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    Predefinito L’Italia nazione e l’Italia Stato (1993)

    di Giovanni Spadolini – In “Nuova Antologia”, a. CXXVIII, fasc. 2188, ottobre-dicembre 1993, Le Monnier, Firenze, pp. 85-99.


    Organizzato e promosso dalla Giunta Centrale per gli studi storici, in collaborazione con l’Università degli studi di Trieste, si è svolto a Trieste, dal 15 al 18 settembre 1993, il convegno di studi sul tema «Nazione e nazionalità in Italia dalla prima guerra mondiale ai nostri giorni».
    Dopo il saluto delle autorità comunali, provinciali, regionali, e del rettore dell’università triestina, Giovanni Spadolini, presidente della Giunta centrale per gli studi storici, ha tenuto la prolusione inaugurale che qui riproduciamo per intero […].
    Prima di pronunciare il suo discorso Spadolini ha dato lettura di un messaggio augurale giuntogli dal presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, in cui si sottolinea il significato del convegno «che si svolge a Trieste città che, per la particolare collocazione geografica e per tradizione storica, riassume nelle sue vicende il senso più vero e profondo della nostra identità nazionale».
    Dopo Spadolini ha preso la parola Arduino Agnelli («L’idea di nazione all’inizio e nei momenti di crisi del sec. XX»), che ha sottolineato come l’idea di nazione resti costante nel secolo diciannovesimo per assumere nuove accezioni all’inizio del secolo successivo («nazionalismi»). Alla visione mazziniana di una nazionalità che respinge ogni pretesa egemonica, ma che è anzi simbolo di tolleranza, rispetto degli altri, subentra il concetto di imperialismo, dominazione, Stato sopraffattore.
    Ha preso quindi la parola Renzo De Felice («Democrazia e stato nazionale») che ha avanzato una serie di interrogativi. Muovendo da Gino Germani, che in un saggio sulla democrazia segnalò motivi di squilibrio esistenti nei sistemi democratici, per arrivare a porre rilievi analoghi in tema di «nazione» e «nazionalità». La nazione va in crisi a suo giudizio anche perché la gente anziché riconoscersi nello Stato si riconosce in micro-entità.
    Luigi Lotti ha aperto i lavori giovedì 16 settembre con una relazione su «L’età giolittiana», nella quale ha ripercorso la crescita economica e democratica del paese, che porta a un rafforzamento dello spirito d nazionalità. Fino alla guerra, che esalta i valori patriottici e rafforza lo stesso sentimento nazionale.
    Emilio Gentile ha trattato nel successivo intervento il periodo del fascismo, nel quale il modo si «sentire la nazione» assume un significato diverso rispetto all’Ottocento. Per i fascisti la guerra rappresenta la chiusura di un ciclo: se ne apre un altro, nel quale vanno ricercati nuovi concetti, compreso quello relativo alla «nazione». Il «moderno» del fascismo non era liberale, democratico o razionalista. La vita moderna non era democratica ma fondata sull’autoritarismo, sull’imperialismo e sulla industrializzazione.
    Ernesto Galli della Loggia, in apertura dei lavori pomeridiani, si è intrattenuto con una minuziosa analisi su «La crisi dopo la seconda guerra mondiale» […]. Carlo Ghisalberti e Pietro Pastorelli hanno rispettivamente parlato su «Ordinamento costituzionale e idea di nazione» e «Le nazioni nelle relazioni internazionali», cui ha fatto seguito una ampia discussione sui temi fino ad allora affrontati in sede di convegno.
    La giornata di venerdì 17 settembre è stata riservata a una visita compiuta dai congressisti a Rovigno, nell’Istria oggi croata, presso il Centro Ricerche storiche promosso e diretto dal professor Giovanni Radossi, impegnato in un’appassionata opera di conservazione e diffusione della cultura italiana.
    L’ultimo giorno di lavori, sabato 18 settembre, ha visto le relazioni di Giuseppe Talamo («Leopardi; nazione culturale e nazione politica»), di Gian Enrico Rusconi («L’identità nazionale di fronte alla protesta leghista»), che ha richiamato l’attenzione sulla opportunità di recuperare il valore civico e nazionale, attraverso soluzione concrete, e Claudio Magris «Nazionalismi e micronazionalismi». Intendendo nel termine «micronazionalismo» non tanto la nazione piccola, quanto l’enfatizzazione della propria nazionalità. Al contrario, secondo la lezione di Giuseppe Mazzini, si tratta di accettare la pluralità: quella carica universalistica, presente nella lezione mazziniana, va assolutamente difesa, in Italia come negli altri singoli paesi, nella più ampia visione di una realtà europea.
    È il senso delle parole conclusive pronunciate da Giovanni Spadolini, che ha presieduto l’ultima seduta e ha chiuso il convegno.
    Dopo aver ringraziato vivamente la città e l’Università di Trieste per l’accoglienza affettuosa all’assise riservata di storici, che per quattro giorni ha dibattuto sui temi fondamentali di nazione e nazionalità nell’attuale crisi europea successiva alla prima guerra mondiale, Spadolini ha detto:
    «Un congresso di storici non può dare suggerimenti né linee-guida agli uomini politici incaricati di portare la Repubblica fuori dalla crisi che si è abbattuta sulle sue istituzioni e in diretto contatto con le sue scaturigini risorgimentali, nella ferma coscienza dell’unità morale e spirituale degli italiani, unità che precedette di almeno sei secoli la formazione dello Stato».
    Spadolini ha condiviso l’impostazione prevalente nei relatori della mattinata a non demonizzare il fenomeno delle leghe, facendo espliciti riferimenti ai contributi di Gian Enrico Rusconi, di Renzo De Felice e di Ernesto Galli della Loggia.
    «L’unica via per neutralizzare tutte le tentazioni alla disgregazione del tessuto nazionale (indipendentemente dalla azione di freno e di correzione che sta compiendo la Lega stessa) è quella di richiamarsi al complesso di valori di libertà e di cultura che hanno caratterizzato il primo e il secondo Risorgimento italiano e che uniscono Risorgimento e Resistenza in un complesso fondativo, dal quale la Repubblica non può svincolarsi nella fese di ristrutturazione istituzionale che è in atto».
    «È quello un titolo di legittimità nazionale che riunisce tutte le generazioni che hanno contribuito all’unità e alla libertà d’Italia. La firma del trattato di pace nel 1946 fu un atto provvidenziale per reinserire l’Italia fra i paesi che avrebbero poi partecipato in piena parità alla costruzione atlantica e alla costruzione europea».
    «Noi vediamo – ha concluso Spadolini – nella costruzione dell’unità politica dell’Europa l’antidoto a tutte le possibili forme di secessionismo e insieme il coronamento del sogno risorgimentale che unì nazione ed Europa. È più valido che mai il principio di Mazzini: l’idea di nazione si identifica con l’idea di umanità».

