User Tag List

Pagina 1 di 7 12 ... UltimaUltima
Risultati da 1 a 10 di 64
  1. #1
    Forumista senior
    Data Registrazione
    20 Apr 2009
    Messaggi
    2,908
     Likes dati
    41
     Like avuti
    155
    Mentioned
    0 Post(s)
    Tagged
    0 Thread(s)

    Predefinito L'angolo del libro e dei film

    La legge di Archimede.
    L'accumulazione selvaggia nell'Italia unificata e la nascita del colonialismo interno

    di Nicola Zitara



    • Premessa
    • Cap. 1° Lavoro e produzione negli ex stati italiani prima...
    • Cap. 2° I settori della produzione e il mercato negli ex Stati
    • Cap. 3° L'accumulazione economica
    • Cap. 4° La banca nell'età della restaurazione dinastica...
    • Cap. 5° La Banca Nazionale del Regno di Sardegna
    • Cap. 6° Il liberal-protezionismo di Cavour
    • Cap. 7° Il Banco prima della capitolazione
    • Cap. 8° Napoli e Milano
    • Cap. 9° La cavalcata della Banca Nazionale sarda
    • Cap. 10° Le patriottiche truffe dei ri-sorgimentati
    • Cap. 11° La distribuzione regionale del credito
    • Cap. 12° L'abito nuovo
    • Cap. 13° La spocchia del Nord industriale
    • Indice delle tabelle
    • Elenco degli autori e delle opere citati
    • Indice






    Cap. 6° - Il liberal-protezionismo di Cavour


    6.1 In ogni testo che si rispetti Cavour viene presentato come un appassionato e ardito sostenitore del libero commercio. La libertà di scambiare beni e servizi sia all’interno sia all’esterno del proprio Stato è oggi un principio organizzativo sbandierato dai governi occidentali. Siccome, però, gli Stati non hanno cessato di essere aziende collettive, il principio viene aggirato da eccezioni che fanno la regola. Ciò all’interno, per proteggere gli interessi di determinate classi sociali, e all’esterno per proteggere interessi reputati nazionali. A metà ottocento il liberismo era una bandiera rivoluzionaria. Essa veniva agitata con intenti completamente divergenti: in Gran Bretagna – dove era maturata una nuova forma di produzione affinché il nuovo sistema trionfasse contro le resistenze protezionistiche degli altri governi; altrove, perché la nuova filosofia fosse adottata, o introdotta con la forza, in assetti sociali che si volevano cambiare, nel nostro caso il Piemonte sabaudo.

    Le idee liberali e liberiste di Cavour sono enunciate in quelli che i posteri hanno chiamato gli Scritti economici. Si tratta di lunghi articoli, in effetti di saggi di notevole pregio in materia di politica economica, i quali vennero pubblicati, prima che egli diventasse ministro, sul giornale di sua proprietà e su altre testate. Cavour enuncia con fermezza tre concetti: uno, il libero commercio favorirà, se adottato, le esportazioni agricole di tutta la penisola italiana; due, un’organica rete ferroviaria favorirà gli scambi fra le varie sue parti e con l’estero; tre, l’ostacolo da superare è la divisione in più formazioni politiche ed economiche.

    Per Cavour l’idea di sviluppo coincide con l’opportunità, che il libero commercio offre, di valorizzare i prodotti agricoli; un bisogno diffuso in tutta Italia fra i possidenti, e tuttavia contraddetto dalla miriade di barriere doganali, non solo confinarie ma anche interne.

    Niente da ridire. Si tratta di idee rispettabili, teoricamente coerenti e perfettamente intonate con il credo liberista, secondo il quale il miglior modo d’operare a favore della collettività sta (starebbe) nel dare spazio all’iniziativa privata; nell’eliminazione, diremmo oggi, dei lacci e lacciuoli legislativi e burocratici. Ovviamente si preferisce lasciare in ombra il fatto che l’iniziativa privata non è “uguale per tutti”. L’assioma è soltanto uno slogan: la libertà di cui trattasi è riservata a chi mette a rischio il suo patrimonio e il suo buon nome per comandare il lavoro altrui, cioè del capitalista. Il resto della società beneficerà (o beneficerebbe) delle magiche virtù della sua iniziativa. Il concetto è efficacemente e vibratamente esplicitato da Cavour in suo celebrato discorso in parlamento.

    “Signori, la storia moderna, quella in ispecie dell'ultimo secolo, dimostra evidentemente essere la società spinta fatalmente nella via del progresso. Le leggi che regolano questa meta non hanno potuto finora essere determinate né dai filosofi i piú sapienti, né dagli uomini di Stato i più sagaci. In mezzo a una tanta incertezza questo però v’ha di certo, che l'umanità è diretta verso due scopi, l'uno politico, l'altro economico. Nell'ordine politico essa tende a modificare le proprie istituzioni in modo da chiamare sempre un numero maggiore di cittadini alla partecipazione del potere politico. Nell'ordine economico essa mira evidentemente al miglioramento delle classi inferiori, ad un miglior riparto dei prodotti della terra e dei capitali.
    “Lascio da parte assolutamente la questione politica per considerare soltanto quella economica.
    “Io dicevo dunque che l'umanità nell'ordine economico tende al miglioramento delle classi inferiori. Onde a questo scopo due mezzi si presentano. Tutti i sistemi ideati nei tempi moderni dagli intelletti i piú saggi e più audaci possono ridursi a due. Gli uni hanno fede nel principio di libertà, nel principio della libera concorrenza, del libero svolgimento dell'uomo morale ed intellettuale. Essi credono che colla sempre maggiore attuazione di siffatto principio debba conseguirne un maggior benessere per tutti, ma in ispecie per le classi meno agiate. Questa è la scuola economica, questi sono i principi professati dagli uomini di Stato che reggono la cosa pubblica in Inghilterra. Un'altra scuola professa principi assolutamente diversi. Essa crede che le miserie dell'umanità non possono venir sollevate, che la condizione delle classi operaie non può essere migliorata se non col restringere ognora piú l'azione individuale, se non coll'allargare smisuratamente l'azione centrale del corpo morale complessivo, rappresentato da un Governo da crearsi, nella concentrazione generale delle forze individuali.
    “Questa, o signori, è la scuola socialistica. Non conviene illudersi: quantunque questa scuola sia giunta a deduzioni funeste e talvolta atroci […]
    “Ora, o signori, io dico che il più potente alleato della scuola socialistica, ben inteso nell'ordine intellettuale, sono le dottrine protezioniste. Esse partono assolutamente dallo stesso principio; ridotte ai suoi minimi termini, esse riduconsi al dire essere diritto, quindi dovere del Governo l'intervenire nella distribuzione, nell'impiego dei capitali; al dire che il Governo ha missione, ha facoltà per sostituire la sua volontà, che egli crede più illuminata, alla volontà libera degli individui […].
    (Cavour**, Discorso alla Camera del 15 aprile 1851)

    Volendo riassumere i poetici slanci di Cavour in comune prosa, egli dice: Cari proprietari che sedete in questa camera parlamentare, se non valorizzate i prodotti attraverso lo sviluppo del commercio interno e internazionale, finirete male. Il socialismo l’avrà vinta, voi sarete espropriati delle rendite, mentre il potere di comando passerà nelle mani di chi oggi sta sotto.

    Dopo centocinquat’anni di tendenziosa agiografia cavourrista, i più si ritrovano piegati a credere che il malefico ministro sia stato, invece, oltre che un gran patriota anche un gran profeta. A beneficio del lettore non addentrato in materia di storia economica è opportuno ricordare che la prodigiosa crescita dei consumi e del benessere, verificatasi in Occidente a partire dal 1835 circa, è stata il frutto della scienza, della tecnologia, del colonialismo, dell’imperialismo economico (e nel caso italiano del colonialismo interno). In realtà alcuni paesi non liberisti hanno progredito quanto e più di quelli liberisti, e viceversa parecchi paesi liberisti sono andati indietro nonostante il loro liberismo. Si può aggiungere che, nel periodo secolare, il protezionismo è stato più una regola che un’eccezione proprio in quei paesi che più si sbracciavano a proclamare un illimitato, fecondo liberismo. Paesi dominanti, come gli USA e il Giappone, sono ancorati tuttora a un dissimulato protezionismo; un’osservazione che è facile estendere anche all’Unione Europea.

    Peraltro il liberismo, su cui Cavour mette l’accento nella sua perorazione, è angusto: riguarda essenzialmente la commercializzazione dei prodotti agricoli. Manca l’idea di una politica industriale, un serio riferimento alla crescita della produttività, alla ricerca, all’innovazione. Dall’esaltato modello inglese egli assimila il lato profitto e non il lato fabbrica (mentre lui faceva voli pindarici, Ferdinando II faceva le fabbriche). Questa incapacità a capire i meccanismi della crescita produttiva fu ereditata dai governi italiani e costò alla nazione cento anni di ritardo.

    Cavour badò soltanto a che la parte emergente della borghesia urbana si dilatasse, senza preoccuparsi del conseguente disagio che lo spostamento di risorse andava provocando nel suo paese (di cui per altro non sapeva granché), anzi impiegando la truppa nel caso di irrequietezze popolari. Con i suoi epigoni persino la costruzione dello zoppicante prolungamento nel Napoletano e in Sicilia della rete padana fu un impegno nazionale volto più ad alimentare la speculazione che ad attrezzare veramente il Sud di comunicazioni ferroviarie.

    Nel Regno sabaudo, il liberismo poetico o metafisico (o forse soltanto specioso), si rivelò pesante per le popolazioni contadine, in quanto non creò nuovi sbocchi occupazionali fuori dalle campagne. Permanevano “tecniche e sistemi organizzativi preindustriali (inadatti a sostenere la crescita della domanda, interna ed estera, favorita dalla politica economica del governo…)” (Conte, pag. 135); cioè dall’espansione monetaria. Soltanto l’abolizione del dazio sul grano recò qualche beneficio alle classi del lavoro urbano e fu un’occasione di profitti per gli speculatori genovesi, i quali, come tutti gli speculatori della storia, presero a bloccare in rada le navi in arrivo onde far crescere il libero prezzo della vettovaglia. Crebbe anche il commercio della seta greggia, quella piemontese e quella prodotta nel Lombardo-Veneto e in Emilia, che gli esportatori piemontesi riuscivano ad incettare in quantità.

