Sa Repubblica Sarda
Anno XXIV – N. 1-4 APRILE 2002
Per l’indipendenza nazionale
e la giustizia sociale
di ANTONIO SIMON MOSSA
Si terrà a Sassari il 21-22-23 Marzo nella "Sala delle Conferenze", della Camera di Commercio il Convegno di studi su Antonio Simon Mossa, a 30 anni dalla morte, organizzato dalla Consulta Locale dei Comuni di Sassari, Portotorres, Stintino, Sorso, Sennori nell'ambito della promozione e valorizzazione della cultura e della lingua sarda.
Antonio Simon Mossa, originario di Alghero, nacque a Padova il 22 novembre del 1916 e morì a Sassari a soli 54 anni, vittima di un destino inesorabile e beffardo, il 14 luglio del 1971. Fu valente architetto, urbanista, arredatore d'interni, studioso di problemi dell'insediamento umano, disegnatore, critico d'arte e letterario, insegnante dell'istituto Statale d'Arte e docente incaricato di Storia dell'Arte presso il Liceo Classico "Domenico Alberto Azuni" di Sassari, linguista di primaria importanza per la Sardegna, Presidente del "Centre d'Estudis Algueresos" e promotore di “Les Jocs Florals" della Lingua Catalana ad Alghero. Fu inoltre osservatore acuto della realtà isolana e viaggiatore attento alle problematiche delle Comunità Etniche Europee e di tutti i Popoli oppressi del mondo, nonché delle "Nazioni senza Stato", come anche poligrafo, giornalista, redattore e strenuo difensore dell'autonomia di Radio Sardegna, scenografo, cineasta, politologo, massimo ideologo del Sardismo rivoluzionario e libertario, dirigente politico, consigliere comunale di Porto Torres, conoscitore profondo delle culture delle minoranze nazionali di tutta Europa e delle “lingue minoritarie" di sette tra le principali etnie europee, nonché uomo di vastissima cultura e di moralità integerrima.
Il convegno si prefigge di ricordare e onorare il primo Etnolinguista Sardo del XX Secolo ad aver compreso la valenza politico-rivoluzionaria della Lingua Sarda, come “elemento cementante dell'unità del Popolo e della Nazione Sarda" e ad essersi battuto per la conservazione, l'insegnamento, l'uso e la standardizzazione di questo importantissimo "idioma", come "seconda lingua nazionale" dei Sardi in Italia e "prima" in Sardegna, e per garantire ad esso pari dignità con l'italiano; come pure per la valorizzazione e il potenziamento delle singole varianti linguistiche del sardo (Logudorese-nuorese, Campidanese-ogliastrino e Sardo-còrso: Sassarese-gallurese) e per la salvaguardia del catalano di Alghero, del còrso di La Maddalena, di s'arromanisca di Isili e del tabarchino di Carloforte.
Antonio Simon Mossa, scrittore poliglotta (scriveva e parlava correntemente in otto “lingue ufficiali di Stato", europee e transcontinentali), ha inoltre tradotto in sardo I quattro Evangeli ed ha pubblicato una lunga serie di articoli (in sardo, in italiano e in altre lingue d’Europa) d'arte, di costume, di letteratura, d'economia, di politica, di attualità e di controinformazione su diverse riviste e giornali italiani e stranieri dal 1941 al 1970. E' stato inoltre premiato per la poesia, in algherese e in logudorese, al Premio di poesia e letteratura sarda "Città di Ozieri", di cui divenne successivamente un autorevole membro di giuria.
Il convegno di studi - che vede una nutrita schiera di relatori che scandaglieranno la figura e l'opera dell'intellettuale sardo finora volutamente "dimenticato" dalla storiografia ufficiale - prevede che l'intera "sessione convegnistica" si sviluppi in un arco di tempo di tre giornate consecutive, articolantesi in tre sedute antimeridiane e tre pomeridiane, nel corso di ciascuna delle quali è prevista l'illustrazione di sette/otto relazioni e di una o più comunicazioni, cui farà seguito un dibattito.
Il convegno - da registrare e filmare per archiviazione degli Atti e per una sua possibile diffusione nelle Scuole e nelle Università isolane - dovrebbe riproporre alla attenzione dei sardi, sia di quelli che lo conobbero e lo apprezzarono in vita, sia di quelli che ancora lo ignorano - la figura, la personalità, l'autorità morale, l'autorevolezza, il pensiero, le opere, le geniali intuizioni e il profondo rigore filologico di questo antesignano e precursore carismatico delle prime battaglie per l'identità e per il recupero, la valorizzazione e lo sviluppo della Lingua, della cultura e delle tradizioni del popolo sardo. (Giampiero Marras)
Pubblichiamo qui di seguito - curato da Giampiero Marras - uno stralcio dell'intervento che Antonio Simon Mossa tenne il 22 giugno del 1969 a San Leonardo di Siete Fuentes ad un Convegno di indipendentisti.
