L'attacco dei droni alle strutture petrolifere saudite dimostra la vulnerabilità di un Paese tenuto in vita artificialmente dalla ricchezza unica proveniente dal petrolio. Riyad è incapace di difendere il suo tesoro mentre bombarda lo Yemen mentre gli americani e le altre petromonarchie alleate dei sauditi tentennano sul da farsi con l'Iran
L’Arabia Saudita è all’angolo
di Lorenzo Trombetta L?Arabia Saudita è all?angolo - Limes
Riyad non può lanciare una guerra aperta all’Iran senza il sostegno degli Usa, che non c’è.
Gli attacchi di sabato scorso contro le raffinerie saudite, attribuiti all’Iran, hanno evidenziato tutta la fragilità di Riyad e le divisioni tra gli alleati americani del Golfo. L’appello a integrare la coalizione marittima anti-iraniana esprime proprio questa debolezza e la necessità di correre ai ripari.
Su ogni altra cosa emerge la conferma che l’amministrazione americana non ha intenzione di sostenere nessuna guerra aperta contro l’Iran. L’Arabia Saudita, al di là della retorica seguita agli attacchi senza precedenti contro le raffinerie Aramco, non può contare su appoggi certi e incondizionati. Nemmeno da parte di Israele, di cui non si conosce ancora il colore del prossimo governo.
I media sauditi insistono da giorni che l’attacco di sabato non sia stata un’aggressione solo all’Arabia Saudita, ma a tutto il mondo. Un riferimento all’importanza globale delle installazioni petrolifere prese di mira, anche per le ripercussioni economiche che ne sono seguite.
Questi sono fatti. Ma l’esigenza politica attuale saudita è di usarli per spostare l’attenzione dell’opinione pubblica interna e straniera dall’idea che solo Riyad sia stata attaccata – e che quindi solo Riyad debba portare la responsabilità di una risposta militare all’Iran.
La retorica saudita invoca la creazione di una “coalizione mondiale” contro l’Iran. Uno scenario poco realistico, evidentemente.
Eppure gli Stati Uniti a giugno hanno annunciato la coalizione marittima per “proteggere le acque del Medio Oriente”, in riferimento al Golfo e al Mar Rosso. L’obiettivo è duplice: da una parte difendere il flusso energetico del Golfo e del Mar Rosso dai ripetuti attacchi aerei e marittimi avvenuti a partire da maggio e attribuiti all’Iran; dall’altra far sì che gli alleati arabi di Washington trovino piattaforme di condivisione e non di divisione.
La missione in corso del segretario di Stato Usa Mike Pompeo fa parte di questo sforzo: riportare Abu Dhabi e Riyad attorno allo stesso tavolo, quello della convergenza anti-iraniana. Questo perché nelle ultime settimane il solco degli interessi nazionali di Arabia Saudita ed Emirati si è approfondito. A partire dalla spartizione nello Yemen meridionale, ma anche negli altri teatri – dal Mediterraneo orientale al Corno d’Africa, passando per il Mar Rosso.
In questo scenario c’è anche il Qatar. Dal 2017, isolata da Riyad e Abu Dhabi, Doha si è parzialmente avvicinata all’Iran. Allo stesso tempo la base aerea di al-Udeid in Qatar continua a essere la principale roccaforte terrestre americana. Per gli Stati Uniti il Qatar è un elemento fondamentale della “stabilità” della regione.
Per ora, oltre al Bahrein – paese vicino a Riyad e altro attore chiave per gli Usa – l’Arabia Saudita e gli Emirati hanno aderito alla coalizione marittima, di cui fanno parte purel’Australia e la Gran Bretagna. Non è chiaro come si comporterà il Qatar, ma è probabile che anche Doha si unirà al gruppo.
Al di là di questi sviluppi, rimane la certezza strategica che l’Arabia Saudita non può e non vuole lanciare una guerra aperta con l’Iran. E che resta all’angolo rispetto all’Iran, capace di colpire direttamente e indirettamente sauditi, israeliani e americani dal Mediterraneo al Golfo.