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  1. #21
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    Predefinito Re: Guido Ceronetti (1927-2018)

    BAMBINE E LUPI


    L’ultimo articolo di Guido Piovene, uscito postumo («Il Giornale», 17 novembre 1974) era dedicato alle fiabe di Perrault. L’edizione einaudiana di cui parla Piovene, curata da Calvino, non l’ho vista, ma dei Contes di Perrault ho una elegante e un po’ fredda edizione di Skira, e li avevo ripercorsi prima di tentare, con mani profane, di costruire anch’io una fiaba, a più piani, circa due anni fa. Ci ritorno adesso, per qualche corta riflessione, che dedico all’ombra scettica e curiosa, di scrutatore dell’al di qua che attiravano i nessi invisibili, di Guido Piovene.

    Cenerentola è la storia da lui esaminata più da vicino, con l’attenzione concentrata di un proprio presentimento di morte, a colpi di luce sbieca: «Il mondo in cui Cenerentola vive rivela un retroscena orrendo, che non butta fuori soltanto gioielli, fiori e scarpine di vetro, ma anche animali ripugnanti; tra poco chissà quale mano li annegherà nell’acqua bollente». È vero, ma il retroscena orrendo è una regola, nelle fiabe. E una loro caratteristica parallela è il retroscena splendido: dietro la Testa d’Asino c’è un’adorabile principessa, dietro la Bestia un principe degno della Bella. Il rapporto s’inverte di continuo, e quale sia la vera realtà non è rivelato, perché la rivelazione fiabesca consiste essenzialmente nell’incessante negazione di una realtà in favore di un’altra che la rovescia; «nella vittoria» dice Cristina Campo «sulla legge di necessità».

    L’utilità suprema delle fiabe, nell’età infantile, è in questo: insegnare agli esseri sensibili a dubitare di quello che vedono e toccano, dell’identità delle persone, della solidità di una casa, dell’impossibilità di una metamorfosi. Allontanare i bambini dal visibile, facendogli sperare che sia falso, è la cosa migliore che possiamo fare per loro, dopo il male che gli abbiamo fatto chiamandoli in questo mondo. Per gli adulti, che adoperano la fiaba come aggiunta culturale, sovrapponendo ai pesi del razionale che già gli tocca sollevare anche un irrazionale svuotato e riempito d’altro, niente da fare.

    Poiché le fiabe hanno sovente più versioni, e vengono di lontano, è utile confrontarle. Cenerentola e Cappuccetto Rosso sono notevolmente diverse, in Perrault e nei Grimm. La metamorfosi magica di Cenerentola è molto scarna nei Grimm: la derelitta riceve abiti e scarpine da un uccellino bianco, che ascolta i suoi pianti vicino alla tomba di sua madre, e torna a casa affrettatamente, però ad un’ora imprecisata. Il retroscena orrendo non manca neanche lì, solo c’è un modo meno nitido di collocarlo e farlo sentire. Perché il padre butta giù i nascondigli sospetti di Cenerentola, la colombaia, il pero, dove non c’è nessuno? Il finale di Perrault, artista ispirato e crudele, è edificante, con le due perfide sorelle perdonate e maritate «a due grandi signori della corte», mentre i buoni Grimm ne tramandano uno feroce: le due sorelle rese cieche dalle beccate simmetriche delle colombe amiche di Cenerentola, «mentre gli sposi andavano in chiesa».

    Dei due Cappuccetti, il perraultiano splende per l’olimpica crudezza della sua chiusa: «Il malvagio lupo si gettò sulla piccola Cappuccetto Rosso e la mangiò». I Grimm aprono la pancia del lupo, ne escono Cappuccetto e la nonna, il lupo crepa. C’è anche uno strascico: poco tempo dopo un altro lupo insidia Cappuccetto, e finisce male come il primo.

    Il significato erotico della storia, nelle intenzioni di Perrault, sembra indubitabile. Cappuccetto è un’ingenua Justine della cui virtù fa scempio un lupo che, sotto la pelle lupesca, cela imparruccata pedofilia. Una volta preso il posto della nonna, invita Cappuccetto a coricarsi vicino a lui. Qui Cappuccetto ha l’immediata rivelazione di certe stranezze che la nonnina nasconde sotto la camicia da notte. Lo stupore per le braccia e le gambe troppo grandi viene dopo quel primo, e massimo, stupore. Subito dopo finisce mangiata, sgranocchiamento sul quale la Morale in versi fornisce chiarimenti sicuri, raccomandando alle jeunes demoiselles di stare attente, perché ci sono in giro troppi lupi con l’idea fissa di divorarle.

    Nei testi si trova a volte et la croqua, a volte mangea. Perrault ha sicuramente usato croquer, più salace e preciso, perché si diceva croquer une fille per indicare la cosa nella sua cannibalica brutalità. L’onomatopea fa sentire il possesso fino all’osso, il dannato penetrare et abire in corpus corpore toto.

    Questo lupo perraultiano ha un’interessante somiglianza col celebre abate Choisy, che sua madre nell’infanzia vestiva da femmina perché piacesse al duca di Orléans, e cresciuto adorava travestirsi da donna, otteneva come gran dama la fiducia delle famiglie e invitava a passare una notte innocente sotto il suo baldacchino i Cappuccetti più mangiabili e qui le mangiava così bene che le povere vittime chiedevano, quasi sempre, di essere mangiate di nuovo. Forse Perrault ha avuto in mente l’abate, suo contemporaneo, lupo e nonna.

    La versione dei Grimm è meno aristocratica e perversa, anche se il substrato tenebroso è piuttosto evidente nell’episodio del secondo lupo, che medita di seguire Cappuccetto per la strada, di sera, «per mangiarsela al buio». Si direbbe Peter Kürten che conduce per mano la piccola Maria Hahn nel bosco di Pappendelle… La scena al letto della nonna è casta. Il cacciatore, in apparenza espediente per un fine lieto, mi sembra un personaggio-chiave per aprire l’enigma di Cappuccetto Rosso.

    Una pura essenza luminosa, divorata con astuzia da potenze tenebrose, viaggia penosamente attraverso la materia, invocando un liberatore dall’alto che la tiri fuori dall’orrore di quella notte peristaltica, per ricondurla integra al suo soggiorno primitivo. Il Signore della Luce ascolta il suo lamento e manda una parte di sé, incarnata in un Messaggero potente, a liberarla. Questo mito segreto, riconoscibile sotto travestimenti senza numero, è il perno rotante della gnosi ellenistica e manichea.

    La parabola di Cappuccetto Rosso ci sta dentro perfettamente. Cappuccetto appartiene al mondo della Luce; il Lupo, tenebroso arconte, Zodiaco malefico, abita nel bosco, nella «selva oscura» dove si è perduto, nel Trecento, anche un Cappuccetto Rosso coi capelli neri e crespi che rimava in toscano: una lonza piena di schianze, un leone e una lupa lo riempiono di paura, ma un messaggero celeste, travestito da Virgilio, sarà il suo cacciatore tagliapance-di-lupo. Perciò il vero finale della storia è l’uscita grimmiana dalla pancia del lupo, dall’inferno della materia. Il puro divoramento, ribaltato in chiave metafisica, rivelerebbe un pessimismo assoluto, il trionfo della Tenebra, che mangia e digerisce τó ϕῶς.

    Il Lupo è anche un antichissimo simbolo del Tempo e ogni demone maligno è lupo. «Liberaci dal lupo…». Il coltello del Cacciatore libera dal Tempo e dai demoni. La nonna potrebbe significare un’antica saggezza che la Tenebra ha inviscerato per fingere una somiglianza con la Luce e attirarne altri frammenti nella sua pancia. Le Temps mange la Vie… Il Tempo è così lupo perché, forse, il lupo è il Tempo, tutto gola, voracità, rapina. Per il mio caro Dizionario Idio-etimologico dell’abate Latouche, che fa derivare dalle semitiche un mucchio di parole greche, il lupo greco verrebbe dalla stessa radice semitica di balà, azione di divorare, assorbire, distruggere, sterminare. Il lupo fa ammutolire (lupus in fabula) perché il Tempo ingoia tutte le nostre voci. Zeus Liceo è un semiticissimo divoratore di bambini, dopo avere trasformato in lupo il primo uomo che gliene ha offerto uno, e il suo simbolo è una pietra bruta, come quella su cui Giacobbe, in Genesi 28, ha la visione della scala. I «lupi della sera» in Zefania e Abakuk sono più demoni del deserto, divoratori senza fame, che lupi d’ululato. Il lupo della favola è così poco un animale che può assumere quando e come vuole la forma umana: è un Dio che s’incarna, ominizzandosi e lupizzandosi. Una delle cose più strane nella storia del lupo mannaro in Petronio sono gli abiti del soldato-versipellis che si trasformano in pietre, come il segno del Dio semita. Ma come hominarius il lupo è l’immagine dello spavento assoluto, la sua ambiguità ne spinge all’eccesso la pericolosità e la ferocia; e ancora l’ominarietà lupina è la mescolanza di Luce e Tenebra che forma propriamente la natura umana.

    Per le fiabe più radicate, dove c’è un impianto ricorrente, consiglierei un mazzo di almeno cinque chiavi: una greco-misterica, una gnosticomanichea, una bramanica, una druidica, una eddica. Un unico anello sapienziale originario le tiene insieme. A chi rifiuta la dottrina della trasmigrazione delle anime la fiaba è muta.