La lotta del Popolo Sardo
per l'indipendenza nazionale
e la giustizia sociale
La posizione rivoluzionaria anticolonialista
Se noi non chiariamo una volta per tutte, di fronte al popolo sardo, la nostra posizione rivoluzionaria, le nostre istanze sociali (in termini concreti e precisi) la nostra volontà di lottare con tutti i mezzi per la liberazione della Sardegna dal giogo coloniale, e non in termini genericamente classisti, ma in termini più ampi di azione popolare, con una decisa tendenza verso l'ecumenismo, e con la scelta della via più consona e rispondente al momento storico, che può essere quella della
resistenza passiva e della non-obbedienza civile (cioè non-violenza), come quella estrema della lotta armata (insurrezione); se noi (dunque non rendiamo chiare e lampanti le nostre posizioni, ciò significa che noi siamo stanchi, che la missione di rigenerazione e riscatto del popolo sardo proposta dai reduci del 1919 non avrebbe più ragione di essere, e saremmo noi stessi che vogliamo essere nucleo di azione rivoluzionaria condannati insieme con tutto il popolo sardo, all'eterna schiavitù politica ed economica.
Noi vogliamo dire ai sardi, a tutti quei sardi che ancora non si sono venduti all'oppressore, che soffrono in patria o all'estero per non rinunciare alla loro dignità e alla loro condizione di uomini liberi, vogliamo dire a tutti costoro che abbiamo il coraggio e la volontà di batterci per la liberazione della Sardegna, per l'indipendenza politica ed economica del popolo sardo, per l'abolizione dell'ultimo e più brutale regime coloniale d'Europa.
I motivi profondi della lotta di liberazione
E non diciamo tutto ciò in termini di contestazione salottiera o letteraria. Saremmo a livello dei demagoghi e dei funzionari dei partiti metropolitani. Non lo diciamo perché questo potrebbe portarci ad avere più o meno voti in una qualunque prossima o remota competizione elettorale.
Ma lo affermiamo perché noi stessi abbiamo necessità di chiarezza. Dobbiamo riaffermare solennemente, con lo stesso entusiasmo dei reduci del 1919, che la nostra è una lotta esclusivamente anticolonialista. Dobbiamo dire, ancora più chiaramente, che ripudiamo ogni e qualunque forma di conservatorismo equivoco e che ci battiamo nel popolo, con il popolo, per il popolo, contro il Padrone che oggi è l'Italia post-fascista, neopiemontese, essenzialmente reazionaria e autoritaria.
Una lotta, la nostra, che non si può quindi limitare a una generica o velleitaria dichiarazione di indipendenza.
Una lotta invece che ricerchi i motivi profondi e gli scopi di questa indipendenza per conseguire la quale ci stiamo battendo. Una lotta veramente e integralmente popolare, nella quale il popolo sardo diventi finalmente protagonista autonomo dei suoi destini. Una lotta con la quale si debbono superare tutte le piccole paure borghesi di un rivolgimento sociale, ma che tale rivolgimento proponga e promuova in termini nettamente rivoluzionari.
La rivoluzione sociale è lontana?
Non vi è quindi per noi altra via che assumere finalmente e decisamente la posizione che ci compete, in parallelo e in comunione con la lotta che conducono gli altri popoli coloniali e le comunità etniche che non hanno ancora ottenuto la libertà e l'indipendenza politica ed economica.
La grande rivoluzione sociale della nostra isola, nonostante lo sforzo disperato che i sardi migliori sino ad oggi hanno compiuto, è ancora molto lontana.
Alle baronie feudali dei tempi passati si sono sostituite oggi le non meno spietate baronie del neo-capitalismo colonialista, della burocrazia onnipotente, del sindacalismo di importazione, dell'occupazione militare e poliziesca. Baronie di un nuovo feudalesimo che ha svilito e raffrenato ogni e qualunque processo di sviluppo, in una sorta di orgiastica congregazione tra operatori capitalisti e gruppi di sindacalisti politicanti, guidati e sorretti dai gruppi di potere centralisti, tutto a danno dei lavoratori sardi, oggi - come ieri, e più di ieri - costretti ad emigrare per sfamarsi e dare un contenuto umano alle loro esistenze.
