Castro, l'Iran e il linguaggio dell'Impero



Gentile prof. Losurdo, leggo dalle agenzie di stampa che anche Fidel Castro sembra essersi unito al coro pro-Israele e anti-Iran. Per quanto lei possa saperne, la notizia è vera? Come la giudica? [MO]

08-09-10 IRAN: FIDEL CASTRO CRITICA AHMADINEJAD, ''ANTISEMITA''
(ASCA) - Roma, 8 set - Fidel Castro ha criticato il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad per i suoi comportamenti giudicati ''antisemiti''. Lo rende noto la BBC. L'ex leader cubano, nel corso di un'intervista rilasciata a Jeffrey Goldberg (personalmente invitato da Fidel a Cuba) dell'Atlantic magazine, ha dichiarato che l'escalation dei rapporti contrastanti tra Iran e Occidente potrebbe condurre ad una guerra nucleare.
Per quanto riguarda gli ebrei, Fidel Castro ha dichiarato che ''la loro esistenza e' stata molto piu' difficile della nostra. Non c'e' niente che puo' essere paragonato all'Olocausto'', ha spiegato l'ex presidente.
Per Castro, l'Iran dovrebbe, per la pace del mondo, ''riconoscere l'unica storia sull'antisemitismo e cercare di comprendere il motivo per cui gli israeliani temono per la loro esistenza''.



Non so fino a che punto l’intervistatore abbia compreso e riportato correttamente il pensiero di Fidel Castro: a tale proposito è lecito nutrire qualche dubbio. In ogni caso il mio punto di vista io l’ho espresso nel libro: Il linguaggio dell’Impero. Lessico dell’ideologia americana (Laterza, 2007). Riporto qui alcuni brani:

Più radicale sembra essere la posizione del presidente iraniano Ahmadinejad, secondo cui, in quanto Stato «artificiale», Israele sarebbe destinato a dileguare. E’ una presa di posizione spesso bollata in Occidente quale sintomo della volontà di replicare l’ebreicidio; ma questa lettura è un espediente polemico. E’ ben più vicino alla verità chi, scrivendo su un giornale insospettabile di antisemitismo (l’«International Herald Tribune»), ha osservato che ci troviamo dinanzi al rinvio ad una presunta «inevitabilità storica» piuttosto che all’«enunciazione di una politica». Conviene allora ricordare che ad aver messo in dubbio l’opportunità e la legittimità della fondazione di Israele sono personalità quanto mai illustri dell’Occidente: in privato Karl Popper non esitava a parlare di «disastroso errore»; ancora più significativo è il giudizio della Arendt, che nel maggio 1946 riconosceva con franchezza l’«ingiustizia perpetrata a danno degli arabi». Il grave torto del presidente iraniano è di non distinguere nettamente tra giudizio storico e progetto politico. Possiamo ben dire che la fondazione degli Stati Uniti implica ed aggrava le infamie subite dai pellerossa, ma è a tutti immediatamente evidente l’impossibilità del ritorno alla situazione precedente l’arrivo in America dei coloni europei. Mutatis mutandis, non c’è motivo di argomentare in modo diverso in relazione alla fondazione di Israele. Sennonché, un errore speculare a quello di Ahmadinejad commettono coloro che si affrettano a denunciare un programma genocida in ogni rivendicazione di risarcimento morale proveniente dal mondo arabo e islamico per l’ingiustizia da esso subita con la fondazione dello «Stato ebraico» e la conseguente espulsione della popolazione palestinese.
[…]

Non si fa un passo avanti nella ricerca di una soluzione bollando quale antisemita il presidente iraniano, il quale invece insiste sul fatto che a dover fare ammenda dei crimini dell’antisemitismo dev’essere l’Europa, non il popolo palestinese. Come vedremo, è l’opinione a suo tempo espressa da un illustre storico quale Toynbee, che nella fondazione di Israele vede l’affermarsi del «cinico principio di far pagare gli inermi» per colpe commesse da altri. Si possono e si devono condannare con fermezza i tentativi di Ahmadinejad di mettere in dubbio la realtà e la radicalità della «soluzione finale»: essi sono l’espressione maldestra e sciagurata del desiderio di richiamare l’attenzione sulle sofferenze e sulle ingiustizie subite da palestinesi e arabi, subite da coloro che si trovano nell’infelice posizione di essere vittime delle vittime (per usare una formula cara a Said).
[…]

Dopo Israele l’Iran è il paese in Medio Oriente che ospita il maggior numero di ebrei (20 mila), ed essi non sembrano subire conseguenze rilevanti dalla violenta retorica anti-israeliana che infuria a Teheran; né in Iran si manifestano tendenze all’espulsione degli ebrei a somiglianza del «trasferimento» degli arabi sognato da certi circoli israeliani (cap. V, § 6 del mio libro).

