di Giovanni Spadolini - “Il pensiero mazziniano”, gennaio-marzo 1989


Gennaio 1949. Proprio all’inizio dell’anno centenario della Repubblica Romana di Mazzini, una rivista fiorentina – che era legata all’esperienza di “Giustizia e Libertà” e rifletteva lo sforzo di sintesi e di creazione di Piero Calamandrei -, “Il Ponte”, pubblicava uno straordinario inedito di Ignazio Silone su Giuseppe Mazzini. Inedito che abbiamo riproposto ai lettori italiani in un recente fascicolo della “Nuova Antologia” (anno 123; fasc., 2168 – ottobre-dicembre 1988), unitamente ad un prezioso frammento mazziniano che la vedova del grande scrittore, Darina, ci ha donato e che appartiene al periodo immediatamente precedente alla seconda guerra d’indipendenza, all’agosto 1858. Silone era un socialista che aveva sempre subito l’influenza di Mazzini. E non a caso l’eredità del mazzinianesimo si indentificava, per l’autore, con due dati fondamentali:
primo: il no del profeta della nazionalità al nazionalismo;
secondo: l’apertura al socialismo umanistico e all’identificazione fra questione sociale e questione nazionale, in antitesi a Marx ma dentro il quadro del pensiero sociale e riformatore dell’Ottocento.
“Il concetto mazziniano della nazione, fondato essenzialmente sulla coscienza popolare della particolare comunità di destino, costituiva pertanto non solo la migliore giustificazione storica degli Stati nazionali per cui nel secolo scorso si batterono gli italiani, i tedeschi, i polacchi, i boemi, gli ungheresi; ma anticipava anche le possibilità del loro superamento allorché presso varie nazioni dovesse affermarsi una nuova congiuntura storica e un senso di una più vasta identità di interesse”. Così scriveva Silone prefigurando la federazione europea che scandiva gli stessi tempi di Mazzini. Prima la “Giovine Italia”, poi la “Giovine Europa”.
Il secondo punto dell’eredità mazziniana – ora che tale eredità è oggetto di tante singolari appropriazioni, usurpazioni o contestazioni – veniva identificato proprio nel rapporto originale dei “legami fra questione nazionale e questione sociale, fra rivoluzione politica e rivoluzione economica”. “Una concezione – aggiungeva Silone – che fece difetto anche ai marxisti, per cui la propaganda marxista riuscì in seguito a riguadagnare largamente il favore degli operai delle industrie e dei giornalieri delle campagne migliorando le misere condizioni economiche; ma quei progressi furono fragili e provvisori – insisteva il grande scrittore abruzzese – non essendo accompagnati e protetti da un’effettiva democratizzazione del paese, e la noncuranza per le riforme politiche e la forma dello Stato, largamente diffusa dalla propaganda socialista, più tardi facilitò di molto la controrivoluzione fascista”.
L’eredità dei patti di fratellanza, l’eredità del socialismo patriottico, l’eredità di quella componente della prima Internazionale che era stata mazziniana contro Marx. Né Silone mancava di ricordare il contributo di Mazzini alla prima associazione internazionale. “Nell’indirizzo inaugurale redatto da Marx sappiamo che l’autore inserì alcune formule solo per contentare il Mazzini, di cui in cuor suo però fortemente rideva, come ad esempio là dove è detto che gli operai devono ‘unirsi a una contemporanea pubblica accusa per proclamare le semplici leggi della morale e del diritto, che dovrebbero regolare tanto i rapporti dei singoli quanto le leggi superiori dei muti rapporti fra le nazioni’”.
Ecco un conflitto che non si era mai chiuso fra mazzinianesimo e marxismo, fra lotta sociale e lotta politica per l’emancipazione operaia congiuntamente concepite e vissute e il riscatto del proletariato in funzione classista e di scissione dalla vecchia civiltà liberale.
“È innegabile – concludeva Silone – che il benessere dei popoli non può essere assicurato lasciando intatte le strutture economiche del capitalismo; come è fuori dubbio che senza libertà politica non vi è, neppure per i proletari, emancipazione sociale, bensì soltanto sostituzione di una tirannia ad un’altra”.
Quel centenario del ’49 era nell’insieme abbastanza malinconico. Diversi gli schieramenti politici rispetto a quelli di oggi. Molto più profonde le antitesi, le lacerazioni ideologiche, le conseguenze della guerra fredda che dagli obbligati allineamenti internazionali era penetrata nella coscienza.
