Salvadori – La storia d’Italia e la crisi europea
di Giuliano Parodi – In “Mondoperaio”, maggio 2019, pp. 90-92
È stata la recente tornata europea che ha spinto Massimo L. Salvadori a stendere una storia d’Italia dall’Unità ad oggi[1], un manuale nel senso nobile del termine: chiaro, puntuale, documentato, sintetico e di immediata consultazione. È già dal sottotitolo che comprendiamo il taglio dell’opera, anche se nazione può essere termine impegnativo per gli italiani (volendo continuare a dar ragione a D’Azeglio): a meno che non sia termine adoperato in modo generico per Stato o altro ancora, così come il 2016 può essere semplicemente l’anno in cui l’autore decide di fermarsi o può venir inteso come l’anno della fine del governo Renzi e quindi di un riformismo sostenibile, una volta sconfitti entrambi dal referendum del 4 dicembre. L’attuale crisi europea trova conferma per Salvadori nella storia così diseguale e disomogenea dei singoli Stati che la compongono, ognuno gravato da vicende recenti e passate che da sole spiegano la difficoltà se non l’impossibilità di una compiuta federazione, e non, allo stato dell’arte, di una affaticata confederazione. E la visione continentale sembra riprodursi, per quanto ci riguarda, nel cammino tormentato dell’Italia, dalla sua formazione ad oggi: per cui buona cosa sarebbe applicarsi allo studio dei singoli Stati per comprendere la situazione dell’Europa di oggi.
Venendo quindi all’Italia, il vizio di origine, il peccato originale che ci accompagna va trovato nella discordia costitutiva del processo risorgimentale, testimoniato dalla totale estraneità fra il progetto mazziniano (che ha per primo parlato di unità nazionale) e la realizzazione cavouriana. Nascita, condizione, formazione, cultura separano irreparabilmente le due menti principali del nostro Risorgimento: praticamente coetanei (Mazzini più anziano di cinque anni), appartengono ugualmente a due mondi diversi. Salvadori però si limita a rilevare tale disgrazia e non intende trarne funeste conseguenze per la storia di un paese in cui, costantemente, l’indicazione di una “altra Italia” possibile ha segnato la storia delle generazioni: dal Risorgimento come “rivoluzione mancata” di gramsciana memoria, via via all’anarchismo insurrezionale, al socialismo massimalista, al frontismo filo-sovietico, al terrorismo; e poi, dismesse le ideologie, al leghismo, al berlusconismo e al grillismo, sempre alla ricerca di una palingenesi, sempre in una prospettiva anti-sistema e mai disposti a muoversi dentro uno spazio condiviso per realizzare, all’interno di una cornice comune, idee, proposte e obiettivi.
E non sono forse responsabilità di tale prospettiva le “tre guerre civili”, così definite dall’autore (la quarta rottura, riguardante il 1992-94, non arriva a tanto), che accompagnano l’unità dalla sua origine ai rovesciamenti traumatici di regime, vale a dire il brigantaggio e le crisi del 1919-22 e del 1943-45? Momenti drammatici tramite i quali Salvadori preferisce rilevare la costante sconfitta della sinistra, prima quella democratico-repubblicana, poi quella sociale. Una volta fatta, l’Italia sconta ulteriore fratture costitutive, quali la profonda disomogeneità nord/sud, la presenza di un partito-Stato che non genera la necessaria fusione Stato/nazione e l’opposizione Stato/Chiesa fino al fascismo, per poi subire l’ingerenza della seconda nella vita nazionale: si tratta di disfunzioni che continuano a pesare sul paese perché mai risolte e forse irrisolvibili.
D’altra parte la storia profondamente riversa fra un sud unificato in regno da dinastie straniere fin dai Normanni (seppure con due teste, Palermo e Napoli) e un nord repubblicano e localista separato dallo Stato della Chiesa – diversità puntualmente emersa nel referendum del 1946 – sarebbe stata difficilmente sanata da una repubblica democratica che chiamasse al voto un popolo di analfabeti. Forse ci sarebbe riuscita una monarchia illuminata – non certo quella sabauda – che avesse messo mano alle terre, come perfino in Russia in quegli stessi anni si tentò di fare, senza dover attendere il 1950 e la Repubblica per una riforma agraria. Quanto alla “integrazione delle masse” tentata ma non riuscita (in realtà una necessità forse solo intuita) da Giolitti, porta in sé il germe del tracolo del regime liberale, incapace di riformarsi. Salvadori al riguardo è netto: Giolitti, nonostante sia il più “britannico” dei nostri premier, fallisce nell’ottimizzazione del liberalismo: ma è un fatto che destra (Sonnino, Salandra) e sinistra liberale (Zanardelli, Giolitti) non riescano – o non vogliano – fondare due partiti, preferendo una gestione trasformistica che permetta purchessia di mantenersi al governo del paese.
