La Nuova Sardegna.
Giovedì 26 ottobre 1972
L’IMPEGNO PIÚ APPASSIONATO DI ANTONIO SIMON MOSSA
L’autonomia culturale del popolo sardo
Difficilmente si potrebbe accusare Antonio Simon Mossa di rappresentare il solito sardo «scontroso», ma «dignitoso e altero», persino «ferrigno» inguaribilmente oppresso da un orizzonte isolano misogino e retrogrado. Antonio Simon Mossa esercitava professioni che lo portavano necessariamente in contatto con correnti culturali di ampio respiro e con ambienti e situazioni i più diversi. Conosceva il mondo. E non solo l'imperiale geometria delle capitali europee, ma i popoli, i piccoli popoli, anche extraeuropei, che quelle capitali vorrebbero ammutoliti e che, comunque, non rappresentano. La vastità della sua conoscenza - fu questa che mi colpì la prima volta che lo incontrai - gli consentiva di esprimere con sicurezza il convincimento che la Sardegna deve e può darsi una organizzazione politica e civile congeniale alla sua storia, ai suoi bisogni e non imitativa di modelli e di finalità altrui. Perché, questo, di Simon Mossa si deve dire in primo luogo: che Lui, per molti versi intellettuale alla moda, per molti versi «cittadino del mondo», non si è mai vergognalo di essere sardo, non ha mai tinto la sua pelle, come un tempo certi negri americani per nascondere il colore, e come spesso tanti cosiddetti intellettuali sardi. Al contrario: si serviva della sua esperienza esterna per approfondire la conoscenza dei problemi della Sardegna e indagarne le possibili soluzioni. E ancora, a differenza di molti altri, le varie esperienze culturali non lo deviarono dal sardismo ma anzi lo convinsero della sua persistente validità originaria.
Questo non significa che si limitasse a riecheggiare i motivi della vecchia propaganda sai-dista. Perché, invece, era acutamente consapevole dell'avanzato stato di mummificazione degli ideali sardistici, della loro riduzione ad un sottoprodotto della politica, patetico se noti ridicolo, e, quindi, della necessità di una loro generale rielaborazione stilla base delle esperienze più nuove. Dare una voce libera al popolo sardo era una delle aspirazioni del sardismo delle origini, che Simon Mossa recepiva senza riserve, riproponendola in termini di autonomia politica generale della Sardegna.
Non mi pare che in Lui riprendesse corpo la vecchia tendenza separatista, sempre presente nel Partito Sardo d'Azione, e sempre pronta a rispuntare dopo ogni delusione con piglio vagamente ricattatorio nei confronti dell' « ingrato » governo romano. La sua proposta di autonomia politica non era motivata soltanto né dalla disastrosa prova dell'Istituto regionale, né dalle ormai proverbiali « inadempienze» dello Stato. Aveva visto con i suoi occhi, e in lunghi diversi, qualcosa di più terribile, di più profondo e cioè le tendenze il genocidio culturale, e non solo dei piccoli popoli incorporati nei grandi Stati europei. Anche quando non è la guerra vera e propria, sono l'emigrazione di massa, l'annichilimento delle culture autoctone, la liquidazione delle attività economiche locali e l'imposizione di modelli di sviluppo rispondenti agli interessi delle metropoli imperialiste a condurre rapidamente e inesorabilmente verso la distruzione etnica.
Simon Mossa vedeva questo fenomeno quasi tellurico avanzare anche in Sardegna e si preoccupava di apprestare le difese politiche e culturali. La sua proposta di autonomia politica, perciò, ha una portata nettamente anti-imperialistica; è contro «l'Internazionale dei ricchi»; è rivolta alla rottura di un sistema di dominazione coloniale che regge tutta l'impalcatura dello Stato», «ha lo scopo di promuovere la capacità politica comunitaria per affrontare i problemi della sua sopravvivenza, della sua crescita e del suo assestamento attraverso organi elettivi creati all'interno della comunità stessa». Che la prospettiva generale di questa nuova entità statuale dovesse essere quella del socialismo era per Simon Mossa non solo un fatto di scelta politica, bensì di necessità storica. Anche se usava con riluttanza il termine «socialismo» per il logoramento che un uso non sempre opportuno ne ha provocato.
