Gramsci contesta la teoria dello Stato come pura coercizione e afferma che lo Stato è anche egemonia. Non è la proposta di un modello di Stato socialista, ma è la definizione dello Stato come è storicamente esistito. Gramsci si muove fuori della linea leninista e della linea del movimento comunista come si è sviluppata attraverso Stalin e il XX Congresso, è dentro una logica diversa, di ispirazione democratica; la sua teoria dell’egemonia non solo è di derivazione democratica, ma è un approccio di importanza fondamentale ai problemi della lotta per il socialismo in Occidente e soprattutto in Italia.
di Giuseppe Tamburrano – “Mondoperaio”, febbraio 1977, pp. 64-67
È curioso che Gramsci, il quale non è stato nemmeno sfiorato dallo stalinismo, sia sottoposto a un analisi al microscopio per cercarvi residui di “dittatura”, mentre Togliatti, che è vissuto nello stalinismo finché lo stalinismo è vissuto, che aveva della democrazia un concetto strumentale, resti tranquillamente sugli altari. È a questo punto, cioè con Togliatti, che emerge il problema politico che è sotto il dibattito in corso.
Il pluralismo del PCI, almeno dei settori più politicizzati, è una specificazione della concezione democratica che si adatta alla strategia del compromesso storico e dell’alleanza con un partito interclassista qual è la DC. Esso mette l’accento sull’incontro, sull’intesa, sulla convergenza tra movimenti non omogenei. E così trova le radici non nella concezione dialettica che è propria tanto della filosofia liberal-democratica quanto – con le note differenze – della filosofia della prassi, bensì nella concezione cattolica, che postula la conciliabilità di tutti i momenti autonomi della società e nega nell’interclassismo la lotta di classe.
Gramsci leninista? Ci risiamo. Questa tesi è stata sostenuta a lungo dai comunisti. Fu al centro della relazione di Togliatti al primo convegno di studi gramsciani nel 1958 e fu difesa con determinazione da Longo nel suo Revisionismo nuovo e antico, dedicato a noi socialisti, utilizzando una citazione dei Quaderni, la stessa che usa Salvadori per rilanciare questa interpretazione.
Lenin ha detto e scritto tante cose, ma il leninismo è essenzialmente la dottrina della rivoluzione violenta nell’epoca dell’imperialismo e della dittatura violenta del proletariato nella transizione al comunismo. Il leninismo è l’esperienza della rivoluzione d’ottobre e la sua teorizzazione come regola generale della lotta per il socialismo che ne ha fatto Lenin. Non vi è dubbio che Gramsci si sia staccato dal leninismo nella Nota sul passaggio dalla guerra manovrata alla guerra di posizione e nelle Note sullo stato.
“Mi pare – usiamo le parole di Gramsci – che Ilic avesse compreso che occorreva un mutamento dalla guerra manovrata, applicata vittoriosamente in Oriente nel 1917, alla guerra di posizione che era la sola possibile in Occidente. Solo che Ilic non ebbe il tempo di approfondire la sua formula, pur tenendo conto che poteva approfondirla solo teoricamente…”. In effetti in Lenin vi è una distinzione tra la “Russia, paese di Nicola e di Rasputin” e i paesi “dove si è sviluppato il capitalismo che ha dato una cultura e il senso dell’organizzazione democratiche a tutti gli uomini sino all’ultimo”, ma Lenin non tira da questa distinzione le conseguenze che crede Gramsci (“mi pare”), il quale cita a memoria, poiché Lenin afferma solo che in questi ultimi paesi la rivoluzione deve essere preparata accuratamente: non si tratta dunque di passaggio alla guerra di posizione ma di preparare la guerra manovrata. In ogni caso, anche se Lenin ha intuito la differenza essenziale tra Oriente e Occidente, resta che egli “non ha avuto il tempo di approfondire la sua formula”. Possiamo definire leninismo questo ipotetico pensiero, questa formula rimasta dentro di lui?
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