Patria Indipendente

Da Bobbio alla carriera nell’Esercito Italiano

Il futuro generale Giuseppe Bellocchio era nato a Bobbio il 15 febbraio 1889. Il padre Domenico svolgeva un’attività commerciale e, oltre alla casa di abitazione nell’attuale Contrada di Porta Nuova al n. 6, vi possedeva dei poderi agricoli dati in gestione a mezzadria. La madre, Costanza Bionda, proveniva invece da Ponte dell’Olio. Giuseppe ebbe un fratello e due sorelle. La sorella maggiore sposò nel 1906 un maggiore del Genio, Ellenio Setti. Fu probabilmente per influenza di questo cognato che Giuseppe fu avviato nel 1910 alla carriera militare, seguito poi anche dal più giovane fratello Carlo che divenne ufficiale medico nella Marina militare. La sorella minore, Ida, a sua volta si maritò nel 1913 con un bobbiese emigrato negli Stati Uniti, Arturo Malugani, e andò a vivere a New York. Alla morte del generale, a Bobbio, il 7 marzo 1966, a 77 anni d’età, a raccoglierne l’eredità materiale furono i nipoti figli delle due sorelle perché gli altri parenti erano già tutti scomparsi e lui, che non si era mai spostato, non aveva lasciato figli.

Giuseppe, dopo gli studi medi superiori, affrontò la vita militare nel Corpo degli Alpini. Partecipò alla Prima guerra mondiale, vi raggiunse il grado di maggiore e dopo essere stato al comando di alcuni battaglioni alpini fu posto al comando dell’Ufficio operazioni della 7ª Divisione cecoslovacca, un corpo costituito da ex-militari dell’Impero austro-ungarico fatti prigionieri ma disponibili a combattere a fianco degli italiani per conseguire l’indipendenza del proprio Paese da tale impero. Per i successi conseguiti da reparti al suo comando Bellocchio fu decorato con una medaglia d’argento ed una di bronzo. Finita la 1ª Guerra mondiale fu ammesso al corso triennale 1920-’22 della Scuola di Guerra di Torino per la formazione degli ufficiali di stato maggiore, destinati alla direzione delle grandi unità, e successivamente fu promosso colonnello. Fra il 1928 e 1931 fu inviato in Albania a svolgere il compito di addestratore delle truppe del re Ahmed Zogu, appena arrivato al potere con il sostegno dell’Italia.

Da ricordare per inciso che successivamente, nell’aprile 1939, Mussolini mandò invece un corpo di spedizione italiano – 22.000 uomini con artiglierie e carri armati, due corazzate, 7 incrociatori e decine di altre navi, 7 stormi di aerei, un reggimento di paracadutisti – ad occupare quella povera Albania, costringendo il re Zogu a rifugiarsi in Grecia. L’occupazione italiana dell’Albania, che precedette di 5 mesi l’invasione tedesca della Polonia, può essere considerata un prologo della Seconda guerra mondiale, la guerra che portò alla morte 50 milioni di uomini e produsse immani distruzioni.

Negli anni Venti e Trenta Bellocchio fu anche, sempre nell’ambito del Corpo Alpini, Capo di S.M. in reggimenti, comandante di reggimento, e, nominato infine generale di brigata, Capo di S.M. in una Divisione.

Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, già abbastanza anziano, non fu inviato su un fronte di guerra ma svolse incarichi speciali in Italia e da ultimo, nominato generale di divisione nel 1941, ebbe l’incarico di comandante della Zona militare di Alessandria.

