Il 16 dicembre 1942 iniziava la ritirata di Russia. La tragedia dell'Armir ebbe nella battaglia dei corpi alpini contro soverchianti forze sovietiche il suo apice.



Il 16 dicembre 1942, sul fronte russo che vedeva opposta l'Unione Sovietica alle Potenze dell'Asse che l'avevano invasa un anno e mezzo prima, l'Armata Rossa sferrò una poderosa offensiva ("Operazione Piccolo Saturno") nel contesto del teatro del Don, di sostegno alle truppe impegnate nella battaglia che da diverse settimane infuriava nella città di Stalingrado, tenuta metro per metro dai russi durante l'assedio della Sesta Armata tedesca trovatasi poi accerchiata dopo l'Operazione Urano di novembre.

L'8° Armata Italiana, nome in codice Armir (Armata italiana in Russia) fu investita da una potenza di fuoco soverchiante da parte dei sovietici e dovette cedere terreno. Iniziò dunque per le forze italiane, in larga parte truppe alpine scarsamente equipaggiate per combattere nel contesto di un'ampia fascia di territorio pianeggiante poco presidiata, una tragica ritirata, una vera e propria Anabasi contemporanea in cui intere unità scomparvero nella battaglia, nelle nevi e nel gelo della steppa, centinaia di migliaia di uomini morirono o furono fatti prigionieri dai sovietici e per l'Italia apparve palese il dramma di un'avventura bellica condotta senza raziocinio strategico dal governo di Benito Mussolini alla semplice rincorsa del carro tedesco.

Dal Csir all'Armir

L'Armir era l'erede del Corpo di spedizione italiano in Russia, attivo con una dotazione di 65mila unità tra il 1941 e il 1942 con la dotazione di due divisioni di fanteria (9° e 52esima) e con la Terza Divisione Celere del Regio Esercito. Impegnato in azioni di attraversamento del fiume Bug e di battaglie difensive nell'inverno nell'attuale Ucraina, il Csir fu fortemente voluto da Mussolini che, nonostante la sempre precaria situazione del fronte africano, ove erano i tedeschi a sostenere attivamente l'alleato italiano, voleva cullare quella che Galeazzo Ciano, ministro degli Esteri e genero del Duce, definì "l'eterea illusione" di poter condurre la guerra parallelamente alla Germania di Adolf Hitler con l'autonomia strategica persa dopo la rovinosa rotta in Grecia e Libia tra l'autunno del 1940 e la primavera del 1941.

I generali tedeschi avevano a lungo ritenuto sovrabbondanti o addirittura d'ostacolo le truppe italiane, ritenute una palla al piede del corposo apparato militare della Wehrmacht, ma dopo che l'Operazione Barbarossa fallì l'obiettivo strategico di mettere al tappeto l'Urss e i soldati di Stalin furono in grado di contrattaccare scacciando i tedeschi da Mosca la previsione di nuove offensive primaverili ed estive in un fronte sempre più ampio portò l'Oberkommando e il governo di Berlino a cambiare idea e a chiedere forti incrementi negli effettivi degli alleati dell'Asse (Italia, Ungheria, Romania) stanziati sul fronte orientale

La minorità politica e la dipendenza strategica di Roma dall'alleato tedesco impedì ai comandi italiani di controbattere facendo presente le necessità del teatro nordafricano. Tra il maggio e il luglio del 1942 fu dunque allestita un'unità operativa assai più ampia del Csir, che in esso fu ricondotto come componente, l'8° Armata che sarebbe divenuta nota come Armir. Ne facevano parte il Csir assieme al II Corpo d'armata con le divisioni di fanteria "Cosseria", "Ravenna" e "Sforzesca" e all Comando del Corpo d'armata Alpino con le divisioni alpine "Cuneense", "Julia" e "Tridentina".

Thomas Schlemmer nel saggio Invasori, non vittime - La campagna italiana di Russia 1941-1943 ricorda come l'Armir assegnata in comando al generale Italo Gariboldi fu dotata del miglior armamento a disposizione a quell'epoca per il Regio Esercito. Oltre 10mila, alcune fonti affermano anche 12mila, automezzi, dispositivi di montagna di ultima fattura per gli alpini, circa 230mila effettivi, artiglierie di alta qualità e reparti d'élite come il Battaglione Alpini sciatori "Monte Cervino" componevano l'unità. Il cui primo, tragico problema fu la disposizione strategica.

L'Armir, che dopo una lunga preparazione e uno sforzo senza precedenti per l'industria bellica nazionale aveva preso la via dell'Est, si radunò a Charkov per assumere operatività il 9 maggio 1942. In quei giorni la Wehrmact stava avanzando a Sud, verso i pozzi petroliferi dal Caucaso, ma l'ampliamento delle linee del fronte rendeva difficile per i tedeschi presidiare le retrovie del fronte e i fianchi. L'Armir, assegnata al Gruppo d'Armate B della Wehrmacht, protesse i fianchi alla Sesta Armata che, dal 23 agosto, rimase impantanata nel tentativo di espugnare la città di Stalingrado.