    Invece il settore dell’industria era troppo debole perché Cavour arrivasse alla follia di esporlo alla concorrenza internazionale. Lo protesse, ma senza proclamarlo. Lo fece sottobanco, e ciò indigné le anime belle. Siamo al punto cruciale della successiva subordinazione e colonizzazione del Sud. Mettiamo, però, l’osservazione nel pro memoria e ripigliamo l’argomento precedente.

    Una cosa sono i principi, cosa diversa è la vicenda storica. Per la classe politica britannica il liberismo era una fede pagante, una specie di pubblicità a favore delle pezze di lana e di cotone, delle caldaie a vapore, delle locomotive, delle rotaie e di tutte le altre merci che il paese produceva e che avevano bisogno di sbocchi esteri. Per i liberisti di altri paesi l’impulso era esattamente l’opposto. La Gran Bretagna, officina del mondo, attirava a sé l’attardato padronato europeo, promuovendo lo scambio tra prodotti meccanici e merci agricole. Era, insomma, la promessa di più mercato, cioè più oro per i proprietari, che non sempre avevano trovato vano clienti per i loro raccolti, e anche più oro per i commercianti, che avrebbero visto un veloce realizzo delle merci messe in magazzino. Superfluo annotare che l’oro attrae chiunque, specialmente chi, come il redditiere fondiario, vi vede incorporata la sua capacità di affrontare spese di tipo vistoso. Meno superfluo è ricordare che il capitale, nella forma naturale (per esempio una botte d’olio), affronta rischi ben maggiori del capitale in forma aurea. L’oro non ammuffisce, non marcisce, non vermina, non corre pericoli accidentali (per esempio che la botte si sfasci); soprattutto figlia interessi. Fu questa la base antropologica su cui affondò le sue radici l’idea liberista, la ragione per cui il padronato fondiario offrì resistenze sempre più blande all’idea di cambiamento. Certamente, a livello di un Cavour era ben noto che il liberismo britannico era la glorificazione di una classe padronale dedita a riorganizzare, su basi più attraenti, il suo dominio sulle popolazioni nazionali e su quelle mondiali, e che i liberal britannici erano tutt’altro che critici verso la ferocia e l’ingordigia con cui venivano gestite le colonie.

    In generale, il modello cavourriano offriva al padronato padano1 una linea suggestiva perché potesse riaffermare la sua egemonia sociale, senza dover cedere (s’immaginava) ad altre classi quote del potere effettivo. Era comunque un modello idoneo ad assorbire il moto patriottico risorgimentale, per rovesciarlo in conservazione sociale.

    Al mio paese si dice: “chi non può permettersi di mangiare carne, si contenta del brodo”. Il Piemonte rischiava poco o niente partecipando alla competizione internazionale dei prodotti agricoli. In effetti la produzione di seta greggia aveva carattere quasi monopolistico. Il gioco, però, non poteva essere sensatamente esteso al settore manifatturiero senza rimetterci. Così il Regno sabaudo passò dal protezionismo visibile a quello invisibile. Sappiamo, per esempio, che la compagnia di navigazione Transatlantica si beccava coram populo più di un milione di aiuti governativi all’anno (Roncagli, pag. 7), e non si quanto danaro e quali favori ottenne celatamente. L’Ansaldo fu allattata segretamente dalla Banca Nazionale. Ma non sono certamente i singoli casi a spiegare un sistema generale, organizzato in base a uno Stato che s'indebitava per cedere il ricavato alla Banca nazionale, la quale foraggiava, lucrandoci, banche fasulle che avevano la funzione di coltivare la nuova classe degli affaristi e dei faccendieri. Fatta l’Italia, sarà questo meccanismo la levatrice del capitalismo padano.

    Non v’è dubbio che il sistema fu inaugurato dal Grande Ministro. Per quanto un liberismo protezionista possa apparire una contraddizione in termini, un concetto ridicolo, esso è cosa assolutamente normale, in quanto nessun paese potrebbe essere completamente liberista senza perdere la propria sovranità. E’ normale che il liberismo venga sbandierato e che sul protezionismo si metta la sordina. Esiste, peraltro, una scorciatoia, una via traversa al protezionismo, un modo d’aggirare la regola che impedirebbero l'avvio di attività reputate strategiche per il sistema-paese. L'aggiramento è comunemente rappresentato dal sostegno all’impresa attraverso il sistema bancario2. Formalmente il potere politico non c’entra. Altrettanto formalmente la banca, come ogni privato, i propri soldi li investe dove più le conviene. Chi dice il contrario bestemmia.

    Cavour, si afferma, temperò il suo liberismo; in effetti adottò un doppio indirizzo, liberista e insieme protezionista. Che fu poi il credo di quella borghesia padana degli intrallazzi, che governé l’Italia in prima persona o la fece governare dai suoi missi dominici. Con l’unità, il modello si tramutò in una forma di cobdenismo per i fessi napoletani e di colbertismo per i furbi toscopadani. Sotto Cavour, il governo sabaudo divenne un potere “assai prodigo, assai costoso. La prodigalità sembrò la via migliore per contribuire al progresso industriale e commerciale del paese [sabaudo], per dare impulso allo spirito di associazione ed accrescere la produzione della ricchezza e il generale benessere (Giuseppe Prato, Annali di economia, citati da Gazzo, pag. 161. Grassetto mio).

    E’ naturale che un paese sostenga lo sviluppo delle imprese nazionali. Non è elegante, ma è capitato (e capita spesso) che i costi vengano addossati ad altre realtà sociali. Ciò viene chiamato colonialismo, per lasciare immacolata la classe padronale. Il termine colonialismo è usato qualche volta anche nel caso italiano3, ma in verità per il Sud la cosa assume una colorazione peggiore. Si tratta, infatti, d'una truffa, di un inganno. O meglio d'una beffa. Beffa può far sembrare meno grave la cosa, ma per il sentimento nazionale il giudizio è più duro. La Toscopadana è uno dei paesi più civili del mondo, ma è anche uno dei più cinici e sleali. Machiavelli e Guicciardini l’insegnano, e ove la letteratura non bastasse, ci sono cento prove.

    Prima d’essere devoluto in trionfale eredità all’Italia una e indivisibile (nei debiti), il protezionismo dall’interno fu tenuto a battesimo nel Regno sardo. L’esempio classico di tale procedura fu l’assegnazione, per decisione del grande liberal Cavour, dell’Ansaldo a Bombrini, in modo che la mandasse avanti con i soldi della Banca Nazionale; un caso clamoroso di pubblico sostegno, e forse anche di malaffare, in quanto è lecito sospettare che Bombrini qualche quattrino se lo mettesse in tasca, mentre è certo che le passività vennero girate (non ai liguri-piemontesi, ma) al popolo italiano unificato. Ovviamente il liberal-protezionismo gratificò altre aziende, sempre con la tecnica delle scatole cinesi bancarie, in modo da nascondere la protezione. Il modello venne collaudato. I privati prendevano soldi in prestito a tre mesi, per investire in azioni ferroviarie. I prestiti a breve si trasformavano in prestiti a lungo termine. Le banche di sconto, dopo aver fatto ricorso alla Banca Nazionale per il risconto, vi ricorrevanp ancora per ottenere altra liquidità.

    In termini di politica economica, il protezionismo dall’interno non rappresenta un orrore e neppure un errore. Con tale sistema il costo dello sviluppo industriale non è caricato sulle merci, ma sulla fiscalità generale, distribuendosi sulla collettività che se ne avvantaggia. L’errore del grande ministro consistette invece nella sua convulsa applicazione, nello spreco di risorse per creare un clima favorevole agli affari, anziché fondare direttamente le industrie, come aveva fatto e faceva ancora in quegli anni il Borbone, negatore di Dio, e come avrebbe fatto un secolo dopo l’IRI, con gran disgusto del nostro mentore nazionale, Eugenio Scalfari, e della patriottica Confindustria. Ma a Cavour serviva più la pubblicità che la produzione. La mela che voleva cogliere non era di qua del Ticino, ma di là: le basse terre rese fertili dal Po e dalle risorgive, i Ducati emiliani e l’antica e serenissima Venezia, nonché lo sbocco in Adriatico. La Toscana no, essa si convinse da sé, e avendo convinto sé stessa, il suo malaugurato slancio unitario mandò in malora Napoli e la Sicilia.

    Se Cavour avesse guidato un serio processo di industrializzazione, le regioni sabaude avrebbero portato in dote alla nuova nazione qualcosa di positivo, e non miliardi di debiti come invece avvenne: otto volte le entrate del nuovo Stato nazionale. L’azzardo e gli errori metodologici e pratici di Cavour costarono agli italiani quarant’anni di ritardo nel campo della siderurgia e della metalmeccanica, nonché il peso gravoso di una classe di capitalisti tuttora sciancati. Soprattutto, se il Regno sabaudo fosse stato industrialmente attrezzato, non sarebbe stato municipalisticamente necessario annientare l’industria napolitana, per il sacro timore che Napoli si mettesse sotto Genova e Firenze. Il Regno sardo avrebbe fatto, forse, gli stessi debiti, ma sarebbe entrato in Italia senza l’appetito di una iena.

    Altro che grande ministro! Il disordine contabile, l’inaudita pressione fiscale, il debito pubblico, la sfiducia internazionale, l’infelice condizione produttiva portarono il Regno subalpino sull’orlo del fallimento e inaugurarono il corso di un’Italia folle, inetta, vile e dissipatrice. Tuttavia ribadisco: non reputo condannabile a priori la protezione all’industria, aperta o dissimulata che sia. L’industrialismo protetto dall’interno assumerà il carattere di una sopraffazione, di una malandrineria, solo dopo, quando, fatta l’Italia, le industrie liguri, piemontesi e lombarde saranno avvantaggiate sottobanco dalle commesse governative e foraggiate dalla banca bombrinesca, mentre, nello stesso momento, le industrie siciliane e napoletane si ritroveranno condannate a rispettare i sacri principi del libero mercato.

    Un governo che si metta alla guida di una rivoluzione sociale, deve necessariamente spianare i passi alla classe in ascesa. Uno dei modi per farlo sta nel assorbirne, palesemente o celatamente, i costi di rodaggio. Un nuovo sistema non nasce gratis. La società che lo partorisce deve pagare l’ostetrica e la nutrice. Spesso si tratta di un prezzo molto alto. In effetti l’Italia intera pagò, ma l’incasso venne buttato via dalla finestra.

