Paradigma della Tecnica e paradigma del Capitale



di Roberto Finelli*

Il numero 6 di «Consecutio rerum» è dedicato a Techne, Tecnica, Tecnologia, con lo scopo di riaprire un discorso di antropologia critica sulla nostra contemporaneità, alla luce della gigantesca rivoluzione digitale che sta connotando sempre più il nostro vivere sociale e individuale.

A proposito di questa tematica va ricordato che alla fine degli anni ’70 del secolo scorso il marxismo e gli studi su Marx scomparvero improvvisamente e improvvidamente dall’ambito degli insegnamenti e delle ricerche universitarie italiane e, di conseguenza, dal dibattito culturale e politico dell’intero paese. Le cause di quella decadenza ed estinzione di quella che era stata una vera e propria Weltanschauung, una organica visione del mondo, nella cui koinè di valori, di linguaggio, di costumi e pratiche, una certa parte, più avanzata e civilmente più impegnata, della popolazione italiana si era riconosciuta, sono state di diversa e complessa natura.

Nel nostro ambito, che è quello di una rivista filosofica, oltre alle insufficienze del marxismo storicistico italiano, che da Antonio Labriola in poi si era voluto troppo autosufficiente e in sé concluso, e dello stalinismo democratico che limitava profondamente il dibattito delle idee nel PCI, vale ricordare due di quelle cause, più propriamente teoretiche e filosofiche: da un lato l’estenuazione della scuola dellavolpiana, insidiata fin dal suo sorgere da una troppo semplicistica riduzione della tradizione dialettica e della filosofia di Hegel a una presunta tematica occultamente religiosa e arcaicamente neoplatonica, e dall’altro, per quello che qui maggiormente c’interessa, dalla repentina sostituzione delle analisi di Marx, sull’organizzazione moderna del lavoro di fabbrica e sulla tecnologia nella sua intrinseca dipendenza dall’accumulazione del Capitale, con la teoria della tecnica, avanzata da Martin Heidegger, come rivelazione e destinazione dell’Essere.

Già l’incapacità di elaborare criticamente i limiti e le aporie della tradizione dialettica aveva spinto buona parte dell’intellettualità di sinistra durante la prima metà degli anni ’70, a gettarsi nelle braccia di L. Althusser, senza avere la chiara consapevolezza di quanto lacanismo ci fosse alle spalle del pensatore francese e senza ben comprendere quanto il processo senza soggetto e la critica strutturalista alla totalità dialettica di L. Althusser implicasse una rinuncia definitiva a intendere il Capitale come Soggetto Unitario della modernità e la sua destinazione strutturale a generare processi di totalitarismo sociale.

Ma è stata soprattutto la sostituzione del Capitale di Marx con l’Essere di Heidegger a consentire ai più di rimuovere dal loro sguardo il processo capitalistico di produzione e quel sistema macchinismo/forza lavoro, che costituisce il luogo originario del significato moderno di tecnica e tecnologia, per iscrivere la modernità invece in una storia di occultamenti, manifestazioni e decisioni dell’Essere e dare così al proprio discorso la dimensione esoterica e sacrale della metafisica. Né a caso in tale decisione di chiudere con la dialettica e di aprirsi alla tradizione europea del pensiero negativo (Nietzsche, Heidegger, Schmitt) si sono distinti soprattutto gli intellettuali della tradizione cosidetta operaista, quali Cacciari e Tronti in particolare, che vista la sconfitta di quella soggettività autonoma di classe che il loro estremismo teorico e politico aveva celebrato come per essenza rivoluzionaria, erano trascorsi a celebrare altre autonomie, da quella del politico a quella della volontà di potenza e del decisionismo epistemologico, capaci di liberare l’agire da ogni sistematicità e da ogni preteso totalitarismo del sapere e di superare definitivamente le pretese sintesi conciliative della dialettica.

