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    Predefinito La Rivoluzione Francese. L’eredità dei suoi princìpi

    di Michel Ostenc – In “Nuova Antologia”, a. CLIV, fasc. 2290, aprile-giugno 2019, Polistampa, Firenze, pp. 304-311.


    La Rivoluzione francese fu un fenomeno complesso contraddittorio e carico di passioni che si prestò a molteplici interpretazioni. All’inizio dell’Ottocento, i liberali (madame de Staël e Benjamin Constant) hanno ricuperato la Rivoluzione francese dando inizio ad un determinante filone interpretativo. Non solo ne ponevano in luce il significato politico ma costruivano la propria identità ideologica assumendo come valori i princìpi rivoluzionari dell’89: la libertà e la partecipazione politica attraverso la rappresentanza, unica forma possibile per mettere d’accordo il massimo di libertà col massimo d’uguaglianza. La storiografia rivoluzionaria liberale riportando in primo piano l’89 ha permesso da un lato di interpretare la Rivoluzione come liberale e progressista, dall’altro lato la riscoperta della sua dimensione concettuale, fatto di grande rilevanza nell’ambito delle idee e della loro applicazione politica. Ogni analisi veramente storica della Rivoluzione dovrebbe infatti cominciare con una critica di quanto ne costituiva la coscienza manifesta, la rottura tra vecchio e nuovo mondo su cui era incentrata l’ideologia rivoluzionaria. Sotto questo profilo era Tocqueville che intellettualmente andava più lontano capovolgendo l’idea che gli attori della Rivoluzione ebbero di se stessi e della propria azione, e mostrando che lungi dall’essere gli agenti di una rottura radicale portarono a compimento lo Stato burocratico centralizzato cominciato dai re di Francia. L’interpretazione liberale della Rivoluzione prese le mosse dalla contrapposizione ad un 1789 ricco di ideali giusti e condivisibili, vera anima della rivolta, e un 1793 ingiustificabile. Benjamin Constant difendeva le idee ed i risultati della Rivoluzione ed accusava gli avversari di volere distruggere i suoi più grandi princìpi: la fine dei privilegi e l’eguaglianza civile. Il popolo s’era pronunciato per la libertà il 14 luglio, per la Repubblica il 10 agosto, ma contro l’anarchia il 9 Termidoro e il 4 pratile. La contrapposizione dell’89 al ’93 era propria di tutta la storiografia liberale. Le due rivoluzioni erano in contraddizione fra loro. La prima, quella del 1789, nasceva dall’illuminismo e tentava di fondare un regime liberal-costituzionale basato sulla sovranità della nazione; la seconda invece creava la dittatura rivoluzionaria il cui potere veniva esercitato secondo regole nuove imposte da una minoranza a una maggioranza che non voleva affatto saperne. La vittoria dei Termidoriani poneva fine all’ideologia della democrazia pura che dopo esser stata il vero potere della Rivoluzione aveva finito per diventare il solo governo. I vincitori di Robespierre facevano di più che arrestare il terrore; lo disonoravano come forma di potere e lo dissociavano dalla volontà del popolo. Termidoro segnava la fine della Rivoluzione perché era la vittoria della legittimità rappresentativa sulla legittimità rivoluzionaria. Thiers e Mignet ricomposero invece la Rivoluzione in un blocco unico nel quale la violenza del ’93 si giustificava con la necessità delle cose. Bisognava glorificare la Rivoluzione con tutti i suoi delitti, in grazia dell’opera generale e benefica da essa compiuta. Nel processo rivoluzionario operavano insieme “i delinquenti di settembre e i valorosi di Valmy”.