Nella notte seguente l’8 settembre e quindi all’annuncio dell’armistizio fra l’Italia e gli alleati anglo-americani, anche la città di Alessandria fu investita da reparti dell’esercito tedesco con artiglierie e carri armati. In una relazione rivolta a documentare la sua attività nella Resistenza –conservata fra le sue carte – Bellocchio ha scritto che nella sua Zona militare non stazionavano vere e proprie truppe da combattimento ma solo soldati di guardia alle infrastrutture, addetti ai depositi e reclute in addestramento praticamente prive di armi. Fu dato comunque l’ordine di rispondere con le armi agli aggressori e “vi furono alcuni morti e feriti dall’una e dall’altra parte”, ma infine i militari tedeschi assunsero il controllo delle caserme e delle altre strutture pubbliche della città, radunando i soldati e gli ufficiali italiani in provvisori campi di concentramento per avviarli più avanti all’internamento in Germania. Il generale Bellocchio e altri ufficiali del Comando di Zona riuscirono invece a sfuggire alla cattura provvedendosi di abiti borghesi nella stessa sede del Comando e uscendone poi da una porta secondaria. Il giorno dopo, con l’aiuto di un maresciallo dei carabinieri, Bellocchio si rifugiò provvisoriamente in una fattoria della campagna di Alessandria.

Alla direzione militare del movimento partigiano
Verso la metà di quel mese di settembre, ricostituito, per volontà e sotto la protezione hitleriana, il regime mussoliniano, anche Bellocchio fu avvicinato e sollecitato a rientrare nei ranghi militari del regime fascista di Salò ma rifiutò e fu fra i non molti generali del regio esercito italiano presenti l’8 settembre nelle regioni occupate dai tedeschi che non solo rifiutarono di entrare al servizio di tale regime e quindi degli occupanti tedeschi, ma si unirono poi ai partigiani per contribuire a liberare l’Italia dal nazi-fascismo.

Ormai identificato come oppositore e ricercato – non era facile camuffarsi dato il suo fisico caratteristico: l’alta statura, la corposità, la ruvida voce – riparò inizialmente a Milano prendendo contatto con altri ufficiali che vi vivevano clandestinamente. Successivamente si sposto nell’Oltrepò pavese, ospite per brevi periodo di quattro diverse famiglie fra Stradella e Canneto. Fra la metà di gennaio e la fine di febbraio del 1944 visse presso una cugina per parte di madre, nella frazione Ceradello di Carpaneto Piacentino. Saputo che la sua presenza era stata segnalata alle autorità nazi-fasciste, rientrò a Milano, ritenendo che in una grande città era forse più facile vivere in clandestinità e non essere vittima di spie.

A Milano si inserì così organicamente nel gruppo militare di Resistenza al nazi-fascismo guidato dai generali Bortolo Zambon e Giuseppe Robolotti, in rapporti di collaborazione con il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia che si era nel frattempo costituito e operava clandestinamente. Quei due generali il 25 maggio del ’44 furono però arrestati dalle milizie di Mussolini, Robolotti fu deportato nel campo di concentramento di Fossoli in provincia di Modena e lì fucilato, mentre Zambon riuscirà invece più avanti a salvarsi evadendo dalla prigione di San Vittore con l’aiuto di complicità interne.

Bellocchio, generale di Divisione, divenne così l’ufficiale più alto in grado del gruppo militare milanese e quando, ai primi di giugno, gli esponenti dei diversi partiti politici antifascisti componenti il CLN Alta Italia, al fine di dare una direzione unitaria alle diverse formazioni partigiane che si erano andate sviluppando nel Nord e Centro Italia, decisero di dare forma al Corpo Volontari della Libertà e di nominarne il Comando Generale, chiesero a lui di entrare a farne parte come esperto militare. Bellocchio vi assunse il nome partigiano di Giuseppe Comaschi. Tale comando era composto da lui e da un rappresentante per ognuno dei cinque partiti antifascisti – il Partito d’azione, il Partito comunista, la Democrazia Cristiana, il Partito socialista e il Partito liberale – ma al suo interno operava un vertice di tre membri: il generale Bellocchio appunto, l’azionista Ferruccio Parri, che nel giugno del 1945 diventerà il primo presidente del Consiglio dell’Italia liberata, e Luigi Longo, vice segretario allora del Partito comunista e capo delle Brigate Garibaldi. Bellocchio era di sentimenti monarchici, si può dire che era entrato nella Resistenza per fedeltà al giuramento fatto al re Vittorio Emanuele III. In concreto, rispetto ai diversi partiti antifascisti che fino da allora in qualche misura erano in concorrenza fra di loro e che anche nel movimento partigiano cercavano di rafforzare le rispettive posizioni, Bellocchio costituiva una figura indipendente e gli fu riconosciuto che si comportava con imparzialità nei confronti delle diverse componenti partitiche.