Così in breve, a partire da quei fine anni ’70, filosofi, intellettuali, operatori culturali a vario titolo, diventarono quasi tutti heideggeriani e anziché di processo di valorizzazione, di composizione organica, di saggio del plusvalore, di tecnologia come sistema forza lavoro-macchinismo nella produzione di capitale, si cominciò a parlare di «Tecnica» come volontà di manipolazione e potenza di un Soggetto umano nella sua contrapposizione all’Oggetto: e come realizzazione nell’età moderna di una metafisica cominciata nell’età classica di Platone ed Aristotele, quale conseguenza di una rimozione originaria del senso dell’Essere e quale affermazione di un miope quanto ottuso antropocentrismo. Vale a dire che si cominciò allora, e si perseverò, nel discutere di tecnica, non più a muovere dalle relazioni sociali, di diseguaglianza e sfruttamento, che in Marx si sintetizzano nel concetto di Capitale – né conseguentemente dall’organizzazione produttiva secondo lavoro astratto che ne deriva – , bensì a muovere da quel supposto massimo principio di realtà, quale l’Essere, che la filosofia scolastica e tomistica aveva celebrato come categoria suprema e che invece la filosofia moderna aveva superato nella sua critica radicale della metafisica: tanto da giungere, con un maestro di filosofia come Guido Calogero, a denunciare nei suoi Studi sull’eleatismo il principio dell’Essere come ipostatizzazione arcaica dell’έστιν linguistico (terza persona del verbo «essere») in una pretesa sostanza e pienezza di realtà, a motivo della persistenza nella prima filosofia greca di una cultura prefilosofica del magismo e di una troppo iniziale riflessione sul linguaggio.

Né ci fu obiezione di fondo ad accogliere e a generalizzare sul piano epistemologico la cosidetta crisi dei fondamenti maturata nell’ambito delle scienze dure già all’inizio del ‘900 con il principio di indeterminazione di Heisenberg e con il costruttivismo. Per cui, a muovere dalla critica nell’ambito delle scienze naturali di criteri oggettivi di verità, si trasferì con disinvolta facilità, sempre nello stesso periodo conclusivo del decennio caldo dei movimenti sociali, quel pensiero senza fondamenti nell’ambito delle scienze umane e storiche, e ispirati dalla religione dell’Essere heiddegeriano ci si aprì a celebrare un «pensiero debole» che, lontano da ogni possibile realismo, dichiarava come antiquaria ogni istanza sistemica ed ogni motivazione alla totalità, apprestandosi ad aprire le porte delle filosofia al postmodernismo, nonché alla risoluzione dell’Essere nel Linguaggio e all’inesauribilità di una pratica ermeneutica-decostruttiva.

In tale dissoluzione di ogni legalità oggettiva immanente alla realtà storica e sociale, la «Tecnica» diveniva un «destino», una disposizione errata ed inautentica dell’Esserci umano imposta da una rimozione della relazione fondativa ed autentica nell’Essere, la quale obbligava a vedere il mondo come composto solo di Enti, o cose, disponibili all’uso e al consumo, a ridurre lo stesso Esserci umano a Soggetto manipolatore di Oggetti, fino alla manipolazione e riduzione ad oggetto anche di sé medesimo. Per dire insomma che di tecnica e tecnologia si poteva parlare, non più come relazioni tra esseri umani ed ambito naturale profondamente mediate da relazioni sociali (quali in primis quelle del capitalismo moderno come economia fondata su una ricchezza astratta volta ad una valorizzazione progressiva ed infinita), bensì come relazione dell’umanità con un dispositivo metafisico, quello dell’Essere appunto, che riduceva la storia degli esseri umani (Geschichte) a invio destinale (Geschik) delle sue decisioni, e che, nella forma di tecnica moderna, obbligava l’essere umano (Da/sein) a rimuovere la sua radice più profonda originata dallo stesso Sein, e dunque a manipolare, insieme alle cose o enti (Seienden), anche sé medesimo.

Di tale rimozione del sapere storico, di tale estraneità a studiare i diversi significati di tecnica e tecnologia secondo i vari contesti sociali e storici e la loro variazione da contesto a contesto, partecipava del resto assai intensamente anche la teoria della tecnica di Emanuele Severino. La quale, assai prossima a quella heideggeriana, ha provveduto anch’essa a sviluppare un discorso metafisico e metastorico che, lontano da ogni vera attenzione e sensibilità di studio del processo e delle condizioni di lavoro all’interno della fabbrica capitalistica, ha contribuito fortemente a sviluppare come opinione di massa che a principio della tecnica, di tutta la tecnica dell’intera storia dell’umanità, ci fosse un peccato, un errore, dell’essere umano in quanto tale: ossia una colpa antropologica e non più una storia di classi e di relazioni di classi.