    Con Michelet, la Rivoluzione divenne il dramma romantico del “popolo”, entità astratta e mito dell’età romantica. Herder e Vico, due precursori della lotta contro il razionalismo, erano febbrilmente letti da Michelet che li aveva inframmezzati senza tregua colle sue epopee storiche rivoluzionarie. Michelet era senz’altro quello che più aveva interiorizzato l’ideologia rivoluzionaria; ma egli affrontava la storia della rivoluzione dopo aver ripercorso tutta la storia di Francia e questa passione del passato unita alla straordinaria diversificazione della sua analisi della storia rivoluzionaria gli impediva di cadere nel finalismo. Le correnti di pensiero si succedevano come i dibattiti. Il determinismo di Taine paragonava i pensieri a prodotti del momento e dell’ambiente. Scrivendo sulla Rivoluzione francese, discuteva della Repubblica come idea generale al potere creatore. Alla fine dell’Ottocento si sviluppava una storiografia rivoluzionaria con forma commemorativa. Si poteva riconoscere negli studi di Aulard gli effetti di una passione politica che cercava negli avventi rivoluzionari l’origine della Repubblica laica. Il legame tra politica e storia era ancora più stretto in Jaures che, in polemica con Michelet, intendeva la Rivoluzione come sbocco di un processo di maturazione nata dalla ricchezza non dalla miseria, da un’immensa vitalità sociale e non dalla rivolta della disperazione. È vero che la gran maggioranza dei lavoratori della campagna era libera da servitù feudali ed una parte cospicua benché minoritaria di essa era rappresentata da fittavoli e coltivatori diretti. Tuttavia, c’era la rivolta dei più poveri, indirizzata spesso a ripristinare antichi diritti tradizionali che si riteneva fossero minacciati dalla modernizzazione e dalla razionalizzazione dell’economia.
    A Georges Lefebvre si doveva l’avere individuato l’esistenza nella Rivoluzione di diverse istanze; ma l’ideologia poteva divenire tanto invadente da rappresentare la prima motivazione dello scrittore. Con Mathiez, la Rivoluzione si connotava come mito fondatore del comunismo. Esaltava il ’93 in quanto primo archetipo del bolscevismo. Come Robespierre si riteneva l’esclusivo interprete della volontà del popolo, così pure Lenin si riteneva l’esclusivo interprete della volontà della classe operaia, volontà di realizzare con la forza al di fuori delle forme giuridiche della democrazia borghese. La violenza generava la violenza. “I padroni, invece di incivilirci, ci hanno resi barbari perché sono barbari essi stessi” scriveva Gracchus Babeuf. “Raccolgono ciò che hanno diffuso”. Infatti, la violenza dei “sans culottes” era il fatto delle messe più che degli individui. La speranza e la paura occupavano un posto essenziale nei comportamenti generati dalla Rivoluzione. Il Terrore, intollerante figlio della Rivoluzione, era l’inventore del “nemico oggettivo” (nobiltà e clero) poi diventato “nemico di classe” per il marxismo leninismo. In realtà, gli eventi rivoluzionari non erano certo identificabili come sosteneva la storiografia da Jaures a Soboul con una grande ed epocale rivoluzione sociale. Era però altrettanto parziale il voler privilegiare nella Rivoluzione l’aspetto popolare e quello giacobino, quasi incentivandoli. Il popolo ebbe infatti un ruolo primario solo nella presa della Bastiglia (14 luglio 1789) e in quell’assalto alle Tuileries (10 agosto 1792) che provocò la sospensione di Luigi XVI dalle sue funzioni. Quanto al resto, il popolo fu in realtà “oggetto”.
