La Nuova Sardegna.
Venerdì 26 Gennaio 1973
Gli effetti negativi del tipo di autonomia concesso nel '47 alla Sardegna dai costituenti nazionali, che non tennero conto delle caratteristiche speciali dell'isola e del significato profondo e permanente della questione sarda » (che era stata - ed è - anche questione etnica e culturale, conservazione e difesa della « nazione sarda » quale fu sentita dagli spiriti migliori e dal popolo nei secoli dell'oppressione feudale, liberal-risorgimentale e fascista), si sentono e si scontano oggi, a distanza di 25 anni dalla promulgazione dello Statuto sardo, c. d.. « speciale ». Uno Statuto che, in realtà, è «normale», anzi più «normale» degli Statuti normali» delle Regioni ordinarie, da poco costituite e già funzionanti con poteri maggiori e più adeguati ai tempi di quelli - infimi - contenuti nella «Carta» sarda (13).
Tutto ciò, come è noto, è il risultato di una continua e studiata degradazione dell'autonomia sarda. Assoggettata ad un duro colpo « restaurativo » negli anni del centrismo, con un grosso corpo di norme di attuazione emanato dal governo nazionale intorno al 1950, e con gli effetti restrittivi delle leggi statali di intervento straordinario nel campo economico e sociale in materie di attribuzione regionale, promulgate più o meno nello stesso tempo e clima politico; presa di mira dall'occhiuto e rigoroso controllo della Corte costituzionale che la sottopone a una serie di vincoli e di decisioni sostitutive nelle potestà legislative e amministrative intorno al 1955, con le prime leggi di riforma dovute all'indirizzo moderato di centrosinistra (14), in questi ultimi tempi l'autonomia sarda è stata ed è umiliata da un costante atteggiamento e da una serie continuata di atti del governo centrale che denunziano un costume di ripulsa sistematica dell'iniziativa del legislatore regionale, palese attraverso tutto un seguirsi di osservazioni cavillose, bizantine e di rinvii formalistici di ottusi burocrati, di tradizione « napoleonica ».
Di fronte a un contegno così provocatorio dell'organo statuale rispetto alla Regione sarda (ma è da presumere che il comportamento non vari nei confronti di altre Regioni, speciali o meno) e ricordando l'essenza profonda della rivendicazione «sardista» prima e dopo la Costituzione, si capisce la collera di Simon Mossa e la sua disperata risoluzione che .non resti ormai altra via per l’autonomia dei Sardi che quella della « rivoluzione » resistenza passiva e non obbedienza civile (ossia non violenza) o la ragione estrema dell'insurrezione (violenza armata).
Sono echi delle intenzioni o di atti di alcuni momenti radicali del « terzo mondo europeo i quali, però, non trovano nell'isola nelle condizioni presenti, una qualche pratica realizzazione, pena la perdita totale dell'autonomia e della libertà già tanto condizionate e ridotte dalla costrizione progressiva legalistica e burocratica dell'apparato centralistico dello Stato Italiano. Ipotesi pericolosa, quella « rivoluzionaria », in un momento in cui, come quello presente, forze politiche e partitiche di destra moderate amoreggiano per restituire alla Nazione e alle Regioni governi forti, di tipo presidenziale o di blocco d'ordine, magari esterni come è avvenuto altrove.
Piuttosto un'azione costante imperniata sull'alleanza organica della Regione sarda con le altre regioni speciali nonché con quelle ordinarie e in particolare con le meridionali,se non potrà condurre a costituire, come qualcuno ha scritto, una «Confederazione delle Regioni meridionali » o anche una « Costituente meridionale popolare », potrà portare, con la forza di una concorde contestazione e di una comune decisa azione politica, a far maturare il momento federalistico, rimasto a status prefederale, attraverso la revisione della Costituzione repubblicana, per le vie democratiche. Quel che non fu possibile nel 1947, mancando l'operatività politica delle Regioni, è attuabile oggi che le Regioni - con la spinta delle forze autenticamente autonomistiche e popolari - sono in grado di assumere iniziative per procurare a se stesse - e all'assetto dello Stato Italiano - un salto di qualità, nella libertà e nello sviluppo sociale, rispetto alle condizioni di oggi consentite da una Costituzione la quale, per più versi ha fatto il suo tempo, per le circostanze storico-politiche mutate e per il premere sempre più forte, più convinto e largo delle urgenze popolari che rivendicano potere e sovranità alle periferie.
Una « rivoluzione » sarda francamente, lo non la vedo. Non abbiamo nell'isola esempi tradizionali di capi militari, come ha avuto la Corsica in Paoli e Napoleone.
Qualcuno penserà ad Amsicora, ma questi fu un sardo a « metà », largamente corrotto dallo « stranièro » cartaginese: un sardo-punico, borghese e capitalista ante litteram. Angioy, il suscitatore, con la borghesia del tempo, dei « móti » insurrezionali antipiemontesi e antifeudali del 1795, fu un -capo « dimidiatus » né ebbe pasta di completo, «rivoluzionario»: non seppe realizzare la saldatura, « giacobina », tra gli interessi della borghesia urbana appena intrisa dello spirito della « rivoluzione liberale », con quelli delle masse popolari delle campagne sarde, attestate a posizioni e istanze preborghesi di godimento « comunistico » di beni, contrari al principio «rivoluzionario» borghese della « proprietà perfetta », A Parigi gli epigoni della rivoluzione francese gli preferirono Azuni « uomo di codici.» e di ordine.