    N. A.


    (...)
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  2. #2
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    Predefinito Re: L’Italia nazione e l’Italia Stato (1993)

    Care amiche e cari amici,

    il mio saluto a Trieste fedele a quella certa idea dell’Italia più di ogni altra città italiana. Il mio saluto e il mio ringraziamento a nome della Giunta centrale per gli studi storici al rettore e ai colleghi dell’ateneo triestino, cui mi riportano con una punta di commozione le memorie dei primi anni cinquanta, ancora divise dalle barriere del territorio libero, allorché frequentavo l’istituto di Storia moderna dell’indimenticabile amico e collega Nino Valeri, lo storico gobettiano, e ricercavo le orme di Depretis e di Crispi nella lotta contro l’irredentismo.
    Un particolare benvenuto vorrei rivolgere al direttore generale dei beni librari e degli istituti culturali Francesco Sicilia, che è venuto da Roma per confermare con la sua presenza l’interesse vigile e attivo del ministero per i Beni culturali. Per la verità quella direzione generale, quando io fondai il ministero vent’anni fa si chiamava in modo più antico, più tradizionale e un po’ arcaico, Direzione delle accademie e biblioteche. Oggi si chiama Beni librari e istituti culturali. Non vorrei che il termine «istituti culturali» sostituendo le accademie fosse un po’ troppo generico e lato, e comprendesse anche istituti che non sono poi veramente culturali. Ma il nostro amico Sicilia è un garante e per la nostra giunta degli studi storici è un prezioso alleato contro la costante penuria di mezzi che caratterizza la vita della cultura in Italia e che vorrei dire è destinata ad accentuarsi in questo periodo e forse conoscerà ancora punte più basse nel futuro.
    E un grazie a tutti i relatori che hanno accettato di sviluppare le loro riflessioni in un convegno di cui gli atti saranno pubblicati celermente, come il tema bruciante richiede: Arduino Agnelli (verso il quale il ringraziamento è doppio anche perché come triestino ha collaborato intensamente alla preparazione del convegno), Renzo De Felice, Luigi Lotti, Emilio Gentile, Ernesto Galli della Loggia, Carlo Ghisalberti, Pietro Pastorelli, Giuseppe Talamo, Gian Enrico Rusconi e Claudio Magris. A tutti rivolgo un riconoscente e affettuoso pensiero.
    […]
    Nazione e nazionalità in Italia dalla prima guerra mondiale ai nostri giorni. La mia sarà, in tutti i sensi, una prolusione, anche cronologica. Partendo dall’innesto fra l’idea di nazione e l’idea di Stato che si realizza, in forme che appaiono ancora oggi straordinarie ed eccezionali, rasentanti il miracolo in quello che fu chiamato, e impropriamente chiamato in senso lato, il Risorgimento.