Naturalmente le funzioni svolte da quel Comando Generale del CVL non erano uguali a quelle del comando supremo di un esercito, quel Comando non era in condizione di pianificare la gran parte delle azioni militari contro i nemici e di esercitare una indiscutibile autorità gerarchica sulle diverse formazioni partigiane diffuse nel territorio italiano. In realtà ogni formazione partigiana decideva autonomamente le proprie azioni in relazioni alle condizioni locali, andando all’attacco delle forze e posizioni nazifasciste se intravvedeva possibilità di successo, o rispondendo agli attacchi di queste. Inoltre il movimento partigiano rimaneva suddiviso in Brigate Garibaldi, sulle quali esercitava influenza il Partito comunista, in Brigate Giustizia e Libertà che facevano riferimento ad esponenti del Partito d’azione, nonché in altri raggruppamenti, quali Le Fiamme Verdi e le Brigate Matteotti. Il Comando Generale del CVL provvide però a suddividere il territorio italiano a presenza partigiana in Zone, corrispondenti in larga misura alle province, e a nominare, d’intesa con i CLN provinciali, i Comandanti di Zona.

Il Comando Generale del CVL aveva organizzato e gestiva un proprio servizio informativo, riguardante sia la consistenza e le azioni delle formazioni partigiane che la consistenza e presenza delle forze fasciste e tedesche, e provvedeva a informare le formazioni partigiane dei movimenti e programmi di rastrellamento dei nazi-fascisti. Unitamente al CLNAI il Comando militare teneva i rapporti con le forze alleate anglo-americane e ne sollecitava i lanci aerei, di armi, munizioni e altre forniture. Inoltre il Comando Generale del CVL forniva naturalmente orientamenti e indicazioni alle formazioni partigiane sui comportamenti da tenere e in determinati momenti, quali i grandi rastrellamenti nazi-fascisti, cercava di coordinare le azioni di più Zone partigiane.

Il Comando, ricorda Bellocchio nella relazione citata, teneva ogni settimana una riunione plenaria ed il suo vertice a tre un’altra riunione o due. Per non farsi scoprire erano costretti periodicamente a cambiare sede di riunione e anche Bellocchio personalmente nella sua permanenza a Milano dal marzo ’44 all’aprile ’45 cambiò ben otto diverse case di abitazione; per un mese trovò rifugio presso l’Ospedale Niguarda. Per fortuna esisteva anche a Milano una diffusa solidarietà antifascista. Teniamo presente che se non si fosse unito alla Resistenza, Bellocchio, data la sua età, avrebbe potuto ritirarsi a vivere senza rischi nella sua casa di Bobbio.

Durante quell’estate del ’44 crebbe la diffusione e la consistenza del movimento partigiano e il suo contributo alla lotta non solo contro il regime fascista di Salò ma anche contro le forze militari tedesche d’occupazione. Se ne accorsero anche i comandi dell’esercito anglo-americano e ne prese atto il legittimo governo italiano che, dopo la liberazione di Roma nel giugno’44, tornò ad insediarsi nella Capitale con la Presidenza di Ivanoe Bonomi, mentre il re Vittorio Emanuele III aveva ceduto la luogotenenza al figlio Umberto. Alleati e Governo italiano si dichiarano allora disponibili ad aiutare maggiormente il movimento partigiano, il primo con armi e munizioni, il secondo con una dotazione di mezzi finanziari, a condizione di avere un uomo di loro fiducia al vertice del Comando generale del CVL. Per tale vertice designarono il generale Raffaele Cadorna, che proveniva dalla famosa dinastia militare dei Cadorna e che, a capo della Divisione corazzata Ariete il 9 settembre ’43, aveva cercato di difendere Roma dall’occupazione tedesca. Il CLNAI dopo varie discussioni accettò, il Cadorna venne paracadutato in Val Camonica e il 6 settembre ’44 s’insediò a capo del Comando Militare del CVL, sostituendovi il generale Bellocchio. Che non gradì l’operazione ma rimase a disposizione del movimento partigiano e accettò l’incarico di Capo del Comando Piazza di Milano.

