“La Sinistra” per riformare la UE, i comunisti contro UE e capitalismo

di Fabrizio Poggi

Classi sociali; antagonismi di classe; sfruttamento del lavoro salariato; dittatura della borghesia. Lotta di classe; liberazione del lavoro dal giogo del capitale; rivoluzione; eliminazione dei rapporti sociali capitalistici; dittatura del proletariato. Socialismo; comunismo.

Inutile cercare simili concetti nell'interminabile elenco di buoni propositi con cui il PRC chiama a votare per “La Sinistra” alle elezioni europee del 26 maggio. Inutile cercarveli, perché non ci sono nei programmi del PRC, con o senza elezioni europee.

La questione del voto del 26 maggio è quella che, al momento, incombe sulle scelte sia dei comunisti, sia della sinistra in generale. La questione dei punti presentati dal PRC per “La Sinistra”, in vista di quel voto, è quella che lega il momento contingente dell'atteggiamento dei comunisti nei confronti della “riformabilità” o meno della Unione Europea - che si esprime, tra l'altro, anche nella scelta di partecipare o meno al voto del 26 maggio e, se vi si partecipa, in che forma, con quale visione della UE stessa e con quali obiettivi – a quello più ampio del giudizio su tale “cartello” imperialista di potenze dal peso tra loro disomogeneo e, soprattutto, alla visione strategica del passaggio rivoluzionario dai rapporti sociali antagonistici del capitalismo al socialismo.

Lasciando per un momento in sospeso la questione della partecipazione o meno al voto per il Parlamento di un'istituzione per sua natura espressione del capitale monopolistico - l’Unione Europea, come detto nell'appello comune “per l'astensione attiva” lanciato da alcune organizzazioni comuniste, “non è riformabile a favore dei lavoratori e dei popoli, né si può “emendare”, perché è diretta dal grande capitale e dai centri di potere della finanza” - i punti (ben undici) presentati da “La Sinistra” annunciano il proposito di una “rifondazione democratica dell'Europa”, che “ponga alla sua base i diritti sociali, civili, di libertà, delle persone”, per sviluppare “tutte le forme di espressione e di democrazia diretta dei cittadini su scala europea”.

In base a quei punti, sembra che i mali che affliggono “l'Europa” - non la classe operaia, non i lavoratori, ma il “popolo” europeo – siano dovuti al fatto che essa, Unione Europea, è basata su “l’impianto neoliberista dei trattati”. Dunque, la UE dovrebbe esser “riformata” perché fondata sul neoliberismo: non sul capitalismo; non sul lavoro salariato sottomesso al capitale. Parlando di neoliberismo e non di capitalismo, si presuppone che sia dunque sufficiente “riformare” la UE nel senso di un “capitalismo sano”, scevro dagli eccessi del neoliberismo, così che cada anche ogni necessità di lottare per l'abbattimento dei rapporti sociali capitalistici, una volta riportati quegli stessi rapporti nell'alveo di un armonico corso volto ad accrescere quella “ricchezza nazionale” che, scriveva Friedrich Engels, “finché continua a sussistere la proprietà privata, è priva di senso” (Lineamenti di una critica dell'economia politica).

Ci sarebbe dunque il “neoliberismo” alla base delle condizioni di lavoro e di vita della classe operaia, che sono tremende in Italia, in Grecia e in genere alla periferia della UE, ma che non sono meno dolorose anche al centro dell'impero. E da dove nascono tali condizioni, se non dagli stessi rapporti capitalistici, sui quali si eleva oggi il neoliberismo? L'aumento della disoccupazione, della precarietà, dello sfruttamento, dell’impoverimento generale, sono acuiti nel nostro paese, a causa del ruolo marginale assegnatogli per rispondere alle esigenze dei gruppi monopolistici “capi-cordata”; sono inaspriti, a causa della crisi che da oltre dieci anni non conosce soluzione di continuità; sono accentuati dalle scelte politiche funzionali al “mercato del lavoro”; ma sono, di per sé, nella loro essenza, “compagni di viaggio” inseparabili del capitalismo, cui la UE ha dato una “legittimazione” continentale.