Su versante opposto vediamo cosa avviene in Israele. Purtroppo non si tratta solo del governo. E’ una larga opinione pubblica ad esprimere un orientamento assai inquietante. Trascrivo altri brani del mio libro:

Nel 2002 il 46 per cento della popolazione israeliana si pronunciava a favore dell’espulsione dei palestinesi dalla West Bank, «una sorta di pulizia etnica della Terra Santa». Tra i più impazienti e i più radicali è David Hartman, «un rabbino e filosofo che dirige un think tank a Gerusalemme», che invita a risolvere una volta per sempre il problema posto dalla presenza dei palestinesi: «spazzateli via, cancellateli» (wipe them out. Level them). Nel 2002, reagendo all’ondata di attentati suicidi, deputati di estrema destra nel Parlamento israeliano esigono: «Per ogni ebreo seppellito in seguito ad un attacco dobbiamo essere sicuri che siano uccisi 1000 Palestinesi». Occorre prenderne atto – osserva lo storico Tom Segev, «l’odio per i palestinesi e un vero e proprio razzismo sono diventati legittimi». Sono ben presenti in Israele settori che continuano ad insistere sulla sostanziale differenza qualitativa tra ebrei e goijm e che tendono a de-umanizzare in modo particolare il popolo palestinese.
Dà da pensare la vicenda verificatasi nell’agosto del 2000, allorché Israele è messo a soqquadro dalle dichiarazioni del rabbino Ovadia Yossef. Per un verso egli sostiene che nelle vittime di Auschwitz si sono reincarnate le anime di precedenti generazioni di peccatori (colpevoli di essersi allontanate dall’ortodossia ebraica); per un altro verso manifesta un razzismo delirante nei confronti dei palestinesi («con i serpenti non si può parlare di pace») e degli arabi in generale («ogni giorno il Signore Onnipotente si pente di aver creato gli ismaeliti»). Dopo l’ondata di polemiche e di proteste, il rabbino si rimangia o reinterpreta solo le dichiarazioni relative all’Olocausto ebraico. Per il resto, non sente il bisogno di smentite o rettifiche e nessuno lo costringe a farle. Alcune settimane dopo, mentre infuria la seconda Intifada e i palestinesi muoiono a decine, falciati dal fuoco delle forze di occupazione, in Israele non mancano i «duri» che su internet, dopo aver definito «diavoli» i palestinesi, invitano i soldati «a sparare sui loro genitali per assicurarsi così che non potranno più procreare» (cap. V, § 5 del mio libro).

E ora diamo la parola a un’illustre giornalista italiana di origine ebraica, e cioè Barbara Spinelli:

Inquietante è il culto riservato a Baruch Goldstein, «il medico colono che nel febbraio ’94 irruppe nella moschea di Abramo, a Hebron, e sparò sui credenti inginocchiati sui tappeti per pregare» (morirono in ventinove, mentre i feriti furono un centinaio). Nel ’97, in onore di questo «Santo», viene pubblicato un libro, L’Uomo Benedetto. Vi si può leggere: «La sua azione nella moschea è l’adempimento di comandamenti essenziali nella legge religiosa, tra cui l’obbligo di vendicarsi contro i non ebrei, lo sterminio di non ebrei appartenenti al seme di Amalek, la santificazione del Nome Divino». A questa glorificazione in chiave teologica del genocidio non sembrano volersi opporre «i molti rabbini che difendono, a volte raccomandano, comunque tollerano le azioni di Goldstein, o di Yigal Amir» (l’assassino del primo ministro israeliano, colpevole di aver ricercato un compromesso coi palestinesi) (cap. V, § 5 del mio libro).

In conclusione, almeno in Medio Oriente (ma non solo), l’antisemitismo realmente diffuso e pericoloso è l’antisemitismo anti-arabo. La campagna lanciata da Israele, dagli USA e dall’Occidente contro l’«antisemitismo» attribuito a Ahmadinejad è solo un’ideologia della guerra. Oltre che sul piano militare, diplomatico e economico i preparativi di guerra contro l’Iran conoscono una febbrile intensificazione anche sul piano ideologico. E come per l’«armamento nucleare» così per l’«antisemitismo», a dirigere il coro delle accuse contro Teheran è il paese che non può dare lezioni né su un punto né sull’altro.


Castro, l'Iran e il linguaggio dell'Impero, Domenico Losurdo