Il Comando Piazza nella capitale della Resistenza, aveva la responsabilità di dirigere o comunque coordinare le formazioni e le azioni dei partigiani a Milano e nella provincia e di predisporre il piano per l’insurrezione e la liberazione della città. Anche questo Comando, con al vertice Bellocchio, era composto da esponenti designanti da ognuno dei partiti politici antifascisti, esponenti che variarono nel tempo e ai quali facevano capo le diverse funzioni, quali vice-comandante, capo ufficio operazioni, capo servizio informazioni, nonché la funzione di commissario politico che fu sempre rivestita da esponenti comunisti. Il Comando durante la sua vita, cioè fino alla fine dell’aprile ’45, poté successivamente avvalersi, in particolare per la predisposizione del Piano insurrezionale, anche del contributo di diversi ex ufficiali dell’esercito: Bellocchio nella sua relazione ne elenca nominativamente diciotto, fra cui diversi colonnelli.

Gli aderenti attivi alla Resistenza nel settembre ’44 a Milano furono calcolati in 7.700 e in 3.700 quelli nel restante territorio della provincia, che comprendeva anche il lodigiano fino al confine con la provincia di Piacenza. Vennero calcolati complessivamente in quasi 30.000 nell’aprile del ’45, probabilmente esagerando, tenuto conto che molti partigiani dell’area milanese avevano raggiunto le formazioni partigiane della montagna, compreso quelle piacentine, ed erano inseriti in tali formazioni.

Naturalmente, le azioni partigiane a Milano e nel circondario erano diverse da quelle praticate in territori appenninici, anche se non meno rischiose. Era meno frequente cadere in combattimento ma più probabile essere catturati, torturati e fucilati, vivendo in mezzo ai nemici che nel capoluogo lombardo erano costituiti anche da corpi speciali fascisti particolarmente feroci. Le azioni partigiane consistevano normalmente in sabotaggi, nella sottrazione di armi ai nemici, in attentati ed altri atti dimostrativi per intimorirli e renderli insicuri, realizzati in genere nelle ore notturne. Gli aderenti alla Resistenza a Milano erano organizzati in parte nei GAP (Gruppi di azione patriottica) – costituiti ognuno da pochissimi membri che compivano le azioni più pericolose e vivevano in clandestinità – nelle cosiddette Brigate mobili e nelle SAP (Squadre di azione patriottica), queste ultime a larga composizione, in maggioranza di operai che di giorno andavano regolarmente al lavoro nelle rispettive fabbriche.

La funzione del Comando Piazza si realizzò in particolare nel suddividere l’organizzazione partigiana a Milano in nove Settori, con i relativi comandi e con specifici compiti, nel dare loro direttive di azione, creare un sistema informativo e una rete di collegamento, tenere i rapporti con corpi ancora inseriti nell’organizzazione del regime di Salò, ma disponibili a collaborare con la Resistenza, in particolare al momento dell’insurrezione, cioè il Corpo della Guardia di Finanza, dei Vigili urbani e dei Vigili del Fuoco. Il Comando Piazza provvedeva anche a ripartire e a far avere ai diversi raggruppamenti partigiani le risorse finanziarie che dal dicembre ’44 furono forniti dal Governo di Roma al movimento tramite il CLNAI che le suddivideva fra i Comandi di Zona e i Comandi di Piazza, risorse che servivano, oltre che all’acquisto di armi, alla sopravvivenza dei partigiani che vivevano alla macchia, riducendo la necessità di ricorrere a requisizioni fra la popolazione civile.