    La legge antisociale Le Chapellier contro il diritto di sciopero promulgata alla Costituente (29 settembre 1791) divenne uno dei fondamenti basilari della moderna legislazione antisindacale in Francia. L’abolizione delle corporazioni e l’interdizione dei “compagnonnages” avevano favorito lo sviluppo del capitalismo; ma non poteva verificarsi nello spazio breve della Rivoluzione un passaggio tanto ampio come quello da un modo di produzione feudale a quello capitalistico asserito dall’interpretazione marxista, e non si comprendeva perché questo capitalismo instaurato dalla Rivoluzione avrebbe tanto tardato a decollare. Le industrie belliche furono le sole a beneficiare della Rivoluzione e nelle campagne il carattere incompiuto della rivoluzione agraria e la persistenza della grande proprietà fondiaria erano altrettanto freni alla penetrazione capitalista. Gli storici marxisti stimavano il Termidoro come una reazione e si lamentavano della tragica incompiutezza della Rivoluzione che aveva il suo compimento nell’Ottobre rosso del 1917. L’ossessione delle origini di cui era intessuta ogni storia nazionale si proiettava appunto sulla rottura rivoluzionaria. Come le Grandi invasioni furono il mito della società nobiliare, il 1789 segnava l’anno zero del nuovo mondo fondato sull’uguaglianza e la Rivoluzione francese rappresentava l’atto di nascita della democrazia. La passione ideale diveniva dogmatismo ideologico, volontà di perpetuare il mito della Rivoluzione nella storia di un’entità metafisica.
    Dopo le disillusioni politiche del progressismo che avevano profondamente colpito il prestigio del marxismo presso gli intellettuali di sinistra alla fine del Novecento, pochi erano quelli che rivalutavano il Terrore, individuando in esso non pochi antecedenti della Rivoluzione d’Ottobre 1917. Era Claude Levi-Strauss che regnava nel vuoto così creato. Lo strutturalismo offriva una disciplina, un metodo e dei concetti adattati alla società contemporanea con un pensiero sistematico che tendeva ad una teoria generale dell’uomo. Sprovvisti del loro credo tradizionale, gli intellettuali di sinistra trovavano in questa teoria una risorsa strategica. I marxisti o gli ex-marxisti non soltanto avevano reinventato il loro passato senza rinnegarsi, ma avevano ritrovato l’ambizione di una scienza sintetica dell’uomo e il loro vecchio sogno totalizzante. La fine dell’età ideologica aveva trovato i suoi dottrinari. Infatti, bisognava sgombrare il campo dall’ideologia, che significava sfuggire alla tentazione di cedere a convinzioni personali e liberarsi dall’idea “mitica” della Rivoluzione.
    L’idea più importante intorno a cui si aggregava e articolava una costellazione di altri concetti, tutti derivati da un nucleo centrale, era quella della nazione. L’idea di nazione era strettamente legata alla Rivoluzione, mentre il federalismo era assimilato alla contro-rivoluzione. Certo, il decentramento della Costituente consentì un ampio cambio dell’amministrazione dell’Antico Regime dalla borghesia rurale; ma le regioni ignoravano il federalismo e tornarono senza difficoltà alla centralizzazione instaurata dalla legge del 14 frimaio Anno II (4 dicembre 1793). Il federalismo era severamente proscritto come le lingue regionali di cui era il mezzo d’azione. L’uso del termine “Nazione” introdotto da Sieyes esprimeva qualcosa d’unitario. Il termine di “Popolo” avrebbe invece consentito una visione pluralistica della società. La “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” parlava di “sovranità… e di nazione” (art. 3). Era evidente l’influenza di Rousseau nella “Dichiarazione” quando questa affermava che la legge era l’espressione della volontà generale, alla cui formazione si poteva concorrere individualmente o attraverso dei rappresentanti (art. 6). Quest’idea di sovranità nazionale finì per travolgere il giacobinismo che pure l’aveva fatta propria. Questo concetto conteneva una carica assolutistica che poteva scontrarsi con quello dei diritti del cittadino se non c’era una legge fondamentale (una Costituzione) che limitava la sovranità generale nel momento legislativo.