Dalla difesa al collasso


L'intera Armir fu dunque costretta a coprire un fronte di oltre 250 km alla sinistra dello schieramento tedesco in avanzata su Stalingrado. In più occasioni gli italiani dovettero rintuzzare i tentativi sovietici di controffensiva. Particolarmente infelice fu la scelta di schierare in piena pianura i reparti alpini, che bene avrebbero potuto comportarsi nella corsa al Caucaso.

Dal 20 agosto all'1 settembre l'Armir combatté la Prima battaglia difensiva del Don, contrattaccando a un'azione di alleggerimento sovietica; Stalin aveva dato ordine di non dare tregua alle truppe dei Paesi alleati alla Germania, ritenute più vulnerabili, e con questo primo attacco l'Armata Rossa poté saggiare le difese di armate che, soprattutto per la carenza di mezzi corazzati, non potevano certamente competere con le Panzerdivisionen della Wehrmacht. Nonostante l'entrata in linea della 3ª Armata rumena sul fianco destro dell'Armir il fronte italiano nelle settimane successive rimase molto esteso e poco presidiato e venne quindi rafforzato, su ordine diretto di Hitler, con una serie di reparti tedeschi inquadrati assieme alla divisione italiana "Vicenza" al comando di Gariboldi.

Stalingrado, divenuta per i tedeschi un simbolo per il suo stesso nome ancor più che per la sua (rilevante) valenza strategica di snodo sul Volga, assorbiva nel frattempo risorse umane, riserve e mezzi militari. La steppa alle spalle dell'Armir andò gradualmente svuotandosi mano a mano che nel buco nero di Stalingrado la Sesta Armata del generale von Paulus chiamava a sè il meglio delle riserve tedesche, trasformando il fronte delle potenze dell'Asse in un'enorme patina di carta velina, senza nessuna consistenza alle spalle.
Avendo fatto il passo più lungo della gamba, a novembre i tedeschi furono travolti dall'Operazione Urano, l'offensiva sovietica nell'area di Stalingrado che, accerchiandola, trasformò in assediata l'armata che stava tentando la conquista della città. Nella battaglia che aprì al capovolgimento di fronte della guerra si decise il destino dell'Armir: la scelta sconsiderata del Gruppo di Armate B del generale Maximilian von Weichs, che aveva impostato l'intero assetto del fronte sul sostegno all'offensiva di Stalingrado, si rivelò in tutta la sua drammaticità.

La ritirata di Russia


Per le truppe italiane era solo questione di tempo prima di esser investite a loro volta. A inizio dicembre i sovietici consolidarono una testa di ponte oltre il Don, per poi dare il via, il 16 dicembre all'operazione "Piccolo Saturno". Fin dall'11 dicembre le truppe guidate dai generali Voronov, Vatutin e Golikov avevano iniziato una serie di azioni preliminari condotte da reparti di avanguardia per riconoscere le posizioni difensive nemiche; questo privò i russi dell'elemento sorpresa, e assieme a una serie di condizioni meteo sfavorevoli per l'offensiva aerea e d'artiglieria (nebbia e gelo) portò l'attacco sovietico a risolversi in una dura offensiva frontale cui gli italiani tennero testa finché non furono letteralmente sommersi dalla preponderanza dei numeri sovietici e dalla carenza logistica, materiale e organizzativa.

A partire dai giorni successivi l'offensiva sovietica, partita dal settore del 2º Corpo d'Armata del generale Zanghieri (divisioni "Cosseria" e "Ravenna", 318º reggimento tedesco), si avvalse anche di interventi in forza delle riserve corazzate guidate dai nuovi carri T-34, contro cui la carenza di munizioni specifiche e la scarsa attitudine alla lotta contro i mezzi corazzati delle truppe del Regio Esercito poterono ben poco. Le divisioni di fanteria spesso affrontavano avanzate nemiche con forze soverchianti, ma sulla distanza ben poco poterono per frenare i sovietici.

Il freddo estremo (si arrivava a -30°C) aveva messo fuori uso buona parte dei mezzi motorizzati italiani, il tracollo di ungheresi e rumeni nelle aree circostanti apriva al serio rischio di aggiramento o, addirittura, accerchiamento, e per l'Armir non vi fu altra scelta che l'avvio di una tragica ritirata. Gariboldi e i tedeschi non avevano appuntato alcun piano strategico per gestirla ordinatamente, né altresì sarebbe stato possibile sotto l'incalzante avanzata sovietica. Scarse erano state anche le dotazioni di divise invernali e nulle le possibilità di organizzare una logistica e il recupero dei depositi strategici nei capisaldi dell'Armir date le circostanze.