    Si è versato, là sopra, molto vetriolo geloso, un rigido coprifuoco è stato imposto nelle libere città del mito. Dei lampi di verità strane e paradossali che ci hanno nutriti, come una scienza di antipodi, soltanto rare schegge corrose, perle dei maghi cadute nella storia dei popoli e congelate come tradizioni popolari, parabole incontrate per caso o destino da scrittori semplici o maliziosi, hanno passato il muro. Guardo con commozione alle fiabe perraultiane, che sono poche e misteriosamente scelte tra quelle dov’è più forte il segno del dualismo manicheo; hanno l’aria di scampati alla crociata di Simone di Montfort e ai roghi dei Califfi, di naufraghi crostosi, scoperti e magicamente rivestiti d’oro e d’argento, come Cenerentola, per una festa nei giardini di Versailles.

    I miti manichei, che abbiamo in frantumi, dall’Occitania alla Cina, potrebbero comporre un dagherrotipo credibile del padre vero di Cappuccetto Rosso, di Barbablù, di Cenerentola, di Testa d’Asino… Le contrapposizioni violente di Bene e Male, nella fiaba, corrispondono drammaticamente ai Due Principii della metafisica dualista più refrattaria; il «retroscena orrendo» di Piovene è la consueta pittura gnostico-manichea della Materia e del suo Signore. Le donne scannate di Barbablù sono anime prigioniere nel castello maledetto del Princeps Tenebrarum, prima che il Messaggero la liberi con un bacio Psiche dorme in un bosco e in un regno pietrificati, le traversie di Griselda e di Testa d’Asino sono prove di viaggio dell’anima espiante e trasmigrante. Pollicino, altro smarrito della «selva oscura», altro cercatore della «via», ha invece una origine bramanica: l’Uomo alto un pollice è l’Abitatore del corpo, l’Atman-Brahman, lo Spirito Assoluto. Nella Fatina Azzurra di Pinocchio, Elémire Zolla ha riconosciuto i tratti della Vergine di Luce, la Sapienza salvatrice.

    La ricerca dei simboli sessuali è sempre interessante: i topi vivi che la trappola non uccide, e che diventano (specialmente uno «barbuto», che farà da cocchiere) servi di Cenerentola «per un tempo limitato», la scarpina di vetro che il «piede» dovrà infilare alla perfezione, l’anello di smeraldo di Testa d’Asino fatto per un solo dito, meritano riguardi. Un misterioso segnale erotico (che non esclude il senso esoterico di caduta nella materia) viene dal «fuso» la cui punta ferisce la Bella Addormentata. La mano perforata da questo fuso molto simile a Priapo e a Baal-Peor è la via aperta al sonno mortale dell’anima nel ciclo delle nascite e delle morti, che l’Inviato celeste scardinerà. Il seguito della storia è forse un’antichissima contaminazione: la madre-orchessa che vuole divorare i figli della Bella risvegliata e poi la nuora stessa è probabilmente un’altra figura del Lupo-Tempo divoratore o del Principe delle Tenebre, la cui fame è senza fine. All’interno della fiaba la contesa fra il Tremendo Rischio e il Mistero della Salvezza è perpetua. Anche questo nega risolutamente l’umiltà delle sue origini. La fiaba viene dall’alto.

    Tratto da: Guido Ceronetti, La carta è stanca

  2. #22
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    Predefinito Re: Guido Ceronetti (1927-2018)

    I TRENI


    … l’oiseau de paradis funèbre des Locomotives…

    LÉON-PAUL FARGUE

    1

    Nel 1602 il treno nacque a Newcastle sulla Tyne. Lungo una strada ferrata in pendio scivolavano dolcemente al fiume i carrelli pieni. Nel secolo XVIII c’erano già intorno a Newcastle una ventina di piccole linee ferroviarie che portavano il carbone ai velieri e ai barconi.

    Una miniera di carbone è una culla triste: un fiocco nero, grandi veli di polvere nera, un uomo annerito che scava scava. La storia di quelle che chiamano oggi le fonti energetiche è lugubre e sporca. Non dobbiamo dimenticare che quel che esce dal sottosuolo ha un rapporto di sangue con le potenze, tradizionalmente non buone, del sottosuolo. La loro faccia si vede di rado, ma il veleno dell’energia è una testimonianza visibile che fa riflettere. Un giorno la locomotiva correrà sulla strada ferrata; la guiderà l’onesto e geniale George Stephenson, un uomo vissuto nell’unico e monotono pensiero della locomotiva. Ma chi vide mai il vero fuochista? Chi si nascondeva nell’anima del carbone che la macchina sovranamente bruciava, scriteriata amante, correndo a venti chilometri l’ora da Stockton a Darlington, da un mucchio di carbone a un altro mucchio di carbone, preceduta da un battistrada a cavallo, il 27 settembre 1825?

    La macchina aveva un christian name simpatizzante con la propria funzione, Locomotion, e fu salutata alla partenza da ventun colpi di cannone; il percorso (40 km) fu coperto in tre ore. Una lapide, a Stockton, ricorda il primo biglietto ferroviario venduto a un passeggero, marking an epoch in the history of mankind. Ma storia dell’Umanità è una sonorità preoccupante. Hanno la mania di fare storia, di segnare tappe fondamentali, ogni giorno ne segnano due o tre… E la Storia del Mondo cambiò all’improvviso… Non negherò che un biglietto ferroviario basti a metterne il corso su binari completamente nuovi, ma che cos’è una storia che cambia per un biglietto ferroviario?

    I bruchi carboniferi generano altre farfalle nere. La Honesdale-Carbondale, in Pennsylvania, è la prima linea americana a vapore (1829). Qui Locomotion si chiamava il Leone di Stourbridge e fu il primo e unico leone che, dopo diecimila Eoni, videro i boschi della Pennsylvania. Nella valle della Loira cominciano a circolare, nel 1827, convogli a cavalli su strada ferrata, tra Pont-del’Ane e Andrezieux, nel bacino della grande tristezza mineraria di Saint-Étienne. In Italia, non potendo la ferrovia essere generata dal carbone, ne fu padre l’istinto marziale dei napoletani: Ferdinando II fece la Napoli-Portici per collegare l’arsenale di Castellammare con le truppe costiere. I piemontesi inaugurarono il primo tronco della Torino-Genova, tra Porta Nuova e Trofarello, il 24 settembre 1848; e anche in questi piani Vulcano riceveva da Marte le commissioni.

    Il primo impiego militare delle ferrovie fu infatti dovuto al Piemonte. Il corrispondente del «Times» sui fronti di guerra del 1859 scriveva da Pavia: «Dalle alture di Montebello gli austriaci rilevarono una novità nell’arte della guerra. Uno dopo l’altro arrivavano i treni per ferrovia da Voghera e ogni treno scaricava soldati che si affrettavano a prendere posizione sulla linea di combattimento».

    Pio IX inaugura il 14 luglio 1856 (il suo 14 luglio!) la Roma-Frascati, in un vagone costruito apposta per lui, con inginocchiatoio di prima classe. Nello stesso anno incominciano i lavori per gli ottanta chilometri della Roma-Civitavecchia, che non sapeva di andare un giorno a copulare con i tronchi che i piemontesi avrebbero fatto scendere da Genova. Il papa vedeva nelle ferrovie sopratutto un incremento dei pellegrinaggi, la principale industria del suo Stato di acquitrini.

    Sui primi treni i viaggiatori erano chiusi a chiave nelle carrozze. Nel 1842, a Meudon, ci fu un deragliamento e i vagoni presero fuoco. Per fortuna, tra i numerosi arsi vivi, prigionieri di quella bellissima trovata, c’era anche un ammiraglio. Per timore di perdere altri illustri personaggi, la piombatura dei vagoni fu dappertutto abolita, e limitata ai bagagli, o ai treni per Treblinka.

    Raccogliamoci un momento: nel dicembre 1836 si sente per la prima volta il treno nel cuore di Londra; andava da Greenwich a Southwark, a spegnere le fiere che restano accese, incantato inferno, nella pittura di Hogarth. Era l’inizio di un iperbolico sconvolgimento, l’annuncio di un sigillo che saltava… Nascono negli stessi anni le prime linee tedesche e russe: Norimberga-Fürth, 1835, Lipsia-Dresda, 1837, Pietroburgo-Tsarkoieselò, 1838. Nel 1854, bucato il Semmering da Carlo Ghega, sotto una pioggia di quarantasei milioni di corone, Vienna era già abbracciata per ferrovia al suo porto triestino. (Il veneziano Ghega morì a Vienna sei anni dopo il traforo – suicida). Meraviglioso, alla fine di Mio Carso di Slataper, il suo poema a Trieste: «E domani le locomotive rintroneranno il ponte di ferro sulla Moldava e si cacceranno con l’Elba dentro la Germania». Le locomotive del Semmering, che portavano i nomi di Wiener-Neustadt, Bavaria, Seraing, Vindobona, erano baroccheggianti behemòt che riempivano di potenza e di grido le gallerie.