    Quando si parla di “forza delle idee” nella Rivoluzione, si tratta di due concetti maggiori in politica. Le idee ispirate dai “philosophes” e dall’ “Encyclopédie” avevano travolto l’ “Ancien Régime” già nel 1790 e imposto una tipo moderno di liberal-democrazia. La diffusione dei Lumi con libri, giornali ed informazioni sulle rivoluzioni d’America e dei Paesi Bassi aveva preparato la Rivoluzione francese. Fu in parte l’opera della massoneria, che nel Settecento era un’associazione deista; ma i massoni si sono repartiti tra Girondini, Giacobini e “monarchiens” nelle assemblee rivoluzionarie. Gli storici marxisti asserivano che l’ideologia massonica non aveva resistito alle dure realtà della lotta di classe durante la Rivoluzione. In realtà, c’erano solo 200 massoni negli Stati Generali su 1.165 deputati. Rappresentavano il 6% del clero, il 28% della nobiltà e il 17% del Terzo Stato. Le idee democratico-borghesi di Rousseau furono invece all’origine del principio totalizzante del potere giacobino. Questo era concepito come il potere illimitato della democrazia popolare di annullare col suo semplice intervento tutti i poteri costituenti e tutta la vigente costituzione. In una parte, era la democrazia diretta.

    (...)
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    Predefinito Re: La Rivoluzione Francese. L’eredità dei suoi princìpi

    Un’altra idea fondatrice era quella dei Diritti naturali, inalienabili e sacri, in nome dei quali la Rivoluzione conduceva un processo a tutto il passato nel quale aveva dominato “la dimenticanza o il disprezzo dei diritti dell’uomo”. Non c’era soltanto il programma della sovversione del vecchio ordine e dell’Antico regime, ma anche il pericolo che, radicalizzando i suoi princìpi, si potesse minacciare i governi che dovevano poi limitare questi diritti attraverso la legge. Nei democratici francesi pesava l’eredità della fisiocrazia per cui a loro risultava assai facile passare dall’ordine naturale evidente alla ragione. La legittimità del diritto positivo riposava solo sull’evidenza dell’ordine naturale. I liberali, cioè il gruppo dei “monarchiens” guidato da Mounier alla Costituente, non negavano il valore di questi princìpi; ma intendevano solo risolvere il diritto naturale nell’etica. I diritti del cittadino si garantivano entro e non contro lo Stato mediante la Costituzione e non attraverso la presenza attiva del popolo. Su posizioni opposte, Condorcet temeva che la costituzione mantenesse per il re e l’aristocrazia un residuo potere. La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino restava centrale e assoluta; l’ordine evidente si trasformava in diritti evidenti. Nell’Ottocento, si assisteva ad un’eclissi dei diritti naturali per l’affermarsi dell’utilitarismo e del positivismo giuridico. Solo nel secondo dopoguerra, ci fu un ritorno a questa tematica settecentesca.
    Alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, tutta imbevuta dello spirito dei diritti naturali, seguì solo il 3 settembre 1791 una costituzione che era un semplice compromesso fra la monarchia e l’assemblea. Prese fino al 10 agosto 1792 alla conseguente proclamazione della Repubblica. Nel frattempo, Mirabeau concepiva una regia democrazia che era all’inverso del progetto repubblicano accusato d’esporre lo Stato alle fazioni civili. Mirabeau voleva mettere il re al servizio della Rivoluzione in una sintesi tra democrazia e monarchia. La monarchia costituzionale utopica di La Fayette doveva generare prospettive di libertà e di felicità per un’umanità illuminata dai Lumi. Nel 1793, si ebbe il progetto di costituzione della Gironda, ma il 24 giugno venne approvato quello della Montagna o dei Giacobini. Questa costituzione venne subito sospesa per un decreto proposto da Saint Just, il quale stabilì che il governo sarebbe stato rivoluzionario e extra costituzionale sino alla pace. Le sette costituzioni “rivoluzionarie” attuate o solo progettate fallirono: cioè quella del 1791, dei Girondini, dei Giacobini, del Direttorio dell’anno VIII o di Sieyes e infine quella che anticipò in Consolato a vita e l’Impero. Ognuna perseguiva la sola difesa del gruppo che l’aveva ideata. Le costituzioni sono destinate a mettere d’accordo le istituzioni di un popolo con le sue “idee”. Quando le rivoluzioni superano le idee, corrono il rischio di conoscere un movimento a ritroso che le riporta al di qua dei punti di equilibrio cercati. La Rivoluzione francese fatta contro i privilegi aveva oltrepassato il limite. Da questo aveva subito una reazione fortissima che minacciava di riportare alla rinascita dei privilegi a vantaggio della borghesia. Il suffragio era universale dal 1792; ma elezioni nella Francia censuaria furono il privilegio di 60.000 a 70.000 notabili.
