Yiddishkeit* o sionismo? Gli ebreo-marxisti.
Una rassegna dell'agire e del pensiero del movimento comunista nei primi decenni di questo secolo riguardo alla questione ebraica: marxismo russo e marxismo ebraico, il movimento operaio ebreo, Vladimir Medem, Ber Borokhov, Lenin, Luxemurg, Trotsky, Stalin, gli ebrei e la rivoluzione russa. Prima parte di una sintesi con brani antologici tratti dal libro di Enzo Traverso "Les marxistes et la question juive". Traduzione di Andrea Vigni. Giugno 2001.
(*identità yiddish, n.d.t.)
In Times le sintesi, in Verdana i brani originali.
È esistito un marxismo ebraico? In Europa centrale si nota solo una rilevante presenza di Ebrei fra i socialdemocratici tedeschi e austriaci. Per contro, in Europa orientale l'integrazione (degli Ebrei nella struttura sociale, n.d.t.) era solo un fenomeno marginale riguardante un gruppo relativamente ristretto dell'intellighenzia, ma estraneo alla stragrande maggioranza della popolazione ebrea (ricordiamo ancora che alla fine del XIX° secolo lo yiddish era la lingua materna di quasi il 97% degli Ebrei dell'impero zarista). In questo contesto l'elaborazione del pensiero marxista era influenzata dall' esistenza di una nazione e di un movimento operaio ebreo. L'impronta del sionismo sulla teoria marxista, tentata da Ber Borokhov, e il concetto di autonomia culturale nazionale, sviluppato da Vladimir Medem, si collocavano in questa realtà ebraica dell'Est europeo e apparivano come una variante nazionale del marxismo d'inizio secolo. Accanto agli intellettuali ebrei integrati, che aderivano alla socialdemocrazia russa o polacca, si formarono movimenti e partiti che definivano la loro identità teorica e politica in rapporto ad una problematica specificamente ebraica, differente e non riconducibile a quella del socialismo russo. Un'analisi comparata dei marxismi russo ed ebraico ci può aiutare a mettere in luce questa frattura e, d'altra parte, costituisce la premessa necessaria alla ricostruzione del dibattito, o piuttosto del conflitto, fra Lenin e il Bund, che affronteremo nel capitolo seguente.
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Marxismo russo e marxismo ebraico
Le posizioni dei marxisti russi si precisano inizialmente nel dibattito con i populisti (Plekhanov e altri, esuli alla fine del secolo a Ginevra) i quali individuavano nell'obscina (comunità contadina predominante nelle campagne alla fine del XIX° secolo) l'elemento rigenerativo di tutta la società russa. Al contrario per i marxisti (fedeli all'evoluzionismo positivista) la Russia necessitava della fase di sviluppo capitalista (dissoluzione delle comunità contadine, organizzazione e mobilitazione della classe operaia come motore della rivoluzione), discostandosi così anche dallo stesso Marx che non negava il passaggio diretto dall'obscina al comunismo. La visione di uno sviluppo economico lineare ed organico riceverà da Lenin il contributo più approfondito (Lo sviluppo del capitalismo in Russia, 1899), fino al superamento dialettico della controversia marxisti-populisti, rappresentato dalla teoria della rivoluzione permanente di Trotsky, che in Bilancio e prospettive (apparso subito dopo la rivoluzione del 1905), analizza lo sviluppo sociale russo nel contesto internazionale dell'economia capitalista, ravvisando nel proletariato il protagonista di una rivoluzione socialista che esclude la "necessità storica" della lunga fase di sviluppo capitalista.