Durante l'ultima guerra, pur verificandosi le, condizioni obiettive, la Sardegna non espresse una dirigenza armata, capace di cacciare il tedesco (straniero e invasore); né attivò, pur non mancando le ragioni delle lotte tra partiti democratici - specie il « sardista » - e fascismo nel primo momento di questa « tale » politica e morale, la resistenza e la guerra di liberazione anti-fascista. E ciò contribuì anche a togliere mordente e cipiglio nelle richieste al governo nazionale dello Statuto speciale, accettato con, ossequio e soddisfazione da « moderati », naturalmente non da tutti.
La Sardegna non potrà, mai raggiungere l'autonomia integrale da sola, come non lo potrà, da sola, nessun’altra piccola comunità etnica del « terzo mondo europeo». Lo potrà, invece in un blocco di solidarietà e di alleanza terzomondista, dopo il passaggio del suo assetto costituzionale attuale nella nuova condizione federale dello Stato repubblicano Italiano che consentirà all’isola di provare a misurarsi nell'effettivo esercizio dell'autogoverno, della autonomia politica integrale. Poi, fatta questa prova di parziale ma autentica sovranità nell'ambito dello Stato italiano, considerato che tale condizione gli permetterà di restare « sarda » pur essendo « italiana », o meno, la Sardegna potrà scegliere per integrazione o per indipendenza.
Ma optare per quest'ultima, senza una prova d'appello (italiana), rimanendo i sardi, se stessi, cioè « comunità etnica e culturale sarda », non è nemmeno utopia, perché l'utopia contiene in sé la logica pratica del domani sia pure lontano. E' il cadere nelle braccia di atri padroni, continuare nella tradizione secolare dell'asservimento agli « stranieri » e ai tanti conquistatori del mare.
E' qui il dissenso mio con l’ultimo Simon Mossa, quello di qualche mese prima della morte, perché, ancora nel1965, Fidel scriveva di una « Sardegna libera ed autonoma, integrata in una maggiore comunità come quella italiana»; e aggiungeva «che i sardisti sanno che la democrazia esiste ed è solennemente affermata dalla costituzione e dallo stato sardo. E nell'ambito della democrazia essi operano ».
Ma forse. prima di morire, forse per non morire, Simon Mossa si è voluto caricare di tutta la « violenza » della ribellione a un fatto – quello della morte – che Egli, chissà, identificava con la morte di tutto il popolo sardo, della sua etnia, della sua cultura , della sua lingua, del suo patrimonio morale, delle stesse sue caratteristiche fisiche.
Si caricava di tutte « le componenti della rivolta contro la perdita della vita - che era la vita di un sardo - l'essere sardo, prima di tutto, poi l’essere di un lembo di Sardegna con una minoranza etnica, dispersa, quella catalana della sua Alghero e, da ultimo e forse non senza scompiaciuta coscienza delle origini familiari, la tradizione «ribellistica» dei suoi antenati.
Specie, tra questi, di quel cavalier Domenico Simon, membro dello Stamento militare, che, nel 1794, aveva concorso alla cacciata dei piemontesi sensibilizzando accortamente l’opposizione delle Corti contro lo «straniero » d'occasione.
Scrive di lui il Manno, con il suo ornato linguaggio da «integrato torinese»: «sopra all'aver ingegno acuto il ragionamento ordinato e facile, la composizione, avea tale dottrina delle leggi e costumanze antiche della Sardegna che egli era divenuto il dottore politico della assemblea»... «insinuatosi finalmente nel loro animo avea modo di volgerli ai suoi divisamenti »... « La maniera stessa del vivere del Simon consigliavagli un po' di quella autorità diogenica che si dà alle volte al disprezzo delle costumanze sociali. Onde era veramente un duro negozio il dissentire da un uomo così forte, il quale misurando sempre l'avvenire con quello che era stato, facessi argomento di qualunque opposizione per penetrare, dirò così, sempre più addentro nei recessi della sua politica archeologica ».
Chi, meglio di me, ha conosciuto Antonio Simon Mossa, potrà forse riconoscere in Lui qualche aspetto del « temperamento » di quel suo notevole antenato; e spiegare, con la continuità e l'ereditarietà di certi «geni» etnici, ispirazioni e ragioni della vita e dell’attività politica e culturale di « Fidel », e il suo amore sconfinato per la sua terra.
È questa passione disinteressata e convinta per la Sardegna, vista nella sofferenza del mondo, che rende accetto il suo insegnamento anche a molti Sardi, i quali, come me, non militano nel partito che egli aveva cercato di vitalizzare ed adeguare ai tempi nuovi, fuori dalle angustie localistiche, dandogli un respiro universale; e, tuttavia, sono ugualmente « sardisti », per radici culturali e per umore etnico, senza però farsi della propria terra un oggetto di parte.
È poiché la « parte » non unisce, ma divide coloro che pure possono avere - ed hanno in molte cose – sentimenti comuni sull'oggetto amato, forse un ritorno ad un «movimento» sardista, magari promosso con un « Manifesto degli intellettuali sardi », (e quando dico intellettuali parlo di tutti quelli che hanno intelletto della Sardegna, dei suoi caratteri, dei suoi problemi e delle sue prospettive), sarebbe capace di rinnovare la gloriosa stagione che vide i Sardi quasi tutti insieme, operare per il « rifiorimento » della loro piccola «Nazione».
Giovanni Lilliu
(III) Fine