanto dei più umili amministratori e divulgatori della ricchezza intellettuale già esistente”[2]. Pur ammettendo subito dopo che un criterio intrinseco pur esiste, il quale fa sì che anche l’attività intellettuale si divida in gradi i quali “nei momenti di estrema opposizione danno una vera e propria differenza qualitativa”, Gramsci resta tuttavia convinto, nel fondo (e non esita a scriverlo), che non vi possa essere una indipendenza degli intellettuali dal gruppo sociale dominante[3]. Ma ciò è vero se si ammette come vera la sua analisi; siccome invece essa è falsa – o meglio è sicuramente falsa per le società del ‘900 – cadono anche le conseguenze di quell’analisi. La principale conseguenza che sul pensiero di Gramsci stesso ha questa falsa immagine monolitica e omogenea degli intellettuali di parte, diciamo così, borghese è che per l’appunto su tale immagine egli costruisce, con un procedimento di rispecchiamento in positivo, la sua concezione dell’intellettuale organico.
    Ed è con questo quadro, il quale appiattisce il panorama culturale e del ceto intellettuale del ‘900 alla crisi della concezione del mondo liberal-borghese, a cui immediatamente corrisponderebbe “un processo di disintegrazione dello Stato moderno”; è con questo quadro, che riduce la multiforme figura dell’ “intellettuale borghese” a una bipolarità giudicata ormai priva di vitalità storica (da una parte Benedetto Croce perso dietro le sue sdegnose raffinatezze speculative, dall’altra gli avvocati di paese senza guida e sempre più inascoltati dalle masse), che Gramsci lascia una pesante eredità al movimento operaio. Essa comporterà in negativo l’impossibilità di fare i conti con quella che potrebbe chiamarsi la critica “borghese” della società borghese (e perciò la tendenza a sbarazzarsene con un’alzata di spalle), in positivo la concezione-proposizione di una cultura amministrata nella quale è facile che si annidi il germe del trasformismo e della menzogna, così comune tra quelle figure di intellettuali funzionari che sono figure centrali della storia delle società contemporanee. Cosicché, mentre nel mondo “borghese” del nostro secolo sono assai chiare (almeno a chi ha la “coscienza critica”) le differenze di sostanza che passano tra Kafka e, poniamo, un giornalista televisivo o un assistente universitario, è nel Partito comunista che ai due ancora si regala la stessa qualifica di intellettuale e, giudicandosene “intrinsecamente” uguali le funzioni, si ha il risultato che ogni giornalista televisivo e ogni assistente universitario, sentendosi un intellettuale – per giunta “organico” -, può sfuggire alla verità oggettiva del proprio ruolo, e magari della propria reale statura culturale.

    (...)


    [1] Si può dire che proprio in quanto età caratterizzata da una crisi permanente di Weltanschauung, l’età contemporanea è un’età di estrema opposizione tra alta cultura e “intellettuali” volgarizzatori; solo questi ultimi, infatti, come ceto in genere, insistono a credere nell’esistenza di organiche concezioni del mondo e ad esserne i portavoce. Tale divaricazione di atteggiamenti è uno dei motivi che rendono difficile nel ‘900 una possibilità di egemonia reale dall’alto verso il basso.

    [2] Cfr. Antonio Gramsci, op. cit., p. 1519.

    [3] Scrive Mannheim che “una sociologia cha faccia esclusivo ricorso alle classi economico-sociali non capirà mai questo fenomeno (il fenomeno degli intellettuali) in modo soddisfacente. Per essa, infatti, gli intellettuali o costituiscono una classe o sono, quanto meno, una sua appendice; ne segue che tale teoria può descrivere correttamente certe componenti e alcuni fattori determinanti di questo gruppo socialmente indipendente, ma non riesce a penetrarne la vera consistenza”, in Karl Mannheim, Ideologia e utopia, Bologna 1974, p. 165.
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    Predefinito Re: Le ceneri di Gramsci (1977)

    Gramsci e la “cultura amministrata”