    Fu un ingegnere americano, George Whistler, padre del pittore, il Whistler di Mallarmé, a costruire in Russia, insieme a un altro americano, nel 1851, con uno scartamento xenofobo di cinque piedi (più largo dell’europeo), la linea Mosca-Pietroburgo, la più vecchia di fama, la più letteraria di tutte. La Mosca-Vladivostok, 8156 chilometri, la Transiberiana, fu invece cominciata nel 1891 e terminata nel 1903. La fece un esercito di galeotti per collegare meglio tra loro le intramontabili galere dell’impero russo, e perché la sua sonnacchiosa potenza potesse in un paio di settimane di viaggio prendere l’aria e il colore dell’Estremo Oriente. La guerra russo-giapponese, grazie alla Transiberiana appena finita, ebbe luogo nel 1904.

    Non solo in Siberia: anche in Africa settentrionale e nelle Indie olandesi le ferrovie furono costruite da mano d’opera forzata. In Problemi del dopoguerra (Tripoli, 1919) il dottor Ugo Torri raccomandava l’impiego di detenuti di colore per la costruzione delle ferrovie tripoline: «preferendo quelli condannati a lunghe pene, i quali così meglio possono acquistare una capacità professionale ed essere ancora utilizzati per un successivo lungo periodo di tempo. Oltre all’economia nei lavori e alla continuità delle prestazioni si provvederebbe, mediante i proventi del lavoro degli stessi detenuti, al mantenimento dei penitenziari». (Il solo carcere di Tripoli avrebbe potuto fornirne cinquemila). La manodopera sia italiana che indigena è turbolenta e costosa: «L’impiego dei detenuti consente invece la massima disciplina nell’organizzazione ed esecuzione di lavori grandiosi, perché permette l’adozione di mezzi energici per costringere i riluttanti».

    Ai cinesi di cent’anni fa la locomotiva non piacque troppo. Desiderosi di introdurli nella civiltà, gli inglesi costruirono nel 1876 i primi diciassette chilometri di ferrovia del Celeste Impero, tra Wu-sung e Shanghai, ma i cinesi temevano che lo strepito delle locomotive disturbasse il riposo degli antenati e guardavano diffidenti. Ci fu un suicidio sulle rotaie. Dopo averla sopportata per un anno, la popolazione distrusse la ferrovia come portatrice di spiriti maligni. Per molti anni non si riparlò di ferrovia in Cina… Oggi i cinesi comprano dall’Europa il folle becco supersonico del Concorde e fanno gli esperimenti nucleari come qualunque demente occidentale. È il cattivo spirito della locomotiva di Wu-sung che ha vinto.

    Barbara Stanwyck in piedi su un’autentica U.P. 119 (locomotiva del West) in Union Pacific di Cecil B. De Mille incarna meravigliosamente gli spiriti sotterranei della macchina ferroviaria. La Stanwyck, veleno di freccia indiana, ha spremuto sullo schermo cinematografico tutto quel che possiede di magico e di funesto uno charme femminile di altissima potenza; un farfadetto, un anofele di Azazil! E il trionfo della Union e della Central Pacific non fu l’opera di angeli buoni… Oh memorabile abbraccio delle due locomotive a Promontory Point nell’Utah, il 10 maggio 1869! Ma la canaglia del mondo, che prima strisciava nel West con pesante sforzo, si precipitò a vagonate nei territori di frontiera. Non ci fu più speranza per gli indiani delle pianure, quando apparvero i draghi della Union Pacific. Dai treni, linguate di fuoco abbattevano le mandrie dei bisonti. Quando la ferrovia fu finita, non restava all’indiano che piegare le ginocchia e morire a Wounded Knee, e il bisonte, animale biblico, era quasi sparito dall’America.

    «Mentre la Francia si limita a discutere le proprie linee ferroviarie militari, la Germania sta fortunatamente costruendo le proprie». Così, parecchi anni prima della guerra franco-prussiana, Moltke. E nel 1870 le linee tedesche erano pronte per il magnifico esperimento. Fu una riuscita eccezionale. Duemiladuecentocinque treni, su nove linee, trasportarono in undici giorni di mobilitazione 356 mila uomini, 8700 cavalli, 8400 pezzi di artiglieria. Parigi assediata prese tanto gusto alla carne equina, che dopo la guerra e la Comune la trazione a vapore dovette sostituire in fretta le ultime diligenze. Non capisco perché un poeta così critico e pessimista, come Emilio Praga, avesse chiamato arca novella di pace la ferrovia e previsto, in conseguenza, non più stragi di popoli in guerra! Proprio allora Moltke stava preparando i suoi piani.

    Dal momento che, nel 1914, le ferrovie erano in ordine dappertutto, bisognava che due arciduchi morissero a Sarajevo in un attentato. L’Austria-Ungheria poteva trasportare velocemente truppe dalla Moldava e dalla Galizia a Trieste e a Zagabria. Nel Veneto, molti anni prima, aveva costruito le ferrovie che gli italiani avrebbero usato per prendere Trieste. La grande guerra europea fu un colossale scontro tra linee ferroviarie nemiche, con assalti frontali alla rotaia, grovigli di semafori e di scambi, fuochi di sbarramento di passaggi a livello, cariche di squadroni di locomotive.

    Tra il 2 e il 19 agosto 1914, 168 mila vagoni francesi scaricarono ai fronti quarantadue corpi d’armata, ciascuno su ottanta treni. La sola battaglia della Somme mobilitò 6800 treni. E circa mezzo milione di treni circolarono sulle linee militari francesi tra il 1914 e il 1918. Eppure, per la Marna, Gallieni dovette mobilitare e spedire al fronte la straordinaria carovana dei quattromila taxi di Parigi.

    Intanto un celebre vagone piombato – in realtà un treno speciale, attentamente sorvegliato – portava a Pietroburgo, attraverso la Germania, qualcosa di molto più temibile di un corpo d’armata, un messia rivoluzionario che viaggiava senza biglietto, Lenin. La resa della Germania all’Intesa fu firmata dai plenipotenziari, a Compiègne, in un vagone ferroviario. Il biglietto venduto a Stockton nel 1825 continua a rimescolare, rotaia dopo rotaia, la storia umana.

    2

    Il 28 dicembre 1879 alle quattro e un quarto del pomeriggio, un treno partì da Edimburgo per Dundee con trecento passeggeri. Alle sette e un quarto attraversava il ponte di ferro sopra l’estuario della Tay, lungo più di tre chilometri, meraviglia faraonica della North British che l’aveva costruito pochi anni prima. Quando il treno era a metà della gettata, la pressione di un tremendo uragano sul fianco mentre il peso del treno ne esercitava una verticale sulle traverse provocò vibrazioni e scompensi che in pochi attimi, per una lunghezza di mille metri, squarciarono il ponte. Lo steamboat che al buio, chiamato dai telegrafi, perlustrava la baia, credette di vedere qualcuno agitarsi al di qua e al di là dell’enorme squarcio, ma quei naufraghi erano soltanto pezzi di cavo spenzolanti. Si pensava che i palombari avrebbero trovato i trecento passeggeri nei loro scompartimenti, come cani, nutrici, amanti di Pompei gonfiati e galleggianti, invece neppure il macchinista e il fuochista erano nella locomotiva sommersa. Furono invece recuperati tutti i sacchi della posta: a Dundee, un po’ stinte dall’acqua, le lettere, qualche giorno dopo, arrivarono.

    Il ponte sulla Tay era – dicevano gli ingegneri della compagnia – più forte di tutti gli uragani. Anche il Titanic era più forte delle montagne di ghiaccio. Anche le centrali nucleari… Ma non è tanto il solito filosofema della Nemesis qui, a brillare, quanto la metamorfosi di un brutale disastro in un filosofico sogno. Su «La Nature», Rivista delle Scienze che pubblicava settimanalmente Masson, il racconto del disastro, in uno dei fascicoli del 1880, è illustrato da due incisioni, di cui una, il lunghissimo ponte, apparentemente rettilineo, che unisce le due rive, con un punto avvolto nel vapore, il treno, è più féerique delle illustrazioni di Carroll e di Verne. Il mare muto, con velieri e vapori, e il cielo occidentale innevato da un monte Fuji di nuvole bianche stanno aspettando che l’Adamo irrequieto e fumante, il puntino sul ponte, precipiti nell’infinito Niente da cui è emerso per caso e dei passeggeri del treno, risucchiati dall’Oceano attraverso i vetri infranti, si dica non sono mai partiti. «Oh! Degli uomini!» gridano dallo steamer, ma sono cavi spezzati che sui piloni giocano alle morgane umane. È mai passato il treno di Edimburgo alle sette e un quarto? C’è mai stato un ponte sulla Tay?

    La grande pace che dà la piccola incisione – avrà detto il lettore dell’ebdomadario: che capolavoro dell’ingegneria umana! – è certo dovuta alla sua congiunzione con la cronaca del disastro, già allora in parte evaporato con tutto il suo coro di stupori, di disperazioni e di congetture, oggi a tutti sconosciuto; all’apprendimento di quel mistero di sparizione integrale della vita, di annientamento delle nostre potenti macchine e ingegnerie in un attimo, qualunque ne sia il peso in ferro e in cemento e il costo in denaro e manodopera, di confusione di tutti i nostri calcoli, di impercettibile discesa sul fondo degli estuari di tutti i vagoni che portano i preziosi fazzoletti postali, i bagagli pieni di visceri ripiegati, le apparenze sedute che si scambiano voci e bonbons dei passeggeri umani del treno che corre soltanto di notte e non è mai partito e non arriverà mai; perché rievocando ripetutamente il repentino vuoto il miracoloso craac sotto la forza dell’uragano, la paura che il treno seguiti a correre all’infinito, come l’ansia per l’arrivo a Dundee e di quel che succederà di noi dopo arrivati, cessa. Senza lacrime guardiamo in faccia quelli che amiamo: «Il treno su cui siamo saliti non passerà la metà del ponte, si perderà in fondo all’estuario». Questa pena senza misura intorno a noi, questo sforzo furioso di distruzione e di conservazione dentro il nostro brulicamento infernale di dolori, tutto questo è il ponte sulla Tay un po’ prima delle sette e un quarto del 28 dicembre 1879, e non ne vedremo che qualche ombra tra lo spessore dell’uragano. Spariremo lasciando qualche sacco postale, e il mare, le rive, il cielo ci dimenticheranno.