Compito, come ho detto, del Comando Piazza fu inoltre quello di predisporre il Piano insurrezionale della città di Milano, la cui ultima stesura consiste in 45 pagine dattiloscritte più una grande pianta di Milano con segnati i vari punti d’interesse. Il piano si proponeva di organizzare, dislocare e utilizzare le forze partigiane in funzione dei seguenti obiettivi:

1) ostacolare il ripiegamento dalla città di Milano delle truppe nemiche, apportando loro più perdite possibili;

2) distruggere o almeno immobilizzare le forze nemiche che sarebbero rimaste nella città;

3) occupare le strutture militari della città e quelle amministrative per poterle subito utilizzare ai fini dei patrioti e della popolazione;

4) garantire l’ordine e la sicurezza in città, provvedendo alla eliminazione o al fermo degli elementi nazi-fascisti;

5) occupare e proteggere gli stabilimenti industriali ed i grossi complessi commerciali, nonché proteggere le opere essenziali per il funzionamento dei servizi pubblici.

Adolfo Scarpelli, autore di un saggio sul Comando Piazza, e altri che hanno scritto la storia della Liberazione di Milano si sono chiesti se tale liberazione sia avvenuta secondo quanto indicato dal Piano insurrezionale o se invece questo abbia avuto una funzione assai limitata.

Chi parla bene del Piano è Luigi Longo in ben nove pagine del suo libro “Un popolo alla macchia”. Altri hanno scritto che aveva una impostazione troppo tradizionale e militare, dando dettagliate indicazione operative mentre le insurrezioni popolari si sviluppano con una propria dinamica, non pianificabile. Il professore Flavio Nuvolone, che sulla rivista a cadenza annuale da lui diretta Archivum Bobiense nel numero del 2005/2006 ha pubblicato il Piano con relativa pianta, corredato da sue ampie note, ha preso in considerazione e messo a confronto le diverse valutazioni e ne ha concluso che il Piano ha rappresentato in ogni caso un valido supporto informativo per le forze impegnate nelle liberazione della città, ne ha assicurato una utile dislocazione di partenza e ha promosso il concorso di quelle altre forze militari disponibili alla collaborazione con i partigiani, concorso che è risultato fondamentale per garantire subito l’ordine e la sicurezza in città, nonché la ripresa dei servizi pubblici di rete.

Quanto alla personalità di Bellocchio e al suo ruolo nel Comando Piazza, ci è stata trasmessa la memoria, oltre che della sua imparzialità riguardo alle diverse posizioni politiche degli uomini che lo affiancavano, anche quella di una sua difficoltà a destreggiarsi fra quelle posizioni, nonché dei suoi contrasti con il generale Cadorna, diventato il suo diretto superiore. Raffaele Cadorna nelle sue memorie, “La Riscossa”, ha scritto: “Anche nella Piazza di Milano era difficile conoscere la consistenza, la dislocazione e l’armamento delle forze clandestine. Convocammo più di una volta il generale Bellocchio ed il suo commissario politico per i chiarimenti del caso. Il bravo generale dava in escandescenze, incolpava l’anarchia dei partiti e le continue catture dei capi partigiani con conseguenti continue sostituzioni”. Ma chi ha lasciato una testimonianza più ampia su Bellocchio è Amerigo Clocchiatti che gli fu a fianco per alcuni mesi come commissario politico del Comando Piazza. Nel suo libro “Cammina Frut” ha scritto: “Il Comando era diretto dal generale Bellocchio, piacentino di Bobbio, un uomo gigantesco, sanguigno, già avanti negli anni. Quante camminate con lui per Milano, quante conversazioni! Bellocchio si sfogava con me contro il generale Cadorna che lo aveva sostituito – diceva – senza meriti speciali, nel Comando Generale del CVL. Gli dovevo raccomandare continuamente di parlare più piano se non volevamo farci beccare, tanto si infiammava. Le due volte che Bellocchio ed io fummo chiamati a rapporto dal Comando generale del CVL, quelle riunioni si trasformarono in una diatriba furiosa fra i due generali. Il posto del generale Bellocchio – continua Clocchiatti – era ambitissimo e tutti facevano pressione su di me, tutti ne avevano uno migliore da mettere. Ma io lo difesi costantemente. Lui era monarchico ma si teneva al disopra di tutti i partiti”.