La genesi del marxismo ebraico si sviluppò al di fuori di questa problematica che aveva così profondamente segnato le origini del marxismo russo. In Lituania e in generale in tutta l'area d'insediamento l'intellettualità ebrea non poteva assumere il marxismo né come teoria dello sviluppo capitalista, né come teoria della rivoluzione permanente. Si trattava di due orientamenti strategici che affidavano il protagonismo sociale al proletariato industriale russo, mentre una delle caratteristiche principali dello shtetl (condizione sociale degli Ebrei, n.d.t.) era l'esclusione del proletariato ebreo dall'industria meccanizzata. I circoli socialisti ebrei lituani e polacchi dovevano piuttosto confrontarsi con la difficoltà di interpretare logicamente lo sviluppo del capitalismo russo. Il risultato fu la nascita di un marxismo ebraico come teoria della questione nazionale. Il riferimento sociale degli ebreo-marxisti adottando questo termine si evita di confonderli con i marxisti ebrei integrati era quello di un proletariato strutturalmente marginale ed etnicamente omogeneo, il riferimento culturale quello di una minoranza nazionale extraterritoriale. Chiamando ebreo-marxismo la particolare forma assunta dal pensiero marxista nella yiddishkeit, non vogliamo affatto cercare di presentarla come un fenomeno omogeneo, o di sottostimarne le differenze interne. Si tratta solo di coglierne la specifica genesi, in seno all'impero russo, nel quadro della questione ebraica vista come questione nazionale. All'origine dell'elaborazione teorica di Vladimir Medem e di Ber Borokhov, pur nelle differenze metodologiche e strategiche, c'era sempre lo stesso interrogativo: come risolvere il problema nazionale ebraico in Russia?
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Il movimento operaio ebreo
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Occorre notare alcune specificità importanti del proletariato ebreo. A differenza della classe operaia russa di radice contadina, la classe operaia ebrea aveva origine nell'artigianato. Le sue prime forme d'organizzazione sindacale non si configuravano sul modello dell'obscina ma su quello dei khevroth, associazioni di mutuo soccorso degli artigiani ebrei. La caratteristica fondamentale del proletariato ebreo era l'esclusione dalla grande industria e la dispersione in un gran numero di piccole fabbriche, che impiegavano mano d'opera esclusivamente ebrea e sopravvivevano ai margini dello sviluppo economico. Gli operai ebrei potevano tranquillamente rispettare il sabbat, mentre le grandi fabbriche che impiegavano forza lavoro russa o polacca chiudevano la domenica. Alla struttura della classe operaia ebrea faceva riscontro, nell'area d'insediamento, la debolezza strutturale del capitale, ciò che ne comportava la concentrazione nelle fasi finali della produzione. Le specificità culturali del proletariato ebreo, legate prima di tutto alla religione e alla lingua, erano accentuate dalla separazione di fatto dal proletariato russo. Questa concentrazione dei lavoratori ebrei in una specie di "ghetto socio-economico" fu il contesto materiale della nascita di uno specifico movimento operaio ebreo.
In questa situazione di assenza del proletariato ebreo dai settori produttivi decisivi e di oggettiva difficoltà di integrazione col proletariato dell'Europa centro-orientale (dato il peso predominante degli aspetti etnico-nazionali), fra il 1894 e il 1905 si concretizza la formazione del Bund in Lituania e in Polonia, dove, essendo il proletariato ebreo relativamente numeroso e concentrato, l'attività dei circoli socialisti si orienta verso l'organizzazione di massa. Ciò comporta l'adozione generalizzata dello yiddish come supporto linguistico dell'elaborazione e della propaganda, contribuendo ad accentuare il peso dell'identità nazionale nell'espressione organizzata del movimento operaio ebreo. Tuttavia il Bund, per quanto nel suo congresso fondante (ottobre 1897) riconosca la doppia natura dell'oppressione subita dal proletariato ebreo (come classe e come minoranza nazionale) continua implicitamente a mantenere la prospettiva dell'integrazione e dovrà attendere il suo IV congresso (1901) per porre al centro del dibattito la questione nazionale ed adottare (in sintonia con il Partito socialista austriaco che si batteva per l'estensione dei diritti di autonomia alle minoranze extraterritoriali)
un programma nazionale articolato attorno a tre rivendicazioni: a) trasformazione dell'impero russo multinazionale in una federazione di popoli; b) diritto all'autonomia nazionale per ciascuno di questi popoli, indipendentemente dal territorio d'insediamento; c) il riconoscimento degli Ebrei come nazione autonoma a pieno titolo. Ciò nonostante, il Bund decise di non rivendicare immediatamente il suo programma nazionale, limitandosi per il momento alla lotta per l'eguaglianza dei diritti civili e per la soppressione della legislazione antisemita. Allo stesso tempo questa evoluzione dell'analisi della questione nazionale portò il Bund ad avanzare una critica intransigente del sionismo, stigmatizzato come reazione borghese all'antisemitismo e come strumento di divisione e di disorientamento della classe operaia. L'adozione di un programma nazionale andava di pari passo con il netto rifiuto di qualsiasi ipotesi di nazionalismo ebreo.