    La Rivoluzione nella democrazia pratica delle sezioni o nelle teorie accuratamente costituzionali e rappresentative di Sieyes si collocava nella vecchia tradizione del pensiero politico francese che crollerà soltanto nell’impatto con il liberalismo e alla prova di funzionamento di una società moderna. Invece, l’idea repubblicana destinata a un brillante avvenire non aveva niente a vedere colle repubbliche delle Province Unite o dei Cantoni svizzeri per cui i rivoluzionari francesi provavano disprezzo. L’idea repubblicana della rivoluzione francese era strettamente legata al ricordo dell’Antichità greco-romana trasmessa tramite l’insegnamento classico. I rivoluzionari francesi ammiravano le repubbliche di Atene, Sparta e Roma. Alla fine del Settecento, la parola “repubblica” era spesso associata a quella di “rivoluzione”. Furono gli “Idéologues” come Condillac e Daunou che dissertarono sulla “teoria della Repubblica”.
    “Libertà”, “Eguaglianza”, le due fatidiche parole hanno dominato la coscienza politica contemporanea dal 1789. Chi ha esaltata l’una a scapito dell’altra, chi le ha esaltate insieme e chi ha rigettato entrambe. Sono due concezioni essenziali: la prima secondo cui la libertà e l’eguaglianza entrano in contraddizione l’una con l’altra in maniera irriconciliabile, la seconda per la quale esse entrano in tensione ma possono essere riconciliate nel quadro di un unico contesto teorico. Cosa c’è di antico e cosa di moderno nella libertà dei Giacobini? Dal giacobinismo, originariamente non estremista quando nacque come “Club degli amici della costituzione” in giugno 1789, derivano due aspetti delle moderne democrazie. Prima di tutto i partiti, intesi come “rappresentanza politica” che si sostituirono ai canali tradizionali e ormai obsoleti del rapporto tra governanti e governati. E poi, l’aspirazione all’uguaglianza di fronte alla proprietà e di fronte alle carriere, cioè l’aspirazione che coinvolse intellettuali e popolo “alla supremazia del lavoro e del talento sulla nascita” e che unì due grandi componenti della Rivoluzione: i contadini esclusi dalla piena proprietà della terra e i giovani della borghesia esclusi dal potere politico. Lo spirito giacobino è giunto a inquinare le moderne democrazie che a volte hanno parzialmente i connotati di “tirannia della maggioranza” tipici dei totalitarismi del XX secolo.
    Dal punto di vista dell’educazione, la Rivoluzione francese fu più ricca in progetti che in realizzazioni. Le sue riforme ubbidirono ai criteri di nazionalizzazione, politicizzazione, democratizzazione e modernizzazione. Il primo fu un insuccesso colla persistenza di numerose scuole private. La politicizzazione fu netta solo sul Direttorio. La democratizzazione augurata da Condorcet fallì per mancanza di mezzi finanziari. Infine, la modernizzazione delle Scuole centrali scomparì nel 1802 coi licei che restituivano la loro importanza agli studi classici. Elementi di continuità esisterono tra i progetti dell’Ancien Régime e la Rivoluzione: la cultura della scuola repubblicana poggiava su alcuni schemi della cultura cristiana; ma la Rivoluzione lasciava tracce. Generava un nuovo processo di formazione delle “elites”, apriva la via a un sistema nazionale e preparava il monopolio di Stato. La Dichiarazione francese dei diritti invocava nel Preambolo gli auspici dell’Essere supremo ed affermava che nessuno doveva essere molestato per le sue opinioni, anche religiose (art. 10); ma la Rivoluzione francese maturava in un clima illuministico, deistico, fortemente laico se non laicistico. Fu il riferimento alle lotte scolastiche dell’Ottocento e lo spirito laico figlio dell’illuminismo, è alla base dello Stato moderno.