    L’espressione “cultura amministrata” che ho usata qualche riga sopra potrà forse sembrare troppo forte, ma e me pare in verità la più adatta a indicare in breve il posto che Gramsci assegna alla funzione degli intellettuali nella società.
    Compito essenziale degli intellettuali organici della classe operaia deve essere, come è noto, l’elaborazione della Weltanschauung ad essa propria nonché il suo radicamento egemonico sulle più larghe masse, fino a conquistarne il “senso comune”. Gramsci è tuttavia convinto che tra le masse popolari ogni concezione del mondo vive in un modo particolare: “La forma razionale – egli scrive – (…) è ben lontana dall’essere decisiva”; “nelle masse in quanto tali la filosofia non può essere vissuta che come una fede”[1]. Ed è proprio sulla base di questo presupposto che si muove la sua critica all’egemonia liberale che questa “fede” non ha saputo creare: “Una delle maggiori debolezze delle filosofie immanentistiche in generale consiste appunto nel non aver saputo creare una unità ideologica tra il basso e l’alto, tra i ‘semplici’ e gli ‘intellettuali’”[2]. Nello schema gramsciano questa unità ideologica è assicurata dalla “politica”, che in questo caso potremmo definire come una concezione del mondo divenuta “organizzazione”.
    Gramsci fornisce indicazioni abbastanza precise circa i modi e le cautele da osservare nell’azione egemonica tra le masse: non stancarsi di una propaganda incessante che ripeta in forme diverse sempre gli stessi concetti, creare élites di tipo nuovo tra le masse popolari le quali rimangano a contatto con esse, ma soprattutto esercitare una cura costante acciocché i gruppi intellettualmente superiori non si distacchino dalla “capacità organica di discussione e di svolgimento di nuovi concetti critici da parte degli strati subordinati intellettualmente”[3]. Ne consegue che bisogna “fissare i limiti della libertà di discussione e di propaganda (sottolineature mie), limitazione che non deve essere intesa in senso amministrativo e poliziesco, ma nel senso di autolimite che i dirigenti pongono alla propria attività ossia, in senso proprio, di fissazione di un indirizzo di politica culturale”. Sicché, pur ammettendo che l’iniziativa della ricerca deve restare libera, Gramsci scrive che non è “impossibile pensare che le iniziative individuali siano disciplinate e ordinate, in modo che esse passino attraverso il crivello di accademie o istituti culturali di vario genere e solo dopo essere state selezionate diventino pubbliche”[4].
    In Gramsci, insomma, noi abbiamo un progetto di omogeneizzazione culturale delle masse che si combina con, e si realizza grazie a, una direzione politico-organizzativa che muove dall’alto.
    A me pare molto significativo il fatto che elaborando questi temi Gramsci sia partito dal modello dell’egemonia liberal-borghese, dalla critica alle sue insufficienze storiche, e alla fine sia arrivato a ricalcare esplicitamente il suo progetto sui contorni del modello rappresentato dalla Chiesa cattolica. Non si può sfuggire all’impressione, leggendo i Quaderni, che, fatta salva la diversità dei contenuti, egli abbia in mente un’organizzazione nella sostanza identica a quella. L’egemonia si configura così come un rapporto pedagogico centralizzato nell’ambito di rigide strutture gerarchiche.
    Il fatto si è che al pensiero di Gramsci sembra repugnare intimamente un tipo di società privo per così dire, di un’idea direttiva e informatrice, una società senza “fede” e senza morale (sia pure laiche): Idea direttrice e informatrice, “fede”, che, si badi, non tanto e non solo riguardano e s’identificano con un progetto politico di mutamento dei rapporti sociali, quanto con un progetto di vera e propria riplasmazione delle coscienze e dei comportamenti. Ciò non ci stupisce affatto perché ormai sappiamo che per Gramsci politica e concezione del mondo sono la stessa cosa; bisogna però tutto questo ripeterlo, dal momento che ci tocca tuttora leggere che per Gramsci capacità di egemonia significherebbe capacità di “aprirsi al confronto”. Niente affatto. Per Gramsci, che era un rivoluzionario e non un democratico, egemonia era la capacità di infondere negli individui e nell’organismo sociale un nuovo Tutto.

    (...)


    [1] Cfr. Antonio Gramsci, op. cit., p. 1390.

    [2] Ibidem, p. 1381.

    [3] Ibidem, p. 1393.

    [4] Ivi.
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    Predefinito Re: Le ceneri di Gramsci (1977)