Per Severino infatti, alla cui impostazione neoparmenidea andrebbe rivolta la medesima critica calogeriana di fare filosofia ipostatizzando il linguaggio e prendendo parole per cose, la tecnica sarebbe la volontà di potenza di un essere umano che pretenderebbe, attraverso il nesso mezziscopi, di governare il divenire delle cose e la sua assoluta imprevedibilità e casualità: visto che il divenire, come alternanza di nascere e di morire sarebbe, proprio secondo il dettato dell’antico Parmenide di Elea, il passaggio dal nulla all’essere e dall’essere al nulla, e dunque un accadere del tutto esposto all’inesplicabile. La tecnica sarebbe dunque la pretesa dell’anthropos, fin dalla antichità, di sviluppare un dominio delle cose sempre più ampio, attraverso quel toglimento progressivo di limiti all’agire umano, che giunge a dilatazione enorme nel mondo contemporaneo, dove il mezzo del dominio diviene, con un capovolgimento tra mezzi e fini, esso stesso fine.

Laddove la realtà autentica, e la verità che la esprime, sarebbe l’Essere di Parmenide, che non nasce né muore, perché è l’è che è eternamente e che trattiene nella sua eternità ogni sua manifestazione, di contro all’essere umano che prende l’abbaglio, l’errore, del divenire e presume di governarlo, facendosi uomo tecnico. Così, invece di permanere nel limite imposto e comandato dall’eternità dell’Essere/Dio, l’uomo si fa volontà di potenza illimite e come tale dà vita ad uno spirito della tecnica, a un sistema della tecnica, che oggi è giunto a un grado tale da dominare lo stesso capitalismo, rendendolo suo sottosistema, tutto pervaso della sua dimensione di crescita e di sviluppo: come non può non accadere ad ogni altro sottosistema contemporaneo, qual è stato ad es. il comunismo, nel suo essere stato anch’esso, per la cecità ontologica di fronte al divenire, tutto animato e dominato dalla logica prometeica del toglimento dei limiti.

Tale dislocazione radicale dello sguardo critico dalla storia sociale alla metafisica, dalla differenza dialettica alla differenza ontologica, con l’abbandono della teoria marxiana del processo di capitale come cuore del senso della società contemporanea, non poteva avere che l’effetto di valorizzare altri ambiti, diversi dalla produzione economica di ricchezza e di senso, come luoghi fondanti la modernità (lo stato di eccezione di Agamben/ Schmidt, la biopolitica di Foucault, la valorizzazione del corpo politico in Arendt, la teoria dell’agire comunicativo in Habermas).

Non che queste diverse prospettive d’interpretazione della modernità non avessero le loro ragioni nel tenersi lontane da un marxismo ormai estenuato e che aveva troppo insistito, a sua volta, su una metafisica della contraddizione sociale, con una potenza, del tutto presupposta e ideologicamente forzata, assegnata al lavoro e alla sua pretesa capacità ontologica, prima che politicoculturale, di esercitare contrasto ed opposizione al mondo capitalistico. Non cioè che quelle diverse prospettive non avessero ragione nel superare e accantonare il tradizionale marxismo della contraddizione, criticandolo per aver concepito soggettività di classe e identità collettive troppo facilmente presupposte come agenti universali del movimento storico e sociale. Insomma, nell’imputare correttamente al marxismo della contraddizione le stimmate metafisiche di una filosofia della storia e del suo necessario evolversi secondo un inevitabile cammino di liberazione e di affermazione della produttività dell’homo faber.

Ma senza trascurare di sottolineare, per quello che qui interessa dire, che tutte queste nuove teorie dell’essere sociale si sono trovate comunque accomunate, pur nella profonda diversità dei loro vertici osservativi, da una lontananza dall’intendere il capitalismo come fattore costitutivo ed egemonico della modernità e soprattutto lontane dall’intenderne la destinazione verso un totalitarismo sociale, secondo le indicazioni, certo non del tutto esplicite, ma pure presenti e intrinseche alla concettualizzazione del Capitale di Marx.

In questo senso, quanto a rottura di quella koinè di cui si diceva sopra, si potrebbe dire che da parte di molti c’è stata una rinuncia alla fatica del concetto e del lavoro propriamente filosofico e teoretico. Non comprendendo quanto e come la resa dei conti con il vecchio Marx implicasse una presa in considerazione assai più seria, di quanto nel complesso di tutto il ‘900 si sia dato, con la peculiarità della dottrina della scienza e della verità che l’idealismo tedesco aveva formulato con l’intenzione di superare il modello scientificoilluministico del vero e di definire una legalità epistemologica ed ontologica delle scienze sociali ed umane autonoma e distinta da quello delle scienze naturali e fisicomatematiche. Ossia non comprendendo quanto la questione annosa del marxismo come scienza della modernità, e non come filosofia della storia, si giocasse sulla capacità o meno di formulare una riforma della dialettica che consentisse di pensare processi di totalizzazione senza la categoria della contraddizione e senza un’ipostasi ontologicosociale ed eticopolitica della negazione. Come a dire che una elaborazione della tradizione dialettica della modernità aveva assai più da confrontarsi con un vettore impersonale di costruzione della realtà sociale, quale appunto l’astrazione della ricchezza capitalistica con i suoi protocolli quantitativi e le sue dinamiche accumulative, che non con la presupposizione di soggettività collettive e di classe, dotate per supposto principio, di destinazioni universali e di negazioni emancipatrici. Giacchè questo avrebbe significato confrontarsi con una teoria della soggettività moderna che avrebbe consentito di affrancarsi da un lato delle filosofie della storia dei marxismi della contraddizione da un lato e dall’altro di non esporsi a quell’orrore della soggettività che ha improntato, di contro, tutte le prospettive teoriche che, col rifiuto della dialettica, hanno gettato alle ortiche ogni istanza di sistematicità e di unificazione dell’esperienza storicosociale come presunta ideologia e come narrazione, dunque, scientificamente fallace.