Il processo di strutturazione in partito operaio ebreo del Bund lo portò ad entrare in conflitto con la social-democrazia russa (POSDR), in particolare sulla rivendicazione delle condizioni organizzative minime a cui i suoi dirigenti si erano limitati :essere riconosciuto come unico rappresentante del proletariato ebreo, trasformazione della social-democrazia in federazione di partiti nazionali. Veniva così al pettine il problema se il Bund dovesse essere un partito operaio ebreo autonomo o un'organizzazione interna al POSDR preposta alla propaganda fra i lavoratori di lingua yiddish. La scissione si consumò irrimediabilmente al II Congresso del POSDR nel 1903 (per non essere sanata che nel 1906) e testimonia del ruolo importante assunto dalle scelte organizzative nel dibattito sulla questione nazionale: se da un lato Lenin e i bolscevichi vedevano nel federalismo del Bund il rischio di un riflusso nazionalista e di una polverizzazione organizzativa che avrebbe compromesso l'unità e la forza della classe operaia, dall'altro i rappresentanti yiddish non osarono porre in discussione gli orientamenti nazionali a cui erano pervenuti in modo non ancora del tutto consolidato. Peraltro la separazione dal POSDR (vissuta anche drammaticamente in seno al Bund) accelerò l'acquisizione della prospettiva nazionale, definitivamente adottata nella quinta conferenza del Bund (1905).
Questa scissione non fu il frutto né di una volontà settaria del Bund, né di ultimatum burocratici della social-democrazia russa, come sembrerebbero suggerire alcune interpretazioni storiografiche. Più semplicemente essa fu il prodotto della separazione economico-strutturale e nazionale del proletariato ebreo dal proletariato russo nelle zone d'insediamento. Contemporaneamente partito d'avanguardia e sindacato militante dei lavoratori ebrei, il Bund aveva avuto origine in una specifica lotta di classe all'interno dello shtetl. Come nota Alexandre Adler, "la struttura artigianale e manufatturiera dell'industria nelle città del Rajon non consentiva in alcun modo che un'organizzazione, di per sé plurietnica, riuscisse ad organizzare i salariati ebrei contro il capitale, essenzialmente ebraico, che li sfruttava". Tuttavia comprendere le radici reali del conflitto fra il Bund e il POSDR non significa ritenere inevitabile la scissione e impossibile la ricerca di una sintesi unitaria. Sotto questo aspetto, occorre riconoscere che i marxisti russi si rivelarono totalmente incapaci di percepire la natura reale del Bund.
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La sua forza e la sua originalità risiedevano nella ricerca di una sintesi dialettica fra l'internazionalismo proletario e la difesa di una cultura nazionale oppressa. I militanti del Bund collocavano l'internazionalismo nella tradizione nazionale ebraica; essi consideravano possibile e necessaria la lotta per la liberazione degli Ebrei russi nella prospettiva di una rivoluzione socialista mondiale
L'autonomia nazionale: Vladimir Medem
Nel 1904 viene pubblicato, in russo e in yiddish, La questiona nazionale e la social-democrazioa, di V. Medem, sicuramente l'opera sul tema nazionale sino a quel momento più importante (un analogo studio di Otto Bauer sarà pubblicato tre anni dopo), poiché fornisce fondamento teorico agli orientamenti del Bund e precisa entità e natura delle divergenze con i social-democratici. Per Medem la nazionalità moderna è fenomeno connesso alla formazione della società capitalista sotto l'impulso della borghesia, ritenuta capace di supportare tendenze nazionali di segno opposto: sia il nazionalismo espansionista e imperialista, sia i movimenti di liberazione nazionale, per cui l'economia capitalista non era tanto il quadro di riferimento dell'affermazione nazionale quanto l'origine dello snaturamento nazionalista di una comunità culturale.