L'operaio, scriveva Engels, “sia che si attui il sistema protezionista o quello liberoscambista o un sistema misto di entrambi, non riceve un salario superiore a quanto basta precisamente per il suo più stretto sostentamento. In un modo o nell'altro il lavoratore riceve il compenso che gli occorre per continuare a funzionare come macchina da lavoro” (Dazio protettivo o sistema di libero scambio). Karl Marx affermava che “I costi di produzione del semplice lavoro ammontano quindi ai costi di esistenza e di riproduzione dell'operaio. Il prezzo di questi costi di esistenza e di riproduzione costituisce il salario. Il salario così determinato si chiama salario minimo. Questo salario minimo, come, in generale, la determinazione del prezzo delle merci secondo i costi di produzione, vale non per il singolo individuo, ma per la specie... Singoli operai, milioni di operai non ricevono abbastanza per vivere e riprodursi; ma il salario dell'intera classe operaia, entro i limiti delle sue oscillazioni, è uguale a questo minimo”(Lavoro salariato e capitale). E, per definire più precisamente l'antagonismo di interessi tra lavoro e capitale: “Quando il lavoro salariato produce la ricchezza estranea che lo domina, il potere che gli è nemico, il capitale, i mezzi di occupazione, cioè i mezzi di sussistenza, rifluiscono nuovamente verso di lui, a condizione che esso si trasformi di nuovo in una parte del capitale, in una leva che imprime di nuovo al capitale un accelerato movimento di sviluppo. Dire che gli interessi del capitale e gli interessi del lavoro sono gli stessi, significa soltanto che il capitale e il lavoro salariato sono due termini di uno stesso rapporto. L'uno condiziona l'altro, allo stesso modo che si condizionano a vicenda lo strozzino e il dissipatore” (Idem).

Che l'impianto di base su cui si erge la sovrastruttura “europeista” sia quello dei rapporti antagonistici tra capitale e lavoro non sembra interessare “La Sinistra”: le pecche dell'Unione Europea sembrano riguardare tutti i cittadini che la compongono, indipendentemente dalla classe sociale di cui fanno parte; dunque, si sorvola tranquillamente sul fatto che i “rapporti di produzione entro i quali si muove la borghesia non hanno un carattere unico, semplice, bensì un carattere duplice, che negli stessi rapporti in cui si produce la ricchezza, si produce altresì la miseria” (Marx, Miseria della filosofia).

Nella scaletta dei “vanno riscritti i trattati”, “cancellando i principi fondativi del neoliberismo”, “disobbedienza ai trattati”, “imporre una svolta”, ecc., si auspica che obiettivo della BCE (!) divenga “la piena e buona occupazione”, contro i “parametri folli” del Fiscal Compact che, “per quel che riguarda l’Italia, considerano “naturali” gli attuali livelli di disoccupazione, oltre il 10%”. Si tace però sul fatto della disoccupazione quale elemento essenziale dei rapporti sociali capitalistici. “La grande industria ha costante bisogno di un esercito di riserva di operai disoccupati per i periodi di sovrapproduzione. Lo scopo principale del borghese di fronte all'operaio è anzi, in generale, di avere la merce lavoro il più possibile a buon mercato, ciò che è possibile soltanto se l'offerta di questa merce è il più possibile grande in rapporto alla domanda, cioè se si ha il massimo della sovrappopolazione” (Marx, Salario).

Insieme ai ripetuti “vanno avviate”, “va promossa”, “bisogna bloccare”, si intima “STOP paradisi fiscali, STOP finanza tossica” e “STOP TTIP”; ma non si dice chi e come debba organizzarsi per raggiungere tali obiettivi e contro chi ci si debba battere: sembra sufficiente affermare che le “politiche commerciali europee devono all’opposto essere subordinate al rispetto dei diritti del lavoro e alla salvaguardia della natura, attraverso la definizione di standard retributivi, dei diritti, ambientali”. Ma, diceva ancora Marx, “se le associazioni facessero soltanto ciò che appare, se cioè dovessero soltanto determinare il salario, il rapporto tra lavoro e capitale sarebbe eterno e queste coalizioni fallirebbero di fronte alla necessità delle cose”, mentre invece devono essere “lo strumento che unisce la classe operaia, che prepara l'abbattimento di tutta la vecchia società con i suoi contrasti di classe” (Salario).