Le minoranze attive nel destino dei popoli oppressi
In questo caos noti vi è che la strada della verità, da percorrere sino in fondo.
Quella strada sulla quale si sono incamminati da tempo altri popoli, come i Baschi, i Curdi, i Gallesi, gli Scozzesi, i Bretoni, i Catalani, i Lapponi e gli stessi Corsi: popoli che resistono con ostinazione disperata alla prepotenza dei governi oppressori, e nella loro resistenza tenace e spesso eroica - che assume forme diverse a seconda del grado di civiltà e della situazione politica generale dei loro paesi - ottengono successi sempre più clamorosi.
Ma quei popoli sono guidati nella lotta da minoranze vivaci, colte, intelligenti, decise, coraggiose. Minoranze che a poco a poco creano una opinione pubblica favorevole; minoranze e nuclei attivi che riescono a risuscitare e a rianimare la coscienza di popoli ormai stanchi di servire e di soffrire, di popoli senza speranza, come il popolo sardo.
Ma sino a che non daremo un contenuto socialmente avanzato a questa lotta, sino a che non chiariremo a tutte lettere quali dovranno essere le condizioni della nostra società futura, sino a che non definiremo con decisione i precisi termini di una pianificazione realistica e - allo stesso tempo - avveniristica, nessuno dei sardi potrà darci ascolto, né potrà credere alla nostra sincerità. In quanto noi continueremmo a esprimerci in un linguaggio che per loro sarà incomprensibile, in quanto modellato su quello dell'oppressore: un linguaggio privo di chiarezza e ricco di demagogico paternalismo: quello stesso linguaggio di una classe di oppressori che niente altro trovano che servire le ideologie e i mezzi di governo di importazione.
Libertà significa indipendenza
Abbiamo sufficienti forze morali per difenderci da questo pericolo sempre incombente. Non dobbiamo confonderci con coloro che servendo fedelmente gli oppressori si sono trasformati in «Kapò». Dobbiamo razionalizzare e rendere comprensibile al popolo sardo, oggi fuorviato dal funzionarismo dei partiti coloniali, quella intuizione di libertà che lo agita.
Quella libertà si chiama indipendenza politica ed economica e giustizia sociale: libertà che significa che i sardi debbono essere prima di tutto padroni della loro terra, arbitri dei loro destini. Ma dovranno acquisire una profonda fiducia in sé stessi. Dovranno intendere che la redenzione sociale non potrà mai essere importata di là dal mare come una qualunque merce di scambio. Ma dovranno essere essi stessi ed essi soli gli autori di quest'opera di riscatto. Altrimenti dovranno rinunciare ad essere uomini, ad essere popolo libero, e restare per sempre schiavi.
Se noi non ci battessimo per il riscatto del popolo sardo, per la sua indipendenza totale, per che cosa ci dovremmo battere? Quale bandiera dovremmo agitare? O restare inerti in un mondo che cammina, ove le minoranze nazionali e le comunità etniche acquistano coscienza giorno per giorno?
Forse che la causa del Biafra non è giusta? Forse che la lotta antisegregazionista americana, rodesiana o sudafricana non è giusta?
E' mai possibile che noi, che siamo un popolo schiavo, umiliato, sfruttato, perseguitato, disperato, dobbiamo continuare a schierarci a fianco dei dominatori?
Ed è ancora possibile che dobbiamo accettare supinamente - noi che ci definiamo nucleo promotore del riscatto del popolo sardo una tale servitù coloniale?
Chi ha il diritto di contrapporre una barriera di incomprensione alle nostre idee? Chi si ostina a soffocare i nostri fermenti? Soltanto chi vuole mantenere lo status quo, l'asservimento a una politica di sfruttamento e di rapina: i manutengoli e i burocrati dello Stato italiano e quella folta schiera di traditori sardi, di piccoli miserabili «quisling», di indegni profittatori della miseria, dell'ingenuità e della rassegnazione secolare del popolo sardo.
Se noi dunque non promuoviamo lo spirito di ribellione, se non suscitiamo l'atmosfera della resistenza, se non creiamo uno stato di tensione, diventiamo complici di costoro, allo stesso modo traditori del popolo sardo e profittatori indegni.