Una presa d’atto delle importanti differenze interne, una volta superata la “crisi di fine secolo”, avrebbe permesso ai liberali di avviare quell’alternanza al governo che sola può perpetuare il sistema. Invece, fallite le cooptazioni prima dei socialisti e poi dei cattolici, i liberali giunsero sfiniti alla prova del nove del suffragio universale e del sistema proporzionale, che consegnò ai fascisti un paese ingovernabile.
Salvadori, invece, preferisce definire trasformisti Crispi e Mussolini, perché passati disinvoltamente dalla sinistra alla destra, tradendo gli ideali della sinistra democratica e di quella sociale: spostando così il trasformismo (evocato per primo da Depretis) da tecnica parlamentare per il mantenimento del potere a condizione per arrivarci. Ora, l’individuazione di Crispi come proto-nazionalista è da tempo sostenuta dalla critica storica e il suo autoritarismo di marca bismarckiana potrebbe risultare l’anticipazione tardo-ottocentesca della dittatura di massa fascista. Detto ciò, sarebbe forse il caso di riflettere sul giacobinismo di fondo della sinistra risorgimentale, non meno autoritaria della destra anche se promotrice del concorso popolare; in questo modo il crinale fondamentale si sposterebbe dalla classica distinzione destra-sinistra in quella più intrigante e problematica fra liberalismo e regimi illiberali che consegnerebbe l’Italia comunque a questi ultimi. Ennesima prova sarebbe il fatto, spesso dimenticato ma non da Salvadori, che non solo l’intervento del ’15 ma la stessa campagna di Libia fu decisa fuori dal Parlamento: dimostrando come lo Statuto albertino premiasse il potere esecutivo ben prima che lo ereditasse e lo gonfiasse il fascismo.
Viene invece giustamente sottolineato il carattere anti-partitico e anti-politico del Mussolini sansepolcrista: a riprova che il movimentismo finisce, questo sì regolarmente, ad interpretate una politica di destra, reazionaria più che conservatrice e quindi intimamente eversiva, tesa a rovesciare il progressismo debole delle forze al potere. Si può così sostenere che Berlusconi, Grillo e Salvini non avrebbero inventato nulla, ferme restando le profonde differenze fra i tre: mentre Renzi (spesso accusato dalle anime belle del Pd e non solo di far parte della cricca populista), diciamo noi, ne risulterebbe assolto, avendo tentato di interpretare un riformismo forte per salvare la barca dalla deriva attuale.
Salvadori abbraccia l’opposizione liberale/illiberale quando giudica i tre grandi regimi totalitari della prima metà del secolo scorso, abbandonando quindi la logica destra/sinistra che terrebbe separato il nazi-fascismo dello stalinismo comunista. Attento all’etimologia stessa del totalitarismo, l’autore promuove a pieni voti lo stalinismo, per via del collettivismo, boccia come peggiore il fascismo, a causa di monarchia e Chiesa, e pone il nazismo in posizione mediana fra i due. Il mantenimento più o meno negoziato col capitalismo (come si illuse di fare anche il fascismo con il corporativismo) non permetterebbe quindi il totalitarismo perfetto del comunismo o capitalismo di Stato, con buona pace di meriti e bisogni di marxiana memoria. Pervenuto al secondo dopoguerra, Salvadori affronta senza patemi o esitazioni la questione della Costituzione repubblicana: non si avventura in giudizi di merito ma ne individua con lucidità i vizi costitutivi. Al di là delle inevitabili e necessarie diverse prospettive politiche, una Costituzione deve nascere da un’esigenza comune e da un accordo di massima che ammetta l’esistenza delle suddette differenze: l’antifascismo non fu il collante sufficiente perché ciò potesse avvenire; pertanto si impose la scelta di attribuire alle singole istituzioni poteri limitati e deboli, non tanto e non solo per il timore di un possibile ritorno di una dittatura, quanto per il sospetto fra i partiti. La guerra fredda condizionò quindi costantemente il lavoro dei costituenti, impedendo il varo di una Costituzione liberale, che poggiasse necessariamente sulla completa legittimazione dell’anniversario politico. A fronte di un’analisi così fredda e spassionata non servono ulteriori osservazioni, mentre una lettura del genere, difficilmente confutabile, va consegnata fra le braccia di coloro che solo tre anni fa si sono erti a difesa di una carta necessariamente compromissoria, che va salvata sul piano storico ma decisamente rivista sul piano politico-istituzionale.
Fu quindi la situazione internazionale ad imporre il terzo sistema politico bloccato, dopo la dittatura fascista e il regime liberale che, non figliando due partiti, si presentava come insostituibile: il 18 aprile 1948 la Dc si presentava come il terzo partito-Stato, ancora una volta insostituibile al governo del paese e destinato a starne alla guida per mezzo secolo. Promosso il “riformismo dall’alto” del centrismo degasperiano (riforma agraria, Cassa per il Mezzogiorno e piano-casa), che pose le condizioni del successivo miracolo economico, detto della inevitabile ambiguità del Pci di Togliatti, che propose tatticamente la “democrazia progressiva” ma guardava ad un’eventuale alternativa di sistema nel caso la situazione internazionale lo consentisse, Salvadori si sofferma su Nenni. Superati gli anni del frontismo, rinunciato alla politica morandiana che intendeva sfidare il Pci sul suo stesso terreno politico-organizzativo, Nenni matura la svolta autonomistica, abbandona lo stalinismo (denunciato dallo stesso Pcus al suo XX Congresso del ’56), critica l’intervento di Kruscev a Budapest e si incontra con Saragat, nell’ipotesi di una riunificazione socialista (dopo la scissione di palazzo Barberini del ’47) per un programma di governo riformista.