    Altro sogno, che non dà la pace, forse perché è monotono disastro in atto che persevera nel suo sforzo, ma è di straordinario contagio poetico, l’incisione Over London – By Rail nel Pilgrimage di Gustave Doré e Blanchard Jerrold. La ferrovia non ha, forse, ispirato niente di più poeticamente cupo a un artista figurativo. È bello e denso, è terrificante di calore fantastico e umano come il vivente casamento di rue de la Goutte d’Or dell’Assommoir. Il treno passa su un viadotto all’altezza dei camini degli slums, rovesciando fumo di carbone su una curva falange contratta di terrazzini cellulari uniformi, formicolanti di brandelli umani vivi, una moltiplicazione di figli d’uomo canditi in un loro oscuro e ronzante abbrutimento senza riposo.

    Orribile treno, che non sarà ingoiato da nessun estuario, treno-coltello che si è scavato la via attraverso la carne dell’uomo. Credo di avere individuato il posto, grazie al capitolo sull’avvento della ferrovia a Londra in Landlords to London di Simon Jenkins: dovrebbe essere la linea Londra-Southampton che dalla stazione di Nine Elms, diretta a Waterloo, passava sopra gli slums di Lambeth. Ma questa non è che una precisazione trascurabile, una curiosità marginale: è un treno che passa su visceri umani che sentono e stridono, come quelli di Giobbe e di Geremia.

    Tratto da: Guido Ceronetti, La carta è stanca

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    Predefinito Re: Guido Ceronetti (1927-2018)

    TRISTEZZA DI FINE DECIMONONO

    Paragono sempre più spesso, a volte con confronti di date, ricerca di parallelismi e coincidenze costante, la fine del secolo passato e di questo. Si rilevano subito due aspetti piuttosto strani: la fine del secolo XIX è clamorosamente pervasa, in onde di trepidazione e con effetti di autentico culto idolatrico, dal messianismo scientifico; e c’era in questo un trasporto di gioia, di speranza senza limiti… Psicologicamente, però, la depressione tocca il punto più basso della storia dell’umanità: la tristezza si tocca con la mano, esce da tutti i luoghi, impregna tutto. Non c’è essere pensante che sia privo della fondamentale connotazione del Pessimismo. Non c’è grande frutto dell’arte che non sia una faccia di quell’unico prisma.

    Emblematico è Zola. La sua fede nella verità scientifica è puerilmente illimitata; la sua opera è un’immensa cloaca di liquami pessimistici, il punto d’arrivo è, come per Conrad, lo heart of darkness. È un locomotore poetico che attraversa i fuochi notturni della vita su un gigantesco ponte di ferro, nero, rimbombante. Non c’è neppure un barlume di gioia nell’incontro tra l’ingegnere minerario e l’unico superstite dell’esplosione del Voreux, nella galleria inondata, che pure è di un travolgente lirismo: «Era una tristezza immensa, la miseria delle generazioni, l’eccesso di dolore in cui può precipitare la vita».

    Di questa tristezza del secolo XIX parlo spesso, per lettera, con un amico, e non si finisce di esplorarla. Io mi considero generato in quella tristezza, enormemente accresciuta dal passaggio dei nostri padri attraverso la prova della guerra di trincea, senza tuttavia sentire il peso, le conseguenze dell’eredità, forse anche, per restare nel concreto, per via dell’ambiente, del milieu già radicalmente diverso, che mi ha accolto dai primi anni. Mio padre era molto più pessimista di suo figlio, e nello stesso tempo molto più sereno. La sua fiducia scientifica era, popolarmente, dello stesso tipo di Zola. Forse, la pressione della tristezza psicologica era meglio sopportata perché era più forte, più capace di reggere, la tempra.

    Nulla si sottraeva alla tristezza del tempo. Sociologi come Vilfredo Pareto, psichiatri come Lombroso… Paralumi, teatri d’ombre, prime voci di morti registrate, sifilicomi, ubriachezze, robes de deuil, manicotti, appuntamenti – tutto era triste. Un documento di tristezza è ogni lettera, ogni cartolina, ogni verso, ogni pastello… Si resta meravigliati, pensando al successivo semicretinismo ottimistico dei cristiani, in Italia, leggendo il testamento-lettera di Giosuè Borsi, cattolico devotissimo, alla madre, la vigilia di perdere con gioia la maleamata vita sull’Isonzo, per mano di Cadorna. Dove neppure ti teneva per le ascelle la fede scientifica, la tristezza prendeva il sopravvento, ed era il suicidio filosofico, alla Michelstaedter. In fondo, sono suicidi che ha fabbricato lo spirito del tempo entrambi, l’ebreo Michelstaedter e il cristianissimo Borsi, che attraversò l’Isonzo servendosi del fiume mitragliato come un nobile romano di una mano schiava che gli reggesse la spada su cui infilzarsi per morire.

    Di quest’altra fine di secolo parliamo talmente che la babele attuale, più che a una torre crollata, somiglia all’Amazzonia che non c’è più. Ma qui voglio solo notare quel che c’è di cambiato, rispetto al XIX.

    La religione della scienza e l’attesa della palingenesi sociale violenta si sono dileguate: due sorgenti inesauribili di tristezza. E i coltelli per uccidere a pendere più rari sulle pallide carni: ancora sì, perché inseparabile dall’uomo-belva è il coltello, però a quel tempo erano incessantemente alzati, e in ogni rissa o delitto, anche il più aristocratico, spuntavano. (Coltello è un’arma tristissima, un assassino veramente allegro ne ha schifo). Le pelli di animali ai piedi dei letti sono scomparse e i grembiuli insanguinati dei chirurghi barbuti, e i lampioni a gas che evocavano apparizioni vampiriche e Mr. Hyde e la sua triste porta. In apparecchi sanitari infallibili la tristezza delle esonerazioni fecali svanisce, a un cenno lieve, magicamente. L’emottisi, l’eruzione vaiolosa, la crisi di pazzia furiosa, l’iperplasia della prostata, il collare di Venere, la tosse indomabile, l’aborto sanguinario, grandi affluenti del Mare delle Tristezze, hanno subìto un trattamento di sterminio. Sull’emicrania, il reumatismo, il dolore dei denti si sono avventati i pungiglioni delle aspirine, il valium e i barbiturici hanno incatenato l’insonnia e l’epilessia, mostri dell’Antinferno. Tra le donne, l’isterica era triste e scontrosa, mentre l’attuale anoressica mantiene intatto il sorriso. E i monarchi, col petto dove piangevano medaglie e onorificenze senza speranza, la quantità delle uniformi (bellissime ma plumbee, carcerarie), il cotto scuro delle fabbriche, l’immensità del popolo delle miniere, la faccia dura delle padrone di case di tolleranza – tutta questa tristezza si è ricongiunta agli eoni soffiati via, che per ora non torneranno.

    Tuttavia la tristezza del XIX ebbe una corona di follia a rischiararla: credeva nel secolo futuro, gli scaricò dentro, negli anni dell’inizio, tutta la smisurata sua elettricità di speranza. Si può ben dire che morì pazzo, come il suo Nietzsche, il XIX… Il XX, nella paura muore. Di speranza non parlano che i cretini, sono numerosissimi, però non fanno connotazione. L’insolubilità di tutto è la visione di chi pensa lucidamente. La moneta cartacea, l’inflazione implacabile sono grandi produttrici di angoscia esistenziale: riempiamo, per placarla, di prodotti assurdi, colorati, i frigoriferi, eppure non è che moneta cartacea salvata dalla decomposizione perché cadavere. Il tempo è turato: contro queste mura di Babilonia sono sbattuti a sfracellarsi i figli, le membra rotte formano montagne davanti al muro sempre più alto, impenetrabile.

    Abbiamo sicuramente perso, uccidendo la tristezza dell’altro secolo – che perdura fino all’armistizio dell’11 novembre –, qualcosa di spiritualmente necessario, una specie di surrogato del Dio ripudiato, oggi confinato nelle pagine culturali. Nella tristezza c’era ancora un’aspirina che teneva l’Angoscia lontana, come nell’organo di Barberia e nella sua malinconia irradiata per le vie e dentro le case c’era una tutela musicale estrema contro la bruttezza invasora. Detronizzate la tristezza e la poesia del male di vivere, la repubblica dell’Angoscia ne piglia il posto e crea un Impero senza confini.