    (...)
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    Predefinito Re: L’Italia nazione e l’Italia Stato (1993)

    1. Perché Risorgimento?

    Ecco un quesito che mi tormentò fin da ragazzo. Perché Risorgimento? Come poteva risorgere nell’Ottocento uno Stato italiano unitario che non era mai esistito? Fiorentino, capivo il perché del termine «Rinascimento». La cultura classica presa a modello, imitata e rivissuta nei suoi archetipi fondamentali. A Firenze, perfino, l’Accademia neoplatonica. Un passato che risorgeva, una storia – quella della cultura grecoromana – che veniva assunta a simbolo di una stagione della vita italiana ed europea.
    Ma perché quella parola «Risorgimento», che già irrompeva negli anni ’30 e ’40 dell’altro secolo? Ero lettore di Machiavelli, ma non potevo scambiare Cesare Borgia per il protagonista dell’unificazione. Né nei secoli precedenti Arduino d’Ivrea, o il Veltro dantesco. In realtà risorgeva non lo Stato italiano, che non era mai nato, ma una certa idea dell’Italia, dell’Italia come comunità di lingua e di cultura, con piena coscienza di se stessa, fiorita dopo l’avvento del volgare e con il contributo decisivo di Dante.
    L’Italia nazione, come la sognò per primo Mazzini, è figlia di quell’idea, di quel principio spirituale fondato sull’unificazione linguistica, precedente di sei secoli l’unificazione politica. Non a caso il primo saggio che il giovanissimo avvocato non ancora laureato, genovese, inviò all’«Antologia» di Vieusseux nella metà degli anni ’20 si intitolava L’amor patrio di Dante. E conteneva in nuce tutto il pensiero mazziniano di sessant’anni successivi di battaglia. L’Antologia non poté pubblicarlo per l’occhiuto intervento della censura. Tommaseo che era un calcolatore scaltro lo mise in tasca e lo pubblicò molti anni dopo nel ’38 sul «Subalpino», irritando allora Mazzini che nel frattempo aveva arricchito il suo pensiero e magari l’avrebbe riscritto anche in modo più compiuto e diverso. Non è un filone che si ricolleghi a un primato di razza o di stirpe, motivo che fu del tutto estraneo al nostro Risorgimento (come qualunque razzismo è stato estraneo alla storia italiana). È un principio civile e morale, quello che differenzia la rinascita italiana dalla rinascita nazionale tedesca, e rende il Risorgimento un «quid novum» nella storia europea.
    Le dominazioni straniere della penisola, dopo la fine del Quattrocento, non avevano annullato i lineamenti di quella civiltà e cultura italiana che si era mantenuta nella letteratura, innalzata nella scienza, conservata e irrobustita nelle arti: il risveglio illuministico del secolo XVIII si innestò direttamente sul filone dei Comuni e delle democrazie medievali, cioè sul filone di quell’Italia che aveva avuto un ruolo decisivo in Europa fra il Duecento e il Trecento. Ricordate la pagine del Carducci su Firenze capitale dell’Europa nel secolo quattordicesimo.
    E il Risorgimento ci permise anche di risolvere il problema che aveva ostacolato o ritardato l’unificazione della penisola, quello della sopravvivenza del potere temporale dei Papi (in cui Machiavelli aveva visto l’ostacolo maggiore al sogno del suo Principe). La libertà religiosa permetteva di sostituire, e in meglio, le garanzie ormai incerte e precarie del temporalismo ecclesiastico.
    Si riparla da qualche tempo di Italia federale. Ma l’Italia federale ci fu e fu sconfitta esattamente il 29 aprile 1848. Il federalismo coincise col neoguelfismo, la più grande febbre del popolo italiano nell’Ottocento: il sogno di una confederazione di Stati indipendenti e sovrani, col Papa presidente. E il Pontefice Pio IX manderà le sue truppe a combattere sui piani lombardi, accanto ai soldati di Carlo Alberto, ai toscani di Curtatone e Montanara, c’era quindi anche come professore Giuseppe Montanelli, e ai napoletani per qualche settimana.
    Finché la minaccia di scisma dei cattolici austriaci e tedeschi fermerà la mano del Pontefice del «benedite Gran Dio l’Italia» e trasformerà il Papa liberale e illuminato nel protettore della «Civiltà Cattolica» e del Sillabo.
    Le piccole patrie con la loro civiltà, con la loro storia e le loro differenziazioni sono sopravvissute tutte nella nazione italiana. Il «localismo» non è stato mai contrapposto al patriottismo (altro sarebbe il discorso sulle deviazioni nazionaliste della nostra storia).
    I dialetti sono sopravvissuti nell’unità di una lingua nazionale, che si è formata dopo l’unificazione grazie alla scuola pubblica e alla leva militare (e i cinque anni di capitale a Firenze furono, sotto questo profilo, decisivi). Nonostante l’insofferenza di Firenze per il ruolo di capitale, «tazza di veleno» come la chiamava Ricasoli.