E proprio a questo non possiamo più assoggettarci. Non accetteremo più compromessi di qualunque natura. Dobbiamo essere veramente liberi, e avere e infondere la coscienza della nostra libertà. Non dobbiamo più lasciarci condizionare dalle clientele politiche, dalle amicizie tentacolari di una piovra liberticida. Non possiamo più accettare una condizione di inferiorità a nessun livello e in nessun campo della vita pubblica e sociale.
Che si sappia finalmente, e una volta per tutte, che il nostro obiettivo è la liberazione della Sardegna dal giogo coloniale, la redenzione sociale del popolo sardo e che la nostra lotta assumerà le forme e la durezza che i momenti storici avvenire le riserveranno.
Noi soltanto possiamo, in piena coscienza, affermare che la liberazione del popolo sardo non può avvenire che con la conquista dell'indipendenza, e che la redenzione sociale che auspichiamo, e che ci siamo configurata ormai in modo preciso, è legata esclusivamente a quella conquista.
L’indipendenza promossa
dai valori immutabili
dell'etnia
Il disegno di snazionalizzazione del Popolo sardo
Se un popolo non conquista la sua indipendenza politica non può essere soggetto della sua storia, ma resterà ai margini della storia di quella nazione che lo avrà vinto e dominato. E se un popolo dovrà risorgere dal limbo nel quale si trova dovrà avere il suo «Stato». Con la conquista dell'indipendenza il popolo sardo potrà costituire il suo Stato che avrà i poteri per promuovere il processo di riscatto e di evoluzione economico sociale oggi impossibile, in quanto soggetto ad altra potenza che non mostra alcun interesse né alcuna buona volontà per dare alla Sardegna il posto che le compete per ragioni storiche, geografiche, etniche nel consorzio dei popoli liberi.
Nei duecentocinquanta anni di dominio piemontese e italiano la volontà di trarre la Sardegna dalle sue condizioni di arretratezza e di miseria non si è mai manifestata. Al contrario il processo di assimilazione, di snazionalizzazione, di spersonalizzazione del popolo sardo si è gradatamente accentuato. La concessione di una autonomia formale, che in realtà non è che un debole decentramento amministrativo, ha creato nell'ultimo ventennio in Sardegna una condizione di disagio generale e uno stato di confusione tale che il risultato è stato quello di una caduta economica inarrestabile, con il fenomeno dell’abbandono sempre crescente delle campagne, la diminuzione dei posti di lavoro (nonostante i notevoli insediamenti industriali), il fenomeno di una emigrazione crescente delle giovani forze di lavoro, lo stentato e inadeguato accrescimento dei redditi (con un divario sempre più marcato in confronto con quelli delle regioni continentali), la creazione nell'isola di zone in forte espansione economica contro altre zone in via di costante degradazione e impoverimento, l'acuirsi dei conflitti sociali, il peso sempre più forte del neo-capitalismo colonialista.
Una crisi questa che, soltanto a guardare le statistiche e i programmi del governo italiano, non potrà essere arginata, anche perché il potere del governo locale è del tutto limitato e condizionato allo strapotere dei partiti politici italiani e degli organi della burocrazia centrale, tuttora operanti con pieni poteri e nell'ambito della corruzione più disgustosa.
Del popolo sardo, ridotto alle condizioni di provincia coloniale lontana dai centri decisionali, quasi non vi è traccia. Il disegno di snazionalizzazione del popolo sardo, traguardo dei primi oppressori piemontesi, si svolge secondo una logica assoluta, senza che il popolo sardo possa difendersi né reagire: soprattutto perché il dettato costituzionale nei riguardi dell'autonomia speciale e delle caratteristiche geografiche, storiche, etniche, linguistiche, sociali del popolo sardo non è stato mai rispettato. Se il popolo sardo, nell'ebbrezza della conquistata autonomia, dopo il disastroso conflitto mondiale, aveva creduto e sperato nella Carta Costituzionale e nello Statuto di Autonomia Speciale, si è presto disilluso.
Lo Statuto Speciale e la Comunità etnica Sarda
Le condizioni di asservimento coloniale instaurate dai piemontesi agli albori del 18° Secolo si sono fatte sempre più dure. L’azione dello Stato italiano è stata quella di un sottile e ben dosato genocidio.