    La contraddizione cavourrista tra libera iniziativa e intervento statale fu subito notata e concettualizzata.
    “La prima causa [di ciò] sta nel sistema in cui ci siamo lanciati, mossi dal desiderio di favorire le imprese di grandi lavori […] Lo Stato ha detto che certe imprese non possono mancare di rendere un frutto non ordinario; lo ha detto, proteggendole a differenza, dividendone la spesa e i rischi, accordando dei privilegi, garantendo un discreto interesse. L’attività naturale dei capitali se ne sentì stimolata. I valori oziosi si affrettarono a lanciarsi nella nuova direzione. Altri, che non sarebbero stati oziosi, abbandonarono la linea su cui s’eran posti. Una porzione lasciò la terra o l’opificio per andare alla Borsa; un’altra lasciò le sete e si diede allo sconto; una terza venne dall’estero; una quarta fu creata sulla parola…” (Francesco Ferrara, cfr Appendice 7A, grassetto mio).
    L’economista siciliano, adottato dal Piemonte sabaudo, era troppo autorevole per aver peli sulla lingua, e parlò esplicitamente di protezionismo dall’interno. E però Ferrara non capì che non si trattava d'un problema di euristica economica. Un capitalismo tutto d’un pezzo esiste solo nelle teorie che trascurano la storia, le vicende effettive.

    La capitale della nuova morale fu Genova. Anzi, bisogna dire che molta parte della buona riuscita della doppiezza cavourriana si deve al fatto che Genova era la città che meno si era ruralizzata nel corso della decadenza italiana. Con il suo antico spirito di speculazione e in conseguenza del fatto che Cavour riuscì a inserirla nel contesto sabaudo, Genova divenne l’epicentro del singolare rinnovamento italiano. Prima d’approdare all’ufficialità legislativa del protezionismo industriale, o per dirla più pertinentemente dell'industria parassitaria4 conobbe, infatti, una fase trentennale di disinvolto e liberale saccheggio dell’erario, di piratesca gestione della banca, di volgare dissipazione del ricavato dalle vendite terre collettive e del patrimonio ecclesiastico, insomma quello che ai tempi nostri si chiama tangentismo o intrallazzo; il tutto elevato a una potenza talmente alta da portare la nazione allo stremo. Per fabbricare i fabbricanti bisognerà aspettare le rimesse degli emigrati, trent’anni dopo il disastro unitario.


    Tratto da: La legge di Archimede. L'accumulazione selvaggia nell'Italia unificata
    e la nascita del colonialismo interno
    Ultima modifica di uqbar; 12-03-14 alle 18:40

  2. #2
    Forumista senior
    Data Registrazione
    25 Apr 2009
    Messaggi
    2,155
     Likes dati
    23
     Like avuti
    269
    Mentioned
    0 Post(s)
    Tagged
    0 Thread(s)

    Smile FILM E SCENEGGIATI: Regno delle Due Sicilie

    Riepilogo di tutti i Film e Sceneggiati ambientati in epoca Borbonica o nel periodo cosidetto “risorgimento”.
    E’ il mio “ARCHIVIO”.

    TUTTI i film qui elencati sono condivisi su Emule.

    Se possibile CHIEDO LA CORTESIA che questa discussione sia messa in evidenza sul forum.



    Comincio con i film che magari anche solo con una singola scena hanno dato spazio o sostenuto le ragioni dei Vinti (gli abitanti delle Due Sicilie)





    Li Chiamarono Brignti (1999 - FILM):






    Film completo visionabile sul canale Youtube dell'utente SudnelCuore:
    YouTube - Chaîne de sudnelcuore


    L'Eredità della Priora (1980 - SCENEGGIATO in 7 puntate)



    'O Re (1989 - FILM)




    Bronte: Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontanto (1972 - FILM)



    Briganti: Amore e libertà (1990 - FILM)



    Garibaldi il Generale (1987 – SCENEGGIATO in 4 puntate)



    L'Alfiere (1956 - SCENEGGIATO in 6 puntate)





    Napoli 1860: La fine dei Borboni (1970 - FILM)



    Il Brigante di Tacca del Lupo (1952 - FILM)



    Storie della Camorra (1978 - SCENEGGIATO in 6 puntate)



    Il Gattopardo (1963 – FILM)




    La prossima lista contiene film che invece si caratterizzano spesso per la solita agiografia risorgimentale o per la demonizzazzione e ridicolizzazzione completa della società delle Due Sicilie all’epoca della Dinastia Borbone.
    Altri film della lista invece vengono utilizzati semplicemente come sfondo per la trama del film.

    Ferdinando I Re di Napoli (1959 - FILM)
    YouTube - Ferdinando I Re di Napoli (Pulcinella)

    Ferdinando e Carolina (1998 - FILM)
    YouTube - Sergio Assisi Ferdinando e Carolina - 2^ parte

    Fuoco su di me (2006 - FILM)
    YouTube - Gioacchino Murat (Re di Napoli 1808-1815) - Fuoco su di me

    Il Resto di Niente (2004 - FILM)
    YouTube - Domenico Cirillo - Repubblica Napoletana 1799

    Quanto è Bello lu Murire Acciso (1975 – FILM)
    Film completo visionabile sul canale Youtube dell'utente Stefratini:
    YouTube - Quant'e' bello lu murire acciso - parte prima

    Il Sole anche di Notte (1990 – FILM)
    YouTube - IL SOLE ANCHE DI NOTTE

    Cavalli si nasce (1989 – FILM)
    YouTube - Cavalli si nasce clip 2 - padre Giacomo

    I Vicerè (2007 – FILM)
    YouTube - Scena dei vicerè ( discorso sul potere)

    Allonsanfan (1973 – FILM)
    YouTube - ALLONSANFAN-1973-ENDING

    Artemisia Sanchez (2009 - SCENEGGIATO in quattro puntate)
    YouTube - Artemisia Sanchez Puntata1 Di 4 [Parte 1 Di 10]

    Viva l’Italia (1961 – FILM)
    YouTube - Viva L'italia 1

    Luisa Sanfelice (2003 – FILM)
    YouTube - luisa sanfelice

    La Baronessa di Carini (1975 – SCENEGGIATO in 4 puntate)
    YouTube - L'amaro caso della Baronessa di Carini 1975

    La Baronessa di Carini (2007 – SCENEGGIATO in 2 puntate)
    YouTube - La baronessa di Carini

    1860: i Mille di Garibaldi (1934 – FILM)
    Donne e Briganti (1950 – FILM)
    Un Garibaldino al Convento (1942 – FILM)



    L’ultimo elenco riguarda invece film collocati in epoca “risorgimentale” ma non ambientati nelle Due Sicilie:


    La Notte di Pasquino (2002 – FILM)



    Arrivano i Bersaglieri (1980 – FILM)



    Le Cinque Giornate (1973 - FILM)



    Le Cinque Giornate di Milano (2004 - FILM)
    http://www.youtube.com/watch?v=KAkT5avjq4o

    La Carbonara (2000 – FILM)
    YouTube - Nino Manfredi - Chi è Vittorio Emanuele II di Savoia

    Nell’Anno del Signore (1969 – FILM)
    YouTube - Popolo sei na monnezza (Nell'anno del Signore - Luigi Magni)

    In Nome del Papa Re (1977 – FILM)
    YouTube - In nome del papa re (il processo)

    In Nome del Popolo Sovrano (1990 – FILM)
    YouTube - Nino Manfredi - In nome del popolo Sovrano

    Senso (1954 - FILM)
    YouTube - Senso, 1954, by Luchino Visconti

    Correva l'Anno di Grazia 1870 (1971 – FILM)
    YouTube - ... Correva l'anno di grazia 1870

    Passione d’Amore (1981 – FILM)



    Esistono anche altri film ambientati in epoca “risorgimentale” che però non inserisco nella lista perché attualmente non in condivisione su Emule.
    Spero di non aver dimenticato nessun film/sceneggiato del mio ARCHIVIO (Naturalmente tutti i film/sceneggiati li ho visti dall’inizio alla fine)
    e di aver fatto cosa gradita a tutti nello svolgere questo lavoro.

    Grazie a tutti per l’attenzione
    Ultima modifica di uqbar; 07-04-10 alle 09:17

  3. #3
    esterno alla massa
    Data Registrazione
    30 Mar 2009
    Località
    RDS
    Messaggi
    5,042
     Likes dati
    323
     Like avuti
    1,021
    Mentioned
    15 Post(s)
    Tagged
    2 Thread(s)

    Predefinito Rif: FILM E SCENEGGIATI: Regno delle Due Sicilie

    ottimo lavoro Napoli Capitale !

  4. #4
    Forumista senior
    Data Registrazione
    20 Apr 2009
    Messaggi
    2,908
     Likes dati
    41
     Like avuti
    155
    Mentioned
    0 Post(s)
    Tagged
    0 Thread(s)

    Predefinito La Rivoluzione italiana di Patrick K. O'Clery




    Patrick Keyes O’Clery, irlandese, aveva 18 anni quando nel 1867 si arruolò tra gli Zuavi per difendere il Papa: partecipò alla battaglia di Mentana dall’altra parte, ossia contro i garibaldini. A 21 anni, nel 1870, è nel selvaggio West americano a caccia di bisonti. Ma, appreso che l’esercito italiano si prepara a invadere lo Stato Pontificio, torna a precipizio: il 17 settembre 1870 è a Roma di nuovo. È filtrato tra le linee italiane con due compagni, un nobile inglese e un certo Tracy, futuro deputato del Congresso Usa. In tempo per partecipare, contro i Bersaglieri, ai fatti di Porta Pia.

    Tornato in Inghilterra ed eletto parlamentare, si batterà per l’autonomia dell’lrlanda. Nel 1880 abbandona la politica per dedicarsi all’avvocatura. Morirà nel 1913, avendo lasciato due volumi sulla storia dell’unificazione italiana.


    La Rivoluzione Italiana

    I retroscena sulla formazione del Regno d'Italia: l'opportunismo delle classi dirigenti, la manipolazione del consenso come prassi di legittimazione, l'odio anticristiano, la presenza malavitosa nei moti politici, la dipendenza dalle complicità straniere.

    All'interno del riaperto dibattito storiografico intorno al Risorgimento italiano, il presente testo costituisce sicuramente un punto di riferimento assolutamente originale. Esso, infatti, è stato scritto da una persona contemporanea all'evento, da uno che al Risorgimento partecipò di persona. Tuttavia, deve la sua originalità non tanto al fatto che a scriverlo fu uno dei protagonisti, ma che fu uno dei protagonisti che combatterono dalla parte del Papa e non dei "liberali". O'Clery, l'autore del libro, infatti, si arruolò negli Zuavi pontifici combattendo a Mentana e prendendo parte alla difesa della breccia di Porta Pia.