La valutazione del Risorgimento incandescente e non poche volte strumentale; il volto di Garibaldi, il condottiero della Repubblica Romana, usato come insegna a determinare battaglie politiche che tendevano a contrapporre l’intero fronte delle sinistre ad un’alleanza di centro che pur comprendeva nel suo seno i partiti eredi diretti della tradizione mazziniana non meno che cavouriana.
Abbastanza lontana, l’immagine della Repubblica del ’49, dalle nuove generazioni. Un Risorgimento essenzialmente sabaudistico e territoriale quello insegnato fino a pochi anni prima nelle scuole, condizionate dalle cadenze della retorica fascista. Le profonde antinomie, che avevano solcato e nutrito il pensiero di Mazzini, composte in superficie nell’ossequio alla soluzione monarchica dell’unità, per di più identificata con la premessa di una politica espansionistica e colonialista estranea ai più schietti filoni della battaglia per il riscatto nazionale. La cimosa della retorica che cancellava tutto, che attenuava antitesi rifermentanti ancora nella realtà di un secolo dopo.
Una bibliografia, su quel capitolo di storia mazziniana, scarsa e svogliata. I giovani studiosi, che dovettero improvvisare la mostra storica della Repubblica Romana per incarico dell’Istituto Nazionale di Storia del Risorgimento, superarono non poche difficoltà per riunire al Vittoriano i cimeli e le memorie di una storia che era rimasta clandestina e con un sottinteso cospiratorio anche per tutti i decenni di vita della monarchia.
Per anni il culto del 9 febbraio era stato serbato dalle falangi repubblicane, nei quartieri popolari di Roma o della Romagna, come un rito laico che riusciva a celebrarsi nascostamente rispetto alle interdizioni o alle deformazioni fasciste; quando una rivista filo-antifascista, che si chiamava “Camicia Rossa”, puntava a confondere le acque, anche sui rapporti fra garibaldinismo e dittatura, la resistenza della vecchia base repubblicana – tenuta insieme, a Roma per esempio, da Giovanni Conti – aveva assolto a un ufficio insostituibile, di cui adesso, a liberazione avvenuta, si avvertiva tutto il peso e il valore.
E a proposito di Giovanni Conti mi sia consentito di ricordare quel prezioso e modesto volumetto da lui dedicato dalla Repubblica Romana del 1849 nel pieno della confusione e dello smarrimento del primo dopoguerra, il 9 febbraio 1920, con quella dedica toccante agli amici repubblicani della Maremma di Grosseto, a “ricordo di una redente lotta per la immacolata Repubblica dei nostri sogni”. Con una aggiunta quasi sovversiva rispetto ai tempi e ai poteri dell’ora: “questo libro dice che vane furono in ogni tempo le resistenze dei retrivi al moto della storia, che il Popolo, saggio e generoso – il maiuscolo non poteva mancare – ha sempre smentito i suoi detrattori”.
Stonata e contraddittoria è l’eco del primo centenario nella Camera italiana. I discorsi dei rappresentanti repubblicani sopraffatti dalle invettive della sinistra, sia di quella umanistica di Concetto Marchesi, sia di quella più giacobina di Malagugini.
Finale appello di La Malfa ad una riconciliazione dei banchi parlamentari che avevano offerto non degno spettacolo di sé nel centenario di quell’avvenimento eroico: “io credo – incalzerà la Malfa – che questo stato d’animo sia del tutto superficiale ed al fondo vi sia la coscienza che la Repubblica Romana del 1849 appartiene a noi tutti. Io non so cosa ci riserva l’avvenire; io so che cosa è stato il nostro passato nel creare la Repubblica italiana. Ed alzandomi in piedi e pregando i colleghi di alzarsi in piedi, io grido alla grandezza della Repubblica Italiana”.
Il 19 febbraio 1949, a dieci giorni di distanza dalla seduta di Montecitorio, usciva a Roma il primo numero del “Mondo” di Mario Pannunzio. Consentite a chi è uno dei pochissimi superstiti di quel primo numero di rivolgere un pensiero affettuoso e memore al grande direttore, che certo non veniva dalla scuola mazziniana, che teneva il ritratto di Cavour bene in vista dietro la scrivania di via Campo Marzio, ma alla tradizione risorgimentale si era educato e sapeva, come Luigi Salvatorelli e Adolfo Omodeo, che solo il binomio Cavour-Mazzini aveva consentito di realizzare l’unità italiana nella libertà. Intendo dire a Mario Pannunzio.
Prima ancora che Salvatorelli traducesse quel binomio Mazzini-Cavour in pagine che sono state fondamentali per la nostra generazione (anche se si tende troppe volte a dimenticare quel debito), i contemporanei, nel vivo dell’azione, ne ebbero precisa e quasi perentoria la coscienza.
