Paese di santi, di navigatori, di commissari. L’Italia in emergenza permanente effettiva, dal Mose all’Ilva, dall’Alitalia alle imprese edili, si consegna ad alti commissari, supercommissari, commissari straordinari, commissari prefettizi, commissari giudiziali, commissari ad acta. C’è un commissario per ogni difficoltà che non si possa risolvere attraverso le vie normali: cioè sempre.

Ci sono stati commissari antimafia (1982-1993), che Giovanni Falcone considerava inutili. Commissari polivalenti come Guido Bertolaso (terremoti, vulcani, rifiuti, migranti, mondiali di ciclismo) e superspecializzati come l’ex governatore leghista del Piemonte Roberto Cota (contraffazione) o come il democrat veneziano Paolo Costa, delegato dal governo per il traffico acqueo in laguna.

Dal Grande Vecchio al Grande Montalbano il salto è stato rovinoso. Venezia, Taranto, Fiumicino rischiano di essere le pietre tombali di un esecutivo che francamente è solo l’ultimo a reggere un cerino a fine corsa.

Quando è colpa di tutti, non è colpa di nessuno. Si è visto con l’acqua alta nella laguna veneta dove l’unico spettacolo più orrendo della devastazione di un gioiello architettonico senza pari al mondo è stato lo scaricabarile collettivo dei politici.

Il governatore Luca Zaia ha detto che ormai tanto vale finire ma a lui il Mose non è mai piaciuto. Non si sarebbe detto a vederlo entusiasta durante la primissima inaugurazione del Mose alla bocca di Treporti nel 2013, poco dopo il primo scossone della magistratura con l’arresto di Pierluigi Baita, deus ex machina del Consorzio Venezia Nuova (Cvn). Baita, che ha patteggiato per le tangenti veneziane dopo l’arresto (febbraio 2013), spara a zero sui cinque anni di gestione straordinaria e denuncia “l’irresponsabilità collettiva”. Giancarlo Galan, predecessore di Zaia, che era il suo vicepresidente, si è assolto da ogni colpa sui ritardi dell’opera da 5,5 miliardi dopo avere anche lui patteggiato una condanna a due anni e dieci mesi.

I veneziani Renato Brunetta (Forza Italia) e Pier Paolo Baretta (Pd) hanno rievocato il loro trauma giovanile dell’“aqua granda” del 1966. Intanto nelle ore della marea eccezionale si litigava sul sistema delle dighe: sollevarle o lasciarle sott’acqua, dove stanno arrugginendo a grande velocità? Ha prevalso la linea dell’immobilismo, dettata dal commissario Francesco Ossola, e forse è stata una fortuna dati i problemi tecnici manifestati dall’opera di recente.

Ma nel picco della crisi non era chiaro a chi spettasse la parola finale, se ai commissari, e a quale dei due commissari, oppure al prefetto o ancora al provveditorato che il governo Renzi ha sostituito all’antico magistrato alle acque, dopo che due figure di vertice dell’organismo creato dai dogi (Patrizio Cuccioletta e Maria Giovanna Piva) erano finite agli arresti per le tangenti del Mose, stimate complessivamente in un centinaio di milioni di euro.

Così è stato nominato il supercommissario previsto da una legge del governo giallo-verde, la Sblocca cantieri, parente stretta dello Sblocca Italia di Matteo Renzi. A Venezia arriverà l’architetto Elisabetta Spitz. Il compito è di completare quel 6-7 per cento di impiantistica, e non è poco, che manca al Mose per entrare compiutamente in azione alla fine del 2021.

Serenissima crisi
«Ci sono tante figure di commissari», dice Luigi Magistro, terzo commissario del Cvn fino alle dimissioni senza rimpiazzo due anni e mezzo fa. «Quelli per le crisi aziendali, come per il concordato di Astaldi, o quelli che arrivano in casi di crisi giudiziaria, come il Mose. In teoria sono plenipotenziari dello Stato. In pratica, lo Stato stesso aumenta i controlli rispetto alla situazione precedente, per esempio attraverso la Corte dei conti. Giusto farlo ma i tempi si allungano. In più, il commissario subentra in casa altrui e si dà per scontato che i proprietari, per quanto delinquenti, continuino a finanziare l’impresa.