    L'originalità di quest'opera deriva dal fatto che la storiografia tradizionale ha quasi del tutto ignorato le ragioni e le spiegazioni dei vinti, prendendo sempre in considerazione solo quelle dei vincitori. Alberto Leoni, che ha il merito di avere recuperato e tradotto l'opera di O'Clery, sostiene infatti che "i vincitori della guerra risorgimentale abbiano compiuto una "damnatio memoriae" degli sconfitti, ergendosi a rappresentanti dell'unica Italia possibile: la propria". Prova ne è il fatto che l'opera di O'Clery, tradotta da Leoni - che in realtà comprende due testi scritti dall'irlandese "The revolution of the barricades" e "The making of Italy" - era del tutto sconosciuta in Italia, sia al pubblico che agli addetti ai lavori. Il primo testo non fu mai tradotto in ialiano e il secondo fu tradotto negli anni sessanta ma venne totalmente ignorato. Ora, dal momento che i testi originali di O'Clery si trovano proprio al museo del Risorgimento di Milano, la mancanza di considerazione rivoltagli non deriva certo dalla difficoltà di reperibili, quanto da un'intenzione di trascurare tutto ciò che non sia in linea con la lettura ormai tradizionale del Risorgimento.


    Patrick K. O’Clery - La Rivoluzione Italiana

    ______________________________________________



    LA RIVOLUZIONE ITALIANA
    COME FU FATTA L’UNITA’ DELLA NAZIONE

    di DOMENICO BONVEGNA

    Gli italiani leggono poco ma si appassionano alle dispute storiche, in particolare alla storia del Risorgimento. L’anno che è appena trascorso ha visto numerose polemiche e discussioni in merito al cosiddetto revisionismo storico con particolare riguardo alla nascita dell’unità d’Italia, toccando il massimo della rissosità in occasione della beatificazione del papa Pio IX. Qualche mese prima la casa editrice ARES di Milano (Ares) pubblicava il volume di Patrick Keyes O’Clery, “La Rivoluzione Italiana”, un corposo scritto di ben 780 pagine, in realtà si tratta della fusione di due libri.

    Il primo mai tradotto in Italia, scritto nel 1875, sotto il titolo: The Revolution of barricades, costituisce un’ampia rivisitazione della storia italiana a partire dalla Rivoluzione Francese, fino ai moti del 48, con particolare riguardo alla storia dei Papi che hanno contribuito a costruire la nazione italiana e soprattutto l’Europa cristiana. “Non si tratta di un’augusta apologia del Papa rescrive Alberto Leoni nella presentazione – ma dell’esaltazione del buon governo in quanto capace di scelte concrete ed efficaci, in contrapposizione all’astrattezza dell’ideologia”.

    Il secondo volume, The making of Italy, del 1892 è invece la ricostruzione delle fasi conclusive del nostro Risorgimento fino alla presa di Roma. Questa parte è stata pubblicata in Italia nel lontano 1897 e poi negli anni ottanta. Il testo di O’Clery è una lettura utile, scritto con obiettività, non riduce la Storia a un complotto, anche se condanna il modo di unificazione dell’Italia da parte della ristretta èlite liberale, lo fa sempre però presentando le fonti filorisorgimentali, quelle ufficiali. Lo scrittore irlandese sicuramente rappresenta un pioniere di quel revisionismo storiografico che ha preso corpo da qualche anno “e al quale guardano con diffidenza le vestali di un certo Risorgimento, tramandato a generazioni di italiani come religione civile della nuova Italia in sostituzione del Cattolicesimo”.

    Quando riferisce che Pio IX auspicava per l’Italia una Lega Federativa, una Confederazione che avrebbe incluso lo Stato Pontificio, il Regno di Sardegna, il Granducato di Toscana, il Regno delle due Sicilie, con la presidenza di Pio IX stesso, lo fa con assoluta serenità ponendo all’attenzione dei lettori “la bozza del trattato per la Lega Italiana” in appendice alla prima parte : “questo documento è così importante da poter essere ritenuto un monumento all’opera di Pio IX […]Sfortunatamente il documento non venne mai ratificato e, ancora una volta, fu il Piemonte a rovinare la speranza dell’unità italiana”. Una Confederazione che i rivoluzionari rifiutarono sempre, perché volevano fare una Italia unita, ma contro il Papato. Infatti fu evidente nel 1849 nella cosiddetta 1 guerra d’indipendenza, quando fu impedito a Carlo Alberto di accettare le proposte dell’Austria, che avrebbe ceduto la Lombardia al Piemonte e Venezia sarebbe diventata uno Stato indipendente. Mentre i rivoluzionari al sud con le insurrezioni di Calabria, Napoli e Sicilia, costrinsero re Ferdinando a ritornare a Napoli per difendere il suo trono. “Proprio quando tutti sarebbero dovuti essere uniti contro il nemico comune (l’Austria)”. Il Piemonte per invidia non accettò le proposte di federazione di Pio IX, e così gli eserciti federali, invece di marciare insieme per liberare il suolo della propria Patria dalla dominazione straniera, furono sciolti. “Non va dimenticato – scrive O’Clery – che PioIX fu il primo a proporre la Lega italiana, che il granduca di Toscana e il tanto calunniato re Ferdinando erano pronti a contribuire al costituirsi della confederazione e che il solo ostacolo a questo processo politico fu il Piemonte, allora sotto l’influenza del partito rivoluzionario. I veri nemici dell’Italia erano nei ranghi di quel partito, nemici ancora peggiori degli Austriaci. Decisi a compiere il loro progetto, la formazione di una Repubblica italiana atea che si estendesse dalle Alpi alla Sicilia, si opposero all’idea della Lega perché il Papa ne era il promotore e perché sarebbe stato un ostacolo insormontabile per i loro piani”.

    Nella seconda parte del testo: la formazione del Regno d’Italia, O’Clery dà conto della strategia politica di Camillo Benso conte di Cavour, abile manovratore nel tessere una politica di acuta doppiezza. “Il gioco delle parti” tra Cavour e i rivoluzionari Mazzini e Garibaldi è sempre presente nel testo, il primo manifesta moderazione nell’opera di demolizione del potere Pontificio, mentre i secondi attaccano apertamente la Chiesa e il suo Pontefice. Entrambi svolgono la stessa opera di conquista delle terre italiane alla Rivoluzione. Particolare risalto lo scrittore irlandese, dedica alla spedizione dei Mille di Garibaldi che ottiene una facile vittoria sui Borboni grazie all’azione cospiratrice del governo inglese attraverso i suoi uomini Lord Palmerston, Gladstone e Russell. Ma soprattutto grazie anche al tradimento dei generali di Francesco II che preferirono non combattere. Quando invece combatterono, sul Volturno o nella fortezza di Gaeta seppero dimostrare il proprio valore al mondo.

    Un rilievo considerevole viene dato al Brigantaggio sviluppatosi nel meridione d’Italia, subito dopo la cosiddetta “liberazione” ad opera degli eserciti piemontesi. Il popolo dell’ex Regno delle due Sicilie fu protagonista dal 1860 al 65 di una vera e propria insurrezione contro le misure centralizzatrici dei Liberali di Torino. I “Briganti” insorsero per difendersi dalla politica impositiva dei Savoia, Vittorio Emanuele II risponde con una spietata repressione operata prima dal generale Pinelli e poi da Cialdini con un esercito di 120 mila uomini mettono a ferro e fuoco gli Abruzzi, il Molise, la Basilicata e la Calabria. Nel descrivere questa sanguinosa “guerra civile” O’Clery si rifà alle fonti ufficiali, quelle dei Piemontesi, nel testo pubblica alcuni proclami sottoscritti dai comandanti dell’esercito Piemontese, dove per sopprimere il cosiddetto “brigantaggio” era prevista la fucilazione con o senza processo, di tutti coloro che erano presi con le armi in pugno; saccheggio delle città e dei villaggi ribelli; arresto delle persone sospette e dei “parenti dei briganti”; distruzione delle capanne, obbligo di murare tutti i casolari isolati; allontanamento degli uomini e del bestiame dalle campagne e raccolto in un luogo sotto il controllo dell’esercito; incriminazione di qualsiasi comportamento neutrale; rigida censura sulla stampa. “Questi proclami - scrive O’Clery - non furono vane minacce”. Chi non fu ucciso combattendo, finì nelle carceri napoletane, se ne contano circa 80 mila di reclusi, senza nemmeno sapere la propria imputazione, morirono di malattia nelle prigioni infette e affollate. Appare evidente che l’unità fu imposta all’Italia meridionale col terrore e la distruzione, e che “i liberatori” schiacciarono le vere aspirazioni del popolo con esecuzioni e incarcerazioni di massa.

    “La Rivoluzione Italiana”
    si conclude con l’occupazione di Roma e l’ignobile farsa del plebiscito romano. Qui la riflessione si fa più articolata, la narrazione più calda e anche la proposta politica dell’autore più completa. L’autore, ricorda l’eroismo dei “suoi” irlandesi nella difesa di Spoleto, ma soprattutto la gloriosa vittoria delle truppe Pontificie a Mentana, dove il generale Klanzer, nonostante l’inferiorità numerica dei suoi zuavi riuscì a sconfiggere l’esercito rivoluzionario alla guida di Garibaldi. La presa di Roma da O’Clery, viene considerata come una vera e propria invasione, una aggressione, “un reale atto di brigantaggio” da parte di un potente esercito di 65 mila uomini al comando di Cadorna contro 13 mila zuavi, tutti volontari decisi a difendere Pio IX. “Roma, intanto, era assolutamente tranquilla e non c’era il minimo segno di turbamento dell’ordine pubblico, non un solo episodio che significasse simpatia verso gli invasori o malcontento verso il governo pontificio”. Il 20 settembre 1870 precisamente alle ore 10,10 si conclude la guerra contro il più mansueto, il più amabile, il più amato sovrano del mondo, il Papa. “Contro il grande crimine commesso, giunsero proteste da tutto il mondo cattolico”, anche nel Parlamento italiano ci furono numerose proteste contro l’annessione.