Egli formulava così il problema: "Una cultura nazionale sotto forma di entità indipendente, come ambito ristretto ai suoi contenuti, non è mai esistita. La nazione è la particolare forma in cui si esprime il contenuto umano universale [der algemein mentshleker hinalt]. L'essenza della vita culturale, che in generale è uguale dappertutto, prende colori e forme nazionali differenti nella misura in cui se ne appropriano gruppi differenti, fra i quali si siano stabilite relazioni sociali specifiche. Queste relazioni sociali - il quadro dove nascono i conflitti di classe e si sviluppano le tendenze intellettuali e spirituali - conferiscono alla cultura un carattere nazionale [a natsionaln shtemploif der kultur]". Questo passaggio ribadiva nettamente l'inesistenza di una cultura a-nazionale dal momento che, secondo Medem, la cultura rifletteva la vita sociale e non poteva che esprimersi in forme nazionali. La lotta di liberazione delle nazioni oppresse si manifestava in primo luogo come rivendicazione dei diritti della lingua e della cultura nazionale.
Medem vedeva nella lingua un fondamentale elemento costitutivo della nazione, origine e laboratorio della cultura nazionale, per cui assegnava allo yiddish tutta la dignità di lingua nazionale (contrariamente a certi ebraisti, fautori di una nazione ebrea del tutto astratta, che lo definivano un dialettaccio di strada), veicolo e culla dell'identità culturale e della coscienza politica delle masse ebree. Parallelamente egli riteneva la nazione un'entità indipendente dal territorio e negava che la questione nazionale potesse essere risolta spingendo il diritto all'autodeterminazione anche fino alla creazione di un nuovo Stato, riconoscendo i questo processo un principio tipico del nazionalismo borghese.
Il programma del Bund concepiva quindi l'autonomia ebraica in forma nazionale-culturale (natsional-kultureler) e non territoriale. Al posto del principio territoriale si affermava quello dell'autonomia personale, indispensabile là dove le nazioni formavano delle "isole in territorio straniero" (bildn hinzlen oif a fremder territorie). Si trattava di una forma di autonomia tendente a garantire i diritti nazionali delle minoranze economicamente integrate ai popoli con i quali condividevano il territorio. L'autonomia personale un concetto che Medem mutuava da Karl Renner implicava tutta una serie di norme giuridiche tali da difendere l'unità politica della nazione: per esempio il riconoscimento della kehilah come organismo autonomo, incaricato di gestire la vita nazionale ebrea in seno ad una federazione multinazionale russa. Tuttavia , per Medem, l'"unità politica" della nazione si riduceva alla propria autogestione culturale. Si trattava del diritto ad usufruire di un'educazione scolastica nella lingua materna, di utilizzare la medesima lingua nei tribunali e nei servizi pubblici, mentre la soluzione dei problemi socio-economici più generali restava prerogativa dei governi territoriali (formati dall'insieme delle entità nazionli).
Riassumendo, nella teoria della nazione sviluppata da Medem, si trovavano due elementi principali, la lingua e la cultura, uno secondario, l'economia, ma non vi era quello del territorio.
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Pur riconoscendo il carattere nazionale della cultura ebraica contemporanea, il Bund restava estraneo ad ogni forma di nazionalismo. Secondo Medem, la distinzione fra nazione sentimento d'appartenenza ad un comunità culturale e il nazionalismo tendenza al dominio di una nazione sulle altre era fondamentale. La tendenza all'integrazione, per contro, non era che "nazionalismo dell'appropriazione", poiché conduceva alla cancellazione delle minoranze nazionali. Questa precisazione era implicitamente diretta contro i marxisti russi dell'Iskra, i quali, fautori dell'integrazione degli Ebrei, nella loro lotta contro il "nazionalismo del Bund", non facevano che perpetuare una tendenza tipica del nazionalismo della grande Russia.