    Se la tristezza era figlia della certezza, riflessa in tutti gli oggetti e fin nelle loro ombre, che la vita è il male essenziale, l’angoscia di fine XX zampilla dal dogma contrario: la vita, in quanto tale, preti e atei concordano, è predicata e imposta ai dubitanti come l’assoluto bene, quantunque per provarlo manchino i documenti e i testimoni. C’è una nuova Inquisizione, che funziona esclusivamente per colpire l’eresia che mette in dubbio la bontà del vivere e, se potesse, brucerebbe ancora una volta i libri. Ma dappertutto c’è quel muro murante, e la tanto farcita di piacevolezze e di portenti medici, con più forza e più grido si mostra assoggettata alla precarietà e alla morte, e la longevità ultracentenaria scesa dal rapido delle 24.01, assicurata dalla tecnica, s’infutura come uno sbullonato carrozzone che trema, verso un traguardo di scherno.

    Vivere senza l’ossessiva superstizione che la vita debba essere per forza bene, metafisicamente bene, consente la pietà, la tolleranza, il rispetto del dolore. Benedetta l’eresia della vita come assoluto male: non rende più felici, ma non accresce stupidamente le sventure del mondo.

    Stranamente, è fonte di angoscia anche quel che nell’abito, negli oggetti, nell’ambiente privato ha contribuito all’attenuazione della morsa di tristezza di allora: le pareti chiare, il tessuto colorato, le cucine non annerite, il bagno luminoso dopo tanto nero cesso. Si tratta di consolazioni punitive: sufficienti a delle povere bestie addomesticate, non certo a delle anime inchiodate al proprio eterno mistero di fame.

    Devo interrompere. L’argomento è appassionante. Qualcun altro può ripigliarlo, mentre io seguiterò nelle mie piccole riflessioni.

    1988

    Tratto da: Guido Ceronetti, Cara incertezza, Adelphi

  4. #24
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    Predefinito Re: Guido Ceronetti (1927-2018)

    QOHÈLET traduzione ceronettiana

    Parole di Qohélet
    Figlio di David
    Re di Ierushalèm
    Un infinito vuoto
    dice Qohélet
    Un infinito niente

    Tutto è vuoto niente

    Tanto soffrire d’uomo sotto il sole
    Che cosa vale?

    Veníre andare di generazioni
    E la terra che dura

    Levarsi il sole e tramontare il sole

    Corre in un punto
    In un altro riappare

    Andare e girare il vento
    Da Sud a Settentrione

    Girare girare andare
    Del vento nel suo girare

    Tutti i fiumi senza riempirlo
    Si gettano nel mare

    Sempre alla stessa foce
    Si vanno i fiumi a gettare

    Si stanca qualsiasi parola
    Di più non puoi fargli dire

    Occhi avidi sempre di vedere
    Orecchi mai riempiti di sentire

    Quel che è stato sarà
    Quel che si è fatto si farà ancora

    Niente è nuovo
    Di quel che è sotto il sole

    Di certe cose si dice – Guarda
    Questa mai vista cosa –

    E sono cose che già sono state
    Nei tempi stati prima di noi

    Dei gia stati non c’è memoria
    E anche di quelli da essere ancora
    In chi verrà non ci sarà memoria

    Io Qohélet re d’Israel
    stato
    in lerushalem

    Da sapiente mi sono dato
    A scandagliare et a rigirare
    La totalità delle azioni
    sotto il sole

    Lavoro sciagurato
    A cui per loro scempio

    Ha dato i figli d’uomo
    Dio

    Ho veduto tutte le cose
    Le cose che si fanno sotto il sole

    Ed ecco tutto è vuoto niente
    E una fame di vento

    Storture non si raddrizzano
    Privazioni restano prive

    Parlo al mio cuore gli dico

    Ecco la mia grandezza

    Ammassi di sapienza

    Nessuno prima di me

    Tanto ne ha avuto in Ierushalèm

    E il mio cuore ha veduto

    Grande sapienza grande intelligenza

    E il mio cuore si è dato

    A coltivare sapienza

    E a conoscere le passioni

    E ho penetrato nella stupidità

    Anche questo è volere vento

    Grande sapienza è grande tormento

    Più intelligenza avrai

    piu soffrirai

    Tratto da: Qohélet, Colui che prende la parola, a Cura di Guido Ceronetti

  5. #25
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    Predefinito Re: Guido Ceronetti (1927-2018)

    STELLE E BIANCOSPINO

    Uno dei più bei pensieri del mondo è di Hugo, e serve per capire Putin, Obama e Varoufakis

    Uno dei Cento più bei pensieri del mondo da me incontrati nella mia lunga vita, è di Victor Hugo (credo nei Miserabili o nei Lavoratori del mare) e in linguaggio attuale può essere detto una massima ecologista. Suona: “Nessun pensatore oserebbe dire che il profumo del biancospino è indifferente alle costellazioni”. Al tempo di Hugo non c’era l’ambientalismo, perché c’era l’Ambiente, la stella maligna Algòl non irradiava ancora i suoi influssi sui destini umani in modi così terribilmente significativi. Ma chi sappia capire comprende a volo: tutto ciò che vive e respira forma unità, è uno e, come la Repubblica giacobina, indivisibile.
    Facciamo un gioco. Proviamo ad offrire questo pensiero inconfutabile ai più importanti capi di governo oggi al potere nel mondo, dunque responsabili della situazione ambientale del pianeta, della sua vita e della sua morte. Di giudicarli politicamente non deve importarci nulla, valgano di più o di meno. Obama ha una sensibilità ambientale: sentirà nel Granchio, in Orione, nelle Pleiadi, l’irriducibile costanza della necessità del profumo di biancospino? E’ indubbio che ce l’abbia: i suoi atti al potere sono però conformi alla frenesia di distruzione che possiede i capi come l’opinione volgare nel mondo antropizzato. La Merkel ha dimostrato di sottomettersi, sebbene autodidatta in eredità filosofica tedesca, alla vita che si sforza di non favorire le forze della morte: ambientalmente è su un’onda più lunga… Putin ha una intelligenza troppo materialistica per poterlo separare dai distruttori d’ambiente, non lo vedo applicare ad atti di governo la massimo vittorughiana. Riarma: quale massima spirituale sopravvive al contatto con una corazza emersa dagli inferi? L’Italia non riarma né per cause buone né per cattive, ma l’insensibilità ecologica dei nostri destrosinistri non mi sbaglio a definirla totale. Più imperforabile di una corazza cannoneggiante! Idem per i Tsipras-Varoufakis e il loro dirimpettaio Erdogan. Saper percepire il biancospino, il gelsomino, così come il prezzemolo o la cannella nelle costellazioni può essere patrimonio comune nei capi d’Estremo Oriente – con esclusione rigorosa dei cinesi – ma il loro orizzonte programmatico ha per stella polare esclusivamente la desertificazione, fino allo spegnimento, degli ultimi lumi vaganti e annaspanti di uomo zavorrato di sapienza. Che forse non fu che un bel sogno, da qualcuno sognato per il bene immaginario, impossibile, di tutti.

    Tratto da: Guido Ceronetti, Il filosofo ignoto

  6. #26
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    Predefinito Re: Guido Ceronetti (1927-2018)

    CANCRO E AMBIENTE

    «Mentre, per quanto riguarda la prevenzione si sono precisate le norme più efficaci per sottrarre l’uomo ai numerosi elementi nocivi ambientali e di abitudini di vita (inquinamento atmosferico, agenti fisico-chimici, processi irritativi ed infettivi di varia natura, alimentazione…)». Scriveva questo, con incalzante ottimismo («La Stampa», 9 settembre 1962), il chirurgo torinese Dogliotti, dopo aver partecipato al congresso mondiale di cancerologia che si era tenuto a Mosca nell’agosto di quell’anno. Anche in quel congresso, come in questo da poco chiuso a Firenze, si era parlato molto dei rapporti fra cancro e ambiente, fra cancro e abitudini di vita.

    Di quelle «norme» così «efficaci» precisate allora, qualcuno avrà poi sentito parlare? Credo bisognerà cercarle, come Flora, Buridano, gli infanti di Aragona e gli altri fantasmi delle canzoni di Villon e di Manrique, col ritornello desolato: «Dove sono?». Qualche anno dopo, anche Dogliotti fu portato via dallo stesso male. E certamente, nella fabbrica di coloranti di Ciriè, dove tutto l’ambiente sgocciolava cancro da molti anni, quelle norme piene di efficacia saranno state lo scudo orizzontale dei numerosi operai che se lo videro spuntare nella vescica. Ne sono morti finora una trentina e la pestilenza continua. Tra certe lavorazioni industriali e il cancro il rapporto è così stretto che gli si sfugge per caso.

    L’ipotesi virale non disturba la coscienza; l’ambientale la stritola, perché il miasma sembra scacciabile dal gesto umano, mentre contrari interessi e sforzi umani scoraggiano dal contrastare. Una prevenzione ambientale anticancro priva di riserve e di falle sgretolerebbe gli Stati moderni, l’economia, le industrie, sarebbe in tutti i sensi una gesta di guerra escatologica contro il male.

    Per fare questo non abbiamo né volontà né forze. Neanche la più modesta raccomandazione anticancro dell’Oms arriva ad agire sui poteri pubblici. Un piccolo esempio: le paraffine. Dichiarate cancerigene, seguitano ad avere un uso illimitato. I nostri caffè colano paraffina, i formaggi a pasta dura sono lucidi di paraffina, i datteri in scatola sono coperti da uno strato di paraffina. E un altro: orologi, pulsanti, telefoni, madonnine fosforescenti, resi fari da un ago radioattivo, minimi e pazienti tessitori di cancro sul polso e nelle stanze – un successo mondiale, capillare… Si trova a stento un orologio innocuo. C’è contaminazione cancerigena attraverso i fosfati, divinità agrochimica, fertilizzante universale: chi li ferma più? Si è pronti a guerre feroci per i fosfati.