    Nell’ultimo capitolo, O’Clery fa delle riflessioni politiche probabilmente utili anche ai giorni nostri, dopo aver sottolineato come la Rivoluzione italiana abbia portato miseria e decadenza, a un debito colossale, del tutto sproporzionato alle risorse del Paese, e a una tassazione elevata a causa delle costosissime guerre e rivoluzioni, si schiera a favore di un’Italia Federalista : “Sono l’ultimo a credere che non fosse necessario mutare lo stato delle cose in Italia, l’ultimo a negare che vi fosse del buon senso nell’aspirazione all’unità nazionale. Ma c’è una differenza tra le riforme operate da veri statisti e la Rivoluzione rossa, perché l’unità costruita per mezzo della cancellazione delle libertà e delle istituzioni locali, la riduzione di uno Stato a un sistema burocratico centralizzato, è un’unità che porta con sé i germi della propria distruzione. Non si saprà mai quanto l’Italia avrebbe guadagnato se, invece di essere trascinata con violenza all’unità voluta da Cavour, fosse stata unificata da un sistema federale, tale da non soffocare le autonomie locali del Sud, del Centro e del Nord. Questo era il progetto auspicato da Gioberti nel 1848 e accettato da Pio IX”.


    http://www.brigantaggio.net/briganta...e_Italiana.PDF
    Ultima modifica di x_alfo_x; 16-09-10 alle 15:54

  5. #5
    Forumista senior
    Data Registrazione
    20 Apr 2009
    Messaggi
    2,908
     Likes dati
    41
     Like avuti
    155
    Mentioned
    0 Post(s)
    Tagged
    0 Thread(s)

    Predefinito L'angolo del libro




    Il brigantaggio postunitario in Terra di Lavoro di Angelo D'Ambra


    INTRODUZIONE

    La presente ricerca archivistica tratteggia in maniera lineare ed articolata le complesse condizioni della Provincia di Terra di Lavoro nel primo decennio unitario. Viene fuori una società sconvolta dai cambiamenti in atto, dalla povertà, da una situazione politica fragile e segnata dalla violenza; in tale contesto si può solo immaginare quanto diffusi fossero i sentimenti di smarrimento, paura e rancore. Lo stringato frasario dei verbali e dei telegrammi dell'epoca non sembra, di certo, rappresentare a pieno questa complessa e travagliata realtà. Sanguinose misure repressive, sequestri, violenze, ricatti, fucilazioni, rivolte e sogni di riscatto animarono vicende e nomi oramai passati alla storia e alla leggenda col termine, così superficiale, di brigantaggio.

    La sterminata e frammentaria documentazione conservata all'Archivio di Stato di Caserta sembra sconfessare le tre storiche letture del fenomeno, quella liberale-crociana, che vede nel brigantaggio semplice delinquenza, quella marxista-gramsciana, che propone il brigantaggio come resistenza lealista. Tali letture presentano chiavi di interpretazione solo parzialmente valide e, forse, andrebbero verificate in una esegesi storica organica. Nel brigantaggio, infatti, individuiamo sia la componente politica, sia quella sociale, che quella delinquenziale che, con flebile chiarezza, si distinguono nel tempo intrecciandosi a spinte individuali.

    Tra i documenti pubblicati meritano, certamente, un posto di rilevanza i proclami borbonici e i numerosi fascicoli indispensabili per ricostruire l'epopea dei germani Della Gala, di Chiavone, di Fuoco, Pace, Andreozzi e di numerosi altri. Attenzione a parte merita, pure, l'analisi dei documenti concernenti il Plebiscito del 21 Ottobre 1860 e le molteplici circolari della Prefettura. Nel trambusto generale, in quegli anni veniva pure segnalata la presenza di agenti del governo statunitense per reclutare uomini da arruolare nell'esercito nordista.

    Il libro presenta, così, un'analisi globale del primo decennio di unità italiana in Terra di Lavoro, esamina il ruolo politico della Società Economica e la questione contadina, la sanguinosa repressione e l'azione determinante del Generale Pallavicini fino all'emergere dei fermenti anarchici e repubblicani che finirono, a partire dal 1868, col rappresentare le istanze sociali contadine.


    ______________________________________

    RECENSIONE DEL LIBRO A CURA DI VALENTINO ROMANO

    di Valentino Romano
    Roma 10 aprile 2010



    Due Sicilie, buona domenica!

    Preliminarmente devo ringraziare gli amici che hanno voluto, bontà loro, farmi pervenire il loro apprezzamento per la rubrica. Fra tutti consentitemi di salutare il cav. Giovanni Salemi, una delle nostre bandiere più rappresentative. E autentiche!

    Ringrazio pure gli amici che hanno dissentito (a modo loro, beninteso) dissentire con le mie scelte, chiamiamole così, di “collaborazione”.

    Ricordo loro però, pur senza acrimonia, a costoro che nel nostro “universo” (= amanti a vario titolo del Sud e delle sue ragioni) non esiste una sovranità assoluta, né una investitura divina, né alcuno è autorizzato a “legittimare” o “delegittimare” gli altri, a seconda che appartengano o meno a una certa … “parrocchia”.

    Et de hoc satis!Veniamo al libro di questa domenica, Il brigantaggio postunitario in Terra di Lavoro di Angelo D’Ambra.Lo so, se ne è già parlato, forse anche in questo sito. Il libro però a me piace e lo scopo di queste chiacchierate è condividere le mie impressioni con gli amici, non fare “recensioni classiche”.

    A proposito un rigo su queste ultime me lo consentirete: spesso si coglie l’occasione di un commento ad un libro per veicolare le proprie idee, non per illustrare quelle del suo autore; talvolta addirittura per affermare la supremazia delle prime sulle seconde. E lo si fa con supponenza e superficialità. Così si sfogliano appena i libri da recensire e ci si ferma alle prime pagine. Il risultato però è che chi con i libri ha dimestichezza se ne accorge facilmente.Io il libro di Angelo l’ho letto e riletto, messo da parte, “digerito” e ripreso in un secondo tempo perché mi intrigava e mi intriga ancora. Innanzi tutto perché è la sua “opera prima” e a me queste interessano particolarmente; poi perché è stampato in proprio; e infine perché a farlo è un giovane. Se mettiamo insieme questi tre elementi ne viene fuori un quesito interessante: cosa spinge un giovane a scommettere e a mettersi in discussione (anche con la sua saccoccia) in un campo affollato da tanti soloni (o presunti tali) convinti – ognuno per sé – di aver scritto la bibbia del brigantaggio? Alla base ci devono essere forti motivazioni ideali, tanta determinazione e la necessaria competenza. E su quest’ultima intendo soffermarmi un attimo riguardo a D’Ambra che dimostra di avercela tutta: non scrive un libro de relato, cioè scopiazzando altri autori (pratica questa peraltro diffusissima tra di noi); va direttamente alle fonti primarie, ai documenti. Li analizza in una visione d’insieme complessiva, anche limitando la sua ricerca ad un’area geografica limitata. E scusate se è poco. Angelo D’Ambra, dopo aver delineato il quadro economico e sociale di Terra di Lavoro con dovizia di dati (ad esempio quelli demografici), inquadra il cosiddetto brigantaggio di quelle terre all’interno del profondo e generalizzato malessere delle classi sociali meno abbienti del Sud; e sintetizza lucidamente la sua visione delle cause del dilagare con un lapidario

    “… il malcontento dei contadini, delusi, impoveriti ed oppressi dagli elevati gravi fiscali, incontrò l’ardore dei soldati dei soldati del disciolto esercito borbonico e la devozione dei numerosi sostenitori dei numerosi sostenitori dei Borbone …”. Vivaddio questa è analisi serena, pacata e obiettiva, figlia di un lavoro di approfondimento che antepone la riflessione dello storico, tesa all’esposizione della verità, alle passioni e alle simpatie dell’uomo: oggi molti sono convinti che per difendere le ragioni del Sud bisogna elaborare tesi e categorie opposte a quelle della storiografia ufficiale. Mi spiego: la storiografia dei vincitori ha classificato il brigantaggio come fatto solamente “criminale”? E io gli contrappongo il brigantaggio solamente come guerra partigiana, i briganti tutti eroi legittimisti e politicizzati. Ora è chiaro quanto sia profondamente errata la prima lettura, ma è altrettanto chiaro come sia almeno esagerata la seconda.Nel brigantaggio vivono e convivono diverse anime. E anche a questo proposito Angelo D’Ambra ha idee chiarissime: “ … individuiamo sia la componente politica, sia quella sociale, sia quella delinquenziale che, con flebile chiarezza, si distinguono nel tempo intrecciandosi a spinte individuali”.

    Si rassicurino gli strenui difensori della prima: riconoscere nella reazione in armi la contemporanea presenza delle tre componenti non sminuisce affatto la portata complessiva e il valore dell’opposizione popolare contro l’odiosa occupazione sabauda. Anzi, a mio avviso e – leggendo il libro - anche a quello di D’Ambra, ciò le rende ancor più giustizia, la contestualizza storicamente, la dimensiona più esattamente; ne fa la reazione di un popolo intero, con le sue luci ed anche – riconosciamolo - con le sue ombre, ma comunque di un “popolo” che rivendica (oggi come ieri) il suo sacrosanto diritto ad essere riconosciuto come “Nazione”.

    Ieri a livello istituzionale, oggi a livello identitario. Il pregio della sintesi che contraddistingue tutto il lavoro di Angelo non gli impedisce di regalarci una panoramica esaustiva sugli uomini e sui fatti che caratterizzarono il brigantaggio in Terra di Lavoro, dalla fase “epica” del fenomeno alla fase “crepuscolare” dello stesso: lo fa con consumata perizia, dosando sapientemente la sua analisi con il ricorso ai numerosi documenti d’archivi consultati e studiati.

    Qui mi siano consentiti una riflessione personale, un “consiglio” e un invito. La riflessione: sono anni che giro per archivi e di giovani che li frequentino con costanza e competenza ne vedo pochi, assai pochi.

    E, tra i pochi che vedo, molti non sanno come e cosa cercare . Angelo costituisce una piacevole eccezione. Il “consiglio”ad Angelo: continua così.L’invito agli amici: leggiamolo attentamente questo bel primo lavoro di Angelo D’Ambra, prima che ce ne … regali un altro.

    Buona lettura, Due Sicilie.