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È evidente che la concezione bundista di nazione ebrea fondata sull'identità linguistica e culturale, territorialmente distribuita, non aveva niente a che vedere con il territorialismo e lo statalismo sionisti. [........].
Il V Congresso del Bund (Ginevra, 1904) definì il sionismo come un movimento della piccola e media borghesia ebrea, stretto fra la concorrenza del grande capitale da un lato e la piccola borghesia cristiana dall'altro. La sua ideologia fu denunciata come una forma di nazionalismo nocivo per il proletariato, poiché l'obiettivo della Palestina non poteva che sviare la lotta contro il regime zarista causa vera dell'oppressione degli Ebrei inserendovi una "psicologia da ghetto". Il VI Congresso (Zurigo, 1905) completò la critica del sionismo, definitivamente condannato come "versione" nazionalista specifica dell'ideologia piccolo-borghese", a causa del carattere "utopistico ed avventurista" delle sue rivendicazioni territoriali; esso offriva alla classe operaia un falso obiettivo e costituiva un ostacolo alla sua lotta per la soluzione della questione ebraica nella diaspora, là dove esisteva realmente una nazione ebrea. Le conclusioni affermavano la "necessità" di combattere il sionismo "in tutte le sue forme e sfumature".Il bundisti non accettavano di rimandare ad un futuro lontano, fuori della Russia, il diritto degli Ebrei a disporre di se stessi. Occorreva lottare per soluzioni immediate la dove gli Ebrei vivevano da generazioni. Questo principio del "qui e ora", totale antitesi ai progetti sionisti, si traduceva nel concetto di doikeyt (dove do significa "qui").
Anche l'analisi dell'antisemitismo russo, sviluppata da Medem nella Neue Zeit nel 1910, era strettamente legata alla sua teoria della nazione.
Egli distingueva due forme principali di antisemitismo: una di tipo economico (già conosciuta in Europa occidentale) che si manifestava fondamentalmente nel boicottaggio delle attività economiche degli Ebrei, là dove particolarmente numerosi; e l'altra, che definiva a-semitismo, tipca di larghi strati di intellettuali, anche liberali, di professionisti e di studenti, attratti dai miti del nazionalismo russo e della mistica slavofila. Si sviluppava così un moderno antisemitismo di massa, con caratteristiche prettamente razziali, che si opponeva ad ogni forma di integrazione degli Ebrei nella struttura sociale (prospettiva che Medem peraltro non auspicava), ma che agiva anche come politica di snazionalizzazione impedendo l'autonomo sviluppo della cultura ebraica.
Questa caratteristica specifica dell'antisemitismo russo era interpretata da Medem come una risposta dello zarismo allo sviluppo della comunità ebrea in forma di "nazione culturale moderna" sotto l'impulso del movimento operaio. Non potendo la cultura ebraica essere difesa altro che dal proletariato, Medem individuava infine la nascita di una nuova forma di antisemitismo, incarnato dalla borghesia ebrea integrata che non poteva per ragioni di classe più che culturali riconoscersi nella yiddishkeit.
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Il sionismo: Ber Borokhov
Il sionismo socialista si manifesta in Russia a partire dal 1890 circa sotto forma di una miriade di raggruppamenti che, fino al 1905, vivono in condizione di precarietà organizzativa e confusione ideologica. In seguito si affermano tre principali correnti organizzate: a) il Partito operaio sionista socialista (Syrkin,Lestschinsky, Tchernikov); b) il Partito operaio socialista ebreo, detto SERP (Rosin, Zilbelfarb, Ratner, Jitlovsky); c) il Poale Tsion (Borokhov). Il primo partiva dalla negazione di qualsiasi possibilità di riscatto nella condizione della diaspora con un atteggiamento di tipo "nichilista", che tuttavia gradualmente superarono accettando alla fine l'idea dell'autonomia nazionale-culturale in una Russia liberata dallo zarismo. Il SERP rimandava a tempo indeterminato la prospettiva di un territorio autonomo e circoscritto, puntando per l'immediato sulla rivendicazione del sejm (una specie di parlamento nazionale ebreo). Il principale tentativo di realizzare la sintesi fra teoria marxista e nazionalismo ebraico lo si riscontra nell'opera di Borokhov, il più importante dirigente del Poale Tsion. la sua formazione oscilla, fino al 1905, fra posizioni anche opposte: dalla visione ateo-secolare della socialdemocrazia russa fondamentalmente indifferente al problema ebraico, al sionismo messianico fondato sull'aspirazione alla "terra promessa". È costante comunque il giudizio negativo sull'integrazione del popolo ebreo con le altre nazionalità, percepita sostanzialmente come tendenza di un popolo a sottometterne un altro. Non mancarono tuttavia intuizioni originali.