Basterebbe risalire a una seduta per molti aspetti storica del Parlamento subalpino, a Torino, in via di diventare italiano, a quella seduta del 25 marzo 1861 – il regno d’Italia proclamato da pochi giorni, senza né Roma né Venezia, la casa Savoia attendata nella sua capitale, la meta di Roma individuata e fissata da Cavour – in cui un reduce dalla Repubblica Romana, che era stato deputato di Bologna alla Costituente del ’49 e ora sedeva sui banchi del Parlamento nazionale, Adolfo Audinot, sottolineò senza mezzi termini, consenziente il presidente del Consiglio della Monarchia vittoriana, il vincolo stretto che univa la difesa di Roma del ’49 all’istaurazione dello Stato unitario italiano dodici anni dopo.
“Nel 1849 – erano le parole di Audinot – lo vidi quel fascio di uomini, uniti unicamente dalla disperazione e dalla carità di patria, lanciarsi scientemente, volontariamente, senza speranza di vittoria, senza conforto di lode o di compianto, lanciarsi, dico, nella voragine di Curzio per mantenere integra la protesta contro lo straniero invasore, protesta che, se non si fosse fatta allora, forse non potremmo sedere qui oggi”. Il consenso di Cavour, che annuiva alle parole dell’antico costituente romano, consacrava un innesto di forze, un convergere di volontà, che neanche la diffidenza regia, obbligante Mazzini a morire esule in patria, nascosto sotto nome straniero, riuscirà più ad appannare agli occhi delle generazioni che via via riconquisteranno l’insegnamento di Mazzini oltre le scorze della retorica deformante o dell’agiografia ingannatrice.
Sarà Piero Gobetti sessant’anni più tardi, Gobetti così poco tenero verso Mazzini, così impietoso verso i Doveri dell’uomo, a riconoscere che la resistenza di Mazzini nella Roma del ’49 “scava un abisso fra ortodossismo e liberalismo”, segna la fine del neoguelfismo, dell’incanto non meno che dell’inganno neoguelfo. E quando i legislatori della Destra storica, sulle rive dell’Arno ormai prossimo a cedere a Roma già liberata dal dominio papale lo scettro di capitale, nel maggio del 1871, dovranno elaborare a Palazzo Vecchio i termini della difficile convivenza fra Chiesa e Stato in regime di perdurante protesta, e autoisolamento, del pontificato per sua fortuna non più temporale, essi ricorreranno ad un’espressione che già risuonava nell’art. 8 dei “princìpi fondamentali” della costituzione romana e italiana: “il capo della Chiesa cattolica avrà dalla Repubblica tutte le guarentigie necessarie per l’esercizio indipendente del potere spirituale”.
Guarentigie. La formula che la saggezza liberale individuerà per evitare la guerra di religione in Italia, per far convivere i due poteri rivali sulle sponde dello stesso fiume, senza intolleranza clericale e senza interferenze giurisdizionalistiche, la formula in cui si misurerà l’accortezza della classe dirigente moderata affonda le sue radici nelle scelte che la Costituente romana compirà a metà giugno del 1849, proprio quando l’aggressione delle forze inviate dal principe-presidente di Francia, non più vincolato alle riserve della democrazia d’oltralpe battuta alle urne, è più spietata e sanguinosa sui colli che vedranno il sacrificio dei Mameli, dei Manara, dei Daverio, dei Dandolo, dei Morosini, gli eroi degli imminenti carducciani Giambi ed Epodi.
“Dalla credenza religiosa non dipende l’esercizio dei diritti civili e politici”. L’art. 7 di quella stessa costituzione (e la coincidenza con un diverso art. 7 sarà motivo di riflessione amara cento anni dopo) introduceva in Italia per la prima volta il principio della tolleranza e della separazione fra potere religioso e potere civile, contro tutte le contaminazioni e degradazioni cui la mistica del “trono e altare” aveva esposto non soltanto gli Stati ma il mondo cattolico e i valori della fede.
E non fu a caso che un elevatissimo dibattito nell’interno dell’assemblea costituente romana portò a sopprimere il primo comma di quell’art. 7, elaborato prima del triumvirato mazziniano, che riconosceva “la religione cattolica come religione di Stato”: per motivi, all’origine, di opportunità diplomatica e di garanzia verso le potenze straniere, assedianti da quattro parti la capitale della repubblica, ma che non parvero sufficienti sul piano dei princìpi democratici che ne sarebbero stati feriti.