    Il russo Shabad era fiero di una città siberiana, Angarsk, dove a scopo sperimentale era stata eliminata qualsiasi fonte d’inquinamento; diceva: «Tra dieci anni sapremo». Ne sono passati dodici. Il cancro avrà attraversato le porte della città proibita, nascosto in qualche sostanza sfuggita alle guardie? Si è parlato a Firenze di Angarsk, la Pulita?

    Sulle abitudini di vita le relazioni congressuali hanno poco effetto, come le smentite storiche sulle illusioni della mente, che occupano le profondità inattaccabili del nostro essere. C’è forse stato un declino dell’abitudine di fumare, da quando si parla dei rapporti tra fumo e cancro e altre malattie? La nevrotica ciminiera umana fuma con rabbia crescente, nelle città invase dai fumi; l’avvertimento cancerologico mette più pepe in quel vizio povero. Ti fumano in faccia dappertutto, anche se avverti mitemente di non gradire, per giusta intolleranza, l’effusione.

    Due cancerologi di Bombay avevano parlato di un certo cancro della pelle, diffuso nel Cashmir, dove la gente ha l’abitudine di portare sotto gli abiti uno scaldino riempito di carboni roventi. Avranno smesso di portarlo? Palpateli onestamente, troverete di sicuro lo scaldino.

    Una relazione ungherese – sempre a Mosca, nel 1962 – parlava di forte morbidità cancerosa in una regione lacustre, provocata da radiazioni di rocce radioattive. Se mi dicessero che, in quel luogo, hanno impiantato una bella centrale nucleare, utilizzando proprio le acque di quel lago, per il maggiore conforto della popolazione ignara, non troverei strano. Hanno stabilito che l’energia nucleare è pulita! Guai a dubitarne. Ingegneri, professori, presidenti di Enti e Commissioni si torcono per lo sdegno… Ah com’erano bravi i gesuiti di una volta! Hanno così bene insegnato a dire una cosa pensando il contrario! È vero che l’energia nucleare è pulita, la sua traccia è quella di un uccello nell’aria, mentre carbone e petrolio sporcano con corpulenza. Tuttavia, nel rovescio cancerologico e genetico, l’energia nucleare è la più tremenda delle sporcizie. Sia di pace che di guerra, è una sola peste: però non si annusa, e l’animale umano, senza la guida dell’odorato, cade nella trappola.

    Questo dice un fisico californiano, John W. Gofman: «La capacità dei composti di particelle insolubili di plutonio di provocare il cancro, dovrebbe indurre ad una eliminazione mondiale dell’energia prodotta da fissione nucleare che impieghi un qualunque tipo di plutonio, da trattare o da riciclare». Con produttori di radiazioni alfa della forza del plutonio, materiale essenziale di tutte le lavorazioni nucleari, spruzzatore di radioattività attraverso le fughe, le scorie e le ricadute dal cielo, di quale difesa si può ancora parlare dal cancro ambientale? È più onesto dirci tenetevelo, com’è più filosofico pensare che quel che dovrebbe rendere immortali le industrie distruggerà la vita.

    Su «Newsweek» ho visto qualcosa di molto istruttivo. Una donna con due bambini esibiva un cartello durante una protesta antinucleare: «Che cosa fare in caso di incidente nucleare – Baciate i vostri bambini – Addio». E chi non ha bambini? Qualcosa può fare anche lui, purché gli si dia una pistola. Così pochi e miti oppositori, e infiniti, incalcolabilmente imbecilli o tremendamenti potenti amici, fanno dubitare che l’Energia Nucleare, lo sterminatore assoluto, sia nelle nostre mani come una stecca da biliardo o un cucchiaio.

    L’on. Bucalossi, che ha presieduto il congresso di Firenze, ha scritto che l’ipotesi degli ambientalisti non deve portare «ad un dannoso, inutile, generalizzato allarmismo». Stoltezza di politico, bavaglio al medico. In fatto di salute pubblica il medico deve gridare la verità qualunque sia, e se c’è motivo di allarme deve immensamente allarmare. I politici si sforzeranno sempre di coprire la verità, perché la loro dottrina unica, e non troppo segreta, in qualunque Stato di questo mondo, è che una moltiplicazione all’infinito dei letti di dolore per dilatare la potenza economica e militare, è un fatto accettabile. I medici non devono preoccuparsi dei danni politici ed economici che una loro denuncia può fare, perché sono danni fatti al male. Se temono l’allarmismo lascino fiorire il cancro.

    La teoria ambientale è piena di fascino; il bene che può fare, data la tendenza universale, e la chiusura del potere a ogni luce, è però limitato. Non può cambiare la città umana e il suo fato, ma complica, tormenta, spreme e raffina la conoscenza. L’ambiente cancerigeno – impregnazione ristretta e nutrimenti terrestri, aria di un luogo e cielo del mondo – non è solo un problema medico e sociale, è un enigma del pensiero, uno dei fili vaganti, difficili da risalire, del destino umano. E altro cancro, dal cancro, è prodotto, attraverso i massacri sperimentali e farmacologici, patimenti di bestie e amoralità scientifica, perché l’ambiente assorbe e trasmette tutto. L’attività umana è tutta cancerigena, in senso grosso e in senso sottile, ed è un cancro per lo spazio e la vita che la subiscono. Sembra inoltre che l’umanità non possa esistere senza almeno una malattia universale unificatrice, adeguata ai suoi pensieri e ai suoi mutamenti.



    Tratto da: Guido Ceronetti, La carta è stanca, Adelphi

  7. #27
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    Predefinito Re: Guido Ceronetti (1927-2018)

    MIGRANTI E PREDICHE

    Per la loro lettura, la sopravvivenza dei giornali quotidiani riposa sugli approfondimenti ben rigirati, gli inviati sul posto e, su tutto, i temi d’interesse generale.

    Temi reiterati sempre, anche senza sostegno della notizia. Uno di questi è l’immigrazione numerica, non ne contiamo le branche. Ma che cosa vogliamo? Guerre, per spostare frontiere, non se ne fanno più – la pace sociale, se mai c’è stata, è perduta. E’ di fatto irrecuperabile quando c’è un’esile penisola che supera i sessantuno milioni di abitanti, uno meno dell’altro disposto a rinunciare a qualsiasi cosa in vista di una dubbiosa convivenza accettabile: e l’Italia è questo, case vuote di vita e riempite di troppe cose; case disertate da ogni superfluo e brulicanti di vita, di rumorosa, ambigua vita.

    E’ ridicolo che si facciano prediche per far fare più figli alle famiglie italiane, ma ce n’è una spettrale ragione metafisica. L’uomo-individuo in genere ha penuria di voglia di morire; l’uomo-nazione non tollera l’idea dell’estinzione. Tollera bene l’estinzione di vita ambientale, da cui dipende la sua durata nel tempo, ma per la propria sopravvivenza di comunità nazionale, non gli basterebbero i modelli criminali. Eppure si sono perfettamente estinti i Romani (quelli che ancora si chiamano così Mommsen li definiva «italiani di Roma») e secondo Koestler anche le dodici tribù d’Israele. E gli italiani autoctoni – capaci per una sola volta di gettare sul mondo, partorita da una povera contadinella toscana, la figura ipostatica di un Leonardo, e di ragionare di politica con la grinta di Machiavelli – hanno un bel girare, per altri secoli, col passeggino: saranno grossi come lucertoline dei cimiteri. E questa penisola avrà altri padroni, qualcuno che per fame pianterebbe a cavolfiori anche il camposanto di Pisa, altri che per fanatismo farebbero saltare San Petronio per tirarci su un minareto. Perché la storia è come la natura: non ha cura di niente e di nessuno, ingoia e disfa tutto, è Sheòl e non museo…

    Posso dire così come dilettante di filosofia: se invece mi metto a pensare immigrazione da cittadino senza paraocchi ideologici, una riflessione può essere la seguente, spicciolata in pensieri brevi. Uno Stato carente di giustizia come il nostro, che seguitasse ad accogliere, al ritmo dell’anno in corso, immigrazione marittima dall’Africa e aeroterrestre da tutti gli Est possibili (tra poco i soli romeni toccheranno il milione, i turchi fremono) in meno di dieci anni avrà cessato di esistere come entità statuale identificabile. A misura del crescere di incontrollabilità e anarchia, regione per regione, città per città, l’Italia diventerebbe invivibile. La riduzione delle risorse idriche passabilmente bevibili e il forsennato aumento dei consumi d’acqua bastano a far saltare l’intero sistema sociale. Anche l’igiene è diventata minaccia.

    Neppure un sommesso dubbio nel coro pan-mediatico che ha accolto giubilando l’info statistica dei sessantuno milioni raggiunti grazie (proprio così: grazie) allo spermatozoo che viene dal mare. Lo spermatozoo, se non lo freni, fabbrica bomba biologica: di che ti rallegri, stolto? Per terrore di essere pochi, si opera nel senso del suicidio identitario, preludio dello sparire.

    Benvenuto lo spezzarsi dell’uniformità di fede religiosa, purché ci sia dispersione e varietà di gruppi (in Italia, secondo Introvigne, sono circa settecento) e non la pressione sbilanciante di una più forte di tutte (l’Islam) che conta seguaci a milioni, già tutti presenti e mira a convertire, non certo a rassegnarsi a convivere. Il talebanismo non ha confini.