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    Predefinito Re: L’Italia nazione e l’Italia Stato (1993)

    2. Il miracolo unitario

    Soffermiamoci su quel miracolo dell’unità nazionale realizzata nel giro di meno di due anni, e coltivata nel giro di almeno sei secoli. Aprile 1859: l’Italia è divisa in sette Stati, quattro regni, un granducato e due ducati. 17 marzo 1861: un solo Stato al posto di sette. Il regno d’Italia comprende tutto il territorio dei sette Stati precedenti, salvo il Veneto (col mantovano) rimasto a Francesco Giuseppe dopo l’armistizio di Villafranca, l’improvvisa rinuncia di Napoleone III rispetto alla minaccia di una saldatura Prussia-Austria, e il Lazio, rimasto al Pontefice, ma con la perdita bruciante delle Legazioni romagnole e delle propaggini umbro-marchigiane.
    Gli altri quattro sovrani erano semplicemente scomparsi. Un cambiamento così radicale e così rapido nelle condizioni politico-territoriali dell’Italia non poteva non produrre un senso di sbalordimento in tutta l’Europa, accompagnato da un’impressione, nei confronti del nuovo Stato unitario, di qualcosa di improvvisato e non di solido. Una volta Luigi Salvatorelli auspicava uno studio sistematico ricostruente le manifestazioni diverse, in proposito, dell’opinione pubblica europea (Italia compresa) fra 1861 e – poniamo – 1911, anno cinquantenario del regno d’Italia.
    Sta di fatto che si trattava di qualcosa che non aveva precedenti nella storia dell’umanità. Guardando anche alle unificazioni dei maggiori Stati europei, dalla Francia alla Spagna alla Gran Bretagna, la differenza nei tempi e nei modi era tale da rendere perplessi dinanzi a quella che fu chiamata, non a caso, «l’esplosione unificatrice italiana».
    È questo dato eccezionale che bisogna oggi capire, se vogliamo ricostruire il senso della riunificazione d’Italia nella storia d’Europa.
    «Uno dei più grandi fatti che ricordi la storia di tutti i tempi»: dirà non a caso il 14 marzo 1861 l’uomo che insieme con Mazzini più aveva contribuito a creare quella realtà giuridica e formale di un’Italia unita, il primo presidente del Consiglio costituzionale del nuovo Stato, Camillo Cavour. Ma la verità, disconosciuta tuttora dai più, è che il fatto nuovo aveva radici ben più antiche. L’esigenza d’Italia non era una semplice conseguenza delle delusioni confederali o neo-guelfe del 1848. Non era neanche una folgorante rivelazione del periodo rivoluzionario e napoleonico. Essa risaliva più indietro nei secoli.
    In Italia l’idea e la stessa realtà della nazione precedevano di parecchi secoli l’idea dello Stato. Perché la nazione è figlia di un’idea dell’Italia. Un’idea essenzialmente culturale, spirituale: un’idea che nasce dalla lingua, che ha per padre Dante, che si snoda attraverso la formazione della cultura nazionale, fondamento del futuro Stato unitario.
    Ecco perché il Risorgimento porta nell’Europa a metà del secolo il soffio dell’ideale di libertà, di democrazia, di autodeterminazione dei popoli. Al di là del compromesso monarchico-moderato, che contraddiceva le speranze della «Giovine Italia» di Mazzini. Al di là della forma di Stato, che si modellava piuttosto sulla monarchia orleanista che sulla Inghilterra vittoriana. Al di là delle timidezze e delle incertezze che accompagnarono la classe conservatrice, che neanche l’epilogo della quarta guerra d’indipendenza – quella del 1915-18 – riuscirà a comporre.
    L’unificazione politica dell’Italia è un problema che si è già posto – concretamente nel vivo degli svolgimenti storici – all’indomani dell’invasione longobarda nel sesto secolo dopo Cristo. Si è iniziata nel periodo longobardo-bizantino e nel particolarismo autonomistico italiano, e si è andata accentuando nei secoli, pur nell’apparente polverizzazione dell’Italia comunale. Ma c’è sempre stata, in intreccio con quello, l’esigenza di un assetto in qualche modo e misura unitario della penisola.
    È l’esigenza che esplode nelle invocazioni poetiche di Dante e di Petrarca. L’Italia dei principati, l’Italia della pace di Lodi, la bilancia di Lorenzo il Magnifico: il tutto rappresentava il compromesso fra le due esigenze, delle autonomie particolari e dell’unificazione nazionale.
    E il principe di Machiavelli adombrò la realtà di un’Italia che non poteva nascere finché non aveva riassorbito nella sua stessa logica nazionale quello che costituirà il massimo ostacolo all’unificazione politica della penisola, il potere temporale del Pontefice.