Come già durante la dittatura fascista in Sardegna l’azione disgregatrice dell'unità del popolo sardo era stata portata a limiti intollerabili (erano state proibite le manifestazioni folkloristiche e i canti popolari in lingua sarda), con l'avvento della Repubblica l'azione snazionalizzatrice ha superato questi limiti. Infatti nella cornice formale di una cosiddetta «libertà di opinione e di espressione» si sono inaspriti i divieti (come quello del «bilinguismo» negli uffici pubblici e nelle scuole) e si è instaurata una persecuzione velata ma tenace contro qualunque manifestazione pubblica o privata che tendesse in qualche modo a rendere evidente la personalità distinta del popolo sardo nei confronti di quello italiano. Ma soprattutto non si è applicato l'art. 6 della Costituzione nei riguardi delle minoranze linguistiche.
Indubbiamente la lingua non è tutto, ma è uno degli elementi fondamentali che consentono il cementamento e la socialità di una comunità etnica, quale quella sarda. Orbene il popolo saldo, che conta un milione e mezzo di persone, parla per circa l'ottantacinque per cento la lingua sarda. Una lingua ben differente da quella italiana, lingua che non è riconosciuta dallo Stato italiano, ciò nonostante l'art. 6 della Costituzione, e che è proibito parlare e insegnare nelle scuole pubbliche, alla radio, nei seminari cattolici. Sulla tradizione piemontese lo Stato italiano vuole distruggere questo elemento di coesione e di comprensione tra i sardi.
E come per la lingua l'azione sottile dello Stato italiano si estende agli antichi istituti giuridici, alle tradizioni, all'organizzazione sociale.
I valori fondamentali dell'etnia
La concessione di un'autonomia speciale per la Sardegna, consacrata dalla Carta Costituzionale, significava nella sostanza un tardivo riconoscimento da parte del rinnovato Stato italiano, della comunità etnica sarda e dei suoi diritti a risorgere pur nell'ambito della Repubblica. Diremmo di più: si trattava di uno «status» prefederale che, con uno statuto idoneo, avrebbe consentito al popolo sardo non soltanto la conquista dell'autogoverno, ma la possibilità di darsi una struttura giuridica, economica e sociale nuova, conseguendo rapidamente gli obiettivi di rinascita mediante una pianificazione moderna e veramente autonoma. Al contrario lo statuto concesso alla Sardegna si è rivelato uno strumento di semplice «decentramento» amministrativo, non solo, ma tutta l'impalcatura burocratica e di potere dello Stato è stata mantenuta nell'isola, rendendo così immane lo sforzo del parlamento e del governo regionale per un riscatto effettivo e una evoluzione positiva.
I valori fondamentali che giustificano la lotta per l'indipendenza sono stati compressi e combattuti duramente. Innanzi tutto, ripetiamo, l'uso e l’insegnamento della lingua nelle scuole pubbliche, la programmazione economica, la pianificazione, il controllo dei trasporti, una politica finanziaria, creditizia e fiscale, l'espansione economica, la legislazione sul lavoro, la riforma agraria, l'industrializzazione.
E' proprio invece sui valori etnici che, opportunamente posti in luce, si sarebbe potuto e dovuto trovare la strada per il risorgimento del popolo sardo e per il suo adeguamento alla realtà europea. Invece quella italiana è stata una politica negativa, basata sul principio che «se non esiste un popolo non esistono problemi», tendente a emarginare sempre più la nostra isola e la nostra gente dal processo di sviluppo, a fare della Sardegna un'area di servizio, a mantenere in eterno il regime coloniale.
Valori etnici e 1oro funzione positiva
Noi crediamo nei valori fondamentali dell'etnia e nella loro funzione positiva nel processo di evoluzione. Vi sono valori come quelli morali, religiosi e sociali, come le tradizioni e le consuetudini che non possono essere cancellati con una semplice norma legislativa. Il passaggio da uno stato di arretratezza secolare, le cui cause sono complesse, non può avvenire verso condizioni moderne e socialmente accettabili se non rivalutando quei valori sostanziali propri della comunità, allo scopo di suscitare forze da tempo sopite nei lembi della tradizione, troppo spesso considerate anacronistiche.
Tutto ciò costituisce un substrato culturale che è lo strumento più valido per intraprendere la lotta per il riscatto. Certo una nazione, come quella italiana, che ha una storia differente dalla nostra, una cultura differente, una economia e una struttura sociale diversissime, non può pretendere, in nome di un «nazionalismo unitario e accentratore», di cancellare il nostro bagaglio storico e culturale per sostituirlo, con i moderni mezzi di penetrazione e colonizzazione, con quella che è un'altra «civiltà».
E' questo un principio tipico di dominazione; è la sorte che i vincitori riservano ai vinti. Ma tutto ciò è ben contrario ai principi e ai diritti umani, a questa definizione di libertà che presiede alle stesse costituzioni di stati moderni. E' un principio in contrasto cori la stessa Carta delle Nazioni Unite e con il «diritto di autodeterminazione».
