di Giuseppe Galasso – In “Nuova Antologia”, a. CXXVIII, fasc. 2187, luglio-settembre 1993, Le Monnier, Firenze, pp. 263-275.
Anticipiamo per il lettori della “Nuova Antologia” il saggio che Giuseppe Galasso ha dedicato al governo Spadolini nel 1981-82 (“La rottura della continuità democristiana ed il governo Spadolini”), inquadrato nell’opera Il Parlamento nella storia d’Italia, curato dall’Istituto europeo di cultura storica, politica e costituzionale dell’editore Buccomino (Nuova CEI). Sarà il vol. XXIII della vasta e monumentale opera.
Il corso ulteriore delle cose ha chiarito ciò che al momento della costituzione del governo Spadolini (data di nascita: 10 giugno 1981) generalmente non fu avvertito.
Si pensò, infatti, allora che l’incarico di formare il governo affidato e portato ad effetto, per la prima volta dal 1945, da un uomo politico non appartenente alla Democrazia Cristiana, rispondesse alla necessità contingente di una sorta di “governo istituzionale”, di soluzione istituzionale sui generis, resa necessaria dalla condizione di stallo in cui era venuta a trovarsi la questione del governo in quel momento. Si giudicò allora che lo stallo potesse essere superato andando oltre la prassi fino ad allora seguita e fondata sulla centralità del partito che aveva la maggioranza relativa e un conseguente diritto, secondo quella prassi, alla direzione del governo.
La “prima presidenza laica” superava, infatti, la stessa questione della parità numerica tra ministri democristiani e ministri laici. Questa parità era stata richiesta dapprima come elemento di necessaria modificazione del tipo di struttura del governo consueta già dalla fine degli anni ’40. E ciò, non tanto a seguito del mutamento dei rapporti di forza venutosi a delineare nel corso del tempo tra la Democrazia Cristiana e gli altri partiti di governo, quanto a seguito della considerazione sempre più largamente imposta, specialmente da parte socialista, che la partecipazione degli altri partiti alla coalizione di governo era altrettanto necessaria di quella democristiana per ottenere la maggioranza in Parlamento.
Con la “presidenza laica” si affermava, invece, una ulteriore istanza di questa considerazione: l’istanza, cioè, di una alternanza fra democristiani e laici nella guida del governo. E fu questo, appunto, il significato immediatamente e più largamente attribuito alla costituzione del governo Spadolini.
Solo successivamente, come si è accennato, si è percepito un significato più recondito e più importante, e cioè che quello era il primo, per quanto poco percettibile, indizio che veniva ormai posto in questione non solo il rapporto fra la DC e gli altri partiti delle coalizioni di governo da essa guidati, bensì il sistema dei partiti in generale. Ed è a un tale elemento che va connessa, per quanto avrebbe poi significato, l’accentuazione del ruolo del presidente del Consiglio dei Ministri che si ebbe in occasione della formazione del nuovo governo e che lo stesso Spadolini sottolineò fin dall’inizio in interventi nel Parlamento e fuori del Parlamento.
Spadolini andava, anzi, oltre tale punto. Era stato il presidente della Repubblica Pertini a sottolineare già nel marzo 1980 la figura costituzionale del presidente del Consiglio per quanto atteneva alla scelta dei ministri. Spadolini sottolineava, a sua volta, l’importanza dominante del ruolo del presidente nell’indirizzo e nello svolgimento dell’attività di governo, richiamando la necessità che tale attività fosse unitariamente coordinata e riservando al presidente il compito non solo di assicurarla, ma anche di ristabilirla ove necessario. Non si può dire che si avviasse, solo con ciò, un discorso di trasformazione della figura del presidente del Consiglio, conosciuta ab origine nella tradizione costituzionale italiana, in figura di premier, secondo la tradizione costituzionale di altri paesi.
L’esperienza di governo dello stesso Spadolini doveva, anzi, dimostrare che l’esigenza dalla quale egli muoveva non era suscettibile di essere immediatamente e sufficientemente soddisfatta. Matura nella realtà delle cose, non lo era ancora nella consapevolezza generale. Sta di fatto, però, che sia nella selezione dei suoi collaboratori di primo rango (dai sottosegretari F. Compagna e, poi, V. Olcese al capo di gabinetto Manzella e a coordinatori come Caianiello, Arcelli, Zuliani, nonché a vari consiglieri), sia nella prassi di governo è possibile riconoscere a Spadolini il proposito esplicito di dare soddisfazione alla esigenza di una diversa articolazione del ruolo istituzionale da lui rivestito.
Si è parlato, al riguardo, con indubbio fondamento, di una “via amministrativa di riforma della presidenza”. Rimane, però, aperto il discorso sul problema se questa via fosse solo surrogatoria del proposito di attuare precisi princìpi della Costituzione (della quale si veda l’art. 95) affermato sia dalla opposizione sia da tutti o quasi i programmi dei governi precedenti, o se essa comportasse, come alcuni dati di fatto suggerirebbero, un proposito di riforma più ampio e più di fondo (per quanto, magari, se ne potesse essere non del tutto consapevoli). Certo è che il governo Spadolini lasciò, da questo punto di vista, un’eredità che, pur non accolta dal successivo governo Fanfani, avrebbe finito, tuttavia, con l’affermarsi sotto il governo Craxi.