    Fra la metà del ‘500 e la metà dell’800 il problema italiano diventa un problema europeo, in quanto la penisola, perdendo la sua indipendenza (sempre serbata nei secoli dei Comuni) diventa oggetto e non soggetto di storia. È, indiscutibilmente, l’epoca della decadenza italiana.
    Il filone del Risorgimento italiano è la riscoperta dei valori che avevano creato la prima grande civiltà italiana, quella dei Comuni: la civiltà in cui era brillata, in forme solo paragonabili all’antica Grecia, l’idea delle libertà comunali (anche la Grecia non era stata mai uno Stato, pur essendo una nazione).
    E come nazione, divinò l’Italia per primo, nel grande moto del romanticismo successivo alla restaurazione post-napoleonica, Giuseppe Mazzini. Non a caso Mazzini partì dalla letteratura. Il suo primo scritto, destinato all’«Antologia» di Vieusseux, e singolarmente non pubblicato (per timori di contraccolpi sulla censura granducale) fu L’amor patrio di Dante. E il secondo pubblicato fu: D’una letteratura europea.
    L’Italia, la democrazia italiana, si configurava come un momento della rinascita europea. Mazzini fonderà insieme la «Giovine Italia» nel 1831 e la «Giovine Europa» nel 1834 a Berna. E riunirà a simbolo delle tre razze predominanti in Europa tre popoli martiri, tre popoli che non erano mai stati in quel momento come l’Italia, o lo erano stati ed erano stati divisi come la Polonia, o avevano un’andatura e uno sviluppo federale, quello sì, ben altrimenti dell’Italia, con i quattrocento Stati tedeschi ancora dell’avvento di Bonaparte, i trentanove Stati conservati e consacrati dal congresso di Vienna per non parlare dei millequattrocento Stati successivi alle guerre di religione nel secolo decimosettimo.
    Quindi prese Polonia, paese diviso fra tre dominatori, austriaci, russi e prussiani, l’Italia, divisa in sette Stati, e la Germania, divisa in trentanove Stati. E ne fece i simboli, la «Giovine Germania», la «Giovine Polonia», la «Giovine Italia» eppoi aggiunse la «Jeune Suisse» che era già il microcosmo federale dell’Europa di domani attraverso già la convivenza di lingue e fedi diverse nell’ambito dello stesso nucleo federale che si andava allora formando.
    Il moto della nazionalità italiana non fu mai concepito al di fuori del moto dell’emancipazione europea.
    L’Italia visse in stretta correlazione con l’Europa: con l’Europa degli Stati già unificati e con l’Europa degli Stati da ricostituire. Derivò dalla Spagna le prime ispirazioni costituzionali, la stessa costituzione di Cadice. I moti del 1820-21 nascono dai moti che percuotono la penisola iberica, in un nesso profondo e intimo che rispecchia le analoghe realtà dell’Italia meridionale e della Spagna. Più forte è l’influenza del Sud (parliamo del periodo di Guglielmo Pepe), più forte è l’influenza della Spagna.
    Via via che il moto si volge verso il Nord, prevale l’influenza della Francia, della Svizzera, della Gran Bretagna. Ma sullo sfondo, sempre, c’è il legame con le nazionalità che devono emergere.
    Mazzini allarga la «Giovine Europa» a popoli nessuno dei quali compreso in unità di Stato: i tedeschi e i polacchi. L’«Antologia» viene soppressa per l’appoggio che dà alla rivoluzione polacca del 1833.
    Il moto filo-ellenico che scuote l’Italia del 1820-30 domina tutte le prime forme del liberalismo italiano (e non solo italiano: se pensiamo ai filoni inglesi, riassunti e simboleggiati da Byron).
    La nascita della nazione belga segna la nascita dell’associazione, che poi sarà inscindibile nel versante moderato italiano, fra l’idea di patria e l’idea di libertà costituzionali. Il periodo orleanista fonde i fermenti della cultura illuministica, innestandoli sull’esperienza rivoluzionaria e napoleonica.
    Ecco cos’è stato il Risorgimento italiano. Ed ecco perché mai nessuno vuole parlare di «nascimento» e di «sorgimento». Bisogna sostare a lungo su quel «ri». Su quella coscienza, che fu fermissima nei primi decenni dell’Ottocento, di un qualcosa che rinasceva, o meglio che si continuava nella sua unità secolare: l’idea dell’Italia, l’idea della nazione. Un fatto morale e spirituale che nulla aveva in comune con l’idea della stirpe o della razza che stava sviluppandosi in forme parallele ma aberranti in Germania.
    La nazione è sempre vista da Mazzini come momento di una religione dell’umanità. E quindi l’Italia come momento di quella patria ideale che era, per tutti i democratici italiani, l’Europa.