    L’Italia è (meglio dire: è stata) paesaggi urbani indicibili e paesaggi marini e alpini di bellezza mozartiana. La perdita di terreni agricoli e di spazi liberi per promuovere edilizia ad ogni costo, case dopo case, quartieri di bruttezza, ghetti condominiali, e traffico d’asfalto senza limiti, è una sconfitta spirituale. Chi non odia la verità può comprendere.

    Il diritto all’asilo politico non è applicabile né automaticamente né oggettivamente; è opinabile sempre, e toglierlo dalla Costituzione eviterebbe polemiche inutili e mai disinteressate. I governi si muovono secondo linee pratiche e ciniche. Possono pretendere asilo anche mani insanguinate e da governi ideologicamente affini subito ottenerlo. Di rado c’è accordo per certezza del merito: diritti dimostrabili da parte di chi non dà neppure certezza di nome e di provenienza non ce ne sono. Puoi riconoscere e soddisfare soltanto l’anonimo eterno stomaco che ha fame. E poi?

    Ingovernabile, perfino dalle Utopie, è questo mondo di folle in movimento verso nessun mondo possibile.

    Da Guido Ceronetti, Migranti e prediche, Editoriali 2009, La Stampa Torino

  8. #28
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    Predefinito Re: Guido Ceronetti (1927-2018)

    IL GRANDE PAN È VIVO

    L’immigrazione, la paura di un’invasione e le reazioni di panico del nostro fragile paese

    Se sia possibile trovare una soluzione in una perfetta insolubilità storica, come filosofo, non soltanto ignoto, ma fuggito, ce l’avrei pronta, sarebbe adeguata al mio livello modesto della comprensione delle cose. Tuttavia bisogna cominciare dal capire che cosa è, oggettivamente, INSOLUBILE. E insolubile è la questione di questa migrazione di popoli verso le coste (di fatto, una) nel Mediterraneo. Fino a poco tempo fa era impossibile dirla una sciagura, una invasione. Adesso qualcuno, più sveglio di tutte le voci ufficiali, ha cominciato a parlare, fuori dalle ideologie, di invasione.

    La coscienza di essere invasi da una torrenziale terrestre cometa umana di occhi smarriti produce reazioni che pigliano, in un paese di mente fragile come l’Italia, reazioni di panico. Il Grande Pan non è morto. Nella sua “Filosofia futura” Emanuele Severino pensa che l’Occidente, minacciato da un eccesso delle migrazioni afroasiatiche, ricorrerebbe alle armi atomiche. Con generale sollievo del popolo cristiano, immemore che, prima ancora di bloccare tutti gli sbarchi ci arriverebbe in bocca un certo numero di aerosol di Cernobil rinforzati. Se gli ottimisti fossero capaci di riflettere su qualcosa potrebbero opinare che non ci sono, per il genere umano, domani che cantano. Per ora ci limitiamo ai (tanti, certamente) compiacimenti segreti per il crescente numero degli annegati e alle, segretissime, deplorazioni per le troppe migliaia di salvati. Il merito dell’assillo migratorio è di far tramontare, o meglio, schermare con una eclisse l’ancor più triviale fissazione postmoderna che ci rimbomba futile nelle passive orecchie: crescita! crescita! Mani vogliose di lavarsene invocano miracolosi interventi Onu.

    I più poveri di conoscenze in generale dell’Unione Europea auspicano risvegli di un fantasioso boxeur Europa. Ignoranti dottissimi di strategie propongono piani militari d’intervento dronico compiuterizzato infallibile contro i cattivi, senza far troppo male ai buoni, specialmente se bambini. I più pensano esclusivamente a mangiare finché ce n’è, con la guida esperta di Davide Paolini. L’insignificanza dei rimedi è schiacciata dalla tremenda potenza e pervasività trascendente delle cause. E l’implacabile realtà distruttiva della Bomba Biologica vi sarà mai apparsa, qualche volta? C’è ancora qualche ispirato che sostenga estatico che ci sarà cibo, e soprattutto ACQUA, per tutti?

    Per la salvezza individuale, esclusivamente, accoglie tutti noi infelici e incompresi nel vortice dell’Insolubile storico, la scrittura sacra della Bhagavad-Gita, consigliabile nell’edizione curata da Raphael (Asram Vidya, 1974). Vedi specialmente il diciottesimo capitolo, che illumina sullo Yoga della Conoscenza: “Sappi che è sattvica (divina, superiore) quella conoscenza che in ogni essere riconosce l’unico Essere imperituro, indiviso pur nelle esistenze indivise”.

    Tratto da: Guido Cerotti, Il filosofo ignoto

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    Predefinito Re: Guido Ceronetti (1927-2018)

    L’IDIOTA DICE CHE LA BELLEZZA SALVERÀ IL MONDO

    L’Idiota dice che la Bellezza salverà il mondo, Eraclito che verrà il Fuoco per giudicarlo. Dai segni che vedo, dalle tracce che scopro, da quel che indovino nell’ombra del perduto, la Bellezza è un Messia venuto; e il mondo non è stato salvato, la tenebra non poteva afferrare la luce, solo farla simbolicamente morire. Ora nessuno l’aspetta piú, se non è Idiota; ma è ragionevole aspettare il giudizio del Fuoco: la giustizia viene sempre ultima. Quando il Fuoco verrà, dirgli di aver capito qualcosa della Bellezza, di averla sempre cercata, forse ne attenuerà il rigore.

    L’errore dietetico fondamentale risale al peccato originale, che consiste nell’essersi provocata una grave indigestione. I due cacciati di Masaccio sono una coppia di sciagurati con lo stomaco pesante (lo si vede dalle smorfie) che l’angelo destina a un disordine dietetico dopo l’altro, dopo quella prima madornale indigestione. Mai l’uomo potrà avere dieta perfetta, dopo essere stato reso per sempre imperfetto da una cattiva dieta. Riscopriamo il valore della buona dieta (naturismo, vegetarismo ec.) quando ormai nel mondo l’alimento è condannato a sempre piú contaminarsi tra i veleni infiniti prodotti anche dagli errori dietetici di innumerevoli generazioni; qualcuno ha l’idea della purità e il nutrimento puro gli è già sfuggito di mano.

    Pompieri al N. 14 di Via della Spada, la lunga biscia nera sprofonda in un antro buio. Tutti sperano di vedere le lingue del drago, ma neanche un filo di fumo. C’è solo una barba non bruciacchiata che chiacchiera tranquillamente con i pompieri.

    (Chiostro di Santo Spirito). «Qui giace Isabella Roncioni di Pisa», «Qui giace Nicola Sottili», «Giovacchino Luder… da morbo tubercolare rapito…», «Qui riposa l’angelica spoglia di Teresa Ramacci», «Qui giace la caduca spoglia di Caterina figlia di Ferdinando Traversi e di Cammilla Minchioni», «… celebre calcolatore…» «A Cunegonda Frosini», «Qui giace le ceneri», «Qui sono le spoglie», «Angiolo mutuo pegno | di coniugal tenerezza». La piazza di Santo Spirito imprigiona d’amore: calma, alberelli, mercatino, il giallo della grande facciata la illumina di sovrumano. Aria di congedo, nel sublime cimitero brunelleschiano, dal tempo cristiano: non ne vedi piú che la cenere ben pettinata… (Rinascimento è ceneri cristiane mescolate a ceneri di gentilesimo rimosse, polvere di morte, da geni malinconici messa a purgarsi per un’estrema metamorfosi nei loro athanor matematici). Grande lievitazione per bellezza di spazi in piú chiese stamattina, ma piú di tutte Santo Spirito, dove mettersi a volare è facilissimo.

    In Santa Trinita il prete diceva la messa soltanto alla donna che leggeva i testi sull’altare, diaconessa e devota a un tempo. Ma c’erano anche i banchi deserti a seguire il rito coi buchi dei tarli attenti.

    Il mistero numerale è presente sia in Brunelleschi che nella cattedrale di Strasburgo, e l’una e l’altra rete sono calcolate esattamente per trattenere Dio: con una giusta iniziazione al numero magico in architettura, la loro diversità si assottiglia fino a sparire e s’intravede il loro Prigioniero per speculum et in aenigmate.

    (Convento e chiesa di San Marco). «Son qui le ritrovate ossa di Agnolo Ambrogini detto il Poliziano…» Di faccia alle ossa ritrovate, segnate dalla carie gommosa (Sylva in scabiem), la cupa figura di fanatico del frate piagnone. NON È LÍ CHE DEVI GUARDARE, dice l’angelo dell’Angelico alla Maria che fruga con gli occhi nel sarcofago dal quale si sprofonda nello Sheòl pieno di polveri e d’ombra di morte, LÍ C’È LA TENEBRA E LA MORTE! CHI TU CERCHI È INVECE… Il dito dell’angelo punta verso il cielo dov’è la Figura risorta, ma noi siamo molto piú lenti delle Marie a cambiare la direzione in cui siamo assuefatti a guardare, a volte passiamo la vita sempre curvi sul sarcofago tenebroso. (In tanta dolcezza, una delle piú energiche lezioni di negazione della morte).

