di Antonio Landolfi – “Mondoperaio”, febbraio 1977, pp. 46-48.
Le utopie di Gramsci sono oggi le utopie del PCI; i nodi irrisolti del suo pensiero sono le contraddizioni del partito che da lui prende sempre più l’impronta; le modernità e le arretratezze del PCI sono le modernità e le arretratezze di Gramsci, almeno in larga misura. Le devianti “giobertiane” del PCI attuale non innovano né migliorano la strategia e i comportamenti di questo partito. Senz’altro lo peggiorano e l’invecchiano.
Il PCI sembra sempre più impegnato lungo la strada di un recupero della cultura cattolica che va dal ‘700 ai giorni nostri, nella sua tradizione storica e nel suo presente, forse nella inconsapevole necessità di una rivalutazione dell’interlocutore che renda più accettabile o comunque meno impugnabile il compromesso culturale che si prepara come premessa del compromesso storico.
Prima, o contemporaneamente, che si sviluppasse sulle colonne di “Mondoperaio” il dibattito che verte intorno a Gramsci ed il PCI, il Comitato Centrale del PSI (è bene ricordarlo) approvava una relazione del segretario del partito che in un suo passo trattava dello stesso argomento. “Egemonia – diceva la relazione – significa, nell’uso gramsciano, forza più consenso: essa ha un prevalente significato culturale, cionondimeno resta la traduzione, umanistica ed italiana, del progetto leninista. Nelle condizioni di pace civile e di democrazia politica il partito rivoluzionario persegue il suo fine attraverso la conquista dell’opinione pubblica con la persuasione e con l’organizzazione delle masse. Di qui il ruolo decisivo degli intellettuali”.
Meglio, secondo la mia opinione, non poteva essere detto. E mi sono accorto, seguendo il dibattito su “Mondoperaio”, che a questa definizione s’avvicinano, nella sostanza, sia Bobbio, che Salvadori, che Pellicani.
Lo conferma Bobbio, sull’ultimo numero, quello del gennaio scorso, quando ricorda: “In verità, che Gramsci fosse leninista non è mai stato contestato da nessuno”. La differenza più importante, secondo Bobbio, e concordiamo con lui, tra il concetto di egemonia in Lenin e il concetto di egemonia in Gramsci è “fra l’egemonia come direzione politica e l’egemonia come direzione anche e soprattutto culturale”. Ma quale cultura? Interviene a questo punto un graffiante scritto di Gianni Statera, il quale sul “Messaggero” ha detto che “confrontarsi con Gramsci significherebbe fare la storia di un ininterrotto abbacinamento di matrice idealistico-storicistica; significherebbe fare i conti con l’angustia provinciale del pensiero gramsciano (ma qui, nota chi scrive, non vale l’invito di Arbasino ad attraversare in bicicletta il ponte di Chiasso, perché il fascismo Gramsci lo spedì dritto in galera), con i suoi insuperabili limiti totalizzanti e la sua fondamentale inadeguatezza a dar conto del conflitto sociale e della articolazione della classi nelle società capitalistiche avanzate, del rapporto tra struttura sociale e cultura, di quello fra istanze partecipatorie che montano dal basso e centralistica organizzazione del Partito”.
Qui fermiamoci con i materiali di citazione, perché appare evidente il rischio della contrapposizione tra il settore comunista che, prendendo lo spunto dal quarantesimo anniversario della morte, ne tenta una celebrazione, sia pure al passo con i tempi revisionistici, in chiave critica, e il settore socialista che coglie la medesima occasione per un’opera di demolizione di quello che, sempre secondo Statera, è stato bene o male il feticcio della cultura comunista. Qui interessa, al di fuori dei riti di chi vuol recuperare Gramsci ai moduli revisionistici o di chi lo vuol rinserrare nel grande archivio storico del passato leninista del PCI, una valutazione culturale-politica di grande attualità, vale a dire, come osserva giustamente Bobbio, “mettere a confronto le idee di Gramsci con la pratica attuale del Partito comunista italiano, che ha sempre considerato e tuttora considera Gramsci come uno dei suoi ispiratori”.
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