    Nella prima fase della rivoluzione, c’era una parte ancora viva come la Dichiarazione dei diritti, l’elaborazione di una costituzione scritta e un regime parlamentare fondato sulla delega di poteri nella rappresentanza del popolo, mentre nella seconda c’era l’affermazione teorica e pratica della dittatura rivoluzionaria di Robespierre o del console Bonaparte, entrambi ostili alle forme della democrazia rappresentativa ma più autentici rappresentanti della democrazia diretta ed interpreti della sovranità del popolo. L’eredità dei sue sistemi istituzionali si ritrova in Francia, il primo nella Terza e nella Quarta Repubblica (1871-1940) (1946-1958), il secondo nella Prima (1848-1852) e nella Quinta Repubblica (dal 1958). Libertà, uguaglianza, fratellanza e Terrore, Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino e regicidio, conquiste democratica e Vandea, incorruttibilità della politica e corruzione del Direttorio. Da due secoli, la Rivoluzione non ha cessato di essere per Francesi il segno massimo della contraddizione. “Fare la storia della Rivoluzione francese è impossibile – scriveva Victor Hugo – a meno se non si aggiunga il sogno”. Questo parere era condiviso da Bonaparte, primo console: “Abbiamo finito il romanzo della Rivoluzione. Ora si tratta di cominciare la storia”.
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

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    Predefinito Re: La Rivoluzione Francese. L’eredità dei suoi princìpi

    BIBLIOGRAFIA

    Mauro Barberis, Benjamin Constant, Bologna, il Mulino, 1988
    Francis Bluche, Septembre 92. Logique d’un massacre, Paris, Laffont, 1986.
    H. Burstin, La rivoluzione francese tra politica e ideologia: dibattiti recenti, tentazioni antiche, “Passato e Presente”, n. 3 (1983), pp. 149-172.
    Michela Dall’Aglio, François Furet: La rivoluzione senza mito”, “Il Mulino”, 322, anno XXXVIII, n. 2, marzo-aprile 1989, pp. 237-275.
    François Furet, Penser la Révolution française, Paris, Gallimard, 1978.
    François Furet, Le catéchisme révolutionnaire, in M. Terni (a cura di), Il mito della Rivoluzione francese, Milano, Il Saggiatore, 1981.
    François Furet, Dictionnaire critique de la Révolution française, (con Mona Ozouf), Paris, Flammarion, trad. Italiana, Milano, Bompiani, 1988.
    Georges Lefebvre, La Rivoluzione francese, Torino, Einaudi, 1958.
    Georges Lefebvre, La Grande peur de 1789, Paris, Armand Colin, 1988.
    Nicola Matteucci, Francia e America: due dichiarazioni dei diritti a confronto, “Il Mulino” 323, Anno XXXVIII, n. 3, maggio-giugno 1989, pp. 363-369.
    Carlo Pancera, La rivoluzione francese e l’istruzione per tutti: Dalla convocazione degli Stati Generali alla chiusura della Costituente, Fasano di Puglia, Schena ed., 1984.
    H. L. Salvadori, Nicola Tranfaglia (a cura di), Il modello politico giacobino e la rivoluzione, Firenze, La Nuova Italia, 1984.
    Alexis de Tocqueville, L’Antico Regime e la Rivoluzione, in Nicola Matteucci (a cura di), Scritti politici di Alexis del Tocqueville, Torino, UTET, 1969.
    Albert Soboul, Précis d’histoire de la Révolution française, Paris, 1962, trad. Italiana: La Rivoluzione francese, Roma-Bari, Laterza, 1974.
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