Ma la nostra cara maggioranza, cosa aspetta a disintegrare i furbetti della spiaggettina?
Subito rasare a zero e riportare i lidi a disposizione di chi paga davvero le tasse.
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Il rapporto Legambiente 2019 è complesso, a tratti desolante
3.346 km di coste italiane ma per metà sono spiagge private e in alcune Regioni le spiagge libere sono solo il 30%. Il rapporto Spiagge 2019 di Legambiente dà una fotografia del Paese complessa, a tratti desolante, complici le diverse norme regionali che regolano la libera fruizione balneare. La quota minima di spiaggia libera o libera attrezzata è 60% in Puglia e in Sardegna, 50% in Lazio, 40% in Liguria, 30% in Molise e Calabria, 25% nelle Marche, 20% in Emilia-Romagna, Campania e Abruzzo. Friuli Venezia Giulia, Veneto, Toscana, Basilicata e Sicilia assicurano 0 spiagge libere. Non mancano situazioni particolari, come la Sicilia, che, nonostante non abbia ancora imposto limiti alle concessioni delle spiagge, ha di recente approvato nuove linee guida per il rilascio delle concessioni demaniali marittime, e il Molise, dove la quota del 30% non è applicata dai Piani strutturali comunali in 4 Comuni costieri.
«L’errore che non va commesso – dice Edoardo Zanchini, vicepresidente nazionale di Legambiente – è quello di continuare ad affrontare gli argomenti separatamente, inseguendo la cronaca nel periodo estivo dei danni da cicloni o erosione, di spiagge libere e in concessione (con le polemiche sui canoni e sulla famigerata Direttiva Bolkestein) dell’inquinamento dei tratti di costa. Il paradosso, da cui dobbiamo assolutamente uscire, è che nel nostro Paese nessuno si occupa di coste».
Nessuno si occupa di coste, eccetto i centri balneari, che talvolta pagano canoni bassissimi, a volte meno di 2 euro al metro quadro, per concessioni oltremodo remunerative. Ad esempio a Santa Margherita Ligure, il Lido Punta Pedale versa 7.500 euro all’anno. A Marina di Pietrasanta il Twiga di Flavio Briatore occupa una superficie di 4.485 metri quadri, per un canone di 16mila euro all’anno: 0, 20 centesimi al metro quadro.
E ancora: l’hotel Regina Elena 6mila, il Metropole 3.614 euro e il Continental addirittura 1.989. A Forte dei Marmi il Bagno Felice versa 6.560 euro per 4.860 metri quadri. Tutte concessioni demaniali che danneggiano le casse dello Stato, che nel 2016 ha incassato poco più di 103 milioni di euro dalle concessioni per stabilimenti privati il cui giro di affari complessivo stimato sembra sia di almeno 15 miliardi di euro annui.
Legambiente dà una fotografia del Paese complessa, a tratti desolante, certamente a sfavore di una ridistribuzione dei ricavi dalle concessioni demaniali marittime in un Paese dove «le spiagge libere sono spesso un miraggio, quelle presenti sono il più delle volte di serie B e poste vicino a foci dei fiumi, fossi o fognature dove la balneazione è vietata. A ciò va aggiunto l’impatto che ormai i cambiamenti climatici, l’erosione e il cemento selvaggio stanno avendo sulle coste ridisegnandole, il problema dell’inquinamento, l’accessibilità negata e quello delle concessioni senza controlli. Dall’altra parte, però, in questi anni lungo il nostro litorale si è registrato un grande fermento green che punta, in maniera sempre più concreta, sulla sostenibilità ambientale, su un impegno plastic-freee sulla difesa della biodiversità».
Dal rapporto emerge che «in Italia sono ben 52.619 le concessioni demaniali marittime, di cui 11.104 sono per stabilimenti balneari, 1.231 per campeggi, circoli sportivi e complessi turistici, mentre le restanti sono distribuite su vari utilizzi. Complessivamente si può stimare che le sole concessioni relative agli stabilimenti ed ai campeggi superano il 42% di occupazione delle spiagge, ma se si aggiungono quelle relative ad altre attività turistiche si supera il 50%. In alcune aree il continuum di stabilimenti assume forme incredibili, come in Versilia, dove sono presenti 683 stabilimenti sui 1.291 dell’intera regione. Risalendo dal Porto di Viareggio fino al confine Nord del Comune di Massa si possono percorrere lungo la spiaggia 23 chilometri a piedi con accanto stabilimenti di ogni tipo e dimensione, dove saltuariamente sopravvivono alcune strisce di spiagge libere che tutte assieme non arrivano ad un chilometro di lunghezza. Una situazione di sovraffollamento che lascia pochi spazi a quanti cercano spiagge per tuffi liberi».
Ci sono poi situazioni di illegalità, alcune al centro di cronache e inchieste pubbliche, come a Ostia e a Pozzuoli, dove cemento e barriere impediscono addirittura di vedere e di accedere al mare. A ciò si aggiunge quasi il 10% delle coste interdetto alla balneazione per ragioni di inquinamento, percentuale che varia da Regione a Regione. «In Veneto oltre un quarto della costa è in queste condizioni, mentre in Emilia-Romagna, Friuli Venezia Giulia, Sicilia, Lazio oltre il 10% della costa rientra in questa categoria. Se si considerano i tratti di costa non balneabili, un ulteriore 9,5% della costa risulta quindi non fruibile. Il risultato è che complessivamente nel nostro Paese la spiaggia libera e balneabile si riduce mediamente al 40%.
Un po’ poco per un Belpaese.