A Milano in particolare c’erano gli uomini del Partito d’Azione e del Partito socialista che rivendicavano un maggior peso negli organismi del movimento partigiano, mentre un comandante come Bellocchio che non s’intrometteva nei rapporti fra i partiti piaceva ai comunisti. Un altro giudizio significativo su di lui è infatti quello espresso dal predecessore di Clocchiatti nell’incarico di commissario politico a fianco del generale, Italo Busetto, in una relazione in data 30 novembre ’44 di carattere riservato inviata a Longo, quale capo delle Brigate Garibaldi, e pubblicata in un volume di documenti relativi a quelle brigate. Scriveva Busetto: “Il generale comandante la piazza è figura di ufficiale onesto, corretto, semplice, non troppo uso alle schermaglie dell’attività politica. Non riesce ad assimilare le norme cospirative. Ad es. è in rapporto con il vicequestore Mancini della polizia fascista, essendosi lasciato aggirare dalle dichiarazioni di antifascismo di costui. Lo abbiamo messo in guardia”.

Possiamo osservare che erano diversi a Milano i funzionari pubblici che tenevano in quei mesi il piede in due scarpe e che peraltro quel vice-questore non ha tradito il generale Bellocchio.

Giungiamo cosi ai giorni della Liberazione quando il generale bobbiese incappò nella vicenda che lo amareggiò molto ed influì sulle sue scelte successive in rapporto al movimento partigiano e alla stesso ambiente militare.

Il Comando Piazza negli ultimi tempi teneva le sue riunioni via via in luoghi diversi. A conclusione di una riunione si fissava la data ed il luogo di quella successiva. Un’ultima riunione si tenne il 24 aprile all’aperto in Piazzale Susa, quando il CLNAI non aveva ancora diramato l’ordine d’insurrezione. Secondo quanto ha scritto, Bellocchio a quella riunione non poté essere presente perché colpito da un febbrone; non conosceva pertanto il luogo del successivo incontro del Comando fissato per il giorno dopo in un edificio di via Carlo Poma. Senonché il giorno dopo, 25 aprile, avvenne la mobilitazione generale contro le forze nazifasciste e anche una serie di collegamenti fra reparti e comandi saltarono. Quando il generale Cadorna raggiunse il Comando di Piazza nel previsto recapito di via Poma non vi trovò Bellocchio e gli si dissero che era irreperibile. Cadorna seduta stante colse l’occasione per rimuoverlo dall’incarico e sostituirlo. Nel Comando era previsto che in caso d’impedimento subentrasse nelle funzioni il vice-comandante vicario, ma Cadorna nominò, al posto di Bellocchio, il generale Emilio Faldella. Qualche giorno dopo, a Liberazione avvenuta, si venne a sapere che il Faldella era sì rimasto in disparte dal regime di Salò, rifugiandosi però in Svizzera, tornando a Milano soltanto appena prima della Liberazione. E che durante il regime fascista aveva partecipato come “volontario” alla guerra civile spagnola a fianco dei franchisti e su quella guerra aveva poi scritto un libro elogiandone la partecipazione dell’Italia fascista. Fu il socialista Sandro Pertini in particolare a elevare grandi proteste contro la sua nomina alla direzione del Comando Piazza e a chiederne la rimozione. Si era nei primi giorni di maggio. Nelle sue memorie, Cadorna riconosce che al Comando Piazza di Milano in quei giorni si profilava una spiacevole situazione in conseguenza della nomina del generale Faldella, ma per rimediarvi decise non di riportare il generale Bellocchio al suo posto bensì di sciogliere il Comando Piazza. Questo scioglimento sarebbe comunque avvenuto più avanti, però Cadorna ne anticipò i tempi. Credo che la decisione dello scioglimento sia stata presa o comunque comunicata nella riunione che si tenne il giorno in cui due partigiani bobbiesi, Italo Londei – comandante della VII Brigata della Divisione Piacenza e già tenente degli Alpini ad Alessandria alle dipendenze di Bellocchio – e il vivente Agostino Covati – al tempo commissario della richiamata VII brigata – si erano recati a Milano presso la sede del Comando del CVL. Ricorda infatti Covati: “Noi due eravamo seduti nel corridoio che dava accesso alla sala in cui si teneva la riunione. Da quella sala provenivano delle grida, finché ad un certo punto la porta si spalancò e ne uscì con aria infuriata il generale Bellocchio, che si rivolse a noi due esclamando: Ragazzi, andiamo a casa! Ci condusse immediatamente alla sua Fiat Balilla a tre marce e con la sua guida quel giorno siamo tornati tutti e tre a Bobbio”. Cadorna invece andò a Roma a ricoprire la carica di Capo di S.M. del nuovo esercito italiano, alla quale subito dopo la Liberazione era stato nominato dal Governo Bonomi. Nel 1948 diventerà senatore nelle liste della Democrazia cristiana e sarà rieletto nelle elezioni del ’53.

