Le maniche della camicia (bianca) rimboccate, matita in mano, Massimo Zedda si fa sorprendere nel suo ufficio mentre allinea ancora su un foglio le cifre dei voti delle Regionali. Ma non perché sia stupito della sconfitta: «Guardi questi sondaggi», dice indicando un altro schema, con le rilevazioni che - da un anno in qua - davano il centrosinistra sempre ampiamente sotto. «Dalle Politiche abbiamo recuperato 14 punti, di più non si poteva».

Ma se sapeva di perdere, perché ha accettato di candidarsi?

«Perché saremmo finiti ancora peggio. Qualcuno sarebbe andato con Autodeterminatzione, altri con Maninchedda. Un'aggregazione a sinistra, il Pd da solo».

Cioè: addio centrosinistra.

«Non solo: avremmo perso nello stesso giorno la Regione e Cagliari. Perché il centrodestra avrebbe vinto anche in città. Sarebbero venuti a urlare "dimissioni, dimissioni" sotto queste finestre».

Salvini dice che lei dovrebbe dimettersi lo stesso.

«Dopo aver vinto a Cagliari? Ma può un ministro ragionare così? Sarebbe stato un obbligo se avessi perso, ma ho vinto. E certo non decide lui. Ma poi: ci passa mai al suo ministero? È sempre in giro».

Ritorniamo alla candidatura.

«Come ho detto a caldo citando Lussu, bisogna dare un esempio in tempi segnati dalla viltà. Se avessi detto di no e avessimo perso, magari anche peggio, mi sarei sentito un vile».

L'ha stupita l'ampio distacco?

«In effetti pensavo un po' di meno. La nostra percentuale è più o meno quella attesa. Forse si sono spostati più voti del previsto dal M5S al centrodestra».

Non è l'effetto Salvini?

«L'11% della Lega sicuramente è merito suo. Eppure credo che sia al di sotto delle loro aspettative».

Voi non potevate fare di più?

«Non da settembre a oggi. Forse si poteva fare qualcosa di diverso dopo le Politiche: accelerare il rinnovamento, lavorare a un centrosinistra aperto e plurale. Ne discute in questi giorni il congresso del Pd: meglio soli o in un'alleanza? Io credo che si debba riprendere a ragionare in termini di coalizione».

Non è stato proprio l'interminabile congresso del Pd a rallentare la reazione?

«Non darei ogni colpa al Pd. In Sardegna ha sostenuto un'altra volta un candidato non suo, ha dato una grossa mano alle liste civiche rinunciando magari a una percentuale più alta. Ringrazio il segretario regionale Emanuele Cani, è stato di una correttezza estrema».

Lei, del resto, non doveva entrare nel Pd?

«Me lo dicono da dieci anni. Gli avversari. Io del Pd sono alleato, garantisce stabilità alla maggioranza comunale, ha voluto la mia candidatura. Ma se non ci sono entrato quando era fortissimo...»

Quando lei era amico di Renzi?

«Dicevano anche quello, ma il mio partito era all'opposizione del suo governo. Si è detto pure che io ho votato per il Jobs Act, io che non sono mai stato parlamentare».

L'operato della Giunta Pigliaru ha inciso sul suo risultato?

«Hanno inciso tanti elementi. La Lega ha un forte vento in poppa. È vero che su una parte del lavoro della Giunta non c'era molto entusiasmo».

Sarebbe stato meglio non candidare gli assessori uscenti?

«Dipende. Su alcuni assessorati io do un giudizio molto positivo. La Cultura, sia con Firino che con Dessena; l'Urbanistica di Erriu, il Turismo di Barbara Argiolas».

Forse insistere sulla riforma della Regione non porta voti.

«Può darsi. Ma finora molte iniziative sono fallite proprio perché non funziona l'apparato. Avrei potuto promettere miracoli, ma amo essere serio. E poi alla fine dei comizi molti si avvicinavano per sottolineare proprio quei concetti, dicevano: si vede che lei è un amministratore».

In campagna elettorale ha anche attaccato personalmente Solinas. Era davvero il caso?

«Perché gli ho detto che era il candidato invisibile? Lo dicevano tutti, era sparito, non partecipava ai confronti. Per carità, una tecnica legittima. Ma non puoi pensare che nessuno lo sottolinei».

Ma ora sarà possibile collaborare su alcuni temi? Il presidente riscuote la sua fiducia sotto qualche aspetto?

«Se riscuotesse la mia fiducia l'avrei votato. Però anch'io vivo in Sardegna, quindi spero che faccia un buon lavoro. Vedremo le dichiarazioni programmatiche, poi se farà cose buone non ci metteremo contro. Non penso che ogni cosa proposta dagli avversari sia sempre indigeribile. Ecco, magari non riprenda a parlare di flotta sarda».

Quindi resterà in Consiglio regionale, lasciando il Comune?

«Non ho ancora deciso. Lo valuterò insieme alla mia maggioranza in Comune, e poi coi candidati delle mie liste, che riunirò la prossima settimana. L'ottica è sempre quella collettiva: non c'è un uomo solo al comando. Le persone devono essere coinvolte sempre, anche su queste decisioni. Non solo per cercare voti».

Magari rimarrà sindaco per poi candidarsi alle Politiche in caso di elezioni anticipate?

«Il punto non è la mia carriera politica, ma decidere se sia meglio continuare il mandato da sindaco o guidare l'opposizione in Consiglio».

Forse da sindaco farebbe opposizione con più visibilità.

«Questo mai. Non si usa la città, e il consenso dei cagliaritani, per fare opposizione al governatore. Sarebbe una caduta di stile istituzionale che nuocerebbe alla città. Se resterò sindaco mi confronterò col presidente Solinas come si fa tra istituzioni, nell'interesse dei cagliaritani».

Ma sta già pensando alla rivincita tra cinque anni?

«Alla Regione? Non è all'ordine del giorno. Diciamo che tutti mi stanno riconoscendo che mi sono messo al servizio della causa per una missione impossibile. E che la sconfitta non è colpa mia».

Ma pensa anche lei che il centrosinistra debba far crescere nuove leve nei prossimi anni?

«Certo, infatti è una cosa a cui vorrei lavorare. Rifare una scuola politica, avvicinare i giovani. L'idea di una terza lista civica fatta di studenti nasceva da questo. Avremmo eletto per la prima volta un diciottenne o un ventenne in Consiglio regionale».

Giuseppe Meloni

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