Ma se dicono di no, nessuno li può costringere. Si può solo farli fallire, e non è questo l’obiettivo. Il terzo problema è che i lavori li fanno sempre loro e, se prima erano abituati a fare prezzi molto alti, tendono a insistere su questa strada. Da qui nascono altri rallentamenti e spesso il commissario passa gran parte della sua attività a replicare ai ricorsi dei proprietari».


Con questo panorama, il lavoro dei commissari impegnati con il Mose non è certo stato dei peggiori. L’opera, giusta o sbagliata che sia, è andata avanti nonostante le condizioni ardue perché in questi anni sopra Venezia si è scatenata la tempesta perfetta. Al commissariamento governativo del Cvn si è aggiunta la crisi economica di quasi tutti i soci del consorzio: Mantovani-Fip (Serenissima holding), Condotte, Fincosit Grandi Lavori, Astaldi, le cooperative.

La capofila Serenissima della famiglia Chiarotto a fine gennaio ha ottenuto il via libera del tribunale di Padova che ha nominato i commissari Remo Davì, Anna Paccagnella e Michele Pivotti. Il documento con la richiesta di concordato fallimentare dei Chiarotto è allo stesso tempo la carrellata su un declino finanziario e un atto di accusa. Eppure la holding è cresciuta a dismisura e in breve tempo grazie ai finanziamenti pubblici dello Stato. Nel 2013 i ricavi arrivavano al record di 633 milioni. Nel 2014, dopo l’inizio dello scandalo, erano 551, nel 2015 scendevano a 336, poi a 230 nel 2016 e a 152 milioni nel 2017. L’anno scorso il fatturato è stato di 70 milioni con 200 milioni di perdite contro i 10 milioni di utile del 2014.

La colpa? «L’intervenuto commissariamento del principale committente (Cvn) e una gestione assai penalizzante nei confronti delle imprese consorziate realizzatrici dei lavori, tanto nel mancato affidamento di nuovi lavori quanto nel pagamento dei debiti pregressi». Firmato Romeo Chiarotto, il patriarca novantenne azionista del gruppo padovano. Per andare avanti la Mantovani è stata ceduta in fitto alla parmense Coge ad agosto 2018 e Serenissima aspetta di fare cassa con la cessione del 14 per cento della superstrada Ragusa-Catania, statalizzata dall’ex ministro Danilo Toninelli, e con l’11,7 per cento del raccordo anulare di Padova.

Certo, che il Mose sia un’opera giusta o sbagliata non è propriamente secondario. Come non era secondario diffondere dati ridicolmente bassi sulle spese annuali di gestione delle dighe mobili. I 15-20 milioni di euro previsti sono in effetti 100 o forse più.

«Può anche essere giusto che costi così tanto», dice un ex collaudatore che chiede l’anonimato. «Il problema è che dichiararlo da subito sarebbe costato il posto a chi lo diceva» .

Un altro commissario collaudatore, l’ex direttore generale dell’Anas Francesco Sabato, presidente della commissione di collaudo alla bocca di porto del Lido, oggi ricorda: «Nel 2004 con i miei colleghi completammo diversi controlli e presentammo una serie di rilievi. Evidentemente eravamo troppo pignoli e il Magistrato alle acque ci sostituì nel 2010. Da allora ho letto sull’Espresso del problema della ruggine nelle cerniere. Credo sia una mancanza da parte dell’impresa perché non erano certo imprevedibili gli effetti dell’acqua salata sulla parte metallica sommersa». Anche volendo attribuire alla Fip (gruppo Chiarotto) i 34 milioni di euro già spesi fuori budget per tamponare il problema, l’azienda di Selvazzano non sarebbe in grado di fare fronte. Pagherà il contribuente, come da manuale delle grandi opere in Italia.

Cacciatori a Taranto
A ben guardare c’è un quarto problema oltre ai tre esposti da Magistro. È il compenso del supercommissario. Per un impegno come quello che richiede il Mose vale la legge 111 del 2011. C’è una parte fissa di 50 mila euro e una somma pari variabile secondo il raggiungimento degli obiettivi. Nella migliore delle ipotesi, si parla di 100 mila euro. Nella peggiore, sono duemila netti al mese per tenere a bada il mare Adriatico.