Il ritorno del generale Bellocchio a Bobbio
Bellocchio resterà invece fino alla morte, nel 1966, a vivere a Bobbio. Riceverà, come ufficiale della riserva, la nomina a Generale di Corpo d’Armata e quindi una buona pensione, ma gli rimarrà l’amarezza del torto subito. Anche Clocchiatti ricorda: “Dopo la guerra andai a trovarlo più volte a Bobbio: era amareggiato e sempre più protestatario contro tutti”. Chi lo aveva conosciuto durante gli anni di servizio nell’esercito italiano lo ricordava come un ufficiale molto comprensivo e disponibile nei confronti dei suoi soldati, dei suoi alpini, ma di rapporti difficili con gli altri comandanti. Testimoni affermano che durante la Seconda guerra mondiale avrebbe evitato a giovani alpini bobbiesi di essere spediti a morire sul fronte russo, e che anche nel dopoguerra si sarebbe prestato per assicurare a diversi giovani l’esenzione dal servizio militare.

Anche nel dopoguerra rimase di sentimenti monarchici e fu iscritto al Partito nazionale monarchico. E nella campagna delle elezioni politiche del 1953 – molto accesa per l’approvazione di una legge elettorale maggioritaria, definita dagli oppositori, anche dai monarchici, “legge truffa”, perché avrebbe assegnato il 65% dei parlamentari alla coalizione di partiti che raggiungesse anche solo il 50% più uno dei voti – Giuseppe Bellocchio accettò di essere candidato nelle liste di quel partito monarchico, pur non avendo speranza di essere eletto. Fra i suoi documenti si è conservato il testo del comizio con cui aprì la campagna elettorale a Bobbio e che poi utilizzò come base per i comizi in altri comuni. Un discorso in cui si difendeva dagli attacchi che, da parte delle Dc e dal settimanale cattolico Piacenza Nuova, gli erano stati rivolti di provocare, con la sua candidatura, una dispersione di voti a vantaggio dei social-comunisti, esponeva il programma del partito monarchico e criticava la legge maggioritaria che avrebbe distorto la rappresentanza politica dei cittadini a favore della Dc e dei suoi alleati. Viene riferito che Bellocchio rimase deluso dal risultato elettorale rispetto alle aspettative, in specifico nel comune di Bobbio. Naturalmente anche qui il voto si era orientato sui grandi partiti in competizione, dalla Dc al Pci. Va detto, tuttavia, che negli anni Cinquanta e primi anni Sessanta proprio nel comune di Bobbio, nelle elezioni politiche nazionali ed in quelle per l’amministrazione provinciale, il partito monarchico conseguiva una discreta percentuale di voti, segno che attorno a Bellocchio si era formata una cerchia di estimatori e di persone che sentivano un debito di riconoscenza nei suoi confronti. Lui viveva con grande semplicità, facilmente si lasciava trascinare in forti discussioni polemiche, partecipava ai raduni degli alpini ma disdegnava in genere i rapporti con gli “alti papaveri”. Non aveva aderito all’Anpi ma anche quando Enrico Mattei, che Bellocchio aveva conosciuto nel movimento partigiano a Milano, andò a Bobbio per promuovere un’associazione di ex partigiani alternativa all’Anpi, egli non solo non aderì a quella associazione, ma tenne un atteggiamento distaccato anche nei confronti di Mattei.