La costituzione della Repubblica romana del 1849 attende ancora il suo storico. Le evocazioni, o rievocazioni, del centenario non andarono spesso oltre la retorica degli omaggi rituali o delle evasioni retoriche. Uomini di sponde diverse, non tutti mazziniani né tutti repubblicani, provenienti dai più complessi e diversi filoni del riscatto nazionale, si misurarono fra il febbraio e il luglio del 1849 nella elaborazione di quella carta costituzionale, la prima e la sola democratica del nostro Risorgimento: con trasalimenti e anticipazioni di “riformismo sociale” che fecero parlare, forse impropriamente, di socialismo ma che certo alimentarono e nutrirono i succhi di tanta parte successiva del movimento operaio, che nel suo filone repubblicano resterà inscindibilmente legato alle memorie popolari e popolane della Repubblica del ’49. E non senza una vibrazione europeista, che consacrava la “Giovine Europa” di Mazzini anche nell’apporto del volontarismo europeo, militante sotto la guida di Garibaldi.
Non pochi motivi dell’etica o dell’azione mazziniane, nei brevi gloriosi mesi della difesa di Roma possono offrire spunti di attualità, talvolta perfino sorprendenti. A cominciare da quel principio di fondo sulla legislazione che guidò l’assemblea romana, operante in mezzo a difficoltà e traversie di ogni genere, con un bilancio dissestato, un’inflazione galoppante, un terrorismo non domato nelle province lontane, e che Mazzini riassunse, nel suo programma di governo ai costituenti, nella formula lapidaria: “poche e caute leggi, ma vigilanza decisa sull’esecuzione”. Non senza aggiungere: “economia negli impieghi; moralità nella scelta degli impiegati, capacità, ovunque si può per concorso [la tendenza funesta all’ope legis doveva essere già affiorata nella piccola repubblica affrancata dal governo papale], messa a capo di ogni ufficio nella sfera amministrativa. Ordine e severità di verificazione e censura nella sfera finanziaria, limitazione di spese, guerra a ogni prodigalità, attribuzione di ogni denaro del paese, esigenza inviolabile d’ogni sacrificio ovunque le necessità del paese lo impongono… Freno a qualunque egoismo colpevole di monopolio, d’artificio, o di resistenza passiva”.
Il triumviro non mancò di conformarsi per primo a quelle regole, rinunciando ad appannaggi e superstipendi, consumando i pasti in trattoria (là in piazza di Pietra), rifiutando qualunque scorta o protezione, nella Roma pullulante di pugnali, la Roma che aveva visto pochi mesi prima Pellegrino Rossi assassinato, il ministro, ci ricorda Andreotti, che doveva morire. Dopo qualche giorno trascorso all’albergo Cesari, dopo una breve sosta in una casa amica di via Due Macelli, all’angolo di via Capo le Case, il triumviro accettò l’ordine dell’assemblea di trasferirsi al Quirinale, per la maggior vicinanza con la Consulta, ma fra i tanti lussuosi e fastosi ambienti del palazzo iniziato dal cardinale Ippolito d’Este, sede storica dei Conclavi, scelse una stanza disadorna, così piccola, “tanto piccola da sentirmi come a casa propria”: aveva confidato alla madre lontana. “Io vivo ora – parole del 18 aprile ’49 – nel palazzo del Santo Padre; Saffi, uno dei miei colleghi, e Scipione Pistrucci vivono pure con me”.
Sedici anni più tardi, nel 1865, Mazzini opporrà la religione del “Dio e popolo”, che aveva animato la Repubblica, al sogno di restaurazione teocratica consegnato nel documento del Sillabo e in una lettera aperta a Pio IX rievocherà i tradimenti e gli abbandoni che lo stesso Pontefice aveva subito dagli inganni della cangiante ragion di Stato: “gli uomini che vi assiepano intorno vi diserterebbero rinnegando voi e la vostre fede il giorno in cui rimaneste solo e senza difesa di armi principesche di fronte ai popoli che dive vostri: io li vidi maledirvi insensato sedici anni addietro quando noi abitammo in Roma le vostre stanze”.
La nuova alleanza fra la Chiesa e i popoli sarebbe passata attraverso il definitivo superamento del temporalismo ecclesiastico. Anche sotto questo profilo la modernità di Mazzini fa parte del nostro stesso vivere di nazione libera e civile. Il grande rivoluzionario preparava la convivenza fra i due poteri supremi sulle rive del fiume sacro. Quella che la nostra generazione avrebbe chiamato “il Tevere più largo”.

Giovanni Spadolini


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