Con questi chiari di luna si comprende come spesso la qualità del personale commissariale abbia suscitato perplessità, soprattutto quando le terne hanno dovuto affrontare situazioni complesse come quelle dei comuni colpiti contemporaneamente da infiltrazioni del crimine organizzato e situazioni di dissesto finanziario.

La vicenda drammatica dell’Ilva di Taranto, per restare agli ultimi mesi, mostra che più di qualcosa non va, nonostante l’introduzione del sorteggio su una rosa di selezionati voluto dai grillini per evitare un’eccessiva concentrazione di incarichi sui soliti noti.

A fine aprile si sono dimessi i commissari di nomina renziana Piero Gnudi, commercialista bolognese per decenni in testa alla lista di chi ha più incarichi, Enrico Laghi, cinquantenne che si muove sulla strada del professionista bolognese (tredici incarichi attivi tra commissariamenti, collegi sindacali, cda e liquidazioni), e Corrado Carrubba. Al loro posto, l’allora ministro dello Sviluppo economico Luigi Di Maio ha nominato Antonio Cattaneo, Antonio Lupo e Francesco Ardito. Cattaneo ha declinato l’invito quasi subito, senza neppure entrare in carica, per possibili conflitti di interessi e si è andato a occupare della crisi di Mercatone Uno insieme a Luca Gratteri e a Giuseppe Farchione.

Negli ultimi giorni, dopo che Arcelor-Mittal ha dichiarato di volere chiudere l’impianto, il Mise di Stefano Patuanelli ha incaricato una società di head-hunting di individuare un commissario straordinario, per gestire la fase di transizione.

La fine di questo mese di novembre potrebbe essere la svolta per Taranto, come per il Mose e per Alitalia che paga mesi e mesi di indecisione.
Ma come se non bastassero le esitazioni fra Delta e Lufthansa e il tira e molla con Atlantia, dieci giorni fa la Procura di Civitavecchia ha spedito la Guardia di finanza a caccia di documenti negli uffici di Fiumicino per verificare la posizione, e gli eventuali conflitti di interessi, dei quattro commissari straordinari Luigi Gubitosi, poi passato a guidare Tim, il suo sostituto Daniele Discepolo, l’ex rettore dell’università di Bergamo Stefano Paleari e il già citato Laghi, ex presidente di Midco, controllante della compagnia di bandiera.

Sulla vicenda a giugno dell’anno scorso si era pronunciata l’Anac, allora guidata da Raffaele Cantone, che si era dichiarata incompetente «in relazione ai profili evidenziati».

Rispetto ai 100 mila euro del supercommissario al Mose, il lavoro in Alitalia offre ben altre prospettive di guadagno, se la compagnia riuscirà a salvarsi. Il decreto del Mise guidato da Carlo Calenda (2017) prevede circa 10 milioni di euro complessivi per la terna.

Possono sembrare tanti soldi ma sono poca cosa rispetto ai 12 milioni a testa, poi scesi a 7 milioni, contrattati dai commissari Astaldi Vincenzo Ioffredi, Francesco Rocchi e Stefano Ambrosini (recordman italiano con 50 incarichi inclusa la vecchia Alitalia). Rocchi e Ambrosini sono indagati per corruzione dalla Procura di Roma in un’inchiesta rivelata dall’Espresso all’inizio di novembre. Con loro è indagato Corrado Gatti, che doveva vagliare la bontà del piano di concordato.

Laghi ha un ruolo anche nella vicenda Astaldi. Il docente di economia aziendale alla Sapienza di Roma è creditore dell’impresa per oltre 900 mila euro e ha un contratto di consulenza da 2,5 milioni per il piano che dovrebbe riportare l’impresa in buona salute con Laghi ad agire da procuratore, se andrà bene, o da liquidatore, se andrà male. Laghi ha minimizzato il suo possibile conflitto di interessi scrivendo ai commissari che i 900 mila euro sono «meno del 9 per cento del volume d’affari» suo e del suo studio nell’anno in cui si è formato il suo credito ossia una decina di milioni complessivi. Il commissario inventato da Andrea Camilleri non ha mai visto tanti soldi in vita sua.

In Italia c'è un commissario per ogni disgrazia - l'Espresso