Noi possiamo risorgere soltanto se alla nostra cultura, alle nostre caratteristiche etniche, alla nostra posizione geografica, alla nostra tradizione e - soprattutto - alla nostra ansia di rinnovamento e di redenzione sociale, si lascia lo spazio necessario. Tale spazio, come abbiamo dimostrato, non può esistere sino a che la Sardegna sarà sottoposta alla dominazione coloniale. Tale spazio potremo averlo soltanto con la conquista dell'indipendenza, quando saremo veramente padroni e arbitri di quei valori fondamentali che caratterizzano la nostra etnia e che, se rivalutati in una atmosfera nuova, potranno consentire al popolo sardo quel balzo in avanti sulla strada del progresso in un consorzio di eguali.
La nostra lotta è comune a quella di altri popoli oppressi
La nostra lotta però dovrà svolgersi nel quadro più vasto della lotta che combattono gli altri popoli oppressi per la conquista della loro libertà. Se dovessimo agire da soli saremmo destinati al fallimento più clamoroso. Il nostro principio, quello di una «Europa delle Etnie», supera il vecchio concetto di una «Europa degli Stati». E' questo l'unico modo che ci consente di superare il punto morto degli egoismi nazionalistici, nel pieno rispetto dei principi dei diritti umani e dell'autodeterminazione.
Il popolo sardo, come quello basco e quello bretone, fonda la sua sopravvivenza sulle tradizioni ancestrali, sul suo profondo spirito religioso, sulla sua lingua, su i legami tribali, sulla struttura sociale comunitaria. Tanti secoli di dominazione e di politica snazionalizzatrice non hanno distrutto né intaccato questa sostanziale unità. E facendo appello a questi valori tradizionali sarà possibile restituire ai sardi quella fiducia in sé stessi, quella coscienza comunitaria, necessarie per una lotta che abbia come obiettivo l'indipendenza e la redenzione sociale.
Saremmo ciechi se trascurassimo questa condizione essenziale per la lotta. Quei valori etnici sono serviti in passato agli irlandesi, ai maltesi, agli algerini, ai tunisini per la conquista della loro indipendenza politica ed economica. Quegli stessi valori consentono oggi la lotta ai bretoni, ai baschi, ai catalani, ai gallesi, agli scozzesi, ai cattolici dell'Irlanda del Nord, ai Curdi, ai Biafrani, e a tutte le comunità e minoranze che non hanno conquistato intera la loro libertà.
L’Italia ha dimostrato la sua incapacità e la sua impotenza nel risolvere i nostri problemi. Troppe volte e per troppo tempo abbiamo concesso una dilazione allo Stato italiano perché facesse ammenda dei passati errori. Ma lo Stato italiano ha dimostrato e dimostra oggi di essere ferocemente colonialista e liberticida nei nostri riguardi.
Fare a meno dell'Italia diviene oggi per noi una necessità, in assoluto.
Non vi sono altre strade da percorrere.
Noi vogliamo conquistare l'indipendenza per integrarci, non per separarci, nel mondo moderno. E la scelta non può essere che nostra, autonoma, cosciente, decisiva.
Noi siamo nella stessa posizione di quei paesi del Terzo Mondo che, nelle loro articolazioni nazionali, hanno già compiuto i primi passi verso l'indipendenza.
Ma noi siamo rimasti indietro. Abbiamo dato credito allo Stato italiano. Abbiamo perso venti e più anni nutrendoci di speranze e promesse mai mantenute.
Non vi sono altre vie né altre speranze
Non vi sono per noi altri tipi di libertà se non quella che otterremo con la conquista della piena indipendenza.
La strada è aperta, ma è dura e cosparsa di ostacoli. Noi siamo certi che la «Questione Sarda» che si trascina senza speranza da centoventi anni, da quando cioè il Piemonte con un colpo di mano procedette all'annessione della nostra isola, potrà avere una soluzione soddisfacente soltanto quando avremo il nostro «Stato».
E su questa strada ci incamminiamo con la certezza che i sardi acquisiranno quella coscienza che tanti secoli di dominazioni, di oppressione e di persecuzione hanno in parte sopito.
E così costruiremo la nostra storia, la nostra economia, la nostra redenzione sociale: in un mondo di popoli liberi e uguali.
San Leonardo de Siete Fuentes, 22 giugno 1969