“Dobbiamo impedire che passi il disegno di un’Europa a due velocità, sia di fatto che, peggio ancora, istituzionalizzato”: ma è proprio questo l'impianto della UE, fatto di un centro che comanda le scelte industriali e finanziarie funzionali alla centralizzazione dei capitali, e una periferia cui si sottraggono le ultime risorse produttive. E per quanto si auspichi l'introduzione di “sistemi fiscali secondo criteri di progressività e introducendo una patrimoniale che si applichi a tutte le forme di ricchezza mobiliari ed immobiliari” e non manchi nemmeno la speranza di “Un Green New Deal per la natura, il clima, la transizione ecologica dell’economia”, proponendo la “riconversione ecologica con investimenti nelle filiere industriali”, si tace sul fatto che queste sono conseguenze del sistema capitalistico stesso e che proprio il suo sviluppo e la necessità per il capitale europeo di imporsi quale polo imperialista a livello mondiale, ha condotto alla nascita di questa Unione Europea dei monopoli e delle banche.

“La Sinistra” non parla della liberazione del lavoro salariato dal giogo del capitale; in compenso, è “Per un’Europa femminista. Per l’autodeterminazione e la libertà delle persone; per la rottura delle asimmetrie tra uomini e donne nel lavoro domestico; per garantire l’uguale rappresentanza delle donne nella politica e nello spazio pubblico; l’affermazione dei diritti delle persone LGBTQI: l’introduzione del matrimonio egualitario”. C'è stato un tempo in cui i comunisti intendevano che “Tutta la libertà politica in generale, sul terreno dei rapporti di produzione moderni, cioè capitalistici, è libertà borghese. La rivendicazione della libertà esprime prima di tutto gli interessi della borghesia” (Lenin, Due tattiche della social-democrazia). C'è stato un tempo, appena tre anni fa, in cui la femminista americana Nancy Fraser affermava che molte frasi a effetto sul femminismo sono del tutto confacenti e funzionali all'ideologia borghese, a quello che lei definiva il “neoliberismo progressista”, interpretazioni cioè liberal-individualiste del “progresso”. Da comunisti, invece di adagiarsi su “obiettivi” confacenti all'ideologia dominante, si dovrebbe dire che con l'eliminazione della divisione del lavoro si elimina anche la sottomissione degli individui ai rapporti di classe e si liberano le relazioni personali e dunque si pongono su tutt'altro piano anche i rapporti tra uomo e donna. “Una classe oppressa è la condizione vitale di ogni società fondata sull'antagonismo delle classi. L'affrancamento della classe oppressa implica dunque di necessità la creazione di una società nuova” (Marx, Miseria della filosofia).

In sostanza, nell'elenco di magnanimi proponimenti per “riformare l'Europa”, mancando un'analisi degli antagonismi sociali della società capitalista su cui è costruita la UE, manca l'essenziale per i comunisti: l'obiettivo del socialismo. Quando, nel 1907, Lenin esortava a prestare “particolare attenzione alle leggi che riguardano le necessità più urgenti del popolo”, alle rivendicazioni su “libertà e uguaglianza illimitate, giornata lavorativa di otto ore, agevolazione delle condizioni di lavoro per gli operai”, sottolineava al tempo stesso l'impegno a “indicare la grande meta che si propone di raggiungere il proletariato di tutti i paesi, il socialismo, la distruzione completa della schiavitù salariata”. Nel programma de “La Sinistra”, pur così attenta a numerosi e doverosi aspetti rivendicativi - “diritti delle e dei migranti”, per “una Europa dell’accoglienza, antirazzista e inclusiva”; per “garantire e potenziare la scuola pubblica” e “l’accesso libero e gratuito al sistema universitario”; per “Proteggere dalle privatizzazioni e dal degrado i beni pubblici di valore culturale”; “32 ore a parità di salario, salario minimo europeo, reddito di base, welfare” e “rimettere in discussione le controriforme pensionistiche”; ”introduzione di una “scala mobile” europea”; il “contratto di lavoro europeo deve essere quello a tempo indeterminato” - questi non vengono legati a un obiettivo strategico di classe. Accade al programma de “La Sinistra” più o meno quanto denunciato sempre da Lenin nel 1911, allorché vedeva nella “Associazione per la difesa degli interessi della classe operaia”, fondata dallo storico ed ex bolscevico Nikolaj Rožkov, nient'altro che una “associazione per la difesa liberale degli interessi della classe operaia intesi in senso liberale”; perché, affermava Lenin nel luglio 1916, “ogni rivendicazione democratica è subordinata agli interessi generali della lotta di classe del proletariato”. E, cinque mesi dopo, avvertiva che “Né singole rivendicazioni del programma minimo (“alcune sue rivendicazioni”) né la somma complessiva delle rivendicazioni del programma minimo danno mai “il passaggio a un sistema sociale diverso in linea di principio”... il programma minimo è un programma compatibile in linea di principio con il capitalismo, un programma che non travalica i confini del capitalismo”.

Il coronamento delle pie intenzioni de “La Sinistra” è sanzionato dall'undicesimo e ultimo paragrafo, che invoca “ Un’Europa in pace e fattore di pace nel mondo”. Di nuovo “ Va contrastata la tendenza” (chi deve farlo? quale classe deve contrastarla?) “alla militarizzazione, nell’ottica dell’Europa “fortezza” che porta ai progetti di nuovi armamenti, di portaerei, di un nuovo esercito europeo”: come se la tendenza (che non è già più semplicemente una “tendenza”, ma un percorso preciso e da tempo intrapreso: ricordiamo soltanto le bombe sulla Jugoslavia) alla militarizzazione e la messa in conto di conflitti non sia all'ordine del giorno del polo imperialista europeo e la guerra non sia un elemento che accompagna, sin dal suo sorgere, l'imperialismo e le rivalità tra potenze e poli imperialisti. Ed è così che “Coerentemente chiediamo il superamento della NATO, che appartiene, non con merito, ad un’altra epoca storica” e l'Unione Europea “ deve esigere il disarmo nucleare, una drastica riduzione dell’armamento convenzionale”. Ora, nella lingua italiana, il verbo superare significa, tra l'altro, “andare oltre”: cioè, si chiede di andare oltre la NATO; non si rivendica una battaglia per la liquidazione della NATO in quanto alleanza di guerra; non si esige l'uscita dalla NATO; non si chiamano i lavoratori e le forze democratiche alla lotta per buttare a mare le basi militari USA e NATO in Italia e nei Paesi europei. Si chiede di “superare” la NATO: come se la PESCO (cooperazione strutturata permanente nel settore della politica di sicurezza e di difesa) non vada già “oltre la NATO”. E, soprattutto, non si parla del ruolo che il complesso militare-industriale mondiale ha nel business del riarmo e del commercio delle armi. Basterebbe anche solo accennare alla vicenda del caccia statunitense F-35, un aereo che gli stessi esperti USA definiscono superato prima ancora di esser completato e di cui tuttavia viene imposto l'acquisto ai paesi europei membri della NATO, suscitando in qualche caso le reazioni dei concorrenti europei, produttori ad esempio del Dassault Rafale o del Eurofighter. Se su alcuni fronti si mugugna per lo strapotere di alcune capitali UE rispetto ad altre, sul fronte degli armamenti c'è pieno accordo a far sì che le industrie militari nazionali collaborino sempre più strettamente alla militarizzazione della UE, che contrasti la supremazia USA e consenta a Bruxelles di intervenire nel mondo, in maniera indipendente da Washington.

“La Ue deve agire da subito per la pace nel Mediterraneo”, si dice, tacendo sul ruolo che vari Paesi della UE hanno avuto nelle guerre in Europa e in Medio Oriente, sul ruolo nel golpe in Ucraina e sul sostegno che la UE continua a dare ai nazigolpisti di Kiev. “La Ue deve [condannare] ogni violenza e ogni organizzazione neofascista e neonazista”, si dice, tacendo sul ruolo antioperaio e antipopolare affidato all'aperto fascismo ogni qualvolta il capitale non sia più in grado di tenere soggiogato il lavoro salariato coi normali strumenti della democrazia borghese e tacendo, come affermava Georgij Dimitrov al VII Congresso dell'IC, il “significato che hanno per l'instaurazione della dittatura fascista le misure reazionarie della borghesia che si vanno oggi rafforzando nei paesi di democrazia borghese e che sopprimono le libertà democratiche dei lavoratori”. Misure già in atto e sempre più draconiane in Italia e altri paesi della UE.

Ma basta.

Al pari di un rosario di buone intenzioni, in tutti i grani dei “si deve esigere”, “vogliamo”, “è necessario”, manca completamente la forza sociale chiamata a esser protagonista del cambiamento e, soprattutto, è assente il soggetto politico interprete dell'esigenza storica del rivolgimento sociale. E si capisce che sia così, in un programma in cui, come denunciava Lenin contro gli “amici del popolo”, non c'è “proprio niente di socialista nella richiesta di eliminare quei mali”, se si fanno derivare, come fa “La Sinistra”, dai “principi fondativi del neoliberismo che li ispirano, quali la competitività, la libera circolazione dei capitali senza alcuna regolazione della finanza speculativa”, invece che partire dal fondamento, cioè dai rapporti sociali antagonistici, che non sono prerogativa di una UE in cui c'è “libertà assoluta di movimento dei capitali, la finanza speculativa non ha nessuno controllo”, ma stanno alla base del sistema capitalista stesso. In questo modo, gli estensori del “programma”, agiscono proprio come quegli “amici del popolo”: parlano di quei mali del neoliberismo, ma, tacendo della espropriazione dei mezzi di produzione, del loro accaparramento in mani private, sorvolando sullo sfruttamento del lavoro salariato, anche l'eliminazione di quei mali “non tocca il giogo del capitale sul lavoro” (Lenin). Per tornare a Marx, certa sinistra e “La Sinistra” si comportano alla maniera di quei “filantropi [che] vogliono insomma conservare le categorie che esprimono i rapporti borghesi, senza l'antagonismo che li costituisce” (Miseria della filosofia).

In tutta quella disamina, non un accenno agli antagonismi di classe; non una parola sull'asservimento del lavoro salariato, che è “inevitabile proprio come conseguenza del carattere capitalistico dei rapporti di produzione”; in sostanza, se gli “amici del popolo”, si riducevano al “piagnisteo sul tema che c'è lotta e sfruttamento, ma “potrebbe” anche non esserci, se... se non ci fossero sfruttatori” (Lenin), ai vertici del PRC si parla di sfruttamento solamente per denunciare che “il lavoro sottopagato e senza diritti non è lavoro ma sfruttamento”, ma ci si guarda dal dire che il lavoro salariato è sempre sfruttamento, in quanto appropriazione privata del frutto del lavoro altrui. Si dice giustamente che il lavoro sottopagato, la precarietà, le forme contrattuali ricattatorie si accentuano nei periodi di crisi; ma non si dice che le crisi non finiranno finché ci sarà il capitalismo, che il capitalismo non sarebbe capitalismo se il salario con cui si paga la forza lavoro fosse uguale all'intero prodotto del lavoro, ecc. Come i vecchi “amici del popolo”, gli estensori del programma si guardano dal parlare “dell'eliminazione dell'economia mercantile: evidentemente, i loro stessi ideali non possono in alcun modo uscire dal quadro di questo sistema sociale” (Lenin). Ma, soprattutto, ciò che è completamente assente, è l'impegno a definire e organizzare il solo soggetto che, invertendo i rapporti di forza nella società, possa contrastare e rigettare le scelte neoliberiste e la schiavitù salariale che ne è alla base: la classe operaia e i lavoratori, organizzati in un partito comunista. Nel programma de “La Sinistra”, il tutto è sostituito dalle cristiane genuflessioni del “vanno avviate” e “va promossa”. Amen.

I comunisti non possono limitarsi a contestare le scelte dei partiti borghesi; devono contrapporre alla loro natura di classe borghese, la natura di classe degli interessi operai. Finché ci si limita a opporre una scelta “più democratica” a una liberale, senza indicare una visione generalmente anticapitalista, che contrapponga gli interessi generali dei lavoratori a quelli borghesi, l'identità di classe del partito rimane dietro le quinte. Finché si fanno propri gli obiettivi che l'ideologia dominante proclama quali traguardi fondamentali di ogni progresso democratico, si finisce per rimanere al rimorchio degli interessi di classe della borghesia. Un partito operaio non tralascia nessuno dei temi che fanno della democrazia borghese un'autentica democrazia e la difende da ogni attacco che tenti di mutilarla; ma il partito operaio va oltre quella democrazia, ne denuncia il carattere di classe e indica il passaggio a obiettivi superiori.

Nel caso del voto del 26 maggio, ventilare una “riformabilità” dell'Unione Europea, partecipando all'elezione di uno degli istituti con cui si tenta di fuorviare operai e lavoratori dalla lotta contro i fondamenti di classe della UE, i monopoli industriali e finanziari, invece di organizzare la lotta per la liquidazione della UE, significa appunto rimanere al rimorchio degli interessi del capitale.

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