A quel punto, si era, però, già fatto e andava facendosi sempre più chiaro il fermento più forte e più anticipatore della presidenza Spadolini, ossia la divaricazione apertasi di fatto e a livello politico tra il “palazzo” e la “gente”.
Ne sarebbe stato un ulteriore indizio la popolarità cui Spadolini subito godé, come capo del governo, in tutta l’opinione pubblica e che restò caratteristica della sua figura anche dopo la cessazione dell’incarico presidenziale. Una popolarità, del resto, non puramente sintomatica, se nelle elezioni del giugno 1983, sullo slancio dell’esperienza di governo conclusasi da poco più di un semestre, il partito guidato da Spadolini conseguì un’affermazione che segnò, in termini di voti, il massimo risultato del Partito Repubblicano dal 1946 in poi.
Anche al di là di questo fondamentale piano politico e istituzionale, la cronologia della presidenza Spadolini fu, comunque, assai fitta di impegni e di realizzazioni.
Un impegno primario fu quello della lotta all’inflazione, giunta alla fine dell’estate del 1981 a un livello di oltre il 20% su scala annua. Il bilancio preventivo per il 1982 fissò al 16% il livello da conseguire entro l’anno per invertire una tendenza che minacciava nel modo più grave le fondamenta dell’organismo economico-sociale del paese.
Il successo non mancò e la tendenza inflazionistica fu invertita. Al risultato il governo si era avviato già dalle sue primissime battute, avendo convocato a fine giugno le parti sociali e proposto di fissare per le stesse parti come indirizzo di politica economica e finanziaria un “tasso programmato di inflazione”.
È vero che a facilitare il compito si ebbe l’avvio di una fase economica molto positiva, che avrebbe poi caratterizzato, con poche discontinuità, tutti gli anni ’80. È vero pure, però, che il governo si trovò a dover affrontare alcuni passaggi in materia di questioni sociali, nonché questioni di altro ordine, direttamente legate al tema dell’inflazione, e che le affrontò con coerenza rispetto al proposito antinflazionistico che si era prefisso.
Così uno dei primissimi successi del nuovo governo fu nella decisione della Confederazione degli Industriali di revocare la disdetta della “scala mobile”, a cui era ancorato il prezzo del lavoro in Italia da decenni e che nel corso degli anni ’70 era stata irrigidita e aggravata dalla parificazione del suo importo per tutte le posizioni di lavoro al livello massimo toccato nel sistema salariale. La Confindustria aveva adottato la decisione della revoca in vista di quella che ad essa appariva come un’inevitabile necessità di razionalizzare il mercato del lavoro in relazione alla capacità competitiva dell’industria italiana sul mercato internazionale. La decisione confindustriale aveva, peraltro, sollevato un’opposizione sindacale e politica, che minacciava di riaccendere il conflitto tra le parti al livello dell’ “autunno caldo” di ancora recentissima memoria, e quindi di un periodo nel corso del quale era stata sviluppata la singolare teoria del salario come “variabile indipendente” nel sistema dei conti della produzione.
È bene, a questo punto, aprire una parentesi. Abbiamo già richiamato le condizioni politiche nel cui quadro il governo Spadolini nacque per quanto atteneva al rapporto tra Democrazia Cristiana e altri partiti di governo, nonché al rapporto tra il “palazzo” e la “gente”. Occorre aggiungere che il nuovo governo subentrava al precedente governo Forlani, politicamente collocatosi nella prospettiva di una rottura di quella “solidarietà nazionale” che, in anni difficilissimi per la congiuntura sociale e per la minaccia terroristica, aveva consentito di affrontare le difficoltà del paese su una base molto vicina a quella di una sorta di unione per l’emergenza nazionale. La convergenza, che fu allora di importanza decisiva, del PCI su questa linea si era rotta proprio sul terreno della politica economica (in particolare per quanto riguardava il sistema monetario europeo) e sociale (sul piano delle rivendicazioni sindacali).
Da parte industriale si era intanto maturata la convinzione che i tempi richiedessero e, insieme, permettessero sia una revisione dei rapporti di forza tra le parti sociali (rapporti complessivamente favorevoli, nel corso degli anni ’70, alle controparti sindacali), sia una ristrutturazione produttiva che consentisse un pieno rilancio della competitività italiana sui mercati internazionali (competitività minacciata dall’inflazione e dal sistema retributivo, in quanto connessi tra loro) nel momento in cui si delineava nuovamente una congiuntura positiva dell’economia mondiale e, al contempo, una fase politica nuova come quella segnata dall’avvento del governo Thatcher in Gran Bretagna e di Reagan negli Stati Uniti.
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