Oliver Burkeman

È sempre divertente prendere in giro i seguaci del “nuovo ateismo” dicendo che hanno trasformato l’ateismo stesso in religione (ti ho beccato, Richard Dawkins!). Ma dopo aver letto il singolare nuovo libro di David Zahl, Seculosity, mi sono reso conto che il motivo per cui è ingiusto farlo non è perché è non sia vero. Nessuno va più in chiesa, ma resta l’impulso religioso, il bisogno di quella che Zahl chiama enoughness (adeguatezza), o come si diceva un tempo “rettitudine”: la sensazione che le nostre scelte di vita sono approvate. È solo che adesso questo senso di adeguatezza andiamo a cercarlo altrove:, nel lavoro, nella politica, nella tecnologia, nell’amore.


Dato che è il direttore del sito web cristiano Mockingbird, c’era da aspettarsi che Zahl si lamentasse di quei banchi di chiesa vuoti. Ma, secondo lui, la vera crisi della religione è dovuta al fatto che “non siamo quasi mai non in chiesa”. Il nostro problema è che non cerchiamo semplicemente di lavorare bene, costruire una buona famiglia o far eleggere un buon politico: attraverso queste cose, sotto sotto, è sempre la salvezza che stiamo cercando.

Alla base di questa religiosità laica, che lui chiama “seculosità”, c’è l’idea che siamo definiti da quello che facciamo. Ne consegue che se vogliamo essere adeguati dobbiamo raggiungere un qualche tipo di traguardo, e il libro di Zahl è un affascinante elenco dei modi in cui cerchiamo di farlo. Lavoriamo fino a tardi non solo per guadagnare più soldi, ma per giustificare la nostra esistenza. Leggiamo libri per neogenitori alla ricerca del modo “giusto” per crescere i figli, come se potessimo redimerci allevando l’adulto perfetto. Attribuiamo valore esistenziale al mangiare in modo corretto (o, per usare un termine decisamente più moralistico, “pulito”).

E combattiamo le battaglie politiche , o le guerre culturali, con uno zelo palesemente religioso.

Non sono il primo, e neanche il millesimo, a osservare che il trumpismo, il corbynismo, il brexitismo, e in parte anche il movimento a favore della giustizia sociale, portano tutti il marchio della religione, sono “sette”, per dirla in termini più brutali. La sfida che lancia il libro di Zahl è quella di farci chiedere se anche noi siamo così.

Il problema è che la “seculosità” non funziona. Non saremo mai adeguati. Possiamo cercare la salvezza in Dio, o smettere di cercarla, ma il tentativo di inventarci il nostro tipo di salvezza è destinato a fallire. Siamo imperfetti e finiti, quindi non possiamo raggiungere la perfezione lavorando, allevando i figli o amando. Se ci proviamo, finiremo solo per cercare di esercitare sempre più controllo sulla nostra vita, mentre i rapporti profondi, e tutte le altre esperienze significative, richiedono la rinuncia al controllo. Ah, e poi c’è il nostro amico capitalismo, che ci promette una realizzazione che poi rende sempre più irraggiungibile.

Come fa notare Zahl, le persone religiose tendono alla seculosità come tutte le altre. Ma alla base della religione “con la R maiuscola”, al suo meglio, c’è il perdono e quella che i cristiani chiamano grazia: la sensazione di adeguatezza ci viene concessa, non possiamo conquistarla, e non è necessario raggiungere nessun livello particolare di bravura o di virtù per averne diritto. Per quelli di noi che non sono religiosi, è difficile capire come comportarsi, perché di certo non possiamo imporci di essere credenti. Ma in fondo, se non abbiamo ancora trovato quello che stiamo cercando, forse un buon modo per cominciare è smettere di cercarlo nei posti sbagliati.