Non serve, a questo punto, sottolineare che la proposta di Simon Mossa non ha raggiunto la compiutezza necessaria per l'azione politica, ma ha la portata di un contributo e uno stimolo alla discussione. Serve invece osservare come, pur mantenendosi fedele all'originaria ispirazione sardista, sia giunto a posizioni «avanzate», e si ritrovi in linea con alcuni termini attuali del dibattito politico internazionale. Rompe con la perenne incertezza del Partito Sardo d'Azione tra decentramento e separatismo, tra liberalismo e socialismo; supera il concetto di autonomia, intesa sia come strumento di perequazione tra la Sardegna povera e la Lombardia ricca o come organizzazione di interessi localistici da rappresentare ad uno Stato congenitamente predisposto più alla distrazione che all'attenzione e abbandona la gloriosa retorica delle pietraie del Carso e delle giogaie dell'Isonzo. Anche per questo il suo lavoro è pienamente dentro le correnti politiche europee e mondiali che propugnano un'alternativa al capitalismo e al socialismo «paternalistico» individuata in «una società socialista regionalmente decentralizzata»; sostenitrice della tesi che una pianificazione sociale, cioè il controllo consapevole e razionale dell'uomo sul proprio ambiente sociale, non può che essere fondata su una unità pianificatoria regionale; che per realizzare questa necessità è inevitabile la liberazione delle periferie dal dominio e dallo sfruttamento delle metropoli euro-statunitensi.
L'impegno più appassionato Antonio Simon Mossa lo concentrava sul problema dell'autonomia culturale del popolo sardo. Questa è - così affermava - la matrice della libertà, dell'indipendenza, del riscatto economico e sociale di un popolo. Perciò la questione della lingua sarda della «possibilità di scambio, di informazione e di istruzione nell'ambito della comunità senza la presenza del dominatore e senza la sua tutela» - aveva per Lui tanto rilievo. Egli vedeva la difesa e lo sviluppo dell'autonomia culturale dei sardi non tanto come riscoperta degli antichi valori e istituti giuridici, morali, consuetudinari, quanto come ricerca, proiettala nel futuro, dell'«identità nazionale» dei sardi. E ricerca non puramente storica e letteraria, ma come resistenza e lotta popolare contro l'asfissia e il livellamento culturali perpetrati dal capitalismo e dall'imperialismo. Non gli era sfuggito, quindi, che senza la riaffermazione dell'autonomia culturale anche la più gloriosa lotta di liberazione popolare può approdare a risultati solo parziali e precari. Autonomia culturale, dunque, come base irrinunciabile dell'autonomia generale e come possibilità per il popolo sardo di aprirsi al confronto con gli altri popoli all'interno di un grande moto di emancipazione dall'oppressione coloniale.
All'origine della volontà di Simon Mossa di porre la questione sarda in un ambito internazionale europeo ed extraeuropeo c'è senz'altro l'antica vocazione universalistica del sardismo. Ma è Lui stesso a definirla soltanto vagamente romantica e senza riferimenti precisi. Perciò Simon Mossa la supera senza tentennamenti ed approda ad individuare un nuovo aspetto del l'internazionalismo. E' l'internazionalismo delle piccole nazioni impegnate nella lotta per la sopravvivenza e lo sviluppo, è la « confederazione di etnie », è la «integrazione di tutte le comunità, ognuna di esse con la sua personalità spiccata, in un mondo nuovo di giustizia e di libertà». Non si limitava a prospettare questo nuovo internazionalismo: lavorava all'estero per realizzarne le prime manifestazioni.
Lo spazio non consente di esaminare altri e decisivi aspetti del tentativo di Simon Mossa di sviluppare una visione socialistica della questione sarda partendo dalla matrice sardista. Non sono neppure in grado di dire se avesse una piena consapevolezza della portata teorica del problema relativo al rapporto sardismo-socialismo. D'altra parte il tentativo di Simon, non unico neppure in campo sardista, è rimasto ad uno stadio troppo iniziale, sia per la sua prematura scomparsa e più ancora per lo scadimento che il dibattito politico registra in Sardegna da diversi anni a questa parte. Tuttavia il suo invito a continuare la discussione merita di essere raccolto non solo da chi lo ha stimato, ma da chiunque abbia a cuore le sorti della Sardegna.