    Valentino Romano

    Comitati Due Sicilie - ANGELO D’AMBRA, Il brigantaggio postunitario in Terra di Lavoro
    Ultima modifica di x_alfo_x; 16-09-10 alle 14:16

  6. #6
    Forumista senior
    Data Registrazione
    20 Apr 2009
    Messaggi
    2,908
     Likes dati
    41
     Like avuti
    155
    Mentioned
    0 Post(s)
    Tagged
    0 Thread(s)

    Predefinito Rif: L'angolo del libro

    I Borboni nel Regno delle Due Sicilie di Michele De Sangro


    Ai miei lettori,

    Implacabile odio settario non si stanca con ogni specie di calunnie di denigrare la memoria della Real Famiglia dei Borboni, e specialmente quella di Re Ferdinando II. Né 25 anni di tomba, né sventura immeritata e tanto nobilmente sostenuta da’ suoi figli, né avergli rapito ogni fortuna, né l’essersi assisi trionfanti sulle rovina della patria e dei suoi Re, niente può calmare o diminuire quell’odio. Se però tanto fiele e tanto veleno si ammassa negli animi di taluni sciagurati, sono tali la devozione l’affetto la gratitudine, verso quella Reale Famiglia, che per nessun sacrificio di intere fortune, di luminose carriere, di splendide prospettive, per nessun volgere di tempo, od infierire di persecuzioni, non mai si videro affievolire.
    Ultimo per merito, mi faccio gloria di essere fra i più devoti a quell’illustre sventura, penso rispondere a tante infame pubblicazioni contro le anguste vittime di esse, Potrei paragonare i 25 anni di “libertà” unitaria coi precedenti; a persona potrei opporre persona, a sbagli commessi delitti consumati, ma non lo faccio. E’ già troppo disgraziatamente l’odio che si ammansa nelle nostre Provincie; non voglio io fomentarlo; che anzi, obliando ogni passato, in cui tutti fummo colpevoli, sarei fiero di unirmi a chiunque desidera il bene, la prosperità, l’indipendenza nostra. Hanno cercato calunniare la vita, il Regno, la memoria di quella dinastia; dovremmo noi inchinarci, e non rispondere a tali attacchi? Non è col silenzio che si possono combattere avversari i quali conoscono gli effetti perniciosi della calunnia. Noi li confuteremo, dimostrando quanto BENE abbiano le provincie nostre ricevuto da quella dominazione. Il poco nostro ingegno sarà compensato dalla volontà di smascherare l’odio implacabile dei nemici, e far rifulgere la grande bontà d’animo di quei Re, che non è mai venuta meno nel travagliato loro dominio.
    Non siamo tra quelli prudenti che perché si sentono deboli lasciano prevalere i nemici; non siamo di quelli che per paura di essere chiamati nemici del loro secolo tacciono quando dovrebbero parlare, dissimulano quando dovrebbero agire, tollerano quando dovrebbero invece riprendere e punire. Non ci lasciamo né intimidire dalla resistenza, né sedurre dalle mezze concessioni, né abbattere dai rovesci. Sappiamo che le più dure prove ci vengono più facilmente non dai nostri avversari naturali, bensì da falsi amici; ma lasciamo ad essi quali che sieno la vergogna, e terremo per nostra gloria e ricompensa l’appoggio degli uomini di cuore e di fede. Sono scorsi 25 anni dalla caduta del Regno napoletano. Quanto più mi avanzo nella vita, mi è venuta tanta più cara la fede. Né grandi dolori ho provato quanto essa valga, e nelle pubbliche sventure ho rimpianto quanti fede non hanno. Ho sempre ammirato quanto la Provvidenza ha fatto per allontanarmi dalla disperazione ed attaccarmi invece ad un travaglio continuo dello spirito che, facendomi sopportare ogni dolore, ho dato all’animo mio tranquillità e pace benedetta. In questi tempi, più che in altri, il coraggio dell’obbedienza, della fermezza contro le avversità e contro le ingiustizie, che certamente è il più raro ed il più difficile di tutti, non deve mancarci. Dobbiamo sopportare con pazienza ciò che in altre circostanze non avremmo nemmeno tollerato. Anche quando riceviamo dei grandi torti, non ci è lecito lagnarci, né pubblicarli. E’ il merito maggiore della nostra coscienza che avrà a nostra coscienza, per la quale principalmente lottiamo e soffriamo.

    Firenze, lì 12 giugno 1884


    LIBRO IN PDF Clicca qui
    Ultima modifica di x_alfo_x; 16-09-10 alle 14:21

  7. #7
    Forumista senior
    Data Registrazione
    20 Apr 2009
    Messaggi
    2,908
     Likes dati
    41
     Like avuti
    155
    Mentioned
    0 Post(s)
    Tagged
    0 Thread(s)

    Predefinito Rif: L'angolo del libro


    Vignetta di Enzo Brizio, riproduzione di un’originale del 1860


    Il Sud e l’Unità d’Italia di Giuseppe Ressa

    Presentazione di Alfonso Grasso

    L'opera, frutto di uno studio in continuo divenire - "matto e disperatissimo" di leopardiana memoria - durato finora 7 anni, ha lo scopo di contribuire alla riscoperta delle nostre radici più autentiche, troppo a lungo oscurate dai nefasti retaggi della retorica risorgimentale e sabauda. Il libro si rivolge sia ai nuovi "adepti" per la causa, per fornire loro tutti gli elementi di informazione, sia agli "iniziati", che potranno considerarlo un libro aperto, da arricchire con aggiornamenti da segnalare all'autore (che ne riporterà la fonte).

    Con la presente edizione, Giuseppe Ressa, ha completamente rivoluzionato la precedente articolazione dei capitoli, allo scopo di introdurre sollecitamente il lettore negli avvenimenti di un'epoca che tanto segnò i nostri destini. L'opera è inoltre arricchita di molte nuove notizie, riscoperte grazie ad una capillare ricerca nei testi più rari ed antichi. Il Ressa spazia così tra gli intrecci della complicata sfera geopolitica del XVIII e XIX secolo, svelando in profondità gli aspetti positivi e negativi dell'Antico regno, e sulle cause interne ed esterne che ne determinarono la caduta, soffermandosi su personaggi noti e meno noti. Lo fa sempre più, rispetto alle edizioni passate del libro, con spirito di vero ricercatore, che con metodo scientifico si accosta alla verità storica ed alle ragioni che produssero gli avvenimenti e la caduta del regno.

    Ressa riesce così ad abbattere inesorabilmente i canoni della mitologia risorgimentale, mettendo a nudo quelli che ci vengono ancor oggi presentati come eroi. Allo stesso tempo, con l'equità dello storico ed il "rammarico" dell'appassionato, mette in rilievo i limiti e le manchevolezze di quel mondo antico.

    Il libro riporta anche le vicende post-unitarie della resistenza nelle Due Sicilie, senza tralasciare l'analisi accurata delle conseguenze drammatiche per il Sud dell'unificazione. Il testo è la "summa" di circa 12 mila pagine lette e confrontate, tratte dai libri più famosi e da altri di difficile reperibilità, contiene oltre 470 note con spiegazioni e fonti bibliografiche.

    Si tratta di un lavoro appassionato ed accurato, ma lo stile è sobrio e diretto, quasi a volersi anche in questo nettamente discostarsi da quell'enfasi e quella vuota retorica che contraddistingue invece i testi filo-risorgimentali.

    Rivolgiamo a Giuseppe Ressa un sincero e fraterno ringraziamento per tanta fatica: il Sud ha, oggi più che mai, estremo bisogno di uomini sinceri e disinteressati come lui.

    Raccomandiamo a tutti di contribuire alla diffusione

    Alfonso Grasso


    Per scaricare il libro (file zip) clicca qui
    Ultima modifica di x_alfo_x; 16-09-10 alle 14:22

  8. #8
    Forumista senior
    Data Registrazione
    20 Apr 2009
    Messaggi
    2,908
     Likes dati
    41
     Like avuti
    155
    Mentioned
    0 Post(s)
    Tagged
    0 Thread(s)

    Predefinito Rif: L'angolo del libro



    Nacquero contadini e morirono briganti

    di Stefano Donno
    libri-bari.blogautore.repubblica.it

    Capone Editore è una casa editrice specializzata in storia del Salento, del Mezzogiorno d’Italia e Cartografia. Beppe Severgnini, nel suo “Italiani con la valigia” (Rizzoli, 1999) , scriveva “Lorenzo Capone sostiene che Lecce e il Salento, se corteggiassero un turismo più sofisticato (arte, cultura, cucina), potrebbero attirare visitatori tutto l’anno, e diventare il giardino d’Europa.”. Dunque questa azienda editoriale è dotata di un catalogo di grande qualità nel quale vengono sviluppati i diversi aspetti della cultura etno/antropologica del territorio salentino, dalla preistoria ai giorni nostri, grazie al contributo di storici e studiosi di rilievo sia indipendenti che appartenenti al mondo universitario. Vi troviamo allora non solo libri fotografici, libri d’arte, di storia, d’architettura ma anche una nutrita sezione di testi dedicati al tema del Brigantaggio e della Storia del Mezzogiorno.

    Faccio riferimento da subito alla collana dell’editore salentino “Carte scoperte, storie e controstorie” che ripropone testi storici e opere di narrativa, accogliendo inoltre approfondimenti, sfumature e ipotesi sia che toccano la Storia da un punto di vista macroscopico sia che lambiscono zone d’ombra della nostra cultura storica. In questa collana hanno visto la luce volumi come “Cento anni di Brigantaggio” di Alexandre Dumas, oppure “Il mistero del brigante” di Gianni Custodero. Ora per comprendere con cognizione di causa e con pienezza il brigantaggio post/unitario meridionale, liberandolo da ogni fumosità ideologica, occorre immergersi nel mondo contadino che ne è il substrato culturale e sociale.

    Di recente pubblicazione per Capone editore, il libro “Nacquero contadini, morirono briganti” di Valentino Romano con prefazione di Paolo Zanetov. Le storie riportate – frutto di un recupero attento e paziente in anni e anni di scavi archivistici – aprono uno spaccato interessante, spesso inedito e insolito, su questo mondo nel quale convivono e si scontrano tutti insieme cafoni e gentiluomini, idealisti e profittatori, eroi tragici, avventurieri di sempre, briganti e soldati, vittime e carnefici, giudici e giudicati, carnefici e condannati, clero avido e monarchia intrigante: ombre di un Sud, palco di speranze, di illusioni e di delusioni sul quale, dopo la dissoluzione del Regno delle Due Sicilie, va in scena la nuova Italia. Il libro con una certosina raccolta di indicazioni bibliografiche e un’attenta calibratura dei passaggi e momenti storici che si concretizza in uno stile elegante e coinvolgente, racconta di semplici e umili contadini le cui vicende aiutano a capire il brigantaggio postunitario e la vera storia dell’Unità d’Italia.