Fra i documenti conservati nel suo fondo archivistico vi è anche una tessera d’iscrizione di Giuseppe Bellocchio alla massoneria italiana, tessera del 1944. Si sa che negli alti gradi militari era diffusa questa adesione e rifiutarla poteva incidere negativamente nella carriera. Quella tessera rende credibile una testimonianza che l’autore di questo saggio ha raccolto relativamente ad una ultima vicenda con cui il generale Bellocchio avrebbe avuto a che fare. Un giorno, all’inizio degli anni Sessanta, Bellocchio confidò ad un amico di essere appena tornato da Roma, dove era stato invitato da qualcuno che lo conosceva e dove aveva avuto contatto con un certo ambiente di generali da cui ricevette la proposta di aderire anche lui a quella consorteria che aveva in programma di realizzare una specie di colpo di Stato per impedire che la politica italiana slittasse verso sinistra. “Io ho subito rifiutato – riferì Bellocchio all’amico – di quelle cose non ne voglio nemmeno sentir parlare”. Orbene, i primi anni Sessanta sono quelli della nascita del centrosinistra con l’ingresso del partito socialista prima nella maggioranza e poi direttamente nel governo. Si sa che nel 1962 per bloccare quel processo era stato predisposto il cosiddetto “Piano Solo” da parte di certi ambienti militari con al centro il generale De Lorenzo, capo del SIFAR, il servizio segreto informativo delle Forze Armate, e poi Comandante Generale dell’Arma dei carabinieri, iscritto ad una loggia massonica composta in particolare da militari. Il Piano non fu attuato anche perché, si disse, il Psi di Nenni moderò le sue richieste programmatiche. Venuta alla luce quella vicenda, De Lorenzo dovette abbandonare i suoi incarichi nelle Forze Armate ma fu eletto deputato nel 1968 per il partito monarchico e nel 1971 per il Msi.

Il generale Bellocchio era dunque monarchico, critico della vita politica italiana del dopoguerra, ma fedele ai valori di libertà e democrazia per le quali aveva rischiato la vita assieme ai partigiani che avevano idee politiche anche molto diverse dalle sue.

È anche per l’adesione di una personalità come la sua, di un generale, di un moderato, di un monarchico, che la Resistenza e la lotta di Liberazione hanno avuto in Italia quel carattere di pluralismo unitario e di afflato morale per cui la stragrande maggioranza del Paese vi si è potuto riconoscere e il 25 aprile 1945 ha potuto aprire un capitolo nuovo nella storia dell’Italia.

Romano Repetti, saggista, vicepresidente dell’ANPI provinciale di Piacenza

Bibliografia
Fondo archivistico Gen. Giuseppe Bellocchio, presso Municipio di Bobbio.

Cadorna Raffaele, La riscossa, Rizzoli, 1948.

Clocchiatti Amerigo, Cammina frut, Vangelista editore, 1972.

Fiori Giorgio, Storia di Bobbio e delle antiche famiglie bobbiesi, Lir, 2015.

Longo Luigi, Un popolo alla macchia, Arnoldo Mondadori, 1947.

Pavone Claudio, Le Brigate Garibaldi nella Resistenza, Vol. II – Feltrinelli 1979.

Scalpelli Adolfo, Il generale e il politico, Franco Angeli, 1985.

Rivista “Archivum Bobiense” – annale 2005/2006.

Rivista “Studi piacentini” – n° 9 /1991.

“Albania”, voce in Enciclopedia italiana Treccani – Vol. II/1929 ed 1ª appendice/1938.