E' possibile, dunque, ed è lecito far derivare una politica socialista dal sardismo? Oppure dobbiamo considerare il sardismo come un residuo storico destinato a inesorabile consunzione? Il carattere nettamente borghese dei sardismo, le sue profonde contraddizioni e incertezze, le compromissioni e corresponsabilità in cui è rimasto impantanato il Partito Sardo d'Azione hanno definitivamente sradicato il sardismo dalla coscienza politica delle masse popolari sarde?
Un bilancio del sardismo, e non tanto in sede storica, quanto in sede politica, s'impone, perché il sardismo ha influenzato gli ultimi nostri 50 anni e perché la crisi politica che l'Isola attraversa ha radici tanto profonde da richiedere uno sforzo personale e collettivo di autocritica. Beninteso, il bilancio del sardismo non va fatto solo in casa del Partito Sardo d'Azione. Al contrario riguarda tutti i partiti democratici, proprio perché, da subito dopo la guerra essi hanno esplicitamente richiamato il sardismo tra le motivazioni del loro impegno in Sardegna. Questo è stato fatto principalmente dai grandi partiti della sinistra operaia.
Il fatto che le rivendicazioni sardiste fossero recepite e incorporate dai grandi partiti nazionali potrebbe essere considerato una prova della vitalità e validità del sardismo. Ma è veramente così? Si potrebbe anche pensare, infatti, che in realtà i partiti nazionali hanno incorporato il sardismo per congelarlo nelle sue primitive impostazioni, per tagliare l'erba sotto il P.S.d'Az e per marginalizzarlo. Sta di fatto che, a prescindere dalle intenzioni iniziali, l'operazione del PCI e del PSI nei confronti del sardismo ha avuto nei risultati un netto carattere trasformistico. Il Partito Sardo d'Azione è stato sospinto, forse anche contro le sue propensioni, nell'area governativa e da partito di massa si è ridotto quasi soltanto ad una rete clientelare. Una parte cospicua del suo quadro dirigente - e sarebbe interessante indagarne le ragioni profonde - ha compiuto una lunga e inquieta peregrinazione da un partito socialista all'altro, senza riuscire a ritrovare un proprio ruolo effettivo. La stessa teorizzazione comunista dell'autonomia, come fase della lotta per il socialismo, non è mai stata né chiara, né convincente, ed anzi è stata ambigua e strumentale.
Il bilancio, perciò, ci pare presenti un disavanzo piuttosto vistoso, se è vero che, in un contesto di crisi e involuzione dell'Istituto autonomistico e delle sue finalità, ci ritroviamo con meno socialismo, meno sardismo e con un grave disagio, a dir poco, di tutta la sinistra, evidenziato anche dall'ultima consultazione elettorale.
Antonio Simon Mossa conosceva questi dati di fatto e perciò arrivò a concepire un'operazione in certo senso inversa rispetto a quella realizzata dai partiti comunista e socialista: all'incorporazione del sardismo nel socialismo contrapponeva un tentativo di sviluppo del sardismo verso il socialismo. Sembra un gioco filosofico, ma non è, perché è probabile che la sua azione si sarebbe sviluppata non tanto nel senso di saldare un'alleanza politica" tra PCI e P.S.d'Az., quanto nel senso di far ritrovare al Partito Sardo d'Azione, all'interno della sinistra, un ruolo autonomo e criticamente stimolante. Anzi, poiché nutriva non pochi dubbi sulla capacità di rinnovamento del Partito Sardo d'Azione, non è detto che non pensasse addirittura ad un altro tipo di organismo politico, diverso dal suo partito, come sembrano indicare diversi documenti politici di organizzazioni sardiste sassaresi.
Affermare che le risposte di Antonio Simon Mossa sono tutte giuste sarebbe solo faciloneria. Ma discuterle è un'occasione utile di chiarificazione e di approfondimento in un momento in cui poche sono le occasioni, difficili i problemi ed oscure le prospettive.
Eliseo Spiga