    Scrive la brava Monica Mazzitelli nella postfazione al volume: “Briganti, li chiamiamo, come oggi chiamiamo altra gente “clandestini”: nomi comodi per allontanare da noi, di uno o cento passi, il desiderio disperato di sopravvivenza, o se possibile di una vita dignitosa, una vita senza troppe paure, a cui ci si possa un pochino aggrappare. In queste pagine ci sono dolore e leggerezza insieme, crudeltà e amore: c’è umanità e disumanità come antinomia della stessa essenza: quella della realtà fatta di carne, delle sue pulsioni. C’è la sottomissione delle donne, spesso vendute, il sopruso sul povero, la vendetta sul ricco, la furbizia che si ritorce contro chi crede di poter strappare un salvacondotto alla fortuna”. Un libro utile, forse prezioso, forse necessario per capire gli intrecci e gli incroci di questo sud del sud del mondo!

    Nacquero contadini, morirono briganti – di Valentino Romano (Capone, 2010, 144 pagine, 10 euro)

    Nacquero contadini e morirono briganti
    Ultima modifica di x_alfo_x; 26-09-10 alle 15:24

  9. #9
    Forumista senior
    Data Registrazione
    25 Apr 2009
    Messaggi
    2,155
     Likes dati
    23
     Like avuti
    269
    Mentioned
    0 Post(s)
    Tagged
    0 Thread(s)

    Predefinito Rif: FILM E SCENEGGIATI: Regno delle Due Sicilie

    Tra Due Mondi (FILM - 2002)




    Ora nel mio archivio anche:

    "Vita di Cavour" (Sceneggiato del 1967 in 4 puntate)
    "Il Giovane Garibaldi (Sceneggiato del 1974 in 3 puntate)















    _

  10. #10
    Forumista senior
    Data Registrazione
    20 Apr 2009
    Messaggi
    2,908
     Likes dati
    41
     Like avuti
    155
    Mentioned
    0 Post(s)
    Tagged
    0 Thread(s)

    Predefinito Rif: L'angolo del libro


    Il blog: Terroni



    1. Diventare Meridionali
    2. Briganti in Famiglia
    3. La strage
    4. Dispari opportunità
    5. I meridionali non hanno cultura industriale
    6. I patriarchi
    7. La cattiva strada
    8. Educazione alla minorità
    9. Il sud ha le piaghe. Per fortuna



    Fratelli d’Italia... ma sarà poi vero? Perché, nel momento in cui ci si prepara a festeggiare i centocinquant’anni dall’Unità d’Italia, il conflitto tra Nord e Sud, fomentato da forze politiche che lo utilizzano spesso come una leva per catturare voti, pare aver superato il livello di guardia.

    Pino Aprile, pugliese doc, interviene con grande verve polemica in un dibattito dai toni sempre più accesi, per fare il punto su una situazione che si trascina da anni, ma che di recente sembra essersi radicata in uno scontro di difficile composizione.

    Percorrendo la storia di quella che per alcuni è conquista, per altri liberazione, l’autore porta alla luce una serie di fatti che, nella retorica dell’unificazione, sono stati volutamente rimossi e che aprono una nuova, interessante, a volte sconvolgente finestra sulla facciata del trionfalismo nazionalistico.

    Terroni è un libro sul Sud e per il Sud, la cui conclusione è che, se centocinquant’anni non sono stati sufficienti a risolvere il problema, vuol dire che non si è voluto risolverlo. Come dice l’autore, le due Germanie, pur divise da una diversa visione del futuro, dalla Guerra Fredda e da un muro, in vent’anni sono tornate una. Perché da noi non è successo?


    Leggi il capitolo "Diventare Meridionali" (formato *.pdf)

    __________________________________________________



    IL SERGENTE ROMANO

    tratto dal libro Terroni di Pino Aprile
    Edizioni Piemme



    Al Sud c'erano i briganti; i piemontesi li eliminarono (grazie, neh?). È quello che avevo sempre creduto e mi era stato insegnato, ma quasi di sfuggita e malavoglia, pure a scuola, come non fosse il caso di rinnovare un'antica vergogna. E non mi dispiaceva: avevo visto le foto seppiate dei cadaveri di malandrini e delle loro donne, nudi come selvaggi (ma denudati dai civilizzatori); le teste mozzate da inviare a lombrosiani ricercatori di caratteri e fisionomia del perfetto delinquente (meridionale, ovvio, per natura). Nel film ci era toccata la parte del cattivo. Avvertivamo, noi studentelli del Sud, il fastidio di aver risposto alla gloriosa epopea garibaldina, con una masnada di grassatori e tagliaborse, dai cappellacci a cono, come le streghe, e schioppo a trombone in spalla: trogloditi alti uno e cinquanta, scuri di pelle e di negro crine, fronte bassa, occhio torvo e spento (succede, se fotografi i morti); un po' Barabba, un po' Giuda (31 scudi: uno in più, fu la buonuscita che l'Italia unita diede ai garibaldini meridionali, quando se ne liberò, perché non le servivano più). Vuoi mettere lui? Un Gesù Cristo armato, il biondo capello al vento dei vincitori, con l'eccentricità del poncho, bianco destriero, barba dorata e occhio ceruleo che mira oltre l'orizzonte, a quel futuro tricolore illuminato dai riflessi della sua spada (l'arma dei cavalieri) puntata contro il... sole. Quello è un uomo! E se il libro di storia ti chiede da che parte vuoi stare, tu che gli dici: sono meridionale come il brigante o "italiano" come Lui?

    Eppure, avrei potuto capire molto prima come stavano davvero le cose, perché non c'erano condanna e vergogna nel tono con cui mio padre mi indicò il luogo in cui era stato esposto, a Gioia del Colle, il corpo del Sergente Romano, nostro compaesano. Pareva narrasse quasi di un eroe, non di un brigante; e io non compresi il valore di quella incongruenza. Non feci domande, tanto ero lontano dall'idea che ci fosse qualcosa da aggiungere o correggere riguardo a quel che ci era stato consegnato come verità. Né mio padre disse altro: era restìo a parlare di cose truci. Della guerra, del campo di concentramento, per dire, mi confidò poche cose solo alcuni anni prima di morire.

    E non aveva torto sul Sergente Romano. Lo scoprii quando le letture non scolastiche di storia fecero sapere anche a me che l'Unità d'Italia a spese del Sud non debellò il "brigantaggio", ma lo generò, quale fioritura opportunistica di delinquenti in una stagione di grande illegittimità e confusione; come guerra civile, fra i cafoni derubati delle terre demaniali liberamente coltivabili e i galantuomini che le avevano usurpate; e come guerriglia di ex militari napoletani, patrioti e cittadini che non accettarono la fine delle libertà, del benessere e dei diritti (pur criticabili per quantità e qualità, come sempre, ovunque) goduti sotto il re Borbone delle Due Sicilie e sostituiti da un regime di terrore, spoliazione e arbitrio: quel «sistema di sangue», secondo Nino Bixio, il vice di Garibaldi, «inaugurato nel Mezzogiorno» da occupanti che parlavano francese o dialetti mai uditi.

    Soldati del re napoletano, sudditi legittimisti, cafoni impoveriti e veri briganti finirono insieme e questo li rese, per l'invasore e i suoi libri di storia, tutti briganti. E tale fu considerato chiunque fosse sospettato di simpatia, conoscenza, consanguineità (brigante lui? Brigante il padre, brigantessa la madre, brigante il figlio della sorella, brigantessa pure quella...). Perché non si mantennero distinti soldati e ladroni? Nel 1979, per un reportage, raggiunsi i guerriglieri khmer rossi nella giungla. Al pranzo "ufficiale", con il governo alla macchia della Cambogia invasa dai vietnamiti, ebbi accanto il ministro della Scienza e tecnologia: ex imprenditore, era stato l'Agnelli o il Moratti del suo paese. L'intera sua famiglia era stata soppressa dai comunisti-terroristi a tavola e al governo con lui. «Ma come fa a starci?» gli chiesi. «L'alternativa sono i vietnamiti che sterminano quel che resta del mio popolo, dopo il massacro condotto da chi ha ucciso i miei» rispose (in perfetto italiano, oltretutto).

    «Finora avevamo i briganti» scrisse Vincenzo Padula, cronista dell'epoca, liberale, favorevole all'impresa unitaria, in Calabria. Prima e dopo l'unità, «ora abbiamo il brigantaggio; tra l'una e l'altra parola corre grande divario. Vi hanno briganti quando il popolo non li ajuta, quando si ruba per vivere o morire con la pancia piena» (ma questo non avveniva solo al Sud); «e vi ha il brigantaggio quando la causa del brigante è la causa del popolo.» E se non è così, il ribelle non dura, faceva osservare, nel 1865, un legittimista, Tommaso Cava de Guéva (lo riferisce Francesco Mario Agnoli in Dossier Brigantaggio): nel 1849, in un mese, Garibaldi rimase solo e in fuga, negli Stati pontifici; Pisacane e i suoi trecento giovani e forti furono fatti a pezzi con roncole e forconi dalla popolazione; i fratelli Bandiera e compagni, in quattro giorni erano dinanzi al plotone d'esecuzione. E sulla qualità dei briganti, il marchese di Villamarina avvertiva Cavour che «le masse» erano guidate da «ufficiali e sottufficiali» borbonici. (Da duecento ex militari napoletani era composta la "Squadra Ciccone", che rimase imprendibile per otto anni; nel 1868, un'imponente formazione piemontese la circondò e sterminò.)

    Il Sergente Romano fu a un passo dal divenire un Garibaldi alla rovescia: era accolto da liberatore nelle cittadine che conquistava, sconfiggendo guardie nazionali, carabinieri e soldati piemontesi; riuscì a inquadrare militarmente, al suo comando, le principali formazioni irregolari che battevano la Puglia, e condusse operazioni con quelle di altre regioni; ai suoi ordini (a proposito di briganti) c'erano Michele Clericuzio, per anni istruttore nei reggimenti borbonici, e tanti altri provenienti dalle disciolte armi napoletane: soldati di linea, cacciatori, granatieri, gendarmi reali, dragoni, lancieri. All'inizio, Romano arruolò solo ex commilitoni, ma sapeva di non poter scegliere i suoi uomini; l'impresa che tentò, e quasi gli riuscì, fu di trasformare il brigantaggio in vera guerra civile e legittimista. Nel suo diario, racconta che «un dì si presentarono meco tredici masnadieri», sedicenti «difensori di Francesco II e della santa Chiesa». Salvo scoprire che «si permettevano pure fare i furti senza la mia conoscenza dove io ordinava di andare ordinatamente e militarmente con educazione»; e che borbottavano: «Siamo chiamati ladri e dobbiamo rubare». Lui, per darsi alla macchia, spese i suoi risparmi: mille piastre.