    VELAVERUNT FACIEM EIUS. L’Angelico ripete spesso il motivo degli occhi bendati del Cristo: la luce si separa dalla tenebra velandosi (la tenebra crede di essere lei a velarla).

    Voce del televisore dell’albergo: «… Anna Magnani è stata una grossa sfinge… forse la piú grossa della storia del cinema…» Mangio in camera carote di piazza Santo Spirito e ricotta di pecora. Cattiva siesta con continui tranghiottimenti di saliva, penosi. Mi sveglio dopo ben due ore e mezza di questo scarno riposo, mi faccio il tè e corro a confortarmi in Santo Spirito ma già erano spuntate le chiavi, sosto sulla piazza, ascolto campane, guardo tra i rametti nudi la luminosa facciata. Al Centro Sociale Cattolico un simpatico vecchio prete parla a un uditorio fittissimo, quasi tutto di monache carmelitane, di Santa Teresa, per il centenario. Ha bella eloquenza, tono acceso e nobile, gesti da pergamo, senso giusto del tempo: appena sente l’uditorio sfuggirgli tronca. Ero certo che finisse con la parola amore. I cristiani ne hanno sempre abusato, non sai che cosa intendano realmente dire: amore amore amore… La dotta conversazione non ha, di Teresa, evocato neppure un’unghia. All’uscita, volti distesi, soddisfatti… Segni di noche oscura, in quei frati ben nutriti, niente… Le monache non si sa a cosa pensino… Visi anche intelligenti, ma troppo facili ad accontentarsi… (Mi è piaciuto, per un poco, non vedere dei bruti). Fuori piove, le monachine si trasformano in tanti ombrelli concordi neri, che volano via…

    Dopo l’Angelico e Santa Teresa, il festival del Cinema Omosessuale. Saletta stipatissima, molte donne, niente fumo, voci sommesse, è luogo di culto. Film tedesco: La tenerezza del lupo. Stanno lí, in religiosa compostezza, ad assorbire qualcosa di perfettamente abbietto, a masticare in silenzio irradiazioni di pura tenebra cloacale. Serietà, cultura, capire il diverso, libera sessualità… ma lí stanno mangiando tenebra, c’è come una gaveuse d’oies che li ingozza di un tenebroso pastone… Non scorre un’immagine che non sia una spugna di bassezza morale… Si vede un Peter Lorre epigonico che approfitta di essere poliziotto per truffare e per soddisfare ingordamente la sua passione efebica, si traveste da ballerina di cabaret per recitare un’Ave Maria, di colpo lo vedi strangolare un ragazzo, spogliarlo, divorarlo come un cannibale e poi quali altre sodomie sanguinarie compia non so perché mi sento male ed esco, ma io solo, è un pubblico adulto, che non reagisce negativamente, che resta al suo posto, con la macchinetta da ingozzare piantata in gola, a degradarsi stupidamente, freddamente, senza la forza, autenticamente erotica, di un vero plaisir de descendre.

    Se dopo il cinema fosse arrivato uno con un microfono: Amici, adesso seguirà una lettura della Morte di Ermengarda e della notte di Lucia al castello dell’Innominato, tutti sarebbero rimasti al loro posto, ad assorbire anche quello (frammenti di luce portati al macello) prestando uguale attenzione, sempre composti, sempre pietrificati… – E adesso, un capitolo delle Centoventi Giornate… – Stessa attenzione, stessi applausi. Poi una proiezione dell’Uomo di Aran… Un documentario sull’Angelico… Poesie di Puškin, di Genêt, di Saffo, di Kavafis…

    Spiraglio su un mondo morto. Un’umanità senza il senso morale è morta. La medicina trionfa: vita piú lunga ec. Ma è un coma morale protratto, non vita. Allora nel buio colonna di luce il primo versetto dei Salmi si manifesta: Beato l’uomo ec. (non sedersi, non mescolarsi, arcere profanum, tutto è reshaím, tutto, anche la piú veniale infamia, il piú piccolo alito di volgarità è consilium impiorum) e ti scampa dal cedimento, dal sederti per sventatezza e credulità tra gli empii, pronti a capovolgerti la mente, a stroppiarti il cuore.

    In San Salvatore al Monte si è in mezzo alla perfezione delle perfezioni, alla misura delle misure. Basterebbe un fiato di numero in piú o in meno per rendere irrespirabile o far crollare tutto; sta su una nuvola immateriale, è uno spazio per l’uomo redento dallo spazio esterno dove pendono le chiavi della morte. Misteriosa pietà numerale del crocifisso posto davanti alle canne dell’organo, proprio al centro, dov’è la canna piú alta, di cui assorbe e trasmette (e trasmuta) la sonorità espiatrice.

    In San Miniato bella voce benedettina manda su dalla cripta un fascio di luce gregoriana: Agnus Dei qui tollis peccata… Non è immaginabile un Agnello capace di portare un tal peso, ma la voce persuade il crederlo possibile.

    La malattia, la religione, la solitudine, l’amore infelice, i sogni e gli incantesimi della Gerusalemme, tutto questo leggevo nel ritratto dell’Allori agli Uffizi, di Torquato… Invece non è Torquato; la vera immagine del Tasso è un’altra e non esprime niente di quel che leggevo nella pittura degli Uffizi; ha piú del gentiluomo spagnolo e gli soggiace una follia meno romantica. In realtà quella faccia troppo tassesca avrebbe dovuto farmi diffidare subito: – Questo non è Torquato, gli somiglia troppo –. Avevo addirittura parlato con quell’immagine, vedevo le sue labbra muoversi; ma sono labbra di un giovane malaticcio, autore sicuramente di poveri sonetti.

    L’Italia come un libro prezioso e raro: – Dio è il mio bibliotecario, e mi dà in lettura a qualcuno, ogni tanto, quando è certo che sappia leggermi.

    È l’undici marzo. Piove. Stasera a Lucca.

    Tratto da: Guido Ceronetti, Un viaggio in Italia, Einaudi Ed.

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    Predefinito Re: Guido Ceronetti (1927-2018)

    LA GRECIA E L’OBLIO DELL’ELLADE.

    Fa sorridere sentir parlare di debito greco! Tutto il genere umano è debitore verso la Grecia. L’ Europa per prima, naturalmente, e la Germania prima dei primi: per il suo sistema nominale, per l’ inaudita energia irradiata attraverso la sua filosofia e la ricostruzione del messaggio ellenico attraverso i suoi filologi. La Grecia va salvata in quanto madre: tutti siamo nati ad Atene, anche se quasi tutti lo ignorano, anche se oggi Atene è un tumore urbano che ospita come qualsiasi altra città disperazioni e malavita. Vuoi mettere in discussione tua madre, soltanto perché il suo comportamento non è stato virtuoso? Mi indigna veder dubbiose le nazioni: che cos’è il debito greco in titoli paragonato al nostro, in spirito, verità, civiltà? Linguisticamente, Ellade e Grecia coincidono, ma esclusivamente entro i confini greci. Divergono nel mondo: se alludi alla Grecia-nazione moderna diciamo Grecia, ma dire Ellade è sigillo materno, più fatto di natura di quelle che si dicono radici ebraico-cristiane. L’interiorità ellenica è intangibile; si trascina, dicono malamente (non ho esperienza diretta: tutto è frode nel regno dell’ opinione) l’ aggregato esterno Grecia. Neppure i greci stessi, mi pare, sfuggono; potrei dire che, nonostante l’ identità nominale, la Grecia ha rinnegato l’ Ellade. Più che rinnegata esplicitamente, la Grecia ha dimenticato l’ Ellade: può essere, un simile oblio, pagato carissimo all’ esterno. Un po’ di Tucidide tonificherebbe i discorsi di Papandreou. E l’ Europa come l’ Euroamerica sono dentro a un’ ossessione materialistica che è molto simile a una foresta stregata. Una conseguenza verificabile è la pandemia di depressioni, malattie mentali, tumori, alcolismo. Si levano voci isolate, ma tra strepiti in decibel da discoteca. L’ uomo come animale essenzialmente cittadino, creato dalla Città lontano dai covili ( politikòn zòon ) è scoperta e dogma aristotelico. La rivolta contro la città, che libera e rinchiude, comincia presto: da quando il culto dionisiaco ne fa esplodere le mura, e la Baccante fugge e Antigone disobbedisce alla legge scritta. Tutto esemplare: noi idolatriamo il vivere cittadino e nello stesso tempo lo fuggiamo e lo odiamo. Ma dappertutto ritroviamo, inesorabili, le sue mura. Perciò la città metropolitana, la megalopoli, è spaventosa. Nelle predicazioni per la crescita – sempre più questa sensazione si diffonde – tutto quel che contiene di distruttivo una simile degenerazione del pensiero politico, è sospinto implacabilmente avanti. È significativo che la Grecia per aver riluttato, tentennato, commesso errori di oblio, di fronte a questa degenerazione del pensare è punita per prima, minacciata di morte civile, di esclusione, di rigetto della banca che si era fidata della sua completa sottomissione, con trapianto arcicondizionato. Ricordarsi in tempo dell’ Ellade sacra, dell’ Ellade trascendente, sarebbe un risveglio salutare della pura e semplice ragione. Resta da vedere, in una situazione così indefinibile e viziosamente perversa dove si può intravederla, qualcuno, nel potere mondiale, sia in grado di guardare con diversità d’ occhio.


    Tratto da: Guido Ceronetti, Tragico tascabile, Adelphi

 

 
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