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    Predefinito Re: L’Italia nazione e l’Italia Stato (1993)

    3. Il messaggio mazziniano

    Nel già citato articolo sull’«amor patrio» di Dante (quello che l’«Antologia» respinse e Tommaseo riesumò sul «Subalpino» del 1838), Mazzini era stato categorico, aveva superato la distinzione fra nazione culturale e nazione politica: Dante «mirò a congiungere in un sol corpo l’Italia piena di divisione, e sottrarla al servaggio, che allora minacciava più che mai».
    Lo schema dantesco serviva da punto fermo per la nuova concezione mazziniana della nazione: la quale «non è riunione di un certo numero di uomini, poco importa se migliaia o milioni, indipendenti naturalmente gli uni dagli altri e soltanto aggruppati a nuclei in virtù di certi interessi materiali comuni, il cui soddisfacimento è reso più facile e più sicuro da un certo grado di associazione».
    No: «una nazione – è Mazzini che parla – è l’associazione di tutti gli uomini che per lingua, per condizioni geografiche o per la parte assegnata loro dalla storia, formano un solo gruppo, riconoscono uno stesso principio e si avviano sotto la scorta di un diritto comune al conseguimento di un medesimo fine».
    Nazionalità e umanità si congiungono. «La nazionalità è la parte – dirà ancora Mazzini – che Dio ha prescritto a ogni gente nel lavoro umanitario: la missione, il compito che ogni popolo deve adempiere sulla terra, perché l’idea divina possa attuarsi nel mondo; l’opera che gli dà il diritto di cittadinanza nell’Umanità, il segno della sua personalità e del posto che egli occupa fra i popoli, suoi fratelli».
    Unità di lingua, di territorio e di tradizioni: ma non basta. A caratterizzare l’idea mazziniana di nazione e a distinguere i nazionalismi – lo ribadì da par suo Rosario Romeo (cui torna in questo momento il mio pensiero commosso) – va sottolineata la stretta unione di essa con quella della collaborazione fra i popoli, in vista della creazione di una civiltà nuova. Per Mazzini «la nazione deve rappresentare un elemento di progresso nel consorzio europeo, una somma di facoltà e tendenze speciali, un pensiero, un’aspirazione, un germe di fede comune, una tradizione distinta da quella delle altre nazioni e costituente un’unità storica fra le generazioni passate, presenti e future della stessa terra». Di qui il trapasso, immediato, dalla nazione alla federazione europea.
    Ci torna in mente il saggio di Eugenio Montale sulla missione spirituale dell’Europa, pubblicato nel «Mondo» del 1949: allorché fissa il destino dell’Italia in rapporto alla cultura e civiltà universale.
    «L’Italia è un paese immensamente disponibile, il suo genio non le ha mai consentito di chiudersi in se stessa. Se anche volesse farlo, l’Europa avrebbe bisogno di lei, e la richiamerebbe al suo destino. Essa incarna la tolleranza e il buon senso, la schietta aderenza alla vita e il classico naturale umanesimo. È una lezione che, attraverso molte crisi e malattie, l’Italia sta già dando nei primi secoli della sua lunga cattività: quando essa era già Europa senza saperlo e senza volerlo».
    In questo senso, il nome di Mazzini si associa intimamente a quello di Manzoni.

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    Predefinito Re: L’Italia nazione e l’Italia Stato (1993)

