Originariamente Scritto da
WalterA
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Sessanta o cinquantacinque centesimi. È il prezzo di mercato per un litro di latte, almeno per gli industriali caseari, ovvero coloro in grado di regolare questo prezzo di mercato. Ma i pastori sardi, dopo giorni di trattative fallimentari per trovare un accordo con loro, non ci stanno più. E nel weekend hanno versato ettolitri di latte sull'asfalto per far sentire la loro voce. È giusto? Secondo qualcuno sarebbe stato meglio regalarlo ai bisognosi, ma forse non avrebbe avuto lo stesso impatto mediatico.
“È successo quello che in molti temevamo”, racconta Gavino Pulinas, pastore da una vita e proprietario dell'Azienda Agricola Truvunittu di Osilo,“i pastori sardi sono arrivati allo stremo perché il loro latte è arrivato a costare 30 centesimi in meno rispetto al costo di produzione, esclusa la manodopera”. Tra i costi vivi ci sono i mangimi, le semenze, le medicine, l'Inps, gli affitti, insomma tutto quello che serve per produrre il latte di pecora. Ma di chi è la colpa? “La colpa è di tutti. Dell'industria casearia, dei sindacati. E pure degli stessi pastori!”.
Le cause del problema
“È un problema cronico che dura ormai da decenni perché il prezzo del latte di pecora è legato a quello del Pecorino romano, che rappresenta il maggiore sbocco del nostro prodotto”. In numeri:
il 60% del latte di pecora sardo viene trasformato in Pecorino romano; le pecore in Sardegna sono circa 4 milioni; le aziende che se ne occupano sono 12mila; la produzione di latte arriva a 3 milioni di quintali.
Con questi numeri moltissime aziende sono totalmente dipendenti e schiave di un’unica produzione, di un unico sbocco. Pur chiamandosi “romano” infatti, questo pecorino per questioni di disciplinare ha consentito la produzione anche in Sardegna e da quel momento la cosa è stata dilagante: oggi il 95% del Pecorino romano si produce assai lontano da Roma. “È un mercato che conta 160mila quintali di pecorino l'anno, principalmente esportato negli Usa, e che quindi ha un potere contrattuale non indifferente. Ecco perché i pastori, in tutti questi anni, si sono trovati costretti ad accettare un prezzo deciso da altri, semplicemente perché loro, da soli, non hanno forza contrattuale. Perché è facile dire “basta non vendere il latte all'industria”, ma poi nei fatti se uno vive di questo non può permettersi di fermare la produzione, soprattutto quando ha già sostenuto i costi”.
La crisi passata
Eppure c'è stato un momento in cui i pastori avevano smesso di produrre.
“Una crisi simile l'abbiamo vissuta tra il 2011 e il 2014, anni durante i quali il prezzo del latte ovino era sceso portando molti pastori a produrre meno e a vendere gli animali (certo, in quel periodo è venuto meno anche il patrimonio zootecnico).
Questo, insieme a una serie di altre congiunture, ha causato una diminuzione della produzione di pecorino e di conseguenza a un aumento del prezzo, che è passato dai 6/7 euro agli 11 euro al chilo: per la prima volta il Pecorino romano costava di più del Parmigiano Reggiano. E così la gente ha ripreso a produrre il latte”. Latte che era arrivato a valere anche 1,3 euro al litro. Poi cos'è successo?
“Tra il 2016 e il 2017 si è arrivati a produrre molto molto più pecorino di quello che richiede il mercato e di conseguenza molto più latte”. Ed eccoci arrivati a oggi con il crollo dei prezzi. È la regola del mercato, baby: se l'offerta supera la domanda, i prezzi crollano.