Si trattava di una critica dell'idea di progresso (così profondamente radicata, l'abbiamo già notato, nei teorici dell'integrazione) intesa come processo irreversibile e continuo, che automaticamente estingue la questione ebraica. Borokhov capiva come l'oppressione degli Ebrei non fosse solamente il prodotto dell'arretratezza sociale e culturale russa, ma un fenomeno molto più complesso, che si manifestava anche nella modernità capitalista. Scriveva: "Noi non abbiamo alcuna fiducia nel progresso, sapendo che i suoi più ferventi adepti ne esagerano a dismisura le conquiste. Il progresso è un fattore importante nello sviluppo della tecnologia, delle scienze, forse anche delle arti, ma certamente anche nella diffusione delle nevrosi, dell'isteria e della prostituzione. È troppo presto per parlare di progresso morale delle nazioni e della fine dell'egoismo nazionale. Il progresso è una lama a doppio taglio: da una parte c'è l'angelo buono, dall'altra Satana." Borokhov intuiva, con questo linguaggio allegorico, che il progresso tecnico-scientifico non era inevitabilmente portatore di progresso sociale e "morale" ma che, al contrario, comportava anche l'eventualità di una moderna barbarie di cui gli Ebrei potevano diventare le vittime. Sembrava quasi che egli considerasse la disumanità dei rapporti sociali capitalisti non tanto come un'ipotesi futura, quanto come la reale natura del progresso capitalista. In questa prima fase, il pensiero di Borokhov rivestiva dunque una tendenza tipicamente romantica. Il ritorno degli Ebrei in Palestina, non ancora motivato razionalmente sulla base di un'analisi socio-economica, si caricava di un ideale messianico e personificava la ricomposizione di un'armonia originaria spezzata dalla diaspora.
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La prima opera marxista di Borokhov fu lo studio Interessi di classe e questione nazionale, pubblicata in russo, poi in yiddish, a Vilnius nel 1905. Questo lungo saggio non affrontava l'analisi del problema ebraico, limitandosi a tracciare le linee di una teoria marxista della nazione. Tuttavia può già essere considerata un'opera della maturità, coerente nell'argomentazione e rigorosa nell'esposizione, che contiene in nuce tutte le categorie concettuali del borokhovismo. L'analisi marxista del fenomeno nazionale precede, nello sviluppo del suo pensiero, l'elaborazione di un programma sionista articolato e organico, del quale costituisce la premessa indispensabile.
La costruzione teorica di Borokhov riposa sul concetto di "condizioni di produzione", che individua il quadro in cui nascono e si sviluppano le forze produttive della società e dove in seguito si stabiliscono dati rapporti di produzione. Queste condizioni di produzione, che rappresentano quindi la base primaria di ogni sistema sociale ed economico, sono elencate in ordine gerarchico: a) geografiche (fisico-climatiche); b) antropologiche (la razza); c) storiche (lo sviluppo di una comunità umana, le sue relazioni interne, ecc.). Le condizioni storiche di produzione, ultime nell'ordine, s'impongono gradualmente sulle condizioni naturali cristallizzandosi in un patrimonio culturale e "spirituale" costituito da più fattori, come ad esempio "la lingua, le tradizioni, i costumi, i modi di vedere il mondo". I rapporti di produzione stabiliscono la divisione della società in classi, mentre le condizioni di produzione, per contro, determinano la divisione dell'umanità in comunità distinte (popoli, nazioni). I conflitti sociali hanno la loro origine nel divorzio fra forze produttive e rapporti di produzione (quando la struttura economica della società non può più sopportare lo sviluppo delle forze produttive), mentre la questione nazionale nasce dal conflitto fra forze produttive e condizioni di produzione.