D’altro canto è stata proprio la metafisica del marxismo della contraddizione a continuare per troppo lungo tempo ad insistere su un nesso soggettività-fabbrilità, soggettività-tecnica, che ha alimentato un’immagine di un homo faber, intrinsecamente caratterizzato di universali finalità emancipative, che sono divenute, come si diceva, oggetto troppo facilmente criticabile da parte di istanze ermeneuticodecostruzioniste negatrici di ogni stereotipia identitaria.

In questo senso si consideri quanto la celebrazione – anche qui da parte dell’operaismo italiano, prima della autonomia della composizione politica di classe di contro alla composizione organica del capitale, poi del general intellect dell’operaio sociale e infine alla messa in rete della moltitudine – abbia disatteso un’analisi puntuale della tecnologia dei processi capitalistici di lavoro, per valorizzare di essi sempre e solo una presunta eccedenza della soggettività politica di classe, non riducibile per principio ad una funzione invece solo interna al processo capitalistico di accumulazione.

Ma questo motivo dell’autonomia e dell’eccedenza della forzalavoro rispetto al capitale ha costituito, com’è ben noto, il mito fondativo dell’operaismo, e come tale, nel suo essere mito di fondazione, quella narrazione ed estremizzazione ideologica ha assunto varie versioni nel corso del tempo, fino alla versione attuale. La quale può giungere a leggere il lavoro di oggi, legato ai dispositivi informatici, di nuovo non come mente messa al lavoro dal capitale, bensì come mente collettiva, messa in rete da un processo lavorativo che opererebbe non più su dura materia e semilavorati bensì su simboli alfanumerici e che, superando la divisione dei corpi del lavoro manuale, metterebbe in comune i singoli, generando un «intelletto comune», capace di una conoscenza e di una potenza ulteriore a quella del capitale.

Ma appunto un mito è narrazione e non spiegazione e nel caso del mito dell’operaismo questa forzatura, per la quale della marxiana forza lavoro si è voluto sempre prendere e privilegiare il sintagma della forza lasciando cadere quello del lavoro (nel senso più proprio di uso capitalistico della forzalavoro), ha sempre rimosso, per valorizzare l’immagine di una soggettività sociale conflittuale e alternativa, il discorso marxiano sul passaggio da strumento a macchina quale cuore fondativo della modernità e quale processo enorme e continuo di desoggettivazione e spersonalizzazione, legato all’ingresso della scienza e della sua traduzione tecnologicomacchinica nell’organizzazione della produzione. Del resto il tema di una soggettività che si anticipa e si presuppone, nel suo spessore antropologico, alle relazioni sociali dei processi di lavoro che la attraversano, è tema che appartiene alla mitologia concepita dallo stesso Marx fin quando nei suoi scritti l’esigenza della lotta di classe per il comunismo prevale sull’analisi scientifica del Capitale, contraddicendosi quanto alla sua stessa famosa tesi (su Feuerbach) che l’essenza dell’essere umano si risolva nell’insieme dei rapporti sociali. Né sembra argomentino correttamente gli ultimi marxisti della contraddizione quando teorizzano che la forzalavoro sarebbe una merce appiccicata alla soggettività del lavoratore, quasi come il denaro che si porta in tasca, e che, come tale, non potrebbe esaurire la vita e l’identità di quella soggettività, la quale sarà sempre eccedente rispetto ai beni di cui dispone e di cui può fare, appunto, oggetto di libera vendita. Come se l’endiadi forzalavoro non designasse una soggettività priva invece all’origine di una propria soggettività, secondo la definizione che ne fornisce lo stesso Marx, nei Grundrisse, dell’essere, essa, «miseria assoluta», perché priva di ogni rapporto di proprietà e di uso con l’interezza del mondoambiente. Laddove i marxisti della contraddizione, per definizione, non hanno mai potuto in alcun modo mettere Marx contro sé medesimo e intendere che qualsiasi discorso di emancipazione può aver luogo ormai, almeno in termini teoretici e di filosofia, solo a patto di collocare e fare agire la contraddizione, in primis, all’interno del corpus dello stesso Marx.