    Una pedagogia autoritaria

    Gli intellettuali organici avrebbero dovuto essere gli apostoli di questo Tutto, volontariamente limitantesi in vista della sua diffusione in mezzo al popolo. Che in questa visione ogni reale autonomia della ricerca (della quale, fino a prova contraria, fa parte la pubblicità da poter dare alla medesima) sia destinata a scomparire, lo prova il passo su riportato in cui si prospetta addirittura la riesumazione delle Accademie. La verità è che Gramsci definisce e analizza il ruolo dell’intellettuale, impoverendone enormemente i contenuti, quasi esclusivamente nella prospettiva del generale progetto educativo che gli sta a cuore. Che questo progetto educativo sia intimamente autoritario e antidemocratico non v’ha dubbio. Del resto, come potrebbe essere diversamente se esso deve mirare all’egemonia? Ma quel che più conta, forse, è che esso è antidemocratico, “totalitario”, in un senso, se così si può dire, tecnico: intellettuali individuali, scuola, partito, e infine Stato, fanno corpo tutt’uno e devono fare corpo tutt’uno per poterlo portare a compimento. Con accenti di non nascosto rimprovero, infatti, Gramsci constata che “in tutti i paesi (…), anche dove i governanti ciò affermano a parole, lo Stato come tale non ha una concezione unitaria, coerente e omogenea, per cui i gruppi intellettuali sono disgregati tra strato e strato e nella sfera dello stesso strato”[1]. Ancora una volta l’hegelismo totalizzante fa premio e si delinea il quadro di una compagine sociale dominata da una sola Idea amministrata dal centro.
    E ancora una volta è impossibile non osservare quanto nel trattare questi temi Gramsci sia rimasto intellettualmente prigioniero del modello liberal-borghese ottocentesco, e non abbia saputo vedere che con l’avvento della democrazia di massa tutto il panorama sociale stava mutando fin nelle più intime fibre, sì che anche la sua operazione, ricalcata su quel modello pur essendone i contenuti mutati, sarebbe stata impraticabile nel mondo nuovo che stava nascendo.
    Più volte, rileggendo i suoi Quaderni per questo articolo, a me è parso di ascoltare un vecchio mondo austero, pensoso e colto, fiducioso nel pensiero e nella cultura, propugnatore di una scuola severa e di un’educazione rigida, spregiatore corrusco dell’ “animalità dell’uomo” (il sesso per esempio!), tutto imbevuto di quella che qualcuno di quei tempi ebbe a chiamare “vita morale”.
    Sì, confessiamo che qualche volta ci è sembrato di leggere Silvio Spaventa, un Silvio Spaventa, se si vuole, “di sinistra”. Non sembri una boutade. In Gramsci come in Spaventa l’identica concezione della razionalità del processo storico, dell’eticità dello Stato, la stessa idea di un pugno di intellettuali politici immersi in una pare di plebe che si addossano il compito “morale” di plasmare nuovi cittadini, la stessa idea che la coercizione dello Stato può e deve sostituirsi alle carenze della Storia[2]. Certo, anche il leninismo, naturalmente; ma chi può dire a quali e quante cose può mai mischiarsi il leninismo?
    A questo punto non credo siano necessarie molte parole per dimostrare che la concezione dell’intellettuale organico, trasposta da questo contesto che è lontanissimo da quello in cui per virtù dei tempi e dei suoi impegni democratici il PCI opera, non può che stravolgersi in qualcosa di profondamente diverso; magari, se si vuole, di meno inquietante, ma certamente di più falso. L’intellettuale organico, non potendo più essere organico a una concezione del mondo, se sceglie di essere sempre organico è facile che lo sia a nient’altro che a una linea politica e al partito che rappresenta. Viceversa, è facile che il solo fatto di iscriversi al partito basti per sentirsi organico. Così, “decapitato” di qualsiasi Weltanschauung, questo intellettuale assume tipici aspetti funzionariali, ma con l’aggravante che, credendosi egli ancora organico nell’accezione gramsciana, insiste a considerarsi portatore di esigenze “più avanzate e più comprensive”, prende a vedere le masse al proprio fianco, si sente con le masse scambiando l’adesione ormai più soltanto democratica ed elettorale di queste al suo partito per un conferma, non più della sua visione del mondo (da tempo inesistente), bensì del suo ruolo e della sua funzione di intellettuale, magari della sua statura culturale (dal momento che anche l’orgoglio vuole la sua parte). Finisce così che mai nessun intellettuale ha corso tanti rischi di essere tale nel senso più spregiativamente tradizionale del termine – di sentirsi cioè ombelico del mondo e mosca cocchiera della Storia – dell’intellettuale che si dice e si vuole organico.

    (...)


    [1] Ibidem, p. 1394.

    [2] In un passo dei Quaderni (pp. 1565-66) Gramsci scrive che per poter essere il promotore e l’organizzatore del necessario vastissimo programma di “pressione educativa” sui singoli, per creare il “conformismo sociale” adatto alla nuova situazione, lo Stato operaio dovrà allargare l’area del diritto “comprendendovi quelle attività che oggi cadono sotto la formula dell’ ‘indifferente giuridico’ e che sono dominio della società civile”.
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