    Gli occupanti dovettero impiegare migliaia fra soldati, carabinieri e guardie nazionali, per riuscire a isolare l'ex ufficiale, catturarlo e ucciderlo. Un cronista della «Gazette de France» raccontò, mesi dopo: «A Gioia, un contadino mi indicò il luogo dove i vincitori esposero con orgoglio, per otto giorni, il cadavere fatto a pezzi. Tutti gli abitanti del paese vollero contemplare un'ultima volta gli avanzi irriconoscibili dell'eroico brigante; si andava là, come a un pellegrinaggio santificato dal martirio; gli uomini si scoprivano, le donne si inginocchiavano, quasi tutti piangevano: egli portava nella tomba il cordoglio e l'ammirazione dei suoi conterranei».

    Il popolo non credette alla sua morte. C'era chi giurava di averlo incontrato nei boschi: «È vivo. Tornerà». Come re Artù. La leggenda dice che a morire fu un altro; lui era invulnerabile e immortale, per la speciale medaglia mandatagli dal papa, come scrisse ai propri genitori Carlo Gastaldi, che disertò l'esercito piemontese per unirsi a lui (non fu il solo "soldato blu" a passare con gli "apache") e ne divenne miglior amico e segretario-luogotenente. Da atti processuali dell'epoca si apprende che «nell'esaltata immaginazione delle moltitudini», il Sergente Romano «sarebbe vissuto, per molti anni ancora, occulto, solitario e ramingo». E mio padre ne doveva aver udito parlare in quei termini: da messia, non da delinquente. A lui, persone vicine ai fatti narrarono il coraggio di un uomo; a me, i libri di storia, il disonore di troppi ribaldi e del popolo che li espresse. Dall'orgoglio alla vergogna. Sono sempre più numerosi, al Sud, quelli che ripercorrono questo rio all'incontrario, per ritrovare, con la verità sull'origine della loro storia unitaria, la ragione di esserne fieri. E uscire dallo stato di minorità. [...]

    Romano aveva 21 anni quando il suo paese fu invaso: un ritratto lo mostra bello e fiero in divisa, barba curata, capelli folti. Figlio di un ricco allevatore della Murgia, nell'esercito crebbe in cultura, stile, grado. Era una persona perbene e lo riconoscevano persino i compilatori dei bollettini di guerra piemontesi. Il suo comportamento nell'esercito borbonico era stato esemplare e quello di cittadino «italiano», dopo la conquista piemontese del Sud, non fu da meno: la sua fedina penale rimase immacolata, in un tempo in cui un debole entusiasmo per il nuovo re bastava per ritrovarsi in carcere, senza necessariamente essere accusati di qualcosa. Tanto che lo storico Antonio Lucarelli, suo principale biografo, scrive che fra la "ciurmaglia" degli altri oppositori armati all'invasione, il Sergente si distingueva per «naturale ingegno, pertinace volontà, indole intraprendente» ma soprattutto «per una certa rudimentale cultura e per assenza di precedenti penali» (Il sergente Romano. Brigantaggio politico in Puglia dopo il 1860).

    Da partigiano, fu imprendibile, coraggioso; e spietato, se occorreva. Nel 1862, nel Brindisino, due squadriglie di guardia nazionale di Cellino San Marco e San Pietro Vernotico e un plotone di carabinieri intercettarono i "briganti" e andarono all'assalto. Salvo fuggire, appena videro che si trattava del Sergente Romano. Una dozzina furono presi e "processati" dall'ex ufficiale borbonico, che aveva una efficientissima rete di informatori («Giuseppe Mauro, tu avevi quattro carlini al giorno come spia, sotto Francesco, e ora ne hai tre sotto Vittorio Emanuele.» Fucilato). Un milite, Vitantonio Donadeo, invocò la Madonna del Carmine e l'arma che doveva finirlo s'inceppò. «Alzati, che tu sei salvo» lo graziò Romano, anche lui devoto della Vergine del Carmine, per la quale scriveva preghiere.

    Era abile in campo aperto, ma più in azioni da commando. Le guardie civiche di Alberobello, «perlustrando le finitime selva», scoprirono una sua polveriera, la sequestrarono, catturarono il guardiano. Lui, con una trentina dei suoi, assaltò la caserma, liberò il prigioniero, recuperò le munizioni sequestrate, portò via bandiere, tamburo e armi delle guardie. E le guardie. Che liberò fuori paese. Lo stupore partorì un esclamativo nel rapporto del prefetto: tutto «in un quarto d'ora!».

    Ma l'impresa che ne aveva rivelato le capacità e l'audacia era stata la riconquista di Gioia del Colle, ventimila abitanti. Un paese, il suo (e il mio), che cova furori (oggi, parrebbe, e per fortuna, sedati). Ogni sessant'anni circa, la passione politica vi partoriva una strage intestina. Lucarelli, nato in un paese vicino, scrive che gli abitanti di Gioia arrivano a tali macelli, per «risolutezza di carattere, insofferenza ai soprusi (...) l'impulso dell'animo impetuoso e ribelle» e «sostengono i loro principi e la loro fede con acerrima gagliardia». Nel 1799, lo scontro fu fra giacobini e sanfedisti; a capo degli opposti partiti, due fratelli, Pasquale (giurista e letterato) e Cesare Soria: avversari cercati casa per casa, saccheggi, uccisioni, persone arse vive, danze degli assassini. Un sabba di sangue. Nel 1861, l'opposizione era fra legittimisti borbonici e unitaristi, con tutte le sfumature del caso: molti, favorevoli all'idea dell'Italia una, ne ebbero disgusto quando videro che si riduceva a oppressione e rapina del Sud («Bella è l'unione nazionale,» ebbe la disgrazia di dire ad alta voce il mite barone e giurista Gianantonio Molignani «ma noi saremo i pezzenti dell'Italia unita». E si guadagnò il carcere).

    Dopo l'uccisione di un caporale della guardia nazionale, il Comitato di sicurezza di Gioia decise di farla finita con Romano e i suoi uomini; d'accordo con il prefetto, unì le proprie forze (militi e cittadini armati) a quelle di altri quattro popolosi centri e mosse sul bosco di Vallata. Il Sergente seppe tutto subito, grazie al suo servizio di spionaggio. E, pressato dai suoi, invece di fuggire, attaccò Gioia, aggirando la colonna che gli dava la caccia. Il paese era ben difeso, anche da un cannone che sparava a mitraglia, ma l'impresa riuscì e il popolo seguì il libertador al grido di «Viva Francesco II! Abbasso Vittorio!». Dall'altra parte, soprattutto professionisti, proprietari, artigiani, persino preti che impugnavano fucili. Si combatté strada per strada, più o meno: borghesi contro cafoni.

    Il peggio accadde nelle retrovie: gli oppressi di ieri andarono a caccia dei loro pari e vicini di casa divenuti oppressori o presunti tali. Giovani garibaldini e guardie nazionali furono tratti dalle loro abitazioni e linciati in strada. Un'orgia di violenza, seppur contenuta nei numeri, visto quel che accadde dopo: in sette vennero macellati dalla folla. Ma su Gioia, ormai, convergevano dalle cittadine prossime e dal capoluogo, centinaia di uomini di rinforzo per gli assediati: carabinieri, militari, milizie locali, cittadini di buona volontà e buona fucileria. Il Sergente riuscì a sgusciare, con i suoi, dalla tenaglia in cui le truppe sopraggiunte chiusero il paese.

    Di quel che accadde dopo, le cronache narrano poco, perché lo fecero i vincitori, ma potrebbero bastare le cifre: l'orgia ricominciò, con aggressori e vittime a ruoli invertiti; i militari fucilavano su semplice indicazione dei cittadini, a lotti di decine o singoli; altri "civili" provvedevano da soli (mentre nel Regno delle Due Sicilie non solo era sacro il diritto alla difesa dell'imputato, ma da quasi cento anni c'era già l'obbligo, per i magistrati, di motivare le loro sentenze). Quei sette linciati dal popolo furono vendicati dal resto del popolo, con qualche eccesso, se alla fine della mattanza si contarono oltre centocinquanta cadaveri. Una rappresaglia venti a uno: manco i nazisti alle Fosse Ardeatine.


    VULESSE ADDEVENTARE NU BRIGANTE - Gianluca Freda BLOGGHETE!!
    Ultima modifica di x_alfo_x; 04-10-10 alle 22:31

 

 
Pagina 1 di 7 12 ... UltimaUltima

Discussioni Simili

  1. No al Caro Libro, e noi facciamo il MERCATINO DEL LIBRO USATO!
    Di simonespiga nel forum Centrodestra Italiano
    Risposte: 11
    Ultimo Messaggio: 08-09-07, 09:35
  2. Risposte: 0
    Ultimo Messaggio: 05-07-06, 08:34
  3. l'angolo del buonumore....
    Di Legionnaire nel forum Destra Radicale
    Risposte: 8
    Ultimo Messaggio: 17-07-05, 15:25
  4. Risposte: 28
    Ultimo Messaggio: 15-03-05, 12:44
  5. L'Angolo del Libro
    Di yota71 nel forum Hdemia
    Risposte: 11
    Ultimo Messaggio: 18-01-05, 22:21

Tag per Questa Discussione

Permessi di Scrittura

  • Tu non puoi inviare nuove discussioni
  • Tu non puoi inviare risposte
  • Tu non puoi inviare allegati
  • Tu non puoi modificare i tuoi messaggi
  •  
[Rilevato AdBlock]

Per accedere ai contenuti di questo Forum con AdBlock attivato
devi registrarti gratuitamente ed eseguire il login al Forum.

Per registrarti, disattiva temporaneamente l'AdBlock e dopo aver
fatto il login potrai riattivarlo senza problemi.

Se non ti interessa registrarti, puoi sempre accedere ai contenuti disattivando AdBlock per questo sito