Ma è proprio la grande rivoluzione della tecnologia digitale, che oggi stiamo attraversando e che riformula tutti i nostri spazi di vita e di lavoro, che ci obbliga a ritornare sul tema tecnica/tecnologia, considerandone la complessità, affrancati ormai quanto più possibile da arcaismi dell’Essere e da mitologie della contraddizione: pena il rimanere ancora una volta inferiori al nostro tempo storico. E verosimilmente è solo un rinnovato marxismo, il marxismo non della contraddizione ma dell’astrazione, insieme alle acquisizioni più avanzate delle neuroscienze, dell’antropologia psicoanalitica, delle scienze del linguaggio, della logica e dell’informatica, che ci potrà far comprendere le peculiarità di questo immane passaggio storico.

È stato detto, assai giustamente e con grande forza sintetica, che la rivoluzione digitale costituisce la terza grande rivoluzione nella storia dell’umanità riguardo ai modi del comunicare, dopo il passaggio dalla scrittura icononicogeroglifica alla scrittura alfabetica, e dopo l’invenzione della stampa con Gutenberg e il transito dalla scrittura amanuense alla scrittura a caratteri mobili. Oggi l’affermarsi del lavoro mentale rispetto a quello manuale del passato, quale lavoro immateriale che elabora un’oggettività lavorativa costituita essenzialmente da simboli alfanumerici e da dispositivi elettronici, pone la questione centrale, ora e per il futuro, dell’autonomia o del controllo della mente del soggetto prestatore d’opera in una rete di relazioni produttive e sociali profondamente mutate rispetto all’orizzonte della modernità fordista. Pone la questione, parimenti, della natura del rapporto tra intelligenza umana ed intelligenza artificiale, e di quanto e come vi possa essere una relazione di complementarietà e di integrazione reciproca tra i due ambiti, o al contrario di asimmetria e subordinazione. Pone infine la questione dello sviluppo dell’automazione e della robotica, con la necessità di discutere e verosimilmente confutare ipotesi futuriste di fine ed eliminazione del lavoro umano. Ma soprattutto riafferma l’istanza di non poter risolvere la struttura della mente umana, nella complessità della sua relazione con il proprio corpo emozionale, in una funzionalità solo linguisticocomputazionale, in modo analogico alla composizione e alle funzioni di un computer.

Rispetto a tale orizzonte tematico e problematico questo numero di «Consecutio rerum» articola la sua riflessione su Techne, Tecnica, Tecnologia secondo due sezioni, di carattere più storiografico la prima, di carattere più teoretico la seconda.

La prima comprende i saggi di Roberto Finelli, Mariannina Failla, Marta Libertà De Bastiani, Nuria Sánchez, Marco Costantini, Guido Frison, che affrontano la questione della polisemia di Techne, Tecnica, Tecnologia, secondo una prospettiva di ricostruzione di storia delle idee, in un percorso che dall’antichità classica risale fino alla modernità.

La seconda comprende i saggi di Teresa Numerico, Andrea Cengia, Carmelo Albanese, Gerhard Bansen, volti a presentare e discutere la natura della tecnologia all’altezza della rivoluzione contemporanea, nei suoi aspetti di profonda implicazione con la tematica dell’intelligenza artificiale e nelle sue valenze generali ecosociali, quanto ad organizzazione tecnicoeconomica, senza trascurarne gli effetti, di natura antropologica, sullo sviluppo o sull’impedimento delle virtualità dell’apparato psichico dell’essere umano.

Completano questo numero, nella sezione “Varia”, un saggio, assai argomentato, di Vasant Kaiwar, della Duke University, sulla critica da rivolgere all’involuzione dei Postcolonial e Subaltern Studies, un saggio di Giulia Angelini su la nuda vita in Aristotele, che continua la linea intrapresa dalla rivista di critica della ideologia italiana degli ultimi trent’anni (a muovere dal pensiero di G. Agamben), e, infine un saggio di Francesco Leone che alimenta la discussione sui temi del riconoscimento e della filosofia sociale e politica in A. Honneth.

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