La ritirata divenne inevitabile, ma l'inverno sovietico, il crollo del fronte e l'assenza di ordine nella reazione tedesca di sostegno alle truppe italiane la trasformarono presto in una rotta. L'Armir si frammentò in miriadi di colonne di militari intenti a indietreggiare nella neve, facendosi spazio combattendo tra i reparti sovietici che rappresentavano le puntate avanzate dell'offensiva. Dopo settimane di marcia, i fanti italiani decimati raggiunsero infine le retrovie tedesche.

Poche settimane dopo, nel gennaio 1943, fu la volta delle truppe alpine, che subirono una nuova offensiva sull'asse Ostrogožsk-Rossoš', condotta dalla 40ª Armata del Fronte di Voronež e la 6ª e la 3ª Armata corazzata del Fronte Sud-Occidentale, che prima travolsero la Seconda Armata ungherese e poi si avventarono contro le penne nere. La Julia si immolò per consentire alle truppe italiane e a residui drappelli tedeschi e ungheresi di rompere una situazione di vero e proprio accerchiamento. Una serie di colonne formate da truppe alpine, soldati dell'Asse e pochi, strategici cingolati anti-carro e cannoni da 88 millimetri si mossero per uscire dal giogo sovietico. Fu questa la parte più drammatica di una vera e propria Anabasi nella steppa. I nomi sono oramai entrati nella memoria collettiva: Postojalyi, Seljakino, Varvarovka, Nikolajewka furono i teatri di altrettante disperate battaglie di sfondamento delle sacche sovietiche da parte delle truppe alpine. Nelle nevi russe, nella steppa infinita, a migliaia di chilometri da quelle riarse sabbie nordafricane dove l'Italia aveva in gioco i suoi interessi vitali e a centinaia dalle vette del Caucaso gli alpini guidati dai generali Umberto Ricagno, Luigi Reverberi e Emilio Battisti, comandanti rispettivamente della "Julia", della "Tridentina" e della "Cuneense", scrissero pagine di eroica resistenza e di fatua e vana gloria militare.

Fatua, perchè dettata dallo spirito di sopravvivenza, dal timore di una lunga prigionia negli abissi della Russia e della Siberia, nella consapevolezza che anche l'Armir era un esercito invasore e come tale sarebbe stato trattato, nonostante i continui casi di ospitalità agli italiani in rotta da parte della popolazione civile.

Vana, perchè non necessaria ai fini strategici del conflitto, figlia della sconsiderata strategia tedesca e delle sue conseguenze di lungo termine, ma anche dell'irrefrenabile volontà del Duce di assecondare e blandire l'alleato tedesco.

L'Armir si dissolse in un'ampia serie di colonne, unità, drappelli, singoli battaglioni in cerca della salvezza di fronte alla marea montante sovietica. Gli attacchi "mordi e fuggi" degli alpini sciatori del Cervino, le battaglie tra uomini e macchina a colpi di molotov, gli sfondamenti operati con la forza della disperazione furono i segni della volontà di non abbandonare l'armata ai destini già scritti della disfatta e della prigionia. Quello che si ritirava nella neve non era più un esercito, ma una somma di combattenti in disperata ricerca della sopravvivenza. La colonna della "Tridentina" ruppe la sacca a Nikolajewka il 26 gennaio 1943, mentre sorte peggiore toccò alle divisioni "Cuneense", "Vicenza" e ai sopravvissuti della "Julia", costretti alla resa dai sovietici. Non mancarono casi di cedimento del cameratismo con gli alleati tedeschi, che più volte sottrassero i mezzi funzionanti che potevano rappresentare una speranza di salvezza agli italiani o peccarono di scarsa cooperazione in battaglia.

A fine gennaio 1943 l'Armir non esisteva più. Poche settimane dopo, con la resa italo-tedesca in Tunisia, si chiudeva il fronte africano e si apriva la strada all'invasione della Sicilia, che sarebbe scattata il 10 luglio. L'Anabasi in terra russa segnalò il definitivo fallimento del progetto bellico di Mussolini, la sconsideratezza della scelta di affidare in mani tedesche, per ragioni di puro prestigio e di presenza nella "crociata contro il bolscevismo", le sorti di unità di punta del Regio Esercito. L'Unione nazionale italiana reduci di Russia (UNIRR) sostiene che i caduti e i dispersi furono in quel drammatico inverno circa 95.000, mentre decine di migliaia di prigionieri morirono nelle marce verso i campi o in detenzione. Giorgio Scotoni in L'Armata Rossa e la disfatta italiana (1942-43) parla di circa 85mila morti e dispersi e poco meno di 30mila feriti e congelati. Un bagno di sangue per i cui superstiti la vittoria fu, dopo la rottura dell'accerchiamento, il definitivo rimpatrio. La tragedia dell'Armir, tra le più ricordate nella storia militare italiana, ha generato una memoria collettiva che vive ancora. Da quando l'illusione di potenza del regime fascista perì congelato nella steppa russa, assieme a decine di migliaia di militari mandati allo sbaraglio in una battaglia dove il loro ruolo strategico poté essere minimo e in cui furono consegnati a un destino già scritto.


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