    4. Dall’anti-Risorgimento alla frantumazione

    Anti-Risorgimento è un’espressione che circolò in certi anni del fascismo come rifiuto della rivoluzione liberale, come rifiuto dell’Italia, e dell’Europa moderna.
    Non a caso, nel periodo del massimo consolidamento della dittatura, operò una rivista, non priva di crismi e di incoraggiamenti ufficiali, che si intitolava «Anti-Europa». E che tendeva ad approfondire il fossato, in tutti i sensi e in tutti i campi, fra gli «immortali princìpi» della Rivoluzione francese, connessi alla soluzione risorgimentale, e la nuova realtà – ordine, gerarchia, impero – riflessa nella svolta del fascismo.
    Nella sua essenza pragmatica e polivalente, nel suo sterminato «relativismo» (che spiegherà poi gli equivoci di Giuseppe Rensi), il movimento fascista fu ambiguo e ambivalente quant’altri mai rispetto all’eredità risorgimentale. Diviso, come sempre, a metà. Un filone, quello di Gentile, che derivava le sue aspirazioni dalla destra storica risorgimentale e aveva per suo primo progenitore Gioberti. Un altro filone, quello di Malaparte, che alzava la bandiera dell’«Italia barbara» contro «L’Italia civile», che esaltava tutti i dati dell’autoctonia prerisorgimentale pur di rifiutare la contaminazione europea, la deviazione giacobina, l’influenza rivoluzionaria.
    Fu quello di Malaparte un indirizzo che si estese poi, in forme diverse e diversamente intonate, allo «strapaese», al «selvaggio», a tutte le mode, artistiche o letterarie, di contrapposizione di una primigenia realtà italiana al moto europeo, composito e «corruttore» del Risorgimento. Rigettato in una chiave quasi caricaturale, respinto nei suoi grandi princìpi ispiratori, l’umanità, la giustizia, la libertà: soprattutto nell’innesto, tutto mazziniano e tutto democratico, fra patria e umanità.
    «Quell’Italia antica, tradizionale, storica, popolaresca, ingenua, che tutt’ora vive, nonostante i decreti e le ordinanze, in un’Europa civilissima, borghese e possidente…».
    Era quell’Italia cui si richiamava il manifesto dell’«Italia barbara» fin dal 1925.
    Ed è singolare – a confermare la complessità della storia italiana – che il volume-pamphlet di Curzio Malaparte (ancora Suckert) sia stato pubblicato a Torino da Piero Gobetti, da Piero Gobetti editore ormai alle soglie del suo sacrificio finale nella lotta contro il fascismo.
    «Presento al mio pubblico il libro di un nemico»: diceva Gobetti nella breve avvertenza editoriale. E aggiungeva con un graffio rivelatore dell’uomo: «confutare immagini, opporre politica a variopinta fantasia o a stile pittoresco non è di mio gusto».
    In realtà quelle fantasie e quelle immagini, al limite del paradosso, costituiranno uno degli aspetti fondamentali della deformazione fascista della storia del Risorgimento, di quel vero e proprio distacco dagli ideali del riscatto nazionale che si prolungò per tutti gli anni in cui si tentò la riabilitazione del cardinale Ruffo e delle bande della «Santa Fede» contro Garibaldi, in cui si ripercossero le orme dei vecchi reazionari, come Solaro della Margherita, contro Cavour, in cui si tessé l’elogio del «Viva Maria» e della rivolta autoctona del contadiname italiano contro le idee giacobine importate dalla rivoluzione francese e imposte dai soldati di Napoleone, generale del Direttorio.
    Il contrario del 1945-46, nel momento della liberazione. Tutto quel rimescolio, fra destra dinastica e destra popolaresca, sembrò spazzato via dalla Costituente e dalla fondazione della Repubblica il 2 giugno. Nella scia della lotta di Liberazione che si era ispirata costantemente a motivi e a richiami risorgimentali, rivissuti sullo sfondo della tragedia italiana.
    Saltato a pie’ pari il periodo fascista, il Risorgimento tornava d’improvviso ad imporsi nei simboli, nelle bandiere della resistenza, nelle insegne della guerra partigiana (la «guerra combattuta» di Pisacane). Con tutte le speranze repubblicane deluse e umiliate; con le connesse, o di poco successive, speranze socialiste riaffioranti all’orizzonte, in un quadro che opponeva la tristezza del presente alle glorie del passato. E di qui, già sullo sfondo della Consulta prima ancora di qualunque elezione libera, nel settembre 1945, lo scontro circa l’Italia post-risorgimentale, e i limiti democratici dello Stato liberale, fra i rappresentanti di due diverse visioni della vita e della storia italiana, fra Benedetto Croce e Ferruccio Parri, il primo presidente del Consiglio dell’Italia liberata, il leggendario «Maurizio» della lotta partigiana.
    Vorrei riferirmi, avviandomi alla conclusione, ai termini di quella polemica che un giorno andrà ricostruita in tutti i suoi particolari, la polemica fra Croce e Salvatorelli.
    Croce fermissimo nella sua concezione della identità fra l’atto di nascita dello Stato italiano (marzo 1861 con la proclamazione del regno d’Italia nel Parlamento subalpino) e l’entrata dell’Italia nella vita delle nazioni, e quindi nella vita mondiale. Uno Stato italiano che nasceva insieme con l’unità italiana; un «quid novum» che si contrapponeva a tutte le tradizioni dell’Italia spezzettata e frantumata degli Stati regionali e assolutisti, che iniziava una pagina completamente nuova, una pagina completamente bianca. Abbastanza gloriosa per essere riempita da sola.
    Dall’altra parte Salvatorelli, e non solo Salvatorelli, fermi nel rivendicare la continuità della nazione Italia come comunità di lingua e di cultura fin dalla scoperta del volgare, cioè dall’età di San Francesco e di Dante. Quella certa idea dell’Italia che aveva costituito il nucleo del Risorgimento nazionale e la spinta fondamentale dello stesso Mazzini. L’Italia che si era formata come coscienza di se stessa, della sua unità linguistica e culturale, sei o sette secoli prima del Risorgimento, che diventava Risorgimento, e non Sorgimento e non Nascita, proprio in virtù del nesso morale e linguistico fra tutti gli italiani, preesistente all’unificazione materiale della penisola, al di là delle paratie o delle barriere opposte dalle varie frontiere, artificiali e provvisorie.
    Vent’anni fa parlai di «autunno del Risorgimento», ma oggi siamo di fronte a un fenomeno del tutto diverso. Non c’è più l’autunno, non c’è più l’abbandono, non c’è più neanche l’ironia che percorse quegli anni rispetto ai valori di un’Italia discreta, l’«Italia civile» detestata da Malaparte e difesa da Bobbio. L’anti-Risorgimento che è parte non esclusiva ma certo importante della cultura e della mentalità fascista fra le due guerre cui si contrappone il filone più direttamente post-risorgimentale gentiliano.
    Dall’anti-Risorgimento passiamo ai rischi della frantumazione. Sessant’anni fa Croce contrapponeva il processo di unione europea, appena avviato negli spiriti e nelle coscienze, «alle competizioni dei nazionalismi» e sottolineava che esso tende a liberare il vecchio continente «da tutta la psicologia che ai nazionalismi si congiunge e li sostiene in genere a modi avidi e azioni affini».
    Nessuno creda di avere vinto il nazionalismo quando esso si riproduce nel municipalismo o nel campanilismo. Ci sono rischi di balcanizzazione dell’Europa a cui non è estranea l’Italia.


