di Federico Coen – “Mondoperaio”, febbraio 1977, pp. 2-4.

L’ampiezza del dibattito che si è sviluppato da un anno a questa parte su alcuni dei problemi teorici affrontati da questa rivista – sul nesso democrazia-socialismo, sulla concezione gramsciana dell’egemonia, sul rapporto tra pluralismo economico e pluralismo politico – e le polemiche che ne sono scaturite, particolarmente sulle colonne di “Rinascita”, ci sollecitano a precisare ancora una volta, il valore politico che da parte nostra si attribuisce al dialogo che abbiamo contribuito ad avviare nell’ambito della sinistra.
Il primo punto da chiarire è che non si tratta, qui, di una “guerra privata” condotta da una rivista o da un gruppo di “professori”. I problemi teorici e politici che sono stati posti sono oggettivamente aperti davanti alle forze di sinistra e fanno parte, da molti decenni, del contenzioso tra socialisti e comunisti, in Italia e fuori d’Italia. Se oggi il dibattito si riaccende nel nostro paese, è perché siamo entrati in una fase politica nuova. La crisi del capitalismo, con i suoi riflessi nella società italiana, e la crescita elettorale della sinistra hanno determinato una nuova dislocazione delle forze politiche. Fino a quando il PSI e il PCI si sono trovati su due versanti politici diversi ed opposti, l’uno nell’area di governo l’altro all’opposizione, i rapporti tra i due partiti hanno attraversato un lungo periodo di stagnazione, collocandosi su un terreno diplomatico, di neutralità ideologica. Ma oggi la diplomazia non serve più. È il momento di riprendere le questioni di principio, per scomode che siano, di spiegare a noi stessi e agli altri sempre più chiaramente che genere di Stato e di società vogliamo costruire, come vogliamo impostare il rapporto con i nostri alleati e con i nostri avversari, come intendiamo il ruolo dei partiti rispetto alla società e alla cultura, a quali forze affini vogliamo collegarci su scala europea e mondiale. Non si capisce nulla del dibattito che si è avviato, e della vastità della eco che ha avuto, se non si coglie il nesso con le nuove prospettive che si sono aperte alle forze di sinistra, e che per parte nostra interpretiamo in chiave di strategia alternativa. Non è un caso che gran parte della tematica che abbiamo affrontato su “Mondoperaio” e proposto come terreno di dialogo ai compagni del PCI sia stata al centro del dibattito al Comitato centrale di novembre del nostro partito nel momento stesso in cui la linea dell’alternativa è stata ribadita e rilanciata.
La convinzione da cui muoviamo è che non si può costruire un progetto credibile di società socialista se non si fanno i conti fino in fondo col passato, con le esperienze che hanno segnato la storia del movimento operaio, con le dottrine che hanno ispirato quelle esperienze o che su di esse sono state fondate, con le lacerazioni vecchie e nuove che su questo cammino si sono prodotte. Non per pronunciare anatemi o sentenze, ma per sceverare ciò che è vivo e ciò che è morto della tradizione, ciò che corrisponde e ciò che ripugna al concetto che noi abbiamo oggi del socialismo. E i conti vanno fatti anche col presente, con la realtà di regimi che pretendono di essere socialisti ma che del socialismo contraddicono ogni giorno, nella loro prassi politica e nella loro stessa struttura sociale, i valori fondamentali.
Nessun artificio dialettico, nessuna forzatura storicistica può consentire a nessuno di mettere insieme leninismo e pluralismo, democrazia e dittatura, solidarietà con le vittime della repressione dell’Est e fratellanza con i loro persecutori. Se ne rende ben conto Santiago Carrillo quando senza mezzi termini dichiara che in URSS e nelle “democrazie popolari” non c’è il socialismo. Se ne rendono ben conto i comunisti francesi quando ripudiano ufficialmente, nei loro congressi, la dottrina della dittatura del proletariato e solidarizzano apertamente, senza tanti distinguo, con i dissidenti dell’Est. Si potrà discutere quanto si vuole sul carattere troppo repentino e verticistico di certe scelte, ma non si può negare che si tratta di scelte politiche impegnative e qualificanti, che come ogni vera scelta comportano dei prezzi da pagare.
Come si spiega che nei comunisti italiani, che pure hanno proceduto sulla via dell’eurocomunismo i loro compagni francesi e spagnoli, e sono tanto più colti e sofisticati di loro, c’è ancora tanta riluttanza a conciliare la teoria con la prassi, l’impegno democratico con la revisione coerente delle dottrine e dei giudizi del passato? Io non credo che si possa ridurre tutto, come qualcuno vorrebbe, a una preoccupazione di carattere elettorale (questa sì che sarebbe una volgarità propagandistica): al fondo c’è la visione carismatica del partito, della sua infallibilità, della sua storia come svolgimento ininterrotto di una verità originariamente posseduta, quindi come un processo in cui non si ammettono discontinuità, ma solo adattamenti successivi alla realtà, e in cui gli stessi errori, se proprio si devono riconoscere, vengono presentati in una luce provvidenziale (è il caso della scissione di Livorno nell’interpretazione di Amendola). È qui che incontriamo Gramsci e la sua concezione del partito, che abbiamo posto al centro del nostro dibattito. Non per il gusto di dissacrare la figura di un dirigente politico che più di ogni altro, forse, ha vissuto e sofferto negli anni del fascismo il dramma della sconfitta del movimento operaio e più di ogni altro si è applicato nello sforzo di ricercare le vie della rivoluzione in Occidente senza rompere i legami con la tradizione bolscevica; e neppure per esercitarci in una generica svalutazione dell’apporto che Gramsci ha dato al patrimonio culturale del movimento operaio. Ciò che interessa è l’uso politico che nel PCI si è fatto e si continua a fare di questa ricerca, e anche delle contraddizioni che in essa si trovano sui problemi del partito e dello stato, per mantenere un legame ambiguo, un anello di congiunzione con la dottrina e la prassi del leninismo, nel quadro della continuità storica del movimento comunista.