Il concetto di condizioni di produzione è mutuato da Marx, che tuttavia lo usava solo nel senso di "condizioni naturali" della produzione (natura, clima, ecc.) e non ne fece mai una categoria fondante del suo pensiero economico. Borokhov ne fa un pilastro della sua teoria e ne estende il significato alla "cultura" e alle "concezioni del mondo", contrariamente a molti marxisti minori che consideravano schematicamente tali categorie come elementi passivi a rimorchio della struttura socio-economica.
Le condizioni di produzione servirono da punto di partenza per definire i concetti di popolo e di nazione: il primo era costituito da una "società" (divisa in classi) la cui fisionomia era stata creata dalle condizioni storiche comuni di produzione; la nazione si collocava a un livello superiore, là dove una comunità umana prendeva coscienza del proprio "passato storico comune". Il popolo non era che una fase embrionale nel processo di formazione della nazione, che presupponeva un'unità di base delle condizioni di produzione. Borokhov distingueva i concetti di popolo e di nazione applicando in campo nazionale la dicotomia, individuata da Marx in Miseria della filosofia (1846), fra concetto di "classe in sé" e "classe per sé", cioè fra classe intesa come semplice raggruppamento di individui che rivestono lo stesso ruolo nel processo di produzione e classe come entità collettiva cosciente dei propri interessi storici. Scriveva Borokhov: "L'esistenza sulla base degli stessi rapporti di produzione, quando questi rapporti sono armoniosi fra gli individui del gruppo, produce la coscienza di classe e il sentimento di solidarietà di classe. L'esistenza sulla base delle stesse condizioni di produzione, quando le condizioni sono armoniose per i membri della società, produce la coscienza nazionale e il sentimento di appartenenza nazionale." Questo sentimento, creato da una comune memoria storica, rappresentava per Borokhov il nazionalismo. Prima di essere una politica o un'ideologia, il nazionalismo era il naturale sentimento di appartenenza ad una comunità nazionale specifica. In questo senso Borokhov rifiutava di qualificare il nazionalismo di "cosa anacronistica, reazionaria o tradizionale." Anche il proletariato, ancorato a condizioni di produzione come ogni altra classe, esprimeva una propria forma di nazionalismo. Durante las Prima Guerra mondiale, che vide il Poale Tsion allineato su posizioni internazionaliste/pacifiste accanto al movimento di Zimmerwald, Borokhov riaffermò in questi termini il valore del nazionalismo proletario: "L'istinto di autoconservazione delle nazioni non può essere eliminato. L'idea richiedere alle nazioni di rinunciare alla propria identità e di abbandonare la fiducia in se stesse è segno di volgare dilettantismo ed è un puro non-senso. L'istinto nazionale d'autoconservazione, latente nella classe operaia socialista e fondato su una considerazione realistica del nazionalismo, può liberare l'umanità malata in questa era capitalista e risolvere i conflitti sociali e nazionali."
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Tuttavia un criterio restava sempre presente nella definizione di nazione e di nazionalismo di Borokhov: il territorio. A questo proposito si differenziava profondamente tanto da Medem, accusato d'ignorare la "base materiale" del problema nazionale, quanto dagli austro-marxisti. L'insistenza sul territorio, considerato come insostituibile "base materiale" della nazione, era per contro appannaggio di Kautsky e, come si vedrà, di Stalin. Questa omologia teorica merita i essere sottolineata: i bundisti si preoccupavano di definire la nazione ebraica della yiddishkeit, della quale rilevavano le specificità a fronte del modello nazionale prodotto dalla storia dell'Europa occidentale; Kautsky, Stalin e Borokhov cercavano invece di classificare il problema nazionale entro i limiti di categorie prestabilite e costrittive. La concezione di Borokhov, per quanto più articolata e ricca di sfumature, in ultima analisi si riduceva, come quella del bolscevico georgiano e del direttore della Neue zeit, ad una definizione normativa del fenomeno nazionale.