    (...)
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

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    Predefinito Re: L’Italia nazione e l’Italia Stato (1993)

    5. Conclusioni

    Le nostre conclusioni. Ci sono luci e ombre.
    Il processo storico del secondo dopoguerra nel suo insieme ha fatto sì che l’idea nazionale moderna si identificasse sempre più con la volontà o l’aspirazione a condurre un’esistenza politica comune, sia nell’ambito dello Stato nazionale, sia in quello di più vaste federazioni.
    La fine della competizione ideologica e del confronto militare fra Est e Ovest, tuttavia insieme all’allentarsi della ferrea regola delle zone di influenza, ha fatto sì che riaffiorassero antiche rivendicazioni fondate su realtà talora effettivamente preesistenti agli Stati nazionali, altre volte basate su pretesti privi di giustificazione storica, ancora più spesso su secolari odi e rivalità di carattere etnico e religioso (così intrecciate le une con le altre – si veda la Bosnia – da essere quasi inestricabili).
    È il caso della sanguinosa deflagrazione nell’ex federazione jugoslava. Ed è quanto è accaduto con la dolorosa separazione fra boemi e moravi da una parte e slovacchi dall’altra. Lo stesso vale per lo smembramento dell’antico impero sovietico con la conquista dell’indipendenza delle repubbliche baltiche e degli altri territori che oggi fanno parte, almeno formalmente, della Comunità degli Stati indipendenti; che non è una comunità, ed è difficile dire da che cosa siano indipendenti.
    Agli autentici democratici non è sfuggito il toccante messaggio lanciato da Papa Giovanni Paolo II in occasione della sua visita in Lituania, Lettonia ed Estonia.
    Noi sappiamo che la Lituania era l’obiettivo fondamentale per un polacco, per il destino di quel regno congiunto di Polonia e Lituania; nel Trecento era il più grande regno europeo; aveva il maggior numero di abitanti in tutta Europa: unione polacco-lituana. Potete immaginare in un Papa polacco. Egli ha riconosciuto che le specifiche caratteristiche, etniche, religiose, culturali e sociali dei territori, un tempo facenti parte dell’URSS e prima ancora per un secolo e più dell’impero zarista, non debbono in nessun caso assecondare i fenomeni di disgregazione che mettono seriamente in pericolo la comunità mondiale. Averlo detto in Lituania a me pare un fatto importante.
    Una questione completamente diversa è rappresentata da quei movimenti regionalistici sviluppatisi nel paese Basco, in Fiandra, in Bretagna, in Scozia, nel Galles, per taluni aspetti nell’Irlanda del Nord, tendenti a mitigare le tradizioni centralistiche degli Stati e a valorizzare le peculiarità delle regioni stesse, serbate con un autonomismo che è più indipendentismo. E in ogni caso unite dalla richiesta di un maggiore coinvolgimento nelle decisioni dei poteri pubblici. Movimenti che prima o poi si troveranno di fronte ad un bivio: da una parte un anacronistico secessionismo, dall’altra un concorso alla buona amministrazione e alla sana gestione dell’economia, in vista del raggiungimento di migliori equilibri sociali.
    Oggi più che mai è necessaria la consapevolezza dei rischi della frantumazione. Nazione e nazionalità non coincidono con il nazionalismo, anche quando esso si riproduce nel municipalismo e nel campanilismo.
    Lo ripeto: ci sono rischi di balcanizzazione dell’Europa a cui non è estranea l’Italia.
    Il nostro dovere è di neutralizzarli, ma senza chiusure nazionaliste e senza ripiegamenti sul passato.
    La soluzione è quella federazione europea verso la quale si sono rivolte le speranze di intere generazioni, la sola capace di riassumere la ricchezza e la complessità delle specifiche individualità e tradizioni che hanno alimentato la grande stagione nazionale.

    Giovanni Spadolini


    https://www.facebook.com/notes/giova...1254571632799/
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