Di qui deriva il valore politico, e non soltanto dottrinale, delle questioni che sono state sollevate in questa ormai lunga discussione su egemonia e pluralismo. Che rapporto passa tra l’egemonia come direzione politica fondata sul consenso e la dittatura del proletariato? Si tratta di due facce della stessa medaglia, come sostiene Salvadori, o di due concezioni politiche alternative? Come va inteso il pluralismo socialista? Come pluralità di forze politiche che collaborano alla costruzione e al governo della nuova società, intesa come società “omogenea”, o come pluralità di indirizzi politici alternativi, espressione di forze diverse e contrastanti? Quale rapporto passa tra pluralismo politico e pluralismo economico? E come va inteso il ruolo di “direzione intellettuale e morale” che si rivendica al partito o ai partiti della classe operaia? Significa che questo partito o questi partiti devono proporsi di insegnare alle masse quale sia la “vera” cultura, la “vera” arte, la “vera” scienza, o significa che essi devono proporsi soltanto di creare le condizioni di una ricerca culturale e morale libera dai condizionamenti del potere economico e politico? Sono domande che riguardano tutta la sinistra, certamente, ma è attraverso l’esperienza storica del movimento comunista che esse hanno acquistato la loro drammaticità e il loro valore discriminante. Se è vero, quindi, che dalla prassi attuale del PCI si ricavano oggi, su molti di questi problemi, orientamenti diversi da quelli del passato, è giusto chiedere che la revisione sia resa esplicita sul piano della teoria.
Ecco perché ci occupiamo anche di Gramsci, e non soltanto della “tradizione socialista” alla quale il compagno Reichlin paternamente ci invita. Ma parliamone pure della tradizione socialista. Essa comprende Morandi, certamente, ma anche Turati e Mondolfo, tanto per fare qualche nome, comprende il “rinnegato” Kautsky e molti altri. Oppure vogliamo continuare a servirci del significato negativo che nella politica italiana ha assunto l’appellativo di “socialdemocratico” per sbarazzarci dell’eredità di questi nostri antenati? Eppure molte delle “banalità democratiche” di cui è intessuto l’eurocomunismo le ritroviamo pari pari nei loro scritti e nelle loro azioni. Né credo si debba trascurare l’apporto che può venire e viene al movimento socialista da uomini di formazione culturale non marxista, sia cattolica che laica. Per limitarci alla cultura laica o, se si vuole, “liberaldemocratica”, basterà ricordare l’interesse che ha suscitato anche tra i comunisti il dibattito aperto l’anno scorso da Norberto Bobbio. A questo filone culturale, del resto, appartengono uomini come Gobetti e come Rosselli e movimenti politici come Giustizia e Libertà, che hanno lasciato una traccia profonda nella cultura democratica e socialista del nostro paese. Solo chi ha la mania delle etichette o è accecato dall’orgoglio di partito può pensare seriamente che prendere le distanze dal pensiero politico di Gramsci significhi, per il movimento operaio, condannarsi all’indigenza culturale e all’impotenza politica.
Ma lasciamo da parte la polemica e torniamo al significato politico del dibattito di cui ci stiamo occupando. Ho già accennato alla connessione con la situazione politica nuova che si è creata in Italia e con la prospettiva a cui lavoriamo di creare le condizioni di un’alternativa di governo della sinistra. È naturale che chi invece pensa che i problemi del paese si risolvano con il grande abbraccio unificante del compromesso storico non senta con altrettanta intensità il bisogno di liberarsi di costruzioni ideologiche ormai superate. C’è qui una differenza di linea politica che si riflette anche nel dibattito teorico. Ma c’è anche un altro aspetto che va sottolineato. Come ricordava il compagno Craxi in un recente articolo su “L’Espresso”, gli Stati nazionali da tempo sono divenuti troppo angusti perché si possa nel loro ambito rivitalizzare lo slancio riformatore della sinistra, per cui il quadro operativo del futuro non potrà che essere quello europeo. Perciò – egli scriveva – “il problema dell’alleanza organica tra tutti i partiti della sinistra europea si impone come un imperativo ineludibile”. Ciò significa che la vecchia e ambigua formula comunista delle “vie nazionali al socialismo” appartiene ormai al passato e che i partiti della sinistra italiana devono poter partecipare attivamente allo sforzo di ricerca delle vie nuove del socialismo in cui è impegnata la parte migliore delle forze socialiste e socialdemocratiche europee. In questo contesto, tanto i residui diaframmi ideologici che impediscono l’acquisizione piena di una concezione laica del partito e della lotta politica quanto i rapporti di fraternità con i partiti comunisti al potere nei paesi dell’Est sono, a nostro avviso, fattori di ritardo e di estraniazione che pesano su tutto il movimento operaio italiano di cui il PCI è tanta parte.
È questo lo spirito con cui abbiamo aperto, e desideriamo tenere aperto, un dialogo permanente con i compagni del PCI, sui temi qui accennati e su altri ancora. Un dialogo che per parte nostra – lo ripetiamo – si pone all’interno del rapporto di collaborazione e di convergenza politica che è in atto oggi in Italia tra socialisti e comunisti e tende, non a rimettere in discussione questo rapporto sulla base di vecchie pregiudiziali, ma a dargli sempre più una dimensione e una prospettiva strategica su scala nazionale come su scala europea, in coerenza con la strategia dell’alternativa che è alla base del nostro impegno politico.

Federico Coen