di Leo Valiani – In “Nuova Antologia”, fasc. 2134, aprile-giugno 1980, Le Monnier, Firenze, pp. 320-322.

Leo Valiani pronunciò questo discorso, riservato in esclusiva alla “Nuova Antologia”, il 25 aprile 1980, in piazza del Duomo a Milano, presente il presidente Pertini protagonista della vicenda gloriosa della Liberazione.

Nel prendere la parola qui a Milano, che fu la capitale politica della Resistenza, non posso non mandare un reverente e fraterno saluto al primo capo di governo dell’Italia Liberata, Ferruccio Parri. Egli fu, proprio a Milano, con Luigi Longo, al quale va pure il mio affettuoso saluto, con Sandro Pertini, che abbiamo l’onore di rivedere fra noi, e coi compianti Enrico Mattei, e generale Raffaele Cadorna, uno dei comandanti supremi della guerra partigiana e, anzi, forse il primo organizzatore delle bande che all’indomani del’8 settembre 1943 presero la via della montagna. “Italia Libera” si chiamavano quelle prime bande; poi vennero le denominazioni di “Garibaldi”, “Giustizia e Libertà”, “Matteotti”, “Brigate del popolo”.
“Italia Libera”. L’Italia è libera oggi, ma deve fare buon uso della sua libertà e non sono sicuro che lo faccia sempre. Non era libera l’Italia 56 anni fa quando Giacomo Matteotti e Giovanni Amendola sacrificarono la loro vita in una disperata lotta volta alla riconquista della libertà. La si era perduta facilmente, perché non la sia era presidiata. Si era permesso alla violenza squadristica del nascente fascismo di imperversare impunemente, di bastonare, di incendiare, saccheggiare, devastare, senza dover temere condanne penali. Dalle violenze squadristiche all’assassinio degli avversari politici il passo fu breve. Il disegno di terrorizzare la classe politica riuscì e il consenso popolare che i primi fascisti non avevano, l’acquistarono quando apparvero nella veste di potenziali vincitori. Non voglio stabilire delle analogie o delle dissomiglianze con la situazione odierna. Dirò soltanto che perlomeno noi vecchi che abbiamo vissuto il 1922 siamo vaccinati da ogni tentazione di venire a patti con la violenza eversiva. Si sarebbe dovuta schiacciarla allora e bisognerebbe schiacciarla con forza dell’esperienza, e con altra forza a nostra disposizione, qualora, sotto diversa bandiera (le stoffe ovviamente si lasciano tingere) la violenza eversiva preparasse di nuovo l’assalto alla democrazia. Il terrorismo ne costituisce la premessa, come lo squadrismo allora. Urge impedire, a qualunque costo, che possa costituire un movimento politico aperto, disonorando la gloriosa rossa bandiera del movimento operaio e trascinandolo nel baratro. Le forze dell’ordine difendono con spirito di sacrificio lo Stato repubblicano. Non bisogna lascarle sole. Esse hanno diritto alla nostra riconoscenza e alla nostra solidarietà.
Ma torniamo all’antifascismo, che fu una delle sorgenti della Resistenza. Per 20 anni una piccola minoranza sfidò il Tribunale speciale, composta da giudici che vestivano la camicia nera della milizia fascista. Ci si batté, come si poteva, in circostanze di estrema difficoltà, in Italia e anche all’estero, così nella guerra di Spagna che oppose, su scala internazionale, franchisti, fascisti, nazisti, filofascisti e antifascisti e antinazisti.
L’insurrezione, già sostenuta dal popolo di Firenze con l’attiva presenza di dirigenti come Pertini, Ragghianti ed Enzo Enriques Agnoletti, presidente della FIAP che io rappresento qui, ebbe inizio dal 23 al 24 aprile 1945 a Genova. Diventò nazionale, vale a dire si diffuse per tutta l’Italia settentrionale, il 25 aprile ’45 a Milano. La dirigevano il CLNAI e il suo comitato insurrezionale, composto, quest’ultimo, da Pertini, dal compianto Emilio Sereni e da me, con la stretta cooperazione di Luigi Longo e, naturalmente, di altri compagni di battaglie. Pertini, Sereni e io venivamo dalle carceri del Tribunale speciale. Longo era stato uno degli organizzatori del volontariato antifascista in Spagna. Ci aveva portato alla testa dell’insurrezione la dura selezione della ventennale lotta antifascista. Fummo noi a prendere le decisioni supreme che decapitarono anche fisicamente il fascismo, con la fucilazione di Mussolini e dei suoi gerarchi. Non era vendetta, ma taglio netto col passato. Poi ci fu il perdono dell’amnistia, forse prematura, ma concessa con intenti di pacificazione.
Da soli, non avremmo potuto fare nulla. Ci volevano, anzitutto, i giovani, poiché sono sempre essi i più arditi nei combattimenti e la speranza dell’avvenire. I giovani non mancarono. Sin dall’inizio della ribellione all’occupazione tedesca nazista dell’Italia e alla restaurazione, al loro servizio, del fascismo, i giovani accorsero numerosi nelle formazioni partigiane, di montagna e di città. Il 25 aprile Milano li vide prendere le armi e servirsene per la liberazione della patria, non per instaurare una nuova dittatura. Antifascisti vecchi e giovani suonava il titolo dell’articolo di fondo del numero dell’ “Italia Libera” che si stampò nella notte dal 25 al 26 aprile. Era una constatazione ed è ancora oggi una consegna.
Dirigenti politici e combattenti volontari: ma ci vogliono anche le grandi masse. Nessun movimento democratico è vitale senza le masse del popolo. Il 25 aprile ’45 ebbe vitalità perché le masse scesero in lizza, nelle fabbriche e nelle piazze. La repubblica vinse perché le masse votarono per essa il 2 giugno ’46. La democrazia repubblicana è vitale in Italia perché le masse lavoratrici la sostengono.
Erano indispensabili anche le forze armate regolari, simbolo dello Stato, della patria tutt’intiera, capaci di unire la nazione sotto il tricolore, capaci altresì di sostenere, con la loro preparazione specifica, battaglie in campo aperto. Le formazioni partigiane, costituitesi sulle montagne, dotate di armi strappate al nemico o lanciate dagli alleati, inglesi ed americani, scendevano dalle pianure. Dal Sud risalirono la penisola, combattendo, le unità del Corpo Italiano di Liberazione. Non posso dimenticare il valoroso apporto della marina e dell’aviazione. A Milano l’azione risolutiva fu condotta, valorosamente, dalle Guardie di Finanza, al comando del colonnello – poi generale – Alfredo Malgeri. Grazie a loro si vinse più rapidamente dello sperato, con minor numero di vittime, senza saccheggi.
Ed ecco le mie conclusioni. Dirigenti politici antifascisti, giovani pronti al volontariato, masse popolari e loro organizzazioni sindacali, forze armate regolari – la democrazia italiana non manca di nessuno di questi elementi, anche se dovrebbe ascoltare di più i primi, valorizzare di più quest’ultime, anche se ha bisogno della loro coesione, della loro risolutezza, che non sempre sono così chiare e ferme come la grave situazione internazionale ed interna esigerebbe che fossero.
Quel che manca è la comprensione dell’urgenza di un risanamento morale, di una tensione morale quale quella che ci animava durante la Resistenza, fino ed incluso il 25 aprile. La corruttela e il lassismo disgregano gli Stati, i sistemi politici. La severità li porta alla salvezza. Questo è il monito dei vecchi antifascisti. La miglior tradizione delle repubbliche è la severa virtù. La Repubblica italiana ne ha bisogno più che mai.

Leo Valiani