Nel quadro della concezione che vede nell'assenza della "base materiale" la vanificazione di qualsiasi lotta per il riscatto nazionale, e riprendendo l'analisi della debolezza strutturale della classe operaia ebrea a causa della sua concentrazione in settori marginali e non strategici della produzione, Borokhov tenta una giustificazione razional-materialista del messianico ritorno alla terra promessa: la Palestina.
A suo avviso la Palestina, in quanto paese semi-agricolo, presentava le condizioni economiche ideali per accogliere la colonizzazione sionista, e offriva anche vantaggi d'ordine culturale rispetto ad altri paesi. I suoi abitanti, i Fellah, erano i "discendenti diretti della popolazione di Giudea e di Cahan, con una piccola aggiunta di sangue arabo"; in altri termini essi si distinguevano appena dai Sefarditi. Il loro sviluppo culturale sembrava a Borokhov (che non era mai stato in Palestina) perfettamente adatto ad un incontro con i coloni sionisti. Era convinto che gli Arabi avessero raggiunto un livello di sviluppo che permetteva loro di integrarsi in un'economia moderna, ma non di resistere all'integrazione nella cultura occidentale "superiore". Egli scriveva (....): "La popolazione d'Ertz Israël adotterà il modello economico e culturale che s'imporrà nel paese. Gli autoctoni si assimileranno economicamente e culturalmente a coloro che avranno assunto la direzione dello sviluppo delle forze produttive." Disprezzava profondamente tutti i fautori dell'integrazione ebraica in Europa, ma contemporaneamente considerava l'assimilazione degli Arabi in Palestina un fenomeno del tutto naturale e "progressista". Su questo punto la sua concezione era analoga a quella di Hrzl, l'autore di Der Judenstaat (lo Stato ebraico, n.d.t.), che proponeva di trasformare la Palestina in un avamposto della civilizzazione occidentale contro la "barbarie" del mondo arabo. In un articolo del 1916 Borokhov esaltava il miliziano (shomer) costretto a prendere le armi per difendere le posizioni sioniste contro gli attacchi dei vicini "semi-barbari" (halb-wildnmentshn). Questa posizione rivelava la tara originaria del sionismo, frutto di un'epoca dominata dalla "concezione del mondo non europeo come spazio colonizzabile" (Maxime Rodinson). La visione di una società multietnica e culturalmente pluralista - nocciolo del pensiero di Medem - si rivelava incompatibile con le categorie concettuali di Borokhov: mentre in Russia la minoranza ebrea rappresentava un'anomalia da superare, in una Palestina ebrea l'anomalia araba avrebbe dovuto essere eliminata.
In questa prospettiva Borokhov auspicava un blocco sociale fra borghesia (sviluppo delle forze produttive) e proletariato (egemonia nel processo di colonizzazione) capace di dar vita (anche con un'azione diplomatica del sionismo per il diritto alla colonizzazione della Palestina) ad uno Stato nazionale ebreo nel quadro di una Palestina integrata nell'economia capitalista. L'ambiguità di un simile programma non poteva che essere condannata dal Bund che vi ravvisava la sostituzione della solidarietà di classe internazionale con la solidarietà interclassista ebrea e delle aspirazioni nazionali dei lavoratori con il nazionalismo, tanto che Borokhov temeva molto di più la contaminazione del proletariato ebreo con quello non ebreo che il ruolo antinazionale del grande capitale straniero.
Questo particolare atteggiamento - non riguardante i Palestinesi, destinati all'integrazione - era rivelatore della natura della colonizzazione sionista. Si potrebbe ravvisare in nuce la prefigurazione della dinamica concreta del sionismo in Palestina fra le due guerre e dopo la nascita dello Stato d'Israele, cioè quella di un colonialismo sui generis, che non cerca di sottomettere le strutture sociali autoctone ma piuttosto di creare una sintesi socio-economica parallela, basata sull'esclusione della mano d'opera araba.
Borokhov non superò mai le proprie ambiguità e la negazione della realtà della nazione araba esistente in Palestina rimase irrimediabilmente il limite storico del sionismo.