Queste iniziative assumono valore programmatico al 32° Congresso del Psi, nel febbraio 1957, con la proposta di una “alternativa politica e di governo” che dava corpo e senso ad una partecipazione socialista alla formula di centro-sinistra avviata dalla Dc di Fanfani e Moro alla ricerca di una maggioranza parlamentare che garantisse governi stabili sulla quale già dalla II Legislatura non si poteva più contare. Spostando l’asse della politica italiana più a sinistra si poteva sperare nel progressivo prosciugamento del Pci a favore dei socialisti in vista di un’alternanza di governo fra la Dc e i partiti laico-socialisti: era il progetto che prendeva debolmente corpo un quarto di secolo dopo, sotto la guida di Craxi: forse l’unica possibilità teorica di portare il paese alla democrazia liberale i cui contorni son rimasti sempre fortemente labili e confusi.
Anche a questo riguardo però Salvadori non perde il profilo del cronachista di vaglia e non va oltre la descrizione puntuale dei fatti: l’aut-aut al governo Moro nell’estate del ’64, il fallimento del Psu (avviato nel ’66 e terminato nel ’69), che non riesce ad essere in Italia il corrispettivo della socialdemocrazia tedesca o del laburismo inglese; quindi la voragine del ’68 e degli anni ’70 che sprofondano il paese in una crisi drammatica culminante con l’assassino di Moro. Col senno di poi si potrebbe leggere in controluce al fallimento socialista la fotografia dell’Italia intera: anche di quella attuale, pronta ad affondare sistematicamente qualsiasi tentativo di costruire il confronto politico nazionale nella contrapposizione fra una destra e una sinistra liberali. Il fatto poi che questo schema risulti ormai in crisi negli altri paesi che ne hanno beneficiato per decennio non ci promuove affatto all’avanguardia del mondo occidentale come eventuali apripista, ma serve a metabolizzare una debolezza che continuerà a renderci ingovernabili.
Quanto alla solidarietà nazionale, Salvadori nota come il rapporto Moro-Berlinguer richiami quello Giolitti-Turati, dato che il centro politico governante si logora al potere senza la possibilità di un’alternativa che non sia anche di sistema e tenta quindi la strada del consociativismo, attraverso la cooptazione di una forza coinvolgibile alle responsabilità di governo. Il fatto poi che la “questione morale” sollevata da Berlinguer, una volta sconfitto il compromesso storico, desse alla magistratura la copertura politica necessaria per avviare la stagione di mani pulite e che da allora il malvezzo di fare politica per via giudiziaria sia un’altra peculiarità del nostro paese non viene affatto rilevato. Eppure si è trattato di un metodo profondamente eversivo, perché da un lato faceva sospettare l’esistenza di una magistratura politicizzata (quanti giudici in politica grazie ad inchieste che hanno fatto rumore), e dall’altro, specularmente, colorava l’intera classe politica come tendenzialmente criminale: a dimostrazione che anche le migliori intenzioni, ammesso e non concesso che lo siano state, se condotte con scarsa consapevolezza istituzionale possano favorire i danni che sono sotto i nostri occhi.
Una volta archiviata la “repubblica dei partiti” di scoppoliana memoria Salvadori nota che, una volta normalizzato il Pci (divenuto, diciamo noi, il principale difensore dell’ “ancien regime”, quindi tecnicamente un partito conservatore), per germinazione spontanea emergono nuove forze anti-sistema (Lega, Forza Italia, M5s), a cui Salvadori associa anche Renzi come ultimo “uomo della provvidenza” (giudizio su cui abbiamo già dissentito), dato che Salvini era ancora di là da venire.
Mali antichi, come si vede e non ancora superati, per la mancanza di un’analisi sufficientemente spregiudicata. Anche Salvadori, del resto, non nasconde il suo pessimismo: individuando nella criminalità organizzata (frutto del perdurante gap nord/sud), nella gigantesca evasione fiscale (tollerata come prezzo del consenso), nell’impossibilità di dar corpo a programmi politici sia di destra che di sinistra e nell’emersione di forze politiche anomale (Forza Italia, M5s) i mali fondamentali della nostra Repubblica: mali che rendono stabilmente precario il sistema, provocando quella diffusa disaffezione che può farlo infine implodere in una crisi traumatica.
[1] M. L. SALVADORI, Storia d’Italia. Il cammino tormentato di una nazione